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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO PRIMO

[LXV] [LXVI] [LXVII] [LXVIII] [LXIX] [LXX] [LXXI] [LXXII] [LXXIII] [LXXIV] [LXXV] [LXXVI] [LXXVII] [LXXVIII] [LXXIX] [LXXX][LXXXI] [LXXXII] [LXXXIII] [LXXXIV] [LXXXV] [LXXXVI] [LXXXVII] [LXXXVIII] [LXXXIX] [XC] [XCI] [XCII] [XCIII] [XCIV] [XCV] [XCVI]

 

LXV.
Rivedendoci poi alla giornata, il negromante mi strignevache io dovessi attendere a quella impresa; per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a far tal cosa, e dove noi avessimo a 'ndare. A questo mi rispose che in manco d'un mese noi usciremmo di quella impresa, e che il luogo piú a proposito si era nelle montagne di Norcia; benché un suo maestro aveva consacrato quivi vicino al luogo detto alla Badia di Farfa; ma che vi aveva aùto qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede, e hanno qualche pratica di questa cosa, a tale che possan dare a un bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che io facevo per il Papa, e con il detto m'ero conferito e non con altri, pregandolo che lui me le tenessi segrete. Pure continuamente lo domandavo se lui credeva che a quel tempo io mi dovessi trovare con la mia Angelica siciliana, e veduto che s'appressava molto al tempo, mi pareva molta gran cosa che di lei io non sentissi nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io mi troverrei dove lei, perché loro non mancan mai, quando e' promettono in quel modo come ferno allora; ma che io stessi con gli occhi aperti, e mi guardassi da qualche scandolo, che per quel caso mi potrebbe intervenire; e che io mi sforzassi di sopportare qualche cosa contra la mia natura, perché vi conosceva drento un grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo seco a consacrare il libro, che per quella via quel mio gran pericolo si passerebbe, e sarei causa di far me e lui felicissimi. Io, che ne cominciavo avere piú voglia di lui, gli dissi che per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel Bolognese, molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che io facevo, in acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di fare a gara con questo valentomo, e uscire al mondo adosso con una tale impresa, per la quale io speravo con tal virtú, e non con la spada, ammazzare quelli parecchi mia nimici. Questo uomo pure mi continuava dicendomi: - Di grazia, Benvenuto mio, vien meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo -. Essendomi io disposto in tutto e per tutto di voler prima finir la mia medaglia, di già eramo vicini al fine del mese; al quale, per essere invaghito tanto innella medaglia, io non mi ricordavo piú né di Angelica né di null'altra cotal cosa, ma tutto ero intento a quella mia opera.
LXVI.
Un giorno fra gli altri, vicino a l'ora del vespro, mi venne occasione di trasferirmi fuor delle mie ore da casa alla mia bottega; perché avevo la bottega in Banchi, e una casetta mi tenevo drieto a Banchi, e poche volte andavo a bottega; ché tutte le faccende io le lasciavo fare a quel mio compagno che avea nome Felice. Stato cosí un poco a bottega, mi ricordai che io avevo a 'ndare a parlare a Lessandro del Bene. Subito levatomi e arrivato in Banchi, mi scontrai in un certo molto mio amico, il quale si domandava per nome ser Benedetto. Questo era notaio e era nato a Firenze, figliuolo d'un cieco che diceva l'orazione, che era sanese. Questo ser Benedetto era stato a Napoli molt' e molt'anni; dipoi s'era ridotto in Roma, e negoziava per certi mercanti sanesi de' Chigi. E perché quel mio compagno piú e piú volte gli aveva chiesto certi dinari, che gli aveva aver dallui di alcune anellette che lui gli aveva fidate, questo giorno, iscontrandosi in lui in Banchi li chiese li sua dinari in un poco di ruvido modo, il quale era l'usanza sua; ché il detto ser Benedetto era con quelli sua padroni, in modo che, vedendosi far quella cosa cosí fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si volevano servir d'un altro, per non avere a sentir piú tal baiate. Questo ser Benedetto il meglio che e' poteva si andava con loro difendendo, e diceva che quello orefice lui l'aveva pagato, e che non era atto a affrenare il furore de' pazzi. Li detti sanesi presono quella parola in cattiva parte e subito lo cacciorno via. Spiccatosi dalloro, affusolato se ne andava alla mia bottega, forse per far dispiacere al detto Felice. Avvenne, che appunto innel mezzo di Banchi noi ci incontrammo insieme: onde io, che non sapevo nulla, al mio solito modo piacevolissimamente lo salutai; il quale con molte villane parole mi rispose. Per la qual cosa mi sovvenne tutto quello che mi aveva detto il negromante; in modo che, tenendo la briglia il piú che io potevo a quello che con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: - Ser Benedetto fratello, non vi vogliate adirar meco, che non v'ho fatto dispiacere, e non so nulla di questi vostri casi, e tutto quello che voi avete che fare con Felice, andate di grazia e finitela seco; che lui sa benissimo quel che v'ha a rispondere; onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa sorte, maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti ingiurie -. A questo il detto disse, che io sapevo ogni cosa e che era uomo atto a farmi portar maggior soma di quella, e che Felice e io eramo dua gran ribaldi. Di già s'era ragunato molte persone a vedere questa contesa. Sforzato dalle brutte parole, presto mi chinai in terra e presi un mòzzo di fango, perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva per dargli in sul viso. Lui abbassò il capo, di sorte che con esso gli detti in sul mezzo del capo. In questo fango era investito un sasso di pietra viva con molti acuti canti, e cogliendolo con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come morto svenuto in terra; il che, vedendo tanta abondanzia di sangue, si giudicò per tutti e' circostanti che lui fossi morto.
LXVII.
In mentre che il detto era ancora in terra, e che alcuni si davano da fare per portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere già ditto di sopra. Questo il Papa aveva mandato per lui per alcune sue faccende di gioie. Vedendo quell'uomo mal condotto, domandò chi gli aveva dato. Di che gli fu detto: - Benvenuto gli ha dato, perché questa bestia se l'ha cerche -. Il detto Pompeo, prestamente giunto che fu al Papa, gli disse: - Beatissimo padre, Benvenuto adesso adesso ha ammazzato Tubbia; che io l'ho veduto con li mia occhi -. A questo il Papa infuriato comesse al Governatore, che era quivi alla presenza, che mi pigliassi, e che m'impiccassi subito innel luogo dove si era fatto l'omicidio, e che facessi ogni diligenzia a avermi, e non gli capitassi innanzi prima che lui mi avessi impiccato. Veduto che io ebbi quello sventurato in terra, subito pensai a' fatti mia, considerato alla potenzia de' mia nimici, e quel che di tal cosa poteva partorire. Partitomi di quivi, me ne ritirai a casa misser Giovanni Gaddi cherico di Camera; volendomi metter in ordine il piú presto che io potevo, per andarmi con Dio. Alla qual cosa, il detto misser Giovanni mi consigliava che io non fussi cosí furioso a partirmi, ché tal volta potria essere che 'l male non fussi tanto grande quanto e' mi parve: e fatto chiamare messer Anibal Caro, il quale stava seco, gli disse che andassi a 'ntendere il caso. Mentre che di questa cosa si dava i sopraditti ordini, conparse un gentiluomo romano che stava col cardinal de' Medici e da quello mandato. Questo gentiluomo, chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che il Cardinale gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al Papa, e che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi tutto il mio potere di scampar questa prima furia, e che io non mi fidassi in nessuna casa di Roma. Subito partitosi il gentiluomo, il ditto misèr Giovanni guardandomi in viso, faceva segno di lacrimare, e disse: - Oimè, tristo a me! che io non ho rimedio nessuno a poterti aiutare! - Allora io dissi: - Mediante Idio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi serviate di un de' vostri cavalli -. Era di già messo in ordine un caval morello turco, il piú bello e il miglior di Roma. Montai in sun esso con uno archibuso a ruota dinanzi a l'arcione, stando in ordine per difendermi con esso. Giunto che io fui a ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello a cavallo e a piè; cosí faccendomi della necessità virtú, arditamente spinto modestamente il cavallo, merzé di Dio oscurato gli occhi loro, libero passai, e con quanta piú fretta io potetti me ne andai a Palombara, luogo del signor Giovanbatista Savello, e di quivi rimandai il cavallo a misser Giovanni, né manco volsi ch'egli sapessi dove io mi fussi. Il detto signor Gianbatista, carezzato ch'egli m'ebbe dua giornate, mi consigliò che io mi dovessi levar di quivi e andarmene alla volta di Napoli, per tanto che passassi questa furia; e datomi compagnia, mi fece mettere in sulla strada di Napoli, in su la quale io trovai uno scultore mio amico, che se ne andava a San Germano a finire la seppoltura di Pier de' Medici a Monte Casini. Questo si chiamava per nome il Solosmeo: lui mi dette nuove, come quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere a intendere come stava Tubbia sopraditto; e trovatolo a lavorare, e che in lui non era avvenuto cosa nissuna, né manco non sapeva nulla, referito al Papa, il ditto si volse a Pompeo e gli disse: - Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto bene, che tu hai stuzzicato un serpente, che ti morderà e faratti il dovere -. Di poi si volse al cardinal de' Medici, e gli commisse che tenessi un poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe voluto perdere. Cosí il Solosmeo e io ce ne andavamo cantando alla volta di Monte Casini, per andarcene a Napoli insieme.
LXVIII.
Riveduto che ebbe il Solosmeo le sue faccende a Monte Casini, insieme ce ne andammo alla volta di Napoli. Arrivati a un mezzo miglio presso a Napoli, ci si fece incontro uno oste il quale ci invitò alla sua osteria, e ci diceva che era stato in Firenze molt'anni con Carlo Ginori; e se noi andavamo alla sua osteria, che ci arebbe fatto moltissime carezze, per esser noi Fiorentini. Al qual oste noi piú volte dicemmo, che seco noi non volevamo andare. Questo uomo pur ci passava inanzi e or ristava indrieto, sovente dicendoci le medesime cose, che ci arebbe voluti alla sua osteria. Il perché venutomi a noia, io lo domandai se lui mi sapeva insegnare una certa donna siciliana, che aveva nome Beatrice, la quale aveva una sua bella figliuoletta che si chiamava Angelica, ed erano cortigiane. Questo ostiere, parutoli che io l'uccellassi, disse: - Idio dia il malanno alle cortigiane e chi vuol lor bene - e dato il piè al cavallo, fece segno di andarsene resoluto da noi. Parendomi essermi levato da dosso in un bel modo quella bestia di quell'oste, con tutto che di tal cosa io non estessi in capitale, perché mi era sovvenuto quel grande amore che io portavo a Angelica, e ragionandone col ditto Solosmeo non senza qualche amoroso sospiro, vediamo con gran furia ritornare a noi l'ostiere, il quale, giunto da noi, disse: - E' sono o dua over tre giorni, che accanto alla mia osteria è tornato una donna e una fanciulletta, le quali hanno cotesto nome; non so se sono siciliane o d'altro paese -. Allora io dissi: - Gli ha tanta forza in me quel nome di Angelica, che io voglio venire alla tua osteria a ogni modo -. Andammocene d'accordo insieme coll'oste nella città di Napoli, e scavalcammo alla sua osteria, e mi pareva mill'anni di dare assetto alle mie cose, qual feci prestissimo; e entrato nella ditta casa accanto a l'osteria, ivi trovai la mia Angelica, la quale mi fece le piú smisurate carezze che inmaginar si possa al mondo. Cosí mi stetti seco da quell'ora delle ventidua ore in sino alla seguente mattina con tanto piacere, che pari non ebbi mai. E in mentre che in questo piacere io gioiva, mi sovvenne che quel giorno apunto spirava il mese che mi fu promisso in el circolo di negromanzia dalli demonii. Sí che consideri ogni uomo, che s'inpaccia con loro, e' pericoli inistimabili che io ho passati.
LXIX.
Io mi trovavo innella mia borsa a caso un diamante, il quale mi venne mostrato in fra gli orefici: e se bene io ero giovane ancora, in Napoli io ero talmente conosciuto per uomo da qualcosa, che mi fu fatto moltissime carezze. Infra gli altri un certo galantissimo uomo gioielliere, il quale aveva nome misser Domenico Fontana. Questo uomo da bene lasciò la bottega per tre giorni che io stetti in Napoli, né mai si spiccò da me, mostrandomi molte bellissime anticaglie che erano in Napoli e fuor di Napoli; e di piú mi menò a fare reverenzia al Vicerè di Napoli, il quale gli aveva fatto intendere che aveva vaghezza di vedermi. Giunto che io fui da Sua Eccellenzia, mi fece molte onorate accoglienze; e in mentre che cosí facevamo, dètte innegli occhi di Sua Eccellenzia il sopra ditto diamante; e fattomiselo mostrare, disse, che se io ne avessi a privar me, non cambiassi lui, di grazia. Al quale io, ripreso il diamante, lo porsi di nuovo a Sua Eccellenzia, e a quella dissi, che il diamante e io eramo al servizio di quella. Allora e' disse che aveva ben caro il diamante, ma che molto piú caro li sarebbe che io restassi seco; che mi faria tal patti, che io mi loderei di lui. Molte cortese parole ci usammo l'un l'altro; ma venuti poi ai meriti del diamante, comandatomi da Sua Eccellenzia che io ne domandassi pregio, qual mi paressi, a una sola parola, al quale io dissi che dugento scudi era il suo pregio a punto. A questo Sua Eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi niente iscosto dal dovere; ma per esser legato di mia mano, conoscendomi per il primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un altro lo legasse, di quella eccellenzia che dimostrava. Allora io dissi, che il diamante non era legato di mia mano e che non era ben legato; e quello che egli faceva, lo faceva per sua propria bontà; e che se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da quel che gli era. E messo l'ugna del dito grosso ai filetti del diamante, lo trassi del suo anello, e nettolo alquanto lo porsi al Viceré; il quale satisfatto e maravigliato, mi fece una poliza, che mi fussi pagato li dugento scudi che io l'aveva domandato. Tornatomene al mio alloggiamento, trovai lettere che venivano dal cardinale de' Medici, le quali mi dicevano che io ritornassi a Roma con gran diligenzia, e di colpo me ne andassi a scavalcare a casa Sua Signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con amorosette lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in Napoli, o che io ne la menassi meco. Alla quale io dissi, che se lei ne voleva venir meco, che io gli darei in guardia quelli dugento ducati che io avevo presi dal Viceré. Vedutoci la madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi, e mi disse: - Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma, lassami un quindici ducati, acciocché io possa partorire, e poi me ne verrò ancora io -. Dissi alla vecchia ribalda, che trenta volentieri gnene lascierei, se lei si contentava di darmi la mia Angelica. Cosí restati d'accordo, Angelica mi pregò che io li comperassi una vesta di velluto nero, perché in Napoli era buon mercato. Di tutto fui contento; e mandato per il velluto, fatto il mercato e tutto, la vecchia, che pensò che io fossi piú cotto che crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé, e molt'altre spese per sua figliuoli, e piú danari assai di quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io piacevolmente mi volsi e le dissi: - Beatrice mia cara, bastat'egli quello che io t'ho offerto? - Lei disse che no. Allora io dissi, che quel che non bastava a lei basterebbe a me: e baciato la mia Angelica, lei con lacrime e io con riso ci spiccammo, e me ne tornai a Roma subito.
LXX.
Partendomi di Napoli a notte con li dinari addosso, per non essere appostato né assassinato, come è il costume di Napoli, trovatomi alla Selciata, con grande astuzia e valore di corpo mi difesi da piú cavagli, che mi erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni appresso, avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini, giunto una mattina per desinare all'osteria di Adagnani; essendo presso all'osteria, tirai a certi uccelli col mio archibuso, e quelli ammazzai; e un ferretto, che era nella serratura del mio stioppo, mi aveva stracciato la man ritta. Se bene non era il male d'inportanza, appariva assai, per molta quantità di sangue che versava la mia mano. Entrato ne l'osteria, messo il mio cavallo al suo luogo, salito in sun un palcaccio, trovai molti gentiluomini napoletani, che stavano per entrare a tavola; e con loro era una gentil donna giovane, la piú bella che io vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava un bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone in mano: in modo che noi, l'arm'e il sangue, messe tanto terrore a quei poveri gentili uomini, massimamente per esser quel luogo un nidio di assassini; rizzatisi da tavola, pregorno Idio, con grande spavento, che gli aiutassi. Ai quali io dissi ridendo, che Idio gli aveva aiutati, e che io ero uomo per difendergli da chi gli volesse offendere; e chiedendo a loro qualche poco di aiuto per fasciar la mia mana, quella bellissima gentil donna prese un suo fazzoletto riccamente lavorato d'oro, volendomi con esso fasciare: io non volsi: subito lei lo stracciò pel mezzo, e con grandissima gentilezza di sua mano mi fasciò. Cosí assicuratisi alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi il desinare montammo a cavallo, e di compagnia ce ne andavamo. Non era ancora assicurata la paura; ché quelli gentili uomini astutamente mi facevano trattenere a quella gentildonna, restando alquanto indietro: e io a pari con essa me ne andavo in sun un mio bel cavalletto, accennato al mio servitore che stessi un poco discosto da me; in modo che noi ragionavamo di quelle cose che non vende lo speziale. Cosí mi condussi a Roma col maggior piacere che io avessi mai.
Arrivato che io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo del cardinale de' Medici; e trovatovi Sua Signoria reverendissima, gli feci motto, e lo ringraziai de l'avermi fatto tornare. Di poi pregai Sua Signoria reverendissima, che mi facessi sicuro dal carcere, e se gli era possibile ancora della pena pecuniaria. Il ditto Signore mi vidde molto volentieri; mi disse che io non dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo gentiluomo, il quale si domandava misser Pierantonio Pecci, sanese, dicendogli che per sua parte dicessi al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo domandò come stava quello a chi io avevo dato del sasso in sul capo. Il ditto messer Pierantonio disse che lui stava male, e che gli starebbe ancor peggio; il perché si era saputo che io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle qual parole con gran risa il Cardinale disse: - Costui non poteva fare altro modo che questo, a volerci fare cognoscere che gli era nato di sanesi -. Di poi voltosi a me, mi disse: - Per onestà nostra e tua, abbi pazienzia quattro o cinque giorni, che tu non pratichi in Banchi; da questi in là va' poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta -. Io me ne andai a casa mia, mettendomi a finire la medaglia, che di già avevo cominciata, della testa di papa Clemente, la quale io facevo con un rovescio figurato una Pace. Questa si era una femminetta vestita con panni sottilissimi, soccinta, con una faccellina in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme a guisa di un trofeo; e ivi era figurato una parete di un tempio, innel quale era figurato il Furore con molte catene legato, e all'intorno si era un motto di lettere, il quale diceva "Clauduntur belli portae". In mentre ch'io finivo la ditta medaglia, quello che io avevo percosso era guarito, e 'l Papa non cessava di domandar di me: e perché io fuggivo di andare intorno al cardinale de' Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi, Sua Signoria mi dava da fare qualche opera d'importanza, per la qual cosa m'inpediva assai alla fine della mia medaglia, avvenne che misser Pier Carnesecchi,favoritissimo del Papa, prese la cura di tener conto di me: cosí in un destro modo mi disse quanto il Papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi che in brevi giorni io mostrerrei a Sua Santità, che mai io non m'ero scostato dal servizio di quella.
LXXI.
Pochi giorni appresso, avendo finito la mia medaglia, la stampai in oro e in argento e in ottone. Mostratala a messer Piero, subito m'introdusse dal Papa. Era un giorno doppo desinare del mese di aprile, ed era un bel tempo: il Papa era in Belvedere. Giunto alla presenza di Sua Santità, li porsi in mano le medaglie insieme con li conii di acciaio. Presele, subito cognosciuto la gran forza di arte che era in esse, guardato misser Piero in viso, disse: - Gli antichi non furno mai sí ben serviti di medaglie -. In mentre che lui e gli altri le consideravano, ora i conii ora le medaglie, io modestissimamente cominciai a parlare e dissi: - Se la potenzia delle mie perverse istelle non avessino aùto una maggior potenzia, che alloro avessi impedito quello che violentemente in atto le mi dimostrorno, Vostra Santità senza sua causa e mia perdeva un suo fidele e amorevole servitore. Però, beatissimo Padre, non è error nessuno in questi atti, dove si fa del resto, usar quel modo che dicono certi poveri semplici uomini, usando dire, che si dee segnar sette e tagliar uno. Da poi che una malvagia bugiarda lingua d'un mio pessimo avversario, che aveva cosí facilmente fatto adirare Vostra Santità, che ella venne in tanto furore, commettendo al Governatore che subito preso m'impiccassi; veduto da poi un tale inconveniente, faccendo un cosí gran torto a sé medesima a privarsi di un suo servitore, qual Vostra Santità istessa dice che egli è, penso certissimo che, quanto a Dio e quanto al mondo, da poi Vostra Santità n'arebbe aùto un non piccolo rimordimento. Però i buoni e virtuosi padri, similmente i padroni tali, sopra i loro figliuoli e servitori non debbono cosí precipitatamente lasciar loro cadere il braccio addosso; avvenga che lo increscerne lor da poi non serva a nulla. Da poi che Idio ha impedito questo maligno corso di stelle, e salvatomi a Vostra Santità, un'altra volta priego quella, che non sia cosí facile a l'adirarsi meco -. Il Papa, fermato di guardare le medaglie, con grande attenzione mi stava a udire; e perché alla presenzia era molti Signori di grandissima importanza, il Papa, arrossito alquanto, fece segno di vergognarsi, e non sapendo altro modo a uscir di quel viluppo, disse che non si ricordava di aver mai dato una tal commessione. Allora avvedutomi di questo, entrai in altri ragionamenti, tanto che io divertissi quella vergogna che lui aveva dimostrato. Ancora Sua Santità entrato in e' ragionamenti delle medaglie, mi dimandava che modo io avevo tenuto a stamparle cosí mirabilmente, essendo cosí grande; il che lui non aveva mai veduto degli antichi, medaglie di tanta grandezza. Sopra quello si ragionò un pezzo, e lui, che aveva paura che io non gli facessi un'altra orazioncina peggio di quella, mi disse che le medaglie erano bellissime e che gli erano molto grate, e che arebbe voluto fare un altro rovescio a sua fantasia, se tal medaglie si poteva istampare con dua rovesci. Io dissi che sí. Allora Sua Santità mi commesse che io facessi la storia di Moisè quando e' percuote la pietra, ch'e' n'esce l'acqua, con un motto sopra, il qual dicessi "Ut bibat populus". E poi aggiunse: - Va, Benvenuto, che tu non l'arai finita sí tosto che io arò pensato a casi tua -. Partito che io fui, il Papa si vantò alla presenza di tutti di darmi tanto, che io arei potuto riccamente vivere, senza mai piú affaticarmi con altri. Attesi sollecitamente a finire il rovescio del Moisè.
LXXII.
In questo mezzo il Papa si ammalò; e, giudicando i medici che 'l male fussi pericoloso, quel mio avversario, avendo paura di me, commise a certi soldati napoletani che facessino a me quello che lui aveva paura che io non facessi allui. Però ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando fini' il rovescio afatto: portatolo su al Papa, lo trovai nel letto malissimo condizionato. Con tutto questo egli mi fece gran carezze, e volse veder le medaglie e e' conii; e faccendosi dare occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a brancolarle alquanto con le dita; di poi fatto cosí un poco, gittò un gran sospiro e disse a certi che gl'incresceva di me, ma che se Idio gli rendeva la sanità, acconcerebbe ogni cosa. Da poi tre giorni il Papa morí, e io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buono animo, e dissi a me stesso che mediante quelle medaglie io m'ero fatto tanto cognoscere, che da ogni papa, che venissi, io sarei adoperato forse con miglior fortuna. Cosí da me medesimo mi missi animo, cancellando in tutto e per tutto le grande ingiurie che mi aveva fatte Pompeo; e missomi l'arme indosso e accanto, me ne andai a San Piero, baciai li piedi al morto Papa non sanza lacrime; di poi mi ritornai in Banchi a considerare la gran confusione che avviene in cotai occasione. E in mentre che io mi sedeva in Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo in mezzo a dieci uomini benissimo armati; e quando egli fu a punto a rincontro dove io era, si fermò alquanto in atto di voler quistione con esso meco. Quelli ch'erano meco, giovani bravi e volontoriosi, accennatomi che io dovessi metter mano, alla qual cosa subito considerai, che se io mettevo mano alla spada, ne sarebbe seguito qualche grandissimo danno in quelli che non vi avevano una colpa al mondo; però giudicai che e' fussi il meglio, che io solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato che Pompeo fu del dir dua Avemarie, con ischerno rise inverso di me; e partitosi, quelli sua anche risono scotendo il capo; e con simili atti facevano molte braverie: quelli mia compagni volson metter mano alla quistione; ai quali io adiratamente dissi, che le mie brighe io ero uomo da per me a saperle finire, che io non avevo bisogno di maggior bravi di me; sí che ognun badassi al fatto suo. Isdegnati quelli mia amici si partirno da me brontolando. In fra questi era il piú caro mio amico, il quale aveva nome Albertaccio del Bene, fratel carnale di Alessandro e di Albizzo, il quale è oggi in Lione grandissimo ricco. Era questo Albertaccio il piú mirabil giovane che io cognoscessi mai, e il piú animoso, e a me voleva bene quanto a sé medesimo; e perché lui sapeva bene che quello atto di pazienzia non era stato per pusillità d'animo, ma per aldacissima bravuria, che benissimo mi conosceva, e replicato alle parole, mi pregò che io gli facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che io avessi animo di fare. Al quale io dissi: - Albertaccio mio, sopra tutti gli altri carissimo; ben verrà tempo che voi mi potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi mi volete bene, non guardate a me, e badate al fatto vostro, e levatevi via presto sí come hanno fatto gli altri, perché questo non è tempo da perdere -. Queste parole furno dette presto.
LXXIII.
Intanto li nimici mia, di Banchi a lento passo s'erano avviati inverso la Chiavica, luogo detto cosí, e arrivati in su una crociata di strade le quali vanno in diversi luoghi; ma quella dove era la casa del mio nimico Pompeo, era quella strada che diritta porta a Campo di Fiore; e per alcune occasione de il detto Pompeo, era entrato in quello ispeziale che stava in sul canto della Chiavica, e soprastato con ditto speziale alquanto per alcune sue faccende; benché a me fu ditto che lui si era millantato di quella bravata che allui pareva aver fattami: ma in tutti i modi la fu pur sua cattiva fortuna; perché arrivato che io fui a quel canto, apunto lui usciva dallo speziale, e quei sua bravi si erano aperti, e l'avevano di già ricevuto in mezzo. Messi mano a un picol pungente pugnaletto, e sforzato la fila de' sua bravi, li messi le mane al petto con tanta prestezza e sicurtà d'animo, che nessuno delli detti rimediar non possettono. Tiratogli per dare al viso, lo spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo punsi apunto sotto l'orecchio; e quivi raffermai dua colpi soli, che al sicondo mi cadde morto di mano, qual non fu mai mia intenzione; ma, sí come si dice, li colpi non si danno a patti. Ripreso il pugnale con la mano istanca, e con la ritta tirato fuora la spada per la difesa della vita mia, dove tutti quei bravi corsono al morto corpo, e contro a me non feceno atto nessuno, cosí soletto mi ritirai per strada Iulia, pensando dove io mi potessi salvare. Quando io fui trecento passi, mi raggiunse il Piloto, orefice, mio grandissimo amico, il quale mi disse: - Fratello, da poi che 'l male è fatto, veggiamo di salvarti -. Al quale io dissi: - Andiamo in casa di Albertaccio del Bene, che poco inanzi gli avevo detto che presto verrebbe il tempo che io arei bisogno di lui -. Giunti che noi fummo a casa Albertaccio, le carezze furno inistimabile, e presto comparse la nobiltà delli giovani di Banchi d'ogni nazione, da' Milanesi in fuora; e tutti mi si offersono di mettete la vita loro per salvazione della vita mia. Ancora misser Luigi Rucellai mi mandò a offerire maravigliosamente, che io mi servissi delle cose sua, e molti altri di quelli omaccioni simili a lui; perché tutti d'accordo mi benedissono le mani, parendo loro che colui mi avessi troppo assassinato, e maravigliandosi molto che io avessi tanto soportato.
LXXIV.
In questo istante il cardinal Cornaro, saputo la cosa, da per sé mandò trenta soldati, con tanti partigianoni, picche e archibusi, li quali mi menassino in camera sua per ogni buon rispetto; e io accettai l'offerta, e con quelli me ne andai, e piú di altretanti di quelli ditti giovani mi feciono compagnia. In questo mezzo saputolo quel misser Traiano suo parente, primo cameriere del Papa, mandò al cardinal de' Medici un gran gentiluomo milanese, il qual dicessi al Cardinale il gran male che io avevo fatto, e che Sua Signoria reverendissima era ubbrigata a gastigarmi. Il Cardinale rispose subito, e disse: - Gran male arebbe fatto a non fare questo minor male: ringraziate messer Traiano da mia parte, che m'ha fatto avvertito di quel che io non sapeva - e subito voltosi, in presenza del ditto gentiluomo, al vescovo di Frullí suo gentiluomo e familiare, li disse: - Cercate con diligenzia il mio Benvenuto, e menatemelo qui, perché io lo voglio aiutare e difendere; e chi farà contra di lui, farà contra di me -. Il gentiluomo molto arrossito si partí, e il vescovo di Frullí mi venne a trovare in casa il cardinal Cornaro; e trovato il Cardinale, disse come il cardinale de' Medici mandava per Benvenuto, e che voleva esser lui quello che lo guardassi. Questo cardinal Cornaro, ch'era bizzarro come un orsacchino, molto adirato rispose al vescovo, dicendogli che lui era cosí atto a guardarmi come il cardinal de' Medici. A questo il vescovo disse, che di grazia facessi che lui mi potessi parlare una parola fuor di quello affare, per altri negozi del cardinale. Il Cornaro li disse che per quel giorno facessi conto di avermi parlato. Il cardinal de' Medici era molto isdegnato; ma pure io andai la notte seguente senza saputa del Cornaro, benissimo accompagnato, a visitarlo; dipoi lo pregai che mi facessi tanto di grazia di lasciarmi in casa del ditto Cornaro, e li dissi la gran cortesia che Cornaro m'aveva usato; dove che, se Sua Signoria reverendissima mi lasciava stare col ditto Cornaro, io verrei ad avere un amico piú nelle mie necessitate; o pure che disponessi di me tutto quello che piacessi a Sua Signoria. Il quale mi rispose, che io facessi quanto mi pareva. Tornatomene a casa il Cornaro, ivi a pochi giorni fu fatto papa il cardinal Farnese: e subito dato ordine alle cose di piú importanza, apresso il Papa domandò di me, dicendo che non voleva che altri facessi le sue monete, che io. A queste parole rispose a Sua Santità un certo gentiluomo suo domestichissimo, il quale si chiamava messer Latino Iuvinale; disse che io stavo fuggiasco per uno omicidio fatto in persona di un Pompeo milanese, e aggiunse tutte le mie ragione molto favoritamente. Alle qual parole il Papa disse: - Io non sapevo della morte di Pompeo, ma sí bene sapevo le ragione di Benvenuto, sí che facciasigli subito un salvo condotto, con il quale lui stia sicurissimo -. Era alla presenza un grande amico di quel Pompeo e molto domestico del Papa, il quale si chiamava misser Ambruogio, ed era milanese, e disse al Papa: - In e' primi dí del vostro papato non saria bene far grazie di questa sorte -. Al quale il Papa voltosigli, gli disse: - Voi non la sapete bene sí come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere ubrigati alla legge: or maggiormente lui, che so quanta ragione e' gli ha -. E fattomi fare il salvo condotto, subito lo cominciai a servire con grandissimo favore.
LXXV.
Mi venne a trovare quel Latino Iuvinale detto, e mi commesse che io facessi le monete del Papa. Per la qual cosa si destò tutti quei mia nimici: cominciorno a impedirmi, che io non le facessi. Alla qual cosa il Papa, avvedutosi di tal cosa, gli sgridò tutti, e volse che io le facessi. Cominciai a fare le stampe degli scudi, innelle quali io feci un mezzo San Pagolo, con un motto di lettere che diceva "Vas electionis". Questa moneta piacque molto piú che quelle di quelli che avevan fatto a mia concorrenza; di modo che il Papa disse che altri non gli parlassi piú di monete, perché voleva che io fossi quello che le facessi e no altri. Cosí francamente attendevo a lavorare; e quel messer Latino Iuvinale m'introduceva al Papa, perché il Papa gli aveva dato questa cura. Io desideravo di riavere il moto proprio dell'uffizio dello stampatore della zecca. A questo il Papa si lasciò consigliare, dicendo che prima bisognava che avessi la grazia dell'omicidio, la quale io riarei per le Sante Marie di Agosto per ordine de' caporioni di Roma, che cosí si usa ogni anno per questa solenne festa donare a questi caporioni dodici sbanditi; intanto mi si farebbe un altro salvo condotto, per il quale io potessi star sicuro per insino al ditto tempo. Veduto questi mia nimici che non potevano ottenere per via nessuna impedirmi la zecca, presono un altro espediente. Avendo il Pompeo morto lasciato tremila ducati di dota a una sua figliuolina bastarda, feciono che un certo favorito del signor Pier Luigi, flgliuol del Papa, la chiedessi per moglie per mezzo del detto Signore: cosí fu fatto. Questo ditto favorito era un villanetto allevato dal ditto Signore, e per quel che si disse allui toccò pochi di cotesti dinari, perché il ditto Signore vi messe su le mane, e se ne volse servire. Ma perché piú volte questo marito di questa fanciulletta, per compiacere alla sua moglie, aveva pregato il Signore ditto che mi facessi pigliare, il quale Signore aveva promisso di farlo come ei vedessi abbassato un poco il favore che io avevo col Papa; stando cosí in circa a dua mesi, perché quel suo servitore cercava di avere la sua dota, el Signore non gli rispondendo a proposito, ma faceva intendere alla moglie che farebbe le vendette del padre a ogni modo. Con tutto che io ne sapevo qualche cosa, e appresentatomi piú volte al ditto Signore, il quale mostrava di farmi grandissimi favori; dalla altra banda aveva ordinato una delle due vie, o di farmi ammazzare o di farmi pigliare dal bargello. Commesse a un certo diavoletto di un suo soldato còrso, che la facessi piú netta che poteva: e quelli altri mia nimici, massimo messer Traiano, aveva promesso di fare un presente di cento scudi a questo corsetto; il quale disse che la farebbe cosí facile come bere uno vuovo fresco. Io, che tal cosa intesi, andavo con gli occhi aperti e con buona compagnia e benissimo armato con giaco e con maniche, che tanto avevo aùto licenzia. Questo ditto corsetto per avarizia pensando guadagnare quelli dinari tutti a man salva, credette tale inpresa poterla fare da per se solo; in modo che un giorno, doppo desinare, mi feciono chiamare da parte del signor Pier Luigi; onde io subito andai, perché il Signore mi aveva ragionato di voler fare parecchi vasi grandi di argento. Partitomi di casa in fretta, pure con le mie solite armadure, me ne andavo presto per istrada Iulia, pensando di non trovar persona in su quell'ora. Quando io fui su alto di strada Iulia per voltare al palazzo del Farnese, essendo il mio uso di voltar largo ai canti, viddi quel corsetto già ditto, levarsi da sedere e arrivare al mezzo della strada: di modo che io non mi sconciai di nulla, ma stavo in ordine per difendermi; e allentato il passo alquanto, mi accostai al muro per dare larga istrada al ditto corsetto. Anche lui accostatosi al muro, e di già appressatici bene, cognosciuto ispresso per le sue dimostrazione che lui aveva voluntà di farmi dispiacere, e vedutomi solo a quel modo, pensò che la gli riuscissi; in modo che io cominciai a parlare e dissi: - Valoroso soldato, se e' fossi di notte, voi potresti dire di avermi preso in iscambio; ma perché gli è di giorno, benissimo cognoscete chi io sono, il quale non ebbi mai che fare con voi, e mai non vi feci dispiacere; ma io sarei bene atto a farvi piacere -. A queste parole lui in atto bravo, non mi si levando dinanzi, mi disse che non sapeva quello che io mi dicevo. Allora io dissi: - Io so benissimo quello che voi volete, e quel che voi dite; ma quella impresa che voi avete presa a fare è piú difficile e pericolosa, che voi non pensate, e tal volta potrebbe andare a rovescio; e ricordatevi che voi avete a fare con uno uomo il quale si difenderebbe da cento. E non è impresa onorata da valorosi uomini, qual voi siete, questa -. Intanto ancora io stavo in cagnesco, canbiato il colore l'uno e l'altro. Intanto era comparso populi, che di già avevano conosciuto che le nostre parole erano di ferro; che non gli essendo bastato la vista a manomettermi, disse: - Altra volta ci rivedremo -. Al quale io dissi: - Io sempre mi riveggo con gli uomini da bene, e con quelli che fanno ritratto tale -. Partitomi, andai a casa il Signore, il quale non aveva mandato per me. Tornatomi alla mia bottega, il detto corsetto per un suo grandissimo amico e mio mi fece intendere, che io non mi guardassi piú da lui, che mi voleva essere buono fratello; ma che io mi guardassi bene da altri, perché io portavo grandissimo pericolo; ché uomini di molta importanza mi avevano giurato la morte adosso. Mandatolo a ringraziare, mi guardavo il meglio che io potevo. Non molti giorni apresso mi fu detto da un mio grande amico, che 'l signor Pier Luigi aveva dato espressa commessione che io fussi preso la sera. Questo mi fu detto a venti ore; per la qual cosa io ne parlai con alcuni mia amici, e' quali mi confortorno che io subito me ne andassi. E perché la commessione era data per a una ora di notte, a ventitré ore io montai in su le poste, e me ne corsi a Firenze: perché da poi che quel corsetto non gli era bastato l'animo di far la impresa che lui promesse, il signor Pier Luigi di sua propria autorità aveva dato ordine che io fussi preso, solo per racchetare un poco quella figliuola di Pompeo, la quale voleva sapere in che luogo era la sua dota. Non la potendo contentare della vendetta in nissuno de' dua modi che lui aveva ordinato, ne pensò un altro, il quale lo diremo al suo luogo.
LXXVI.
Io giunsi a Firenze, e feci motto al duca Lessandro, il quale mi fece maravigliose carezze, e mi ricercò che io mi dovessi restar seco. E perché in Firenze era un certo scultore chiamato il Tribolino, ed era mio compare, per avergli io battezzato un suo figliuolo, ragionando seco, mi disse che uno Iacopo del Sansovino, già primo suo maestro, lo aveva mandato a chiamare; e perché lui non aveva mai veduto Vinezia, e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto volentieri; e domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi che no; onde egli mi pregò che io dovessi andar seco a spasso; al quale io promessi: però risposi al duca Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia, di poi tornerei volentieri a servirlo; e cosí volse che io gli promettessi, e mi comandò che inanzi che io mi partissi io gli facessi motto. L'altro dí appresso, essendomi messo in ordine, andai per pigliare licenza dal Duca; il quale io trovai innel palazzo de' Pazzi, innel tempo che ivi era alloggiato la moglie e le figliuole del signor Lorenzo Cibo. Fatto intendere a Sua Eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona grazia, tornò con la risposta Cosimino de' Medici, oggi Duca di Firenze, il quale mi disse che io andassi a trovare Nicolò da Monte Aguto, e lui mi darebbe cinquanta scudi d'oro, i quali danari mi donava la Eccellenzia del Duca, che io me gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo, il quale era in ordine; e mi disse se io avevo legato la spada. Io li dissi che chi era a cavallo per andare in viaggio non doveva legar le spade. Disse che in Firenze si usava cosí, perché v'era un certo ser Maurizio, che per ogni piccola cosa arebbe dato della corda a San Giovanbatista; però bisognava portar le spade legate per insino fuor della porta. Io me ne risi, e cosí ce ne andammo. Accompagnammoci con il procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per sopra nome Lamentone: con esso andammo di compagnia, e passato Bologna una sera in fra l'altre arrivammo a Ferrara; e quivi alloggiati a l'osteria di Piazza, il detto Lamentone andò a trovare alcuno de' fuora usciti, a portar loro lettere e imbasciate da parte della loro moglie: che cosí era di consentimento del Duca, che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto pena della medesima contumazia in che loro erano. In questo mezzo, per essere poco piú di ventidua ore, noi ce ne andammo, il Tribulo e io, a veder tornare il duca di Ferrara, il quale era ito a Belfiore a veder giostrare. Innel suo ritorno noi scontrammo molti fuora usciti, e' quali ci guardavano fiso, quasi isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il piú pauroso uomo che io cognoscessi mai, non cessava di dirmi: - Non gli guardare e non parlare con loro, se tu vuoi tornare a Firenze -. Cosí stemmo a veder tornare il Duca; di poi tornaticene a l'osteria, ivi trovammo Lamentone. E fattosi vicina a un'ora di notte, ivi comparse Nicolò Benintendi e Piero suo fratello, e un altro vecchione, qual credo che fussi Iacopo Nardi, insieme con parecchi altri giovani; e' quali subito giunti dimandavano il procaccia, ciascuno delle sue brigate di Firenze: il Tribolo e io stavamo là discosto, per non parlar con loro. Di poi che gl'ebbono ragionato un pezzo con Lamentone, quel Nicolò Benintendi disse: - Io gli cognosco quei dua benissimo; perché fann'eglino tante merde di non ci voler parlare? - Il Tribolo pur mi diceva che io stessi cheto. Lamentone disse loro, che quella licenzia che era data allui, non era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l'era una asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose. Allora io alzai la testa con piú modestia che io potevo e sapevo, e dissi: - Cari gentiluomini, voi ci potete nuocere assai, e noi a voi non possiamo giovar nulla; e con tutto che voi ci abiate detto qualche parola la quale non ci si conviene, né anche per questo non vogliamo essere adirati con esso voi -. Quel vecchione de' Nardi disse che io avevo parlato da un giovane da bene, come io ero. Nicolò Benintendi allora disse: - Io ho in culo loro e il Duca -. Io replicai, che con noi egli aveva torto, che non avevàno che far nulla de' casi sua. Quel vecchio de' Nardi la prese per noi, dicendo al Benintendi che gli aveva il torto; onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la qualcosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono; sí che attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca e noi di nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole mentitolo per la gola, tirai fuora la spada; e 'l vecchio, che volse essere il primo alla scala, pochi scaglioni in giú cadde, e loro tutti l'un sopra l'altro addòssogli. Per la qual cosa, io saltato inanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore, dicendo: - Io vi ammazzerò tutti - e benissimo avevo riguardo a non far lor male, che troppo ne arei potuto fare. A questo romore l'oste gridava; Lamenton diceva - Non fate - alcuni di loro dicevano - Oimè il capo! - altri - Lasciami uscir di qui -. Questa era una bussa inistimabile: parevano un branco di porci: l'oste venne col lume; io mi ritirai sú e rimessi la spada. Lamentone diceva a Nicolò Benintendi, che gli aveva mal fatto; l'oste disse a Nicolò Benintendi: - E' ne va la vita a metter mano per l'arme qui, e se il Duca sapessi queste vostre insolenzie, vi farebbe appiccare per la gola; sí che io non vi voglio fare quello che voi meriteresti; ma non mi ci capitate mai piú in questa osteria, che guai a voi -. L'oste venne sú da me, e volendomi io scusare, non mi lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille ragioni, e che io mi guardassi bene innel viaggio da loro.
LXXVII.
Cenato che noi avemmo, comparse sú un barcheruolo per levarci per Vinezia; io dimandai se lui mi voleva dare la barca libera: cosí fu contento, e di tanto facemmo patto. La mattina a buonotta noi pigliammo i cavagli per andare al porto, quale è non so che poche miglia lontano da Ferrara; e giunto che noi fummo al porto, vi trovammo il fratello di Nicolò Benintendi con tre altri compagni, i quali aspettavano che io giugnessi: in fra loro era dua pezzi di arme in asta, e io avevo compro un bel giannettone in Ferrara. Essendo anche benissimo armato, io non mi sbigotti' punto, come fece il Tribolo che disse: - Idio ci aiuti: costor son qui per ammazzarci -. Lamentone si volse a me e disse: - Il meglio che tu possa fare si è tornartene a Ferrara, perché io veggo la cosa pericolosa. Di grazia, Benvenuto mio, passa la furia di queste bestie arrabiate -. Allora io dissi: - Andiàno inanzi, perché chi ha ragione Idio l'aiuta; e voi vedrete come mi aiuterò da me. Quella barca non è ella caparrata per noi? - Sí, - disse Lamentone. - E noi in quella staremo sanza loro, per quanto potrà la virtú mia -. Spinsi inanzi il cavallo, e quando fu presso a cinquanta passi, scavalcai e arditamente col mio giannettone andavo innanzi. Il Tribolo s'era fermato indietro ed era rannicchiato in sul cavallo, che pareva il freddo stesso; e Lamentone procaccio gonfiava e soffiava che pareva un vento; che cosí era il suo modo di fare; ma piú lo faceva allora che il solito, stando acconsiderare che fine avessi avere quella diavoleria. Giunto alla barca, il barcheruolo mi si fece innanzi e mi disse, che quelli parecchi gentiluomini fiorentini volevano entrare di compagnia nella barca, se io me ne contentavo. Al quale io dissi: - La barca è caparrata per noi, e non per altri, e m'incresce insino al cuore di non poter essere con loro -. A queste parole un bravo giovane de' Magalotti disse: - Benvenuto, noi faremo che tu potrai -. Allora io dissi: - Se Idio e la ragione che io ho insieme con le forze mie, vorranno o potranno, voi non mi farete poter quel che voi dite -. E con le parole insieme saltai nella barca. Volto lor la punta dell'arme, dissi: - Con questa vi mostrerrò che io non posso -. Voluto fare un poco di dimostrazione, messo mano all'arme e fattosi innanzi quel de' Magalotti, io saltai in su l'orlo della barca, e tira'gli un cosí gran colpo, che se non cadeva rovescio in terra, io lo passavo a banda a banda. Gli altri compagni, scambio di aiutarlo, si ritirorno indietro: e veduto che io l'arei potuto ammazzare, in cambio di dargli, io li dissi: - Levati su, fratello, e piglia le tue arme e vattene; bene hai tu veduto che io non posso quel che io non voglio, e quel che io potevo fare non ho voluto -. Di poi chiamai drento il Tribolo e il barcheruolo e Lamentone; cosí ce ne andammo alla volta di Vinezia. Quando noi fummo dieci miglia per il Po, quelli giovani erano montati in su una fusoliera e ci raggiunsono; e quando a noi furno al dirimpetto, quello isciocco di Pier Benintendi mi disse: - Vien pur via, Benvenuto, ché ci rivedremo in Vinezia. - Avviatevi che io vengo - dissi - e per tutto mi lascio rivedere -. Cosí arrivammo a Vinezia. Io presi parere da un fratello del cardinal Cornaro, dicendo che mi facessi favore che io potessi aver l'arme, qual mi disse che liberamente io la portassi, che il peggio che me ne andava si era perder la spada.
LXXVIII.
Cosí portando l'arme, andammo a visitare Iacopo del Sansovino scultore, il quale aveva mandato per il Tribolo; e a me fece gran carezze, e vuolseci dar desinare, e seco restammo. Parlando col Tribolo, gli disse che non se ne voleva servire per allora, e che tornassi un'altra volta. A queste parole io mi cacciai a ridere, e piacevolmente dissi al Sansovino: - Gli è troppo discosto la casa vostra dalla sua, avendo a tornare un'altra volta -. Il povero Tribolo sbigottito disse: - Io ho qui la lettera, che voi mi avete scritta, che io venga -. A questo disse il Sansovino, che i sua pari, uomini da bene e virtuosi, potevan fare quello e maggior cosa. Il Tribolo si ristrinse nelle spalle e disse - Pazienzia - parecchi volte. A questo, non guardando al desinare abundante che mi aveva dato il Sansovino, presi la parte del mio compagno Tribolo, che aveva ragione. E perché a quella mensa il Sansovino non aveva mai restato di cicalare delle sue gran pruove, dicendo mal di Michelagnolo e di tutti quelli che facevano tal arte, solo lodando se istesso a maraviglia; questa cosa mi era venuta tanto a noia, che io non avevo mangiato boccon che mi fussi piaciuto, e solo dissi queste dua parole: - O messer Iacopo, li uomini da bene fanno le cose da uomini da bene, e quelli virtuosi, che fanno le belle opere e buone, si cognoscono molto meglio quando sono lodati da altri, che a lodarsi cosí sicuramente da per loro medesimi -. A queste parole e lui e noi ci levammo da tavola bofonchiando. Quel giorno medesimo, trovandomi per Venezia presso al Rialto, mi scontrai in Piero Benintendi, il quale era con parecchi; e avedutomi che loro cercavano di farmi dispiacere, mi ritirai inn'una bottega d'uno speziale, tanto che io lasciai passare quella furia. Dipoi io intesi che quel giovane de' Magalotti, a chi io avevo usato cortesia, molto gli aveva sgridati; e cosí si passò.
LXXIX.
Da poi pochi giorni appresso ce ne ritornammo alla volta di Firenze; ed essendo alloggiati a un certo luogo, il quale è di qua da Chioggia in su la man manca venendo inverso Ferrara, l'oste volse essere pagato a suo modo innanzi che noi andassimo a dormire; e dicendogli che innegli altri luoghi si usava di pagare la mattina, ci disse: - Io voglio esser pagato la sera, e a mio modo -. Dissi, a quelle parole, che gli uomini che volevan fare a lor modo, bisognava che si facessino un mondo a lor modo, perché in questo non si usava cosí. L'oste rispose che io non gli affastidissi il cervello, perché voleva fare a quel modo. Il Tribolo tremava di paura, e mi punzecchiava che io stessi cheto, acciò che loro non ci facessino peggio: cosí lo pagammo a lor modo; poi ce ne andammo a dormire. Avemmo di buono bellissimi letti, nuovi ogni cosa e veramente puliti: con tutto questo io non dormi' mai, pensando tutta quella notte in che modo io avevo da fare a vendicarmi. Una volta mi veniva in pensiero di ficcargli fuogo in casa; un'altra di scannargli quattro cavagli buoni, che gli aveva nella stalla; tutto vedevo che m'era facile il farlo, ma non vedevo già l'esser facile il salvare me e il mio compagno. Presi per ultimo spediente di mettere le robe e' compagni innella barca, e cosí feci: e attaccato i cavalli all'alzana, che tiravano la barca, dissi che non movessino la barca in sino che io ritornassi, perché avevo lasciato un paro di mia pianelle nel luogo dove io avevo dormito. Cosí tornato ne l'osteria domandai l'oste; il qual mi rispose che non aveva che far di noi, e che noi andassimo al bordello. Quivi era un suo fanciullaccio ragazzo di stalla, tutto sonnachioso, il quale mi disse: - L'oste non si moverebbe per il Papa, perché e' dorme seco una certa poltroncella che lui ha bramato assai - e chiesemi la bene andata; onde io li detti parecchi di quelle piccole monete veniziane, e li dissi che trattenessi un poco quello che tirava l'alzana, insinché io cercassi delle mie pianelle e ivi tornassi. Andatomene su, presi un coltelletto che radeva, e quattro letti che v'era, tutti gli tritai con quel coltello; in modo che io cognobbi aver fatto un danno di piú di cinquanta scudi. E tornato alla barca con certi pezzuoli di quelle sarge nella mia saccoccia, con fretta dissi al guidatore dell'alzana che prestamente parassi via. Scostatici un poco dalla osteria, el mio compar Tribolo disse che aveva lasciato certe coreggine che legavano la sua valigetta, e che voleva tornare per esse a ogni modo. Alla qual cosa io dissi che non la guardassi in dua coreggie piccine, perché io gnene farei delle grande quante egli vorrebbe. Lui mi disse io ero sempre in su la burla, ma che voleva tornare per le sue coreggie a ogni modo; e faccendo forza all'alzana che e' fermassi, e io dicevo che parassi innanzi, in mentre gli dissi il gran danno che io avevo fatto a l'oste: e mostratogli il saggio di certi pezzuoli di sarge e altro, gli entrò un triemito addosso sí grande, che egli non cessava di dire all'alzana: - Para via, para via presto - e mai si tenne sicuro di questo pericolo, per insino che noi fummo ritornati alle porte di Firenze. Alle quali giunti, il Tribolo disse: - Leghiamo le spade per l'amor de Dio, e non me ne fate piú; ché sempre m'è parso avere le budella 'n un catino -. Al quale io dissi: - Compar mio Tribolo, a voi non accade legare la spada, perché voi non l'avete mai isciolta, - e questo io lo dissi accaso, per non gli avere mai veduto fare segno di uomo in quel viaggio. Alla quale cosa lui guardatosi la spada, disse: - Per Dio che voi dite il vero, che la sta legata in quel modo che io l'acconciai innanzi che io uscissi di casa mia -. A questo mio compare gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia, per essermi risentito e difeso contra quelli che ci avevano voluto fare dispiacere; e a me pareva che lui l'avessi fatta molto piú cattiva a me, a non si mettere a 'iutarmi in cotai bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione.
LXXX.
Scavalcato che io fui, subito andai a trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del presente de' cinquanta scudi, dicendo a Sua Eccellenzia che io ero paratissimo a tutto quello che io fussi buono a servire Sua Eccellenzia. Il quale subito m'impose che io facessi le stampe delle sue monete: e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di Sua Eccellenzia da una banda e dall'altra un San Cosimo e un San Damiano. Queste furono monete d'argento, e piacquono tanto, che il Duca ardiva di dire che quelle erano le piú belle monete di Cristianità. Cosí diceva tutto Firenze, e ogniuno che le vedeva. Per la qual cosa chiesi a Sua Eccellenzia che mi fermassi una provvisione, e che mi facessi consegnare le stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a servirlo, e che lui mi darebbe molto piú di quello che io gli domandavo; e intanto mi disse che aveva dato commessione al maestro della zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli, e allui andassi per tutti li dinari che io volevo: e cosí trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente li danari, che sempre restavo a' vere qualche cosa, sicondo il mio conto. Di nuovo feci le stampe per il giulio, quale era un San Giovanni in profilo assedere con un libro in mano, che a me non parve mai aver fatto opera cosí bella; e dall'altra banda era l'arme del ditto duca Lessandro. A presso a questa io feci la stampa per i mezzi giuli, innella quale io vi feci una testa in faccia di un San Giovannino. Questa fu la prima moneta con la testa in faccia in tanta sottigliezza di argento, che mai si facessi; e questa tale dificultà non apparisce, se none agli occhi di quelli che sono eccellenti in cotal professione. Appresso a questa io feci le stampe per li scudi d'oro; innella quale era una croce da una banda con certi piccoli cherubini, e dall'altra banda si era l'arme di Sua Eccellenzia. Fatto che io ebbi queste quattro sorte di monete, io pregai Sua Eccellenzia che terminassi la mia provisione, e mi consegnassi le sopraditte stanze, se a quella piaceva il mio servizio: alle qual parole Sua Eccellenzia mi disse benignamente che era molto contenta, e che darebbe cotai ordini. Mentre che io gli parlavo, Sua Eccellenzia era innella sua guardaroba e considerava un mirabile scoppietto, che gli era stato mandato della Alamagna: il quale bello strumento, vedutomi che io con grande attenzione lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi che sapeva benissimo quanto io di tal cosa mi dilettavo, e che per arra di quello che lui mi aveva promesso, io mi pigliassi della sua guardaroba uno archibuso a mio modo, da quello in fuora, che ben sapeva che ivi n'era molti de' piú belli e cosí buoni. Alle qual parole io accettai e ringraziai; e vedutomi dare alla cerca con gli occhi, commise al suo guardaroba, che era un certo Pretino da Lucca, che mi lasciassi pigliare tutto quello che io volevo. E partitosi con piacevolissime parole, io mi restai, e scelsi il piú bello e il migliore archibuso che io vedessi mai, e che io avessi mai, e questo me lo portai a casa. Dua giorni di poi io gli portai certi disegnetti che Sua Eccellenzia mi aveva domandato per fare alcune opere d'oro, le quali voleva mandare a donare alla sua moglie, che per ancora era in Napoli. Di nuovo io gli domandai la medesima mia faccenda, che e' me la spedissi. Allora Sua Eccellenzia mi disse, che voleva in prima che io gli facessi le stampe di un suo bel ritratto, come io aveva fatto a papa Clemente. Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual cosa Sua Eccellenzia commisse, che attutte l'ore che io andavo per ritrarlo, sempre fossi messo drento. Io che vedevo che questa mia faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo da Monte Ritondo, di quel di Roma, il quale era stato meco da piccol fanciulletto in Roma; e trovatolo che gli stava con un certo Bernardonaccio orafo, il quale non lo trattava molto bene, per la qual cosa io lo levai dallui, e benissimo gl'insegnai mettere quei ferri per le monete; e intanto io ritraevo il Duca: e molte volte lo trovavo a dormicchiare doppo desinare con quel suo Lorenzino che poi l'ammazzò, e non altri; e io molto mi maravigliavo che un Duca di quella sorte cosí si fidassi.
LXXXI.
Accadde che Ottaviano de' Medici, il quale pareva che governassi ogni cosa, volendo favorire contra la voglia del Duca il maestro vecchio di zecca, che si chiamava Bastiano Cennini, uomo all'anticaccia e di poco sapere, aveva fatto mescolare nelle stampe degli scudi quei sua goffi ferri con i mia; per la qual cosa io me ne dolsi col Duca; il quale, veduto il vero, lo ebbe molto per male, e mi disse: - Va, dillo a Ottaviano de' Medici, e mostragnene -. Onde io subito andai; e mostratogli la ingiuria che era fatto alle mie belle monete, lui mi disse asinescamente: - Cosí ci piace di fare -. Al quale io risposi, che cosí non era il dovere, e non piaceva a me. Lui disse: - E se cosí piacessi al Duca?- Io gli risposi: - Non piacerebbe a me; ché non è giusto né ragionevole una tal cosa -. Disse che io me gli levassi dinanzi, e che a quel modo la mangerei, se io crepassi. Ritornatomene dal Duca, gli narrai tutto quello che noi avevamo dispiacevolmente discorso, Ottaviano de' Medici e io; per la qual cosa io pregavo Sua Eccellenzia che non lasciassi far torto alle belle monete che io gli avevo fatto, e a me dessi buona licenzia. Allora e' disse: - Ottaviano ne vuol troppo; e tu arai ciò che tu vorrai; perché cotesta è una ingiuria che si fa a me -. Questo giorno medesimo, che era un giovedí, mi venne di Roma uno amplio salvo condotto dal Papa, dicendomi che io andassi presto per la grazia delle Sante Marie di mezzo agosto, acciò che io potessi liberarmi di quel sospetto de l'omicidio fatto. Andatomene dal Duca, lo trovai nel letto, perché dicevano che egli aveva disordinato; e finito in poco piú di dua ore quello che mi bisognava alla sua medaglia di cera, mostrandognene finita, li piacque assai. Allora io mostrai a Sua Eccellenzia il salvo condotto aùto per ordine del Papa, e come il Papa mi richiedeva che io gli facessi certe opere; per questo andrei a riguadagnare quella bella città di Roma, e intanto lo servirei della sua medaglia. A questo il Duca disse mezzo in còllora: - Benvenuto, fa' a mio modo, non ti partire; perché io ti risolverò la provvisione, e ti darò le stanze in zecca con molto piú di quello che tu non mi sapresti domandare, perché tu mi domandi quello che è giusto e ragionevole: e chi vorrestú che mi mettessi le mia belle stampe che tu m'hai fatte? - Allora io dissi: - Signore, e' s'è pensato a ogni cosa, perché io ho qui un mio discepolo, il quale è un giovane romano, a chi io ho insegnato, che servirà benissimo la Eccellenzia Vostra per insino che io ritorno con la sua medaglia finita a starmi poi seco sempre. E perché io ho in Roma la mia bottega aperta con lavoranti e alcune faccende, aùto che io ho la grazia, lasserò tutta la divozione di Roma a un mio allevato che è là, e di poi con la buona grazia di Vostra Eccellenzia me ne tornerò a lei -. A queste cose era presente quello Lorenzino sopraddetto de' Medici e non altri: il Duca parecchi volte l'accennò che ancora lui mi dovessi confortare a fermarmi; per la qual cosa il ditto Lorenzino non disse mai altro, se none: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a restare -. Al quale io dissi che io volevo riguadagnare Roma a ogni modo. Costui non disse altro, e stava continuamente guardando il Duca con un malissimo occhio. Io, avendo finito a mio modo la medaglia e avendola serrata nel suo cassettino, dissi al Duca: - Signore, state di buona voglia, che io vi farò molto piú bella medaglia che io non feci a papa Clemente: ché la ragion vuole che io faccia meglio, essendo quella la prima che io facessi mai; e messer Lorenzo qui mi darà qualche bellissimo rovescio, come persona dotta e di grandissimo ingegno -. A queste parole il ditto Lorenzo subito rispose dicendo: - Io non pensavo a altro, se none a darti un rovescio che fussi degno di Sua Eccellenzia -. El Duca sogghignò, e guardato Lorenzo, disse: - Lorenzo, voi gli darete il rovescio, e lui lo farà qui, e non si partirà -. Presto rispose Lorenzo, dicendo: - Io lo farò il piú presto ch'io posso, e spero far cosa da far maravigliare il mondo -. Il Duca, che lo teneva quando per pazzericcio e quando per poltrone, si voltolò nel letto e si rise delle parole che gli aveva detto. Io mi parti' sanza altre cirimonie di licenzia, e gli lasciai insieme soli. Il Duca, che non credette che io me ne andassi, non mi disse altro. Quando e' seppe poi che io m'ero partito, mi mandò drieto un suo servitore, il quale mi raggiunse a Siena, e mi dette cinquanta ducati d'oro da parte del Duca, dicendomi che io me gli godessi per suo amore, e tornassi piú presto che io potevo. - E da parte di messer Lorenzo ti dico, che lui ti mette in ordine un rovescio maraviglioso per quella medaglia che tu vuoi fare -. Io avevo lasciato tutto l'ordine a Pietropagolo romano sopraditto in che modo egli avev'a mettere le stampe; ma perché l'era cosa difficilissima, egli non le misse mai troppo bene. Restai creditore della zecca, di fatture di mie ferri, di piú di settanta scudi.
LXXXII.
Me ne andai a Roma, e meco ne portai quel bellissimo archibuso a ruota che mi aveva donato il Duca, e con grandissimo mio piacere molte volte lo adoperai per via, faccendo con esso pruove inistimabile. Giunsi a Roma; e perché io tenevo una casetta in istrada Iulia, la quale non essendo in ordine, io andai a scavalcare a casa di messer Giovanni Gaddi cherico di Camera, al quale io avevo lasciato in guardia al mio partir di Roma molte mie belle arme e molte altre cose che io avevo molte care. Però io non volsi scavalcare alla bottega mia; e mandai per quel Filice mio compagno, e fècesi mettere in ordine subito quella mia casina benissimo. Dipoi l'altro giorno vi andai a dormir drento, per essermi molto bene messo in ordine di panni e di tutto quello che mi faceva mestiero, volendo la mattina seguente andare a visitare il Papa per ringraziarlo. Avevo dua servitori fanciulletti, e sotto alla casa mia ci era una lavandara, la quale pulitissimamente mi cucinava. Avendo la sera dato cena a parecchi mia amici, con grandissimo piacere passato quella cena, me ne andai a dormire; e non fu sí tosto apena passato la notte, che la mattina piú d'un'ora avanti il giorno io senti' con grandissimo furore battere la porta della casa mia, ché l'un colpo non aspettava l'altro. Per la qual cosa io chiamai quel mio servitor maggiore, che aveva nome Cencio: era quello che io menai nel cerchio di negromanzia: dissi che andassi a vedere chi era quel pazzo che a quell'ora cosí bestialmente picchiava. In mentre che Cencio andava, io acceso un altro lume, che continuamente uno sempre ne tengo la notte, subito mi missi adosso sopra la camicia una mirabil camicia di maglia, e sopra essa un poco di vestaccia a caso. Tornato Cencio, disse: - Oimè! padrone mio, egli è il bargello con tutta la corte, e dice, che se voi non fate presto, che getterà l'uscio in terra; e hanno torchi e mille cose con loro -. Al quale io dissi: - Di' loro che io mi metto un poco di vestaccia addosso, e cosí in camicia ne vengo -. Immaginatomi che e' fussi uno assassinamento, sí come già fattomi dal signor Pierluigi, con la mano destra presi una mirabil daga che io avevo, con la sinistra il salvo condotto; di poi corsi alla finestra di drieto, che rispondeva sopra certi orti, e quivi viddi piú di trenta birri: per la qual cosa io cognobbi da quella banda non poter fuggire. Messomi que' dua fanciulletti inanzi, dissi loro, che aprissino la porta quando io lo direi loro apunto. Messomi in ordine, la daga nella ritta e 'l salvo condotto nella manca, in atto veramente di difesa, dissi a que' dua fanciulletti: - Non abbiate paura, aprite -. Saltato subito Vittorio bargello con du' altri drento, pensando facilmente di poter mettermi le mani addosso, vedutomi in quel modo in ordine, si ritirorno indrieto e dissono: - Qui bisogna altro che baie -. Allora io dissi, gittato loro il salvo condotto: - Leggete quello e, non mi possendo pigliare, manco voglio che mi tocchiate -. Il bargello allora disse a parecchi di quelli, che mi pigliassimo, e che il salvo condotto si vedria da poi. A questo, ardito spinsi inanzi l'arme e dissi: - Idio sia per la ragione; o vivo fuggo, o morto preso -. La stanza si era istretta: lor fecion segno di venire a me con forza, e io grande atto di difesa; per la qual cosa il bargello cognobbe di non mi poter avere in altro modo che quel che io avevo detto. Chiamato il cancelliere, in mentre che faceva leggere il salvo condotto, fece segno dua o tre volte di farmi mettere le mani adosso; onde io non mi mossi mai da quella resoluzione fatta. Toltosi dalla impresa, mi gittorno il salvo condotto in terra, e senza me se ne andarono.
LXXXIII.
Tornatomi a riposare, mi senti' forte travagliato, né mai possetti rappiccar sonno. Avevo fatto proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue; però ne presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da un suo mediconzolo, il quale mi domandò se io avevo aùto paura. Or cognoscete voi che giudizio di medico fu questo, avendogli conto un caso sí grande, e lui farmi una tal dimanda! Questo era un certo civettino, che rideva quasi continuamente e di nonnulla; e in quel modo ridendo, mi disse che io pigliassi un buon bicchier di vin greco, e che io attendessi a stare allegro e non aver paura. Messer Giovanni pur diceva: - Maestro, chi fussi di bronzo o di marmo a questi casi tali arebbe paura; or maggiormente uno uomo -. A questo quel mediconzolino disse: - Monsignore, noi non siamo tutti fatti a un modo: questo non è uomo né di bronzo né di marmo, ma è di ferro stietto - e messomi le mane al polso, con quelle sua sproposite risa, disse a messer Giovanni: - Or toccate qui; questo non è polso di uomo, ma è d'un leone o d'un dragone - onde io, che avevo il polso forte alterato, forse fuor di quella misura che quel medico babbuasso non aveva imparata né da Ipocrate né da Galeno, sentivo ben io il mio male, ma per non mi far piú paura né piú danno di quello che aùto io avevo, mi dimostravo di buono animo. In questo tanto il ditto messer Giovanni fece mettere in ordine da desinare, e tutti di compagnia mangiammo: la quale era, insieme con il ditto messer Giovanni, un certo misser Lodovico da Fano, messer Antonio Allegretti, messer Giovanni Greco, tutte persone litteratissime, messer Annibal Caro, quale era molto giovane; né mai si ragionò d'altro a quel desinare, che di questa brava faccenda. E piú la facevan contare a quel Cencio, mio servitorino, il quale era oltramodo ingegnoso, ardito e bellissimo di corpo: il che tutte le volte che lui contava questa mia arrabbiata faccenda, facendo l'attitudine che io faceva, e benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi sovveniva qualcosa di nuovo; e spesso loro lo domandavano se egli aveva aùto paura: alle qual parole lui rispondeva, che dimandassino me se io avevo aùto paura; perché lui aveva aùto quel medesimo che avevo aùto io. Venutomi a noia questa pappolata, e perché io mi sentivo alterato forte, mi levai da tavola, dicendo che io volevo andare a vestirmi di nuovo di panni e seta azzurri, lui e io; che volevo andare in processione ivi a quattro giorni, che veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi il torchio bianco acceso. Cosí partitomi andai a tagliare e' panni azzurri con una bella vestetta di ermisino pure azzurro e un saietto del simile; e allui feci un saio e una vesta di taffettà, pure azzurro. Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai dal Papa; il quale mi disse che io parlassi col suo messer Ambruogio; che aveva dato ordine che io facessi una grande opera d'oro. Cosí andai a trovare misser Ambruogio; il quale era informato benissimo della cosa del bargello, e era stato lui d'accordo con i nimici mia per farmi tornare, e aveva isgridato il bargello che non mi aveva preso; il qual si scusava, che contra a uno salvo condotto a quel modo lui non lo poteva fare. Il ditto messer Ambruogio mi cominciò a ragionare della faccenda che gli aveva commesso il Papa; di poi mi disse che io ne facessi i disegni e che si darebbe a ogni cosa. Intanto ne venne il giorno delle Sante Marie; e perché l'usanza si è, quelli che hanno queste cotai grazie, di costituirsi in prigione; per la qual cosa io mi ritornai al Papa e dissi a Sua Santità, che io non mi volevo mettere in prigione e che io pregavo quella, che mi facessi tanto di grazia, che io non andassi prigione. Il Papa mi rispose che cosí era l'usanza, e cosí si facessi. A questo io m'inginocchiai di nuovo, e lo ringraziai del salvo condotto che Sua Santità mi aveva fatto; e che con quello me ne ritornerei a servire il mio Duca di Firenze, che con tanto desiderio mi aspettava. A queste parole il Papa si volse a un suo fidato e disse: - Faccisi a Benvenuto la grazia senza il carcere; cosí se gli acconci il suo moto propio, che stia bene -. Fattosi acconciare il moto propio, il Papa lo risegnò: fecesi registrare al Campidoglio; di poi, quel deputato giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto onoratamente andai in processione, ed ebbi la intera grazia.
LXXXIV.
Dappoi quattro giorni appresso, mi prese una grandissima febbre con freddo inistimabile: e postomi a letto, subito mi giudicai mortale. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i quali si era un maestro Francesco da Norcia, medico vecchissimo e di maggior credito che avessi Roma. Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la causa del mio gran male, e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui consigliato di no; e se io fussi a tempo, li pregavo che me ne traessino. Maestro Francesco rispose, che il trarre sangue ora non era bene, ma allora sí, che non arei aùto un male al mondo; ora bisognava medicarmi per un'altra via. Cosí messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e' potevano e sapevano al mondo; e io ogni dí peggioravo a furia, in modo che in capo di otto giorni il mal crebbe tanto, che li medici disperati della impresa detton commessione che io fussi contento e mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro Francesco disse: - Insinché v'è fiato, chiamatemi a tutte l'ore, perché non si può immaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa sorte; però, avvenga che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi l'un dietro all'altro, e mandate per me, che io verrò a ogni ora della notte; che piú grato mi sarebbe di campar costui, che qualsivoglia cardinal di Roma -. Ogni dí mi veniva a visitare dua o tre volte messer Giovanni Gaddi, e ogni voIta pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie e mie spade, e continuamente diceva: - Questa cosa è bella, e quest'altra è piú bella - cosí di mia altri modelletti e coselline: di modo che io me l'avevo recato a noia. E con esso veniva un certo Mattio Franzesi, il quale pareva che gli paressi mill'anni ancora allui io mi morissi; non perché allui avessi a toccar nulla del mio, ma pareva che lui desiderassi quel che misser Giovanni mostrava aver gran voglia. Io avevo quel Filice già detto mio compagno, il quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare uno uomo a un altro. La natura era debilitata e avvilita a fatto; e non mi era restato tanta virtú che, uscito il fiato, io lo potessi ripigliare; ma sí bene la saldezza del cervello istava forte, come la faceva quando io non avevo male. Imperò stando cosí in cervello, mi veniva a trovare alletto un vecchio terribile, il quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua barca grandissima; per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si accostassi a me, e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel Felice, che mi era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: - Tira via, vecchio traditore, che mi vuoi rubare ogni mio bene -. Messer Giovanni Gaddi allora, ch'era quivi alla presenza, diceva; - Il poverino farnetica, e ce n'è per poche ore -. Quell'altro Mattio Franzesi diceva: - Gli ha letto Dante, e in questa grande infermità gli è venuto quella vagillazione - e diceva cosí ridendo: - Tira via, vecchio ribaldo, e non dare noia al nostro Benvenuto -. Vedutomi schernire, io mi volsi a messer Giovanni Gaddi e allui dissi: - Caro mio padrone, sappiate che io non farnetico, e che gli è il vero di questo vecchio, che mi dà questa gran noia. Ma voi faresti bene il meglio a levarmi dinanzi cotesto isciagurato di Mattio, che si ride del mio male: e da poi che Vostra Signoria mi fa degno che io la vegga, doverresti venirci con messer Antonio Allegretti o con messer Annibal Caro, o con di quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d'altra discrezione e d'altro ingegno, che non è cotesta bestia -. Allora messer Giovanni disse per motteggio a quello Mattio, che si gli levassi dinanzi per sempre; ma perché Mattio rise, il motteggio divenne da dovero, perché mai piú messer Giovanni non lo volse vedere, e fece chiamare messer Antonio Allegretti, e messer Lodovico, e messer Annibal Caro. Giunti che furono questi uomini da bene, io ne presi grandissimo conforto, e con loro ragionai in cervello un pezzo, pur sollecitando Felice che cacciassi via il vecchio. Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere, e come gli era fatto. In mentre che io gnene disegnavo con le parole bene, questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino, perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata barca. Ditto quest'ultima parola, mi venne uno sfinimento grandissimo, e a me parve che mi gettassi in quella barca. Dicono che allora in questo svenire, che io mi scagliavo e che io dissi di male parole a messer Giovanni Gaddi, sí che veniva per rubarmi e non per carità nessuna; e molte altre bruttissime parole, le quale fecion vergognare il ditto messer Giovanni. Di poi dissono che io mi fermai come morto; e soprastati piú d'un'ora, parendo loro che io mi freddassi, per morto mi lasciorono. E ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio Franzesi, il quale scrisse a Firenze a messer Benedetto Varchi mio carissimo amico, che alle tante ore di notte lor mi avevano veduto morire. Per la qual cosa quel gran virtuoso di messer Benedetto e mio amicissimo, sopra la non vera ma sí ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale si metterà al suo luogo. Passò piú di tre grande ore prima che io mi rinvenissi; e fatto tutti e' rimedi del sopraditto maestro Francesco, veduto che io non mi risentivo, Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa maestro Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo svegliò e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi a casa, che pensava che io fossi morto. Al quale, maestro Francesco, che era collorosissimo, disse: - Figlio, che pensi tu che io faccia a venirvi? se gli è morto, a me duol egli piú che a tte; pensi tu che con la mia medicina, venendovi, io li possa soffiare in culo e rendertelo vivo? - Veduto che 'l povero giovane se ne andava piangendo, lo chiamò indietro e gli dette certo olio da ugnermi e' polsi e il cuore, e che mi serrassino istrettissime le dita mignole dei piedi e delle mane; e che se io rinvenivo, che subito lo mandassimo a chiamare. Partitosi Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto; e essendo fatto quasi di chiaro e parendo loro d'esser privi di speranza, dettono ordine a fare la vesta e a lavarmi. In un tratto io mi risenti', e chiamai Felice, che presto presto cacciassi via quel vecchio che mi dava noia. Il quale Felice volse mandare per maestro Francesco, e io dissi che non mandassi e che venissi quivi da me, perché quel vecchio subito si partiva e aveva paura di lui. Accostatosi Felice a me, io lo toccavo e mi pareva che quel vecchio infuriato si scostassi; però lo pregavo che stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco, disse che mi voleva campare a ogni modo, e che non aveva mai veduto maggior virtú in un giovane, a' sua dí, di quella; e dato mano allo scrivere, mi fece profumi, lavande, unzioni, impiastri e molte cose inistimabile. Intanto io mi risenti' con piú di venti mignatte al culo, forato, legato e tutto macinato. Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de il resuscitato morto, era comparso uomini di grande importanza e assai; presente i quali io dissi che quel poco de l'oro e de' danari, quali potevano essere in circa ottocento scudi fra oro, argento, gioie e danari, questi volevo che fussino della mia povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni altra cosa, volevo fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta ducati d'oro piú, acciò che lui si potessi vestire. A queste parole Filice mi si gittò al collo, dicendo che non voleva nulla, altro che mi voleva vivo. Allora io dissi: - Se tu mi vuoi vivo, toccami accotesto modo, e sgrida a cotesto vecchio, che ha di te paura -. A queste parole v'era di quelli che spaventavano,conosciuto che io non farneticavo, ma parlavo a proposito e in cervello. Cosí andò faccendo il mio gran male, e poco miglioravo. Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte o cinque il giorno: misser Giovanni Gaddi, che s'era vergognato, non mi capitava piú innanzi. Comparse il mio cognato, marito della ditta mia sorella: veniva di Fiorenze per la eredità: e perché gli era molto uomo da bene, si rallegrò assai l'avermi trovato vivo; il quale a me dette un conforto inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d'esser venuto solo per governarmi di sua mano propria; e cosí fece parecchi giorni. Di poi io ne lo mandai, avendo quasi sicura isperanza di salute. Allora lui lasciò il sonetto di messer Benedetto Varchi, quale è questo:
IN LA CREDUTA E NON VERA MORTE
DI BENVENUTO CELLINI
Chi ne consolerà, Mattio? chi fia
che ne vieti il morir piangendo, poi
che pur è vero, oimè, che sanza noi
cosí per tempo al Ciel salita sia
quella chiara alma amica, in cui fioria
virtú cotal, che fino a' tempi suoi
non vidde equal, né vedrà, credo, poi
il mondo, onde i miglior si fuggon pria?
Spirto gentil, se fuor del mortal velo
S'ama, mira dal Ciel chi in terra amasti,
pianger non già 'l tuo ben, ma 'l proprio male.
Tu ten sei gito a contemplar su 'n Cielo
l'alto Fattore, e vivo il vedi or quale
con le tue dotte man quaggiú il formasti.
LXXXV.
Era la infirmità stata tanta inistimabile, che non pareva possibile di venirne a fine; e quello uomo da bene di maestro Francesco da Norcia ci durava piú fatica che mai, e ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare il povero istemperato istrumento, e con tutte quelle inistimabil fatiche non pareva che fussi possibile venire a capo di questa indegnazione, in modo che tutti e' medici se ne erano quasi disperati e non sapevano piú che fare. Io, che avevo una sete inistimabile, e mi ero riguardato, sí come loro mi avevano ordinato, di molti giorni: e quel Felice, che gli pareva aver fatto una bella impresa a camparmi, non si partiva mai da me; e quel vecchio non mi dava piú tanta noia, ma in sogno qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato fuora, e a guardia mia era restato un mio fattorino e una serva, che si chiamava Beatrice. Io dimandavo quel fattorino quel che era stato di quel Cencio mio ragazzo e che voleva dire che io non lo avevo mai veduto a' mia bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio aveva aùto assai maggior male di me, e che gli stava in fine di morte. Felice aveva lor comandato che non me lo dicessino. Detto che m'ebbe tal cosa io ne presi grandissimo dispiacere: di poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai che mi portassi pieno d'acqua chiara e fresca uno infrescatoio grande di cristallo, che ivi era vicino. Questa donna corse subito, e me lo portò pieno. Io li dissi che me lo appoggiassi alla bocca e che se la me ne lasciava bere una sorsata a mio modo, io li donerei una gammurra. Questa serva, che m'aveva rubato certe cosette di qualche inportanza, per paura che non si ritrovassi il furto, arebbe aùto molto a caro che io fussi morto; di modo che la mi lasciò bere di quell'acqua per dua riprese quant'io potetti, tanto che buonamente io ne bevvi piú d'un fiasco: di poi mi copersi e cominciai a sudare e addormenta'mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in circa a un'ora, dimandò il fanciullo quel che io facevo. Il fanciullo gli disse: - Io non lo so: la Beatrice gli ha portato pieno quello infrescatoio d'acqua, e l'ha quasi beuto tutto; io non so ora se s'è morto o vivo -. Dicono che questo povero giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere che gli ebbe; di poi prese un mal bastone, e con esso disperatamente bastonava quella serva, dicendo: - Ohimè, traditora, che tu me l'hai morto! - In mentre che Felice bastonava e lei gridava, e io sognavo; e mi pareva che quel vecchio aveva delle corde in mano, e volendo dare ordine di legarmi, Felice l'aveva sopraggiunto e gli dava con una scura,in modo che questo vecchio fuggiva, dicendo: - Lasciami andare, che io non ci verrò di gran pezzo -. Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in camera mia; per la qual cosa svegliatomi, dissi: - Lasciala stare, che forse per farmi male ella m'ha fatto tanto bene, che tu non hai mai potuto, con tutte le tue fatiche, far nulla di quel che l'ha fatto ogni cosa: attendetemi a 'iutare, che io son sudato; e fate presto -. Riprese Filice animo, mi rasciugò e confortò: e io, che senti' grandissimo miglioramento, mi promessi la salute. Comparso maestro Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere, e 'l fattorino correre innanzi e 'ndrieto, e Filice ridere, questo scompiglio dette da credere al medico che vi fussi stato qualche stravagante caso, per la qual cosa fussi stato causa di quel mio gran miglioramento. Intanto comparse quell'altro maestro Bernardino, che da principio non mi aveva voluto cavar sangue. Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: - Oh potenzia della natura! lei sa e' bisogni sua, e i medici non sanno nulla -. Subito rispose quel cervellino di maestro Bernardino e disse: - Se e' ne beeva piú un fiasco, e gli era subito guarito -. Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande autorità, disse: - Egli era il malan che Dio vi dia -. E poi si volse a me, e mi domandò se io ne arei potuto ber piú; al quale io dissi che no, perché io m'ero cavato la sete a fatto. Allora lui si volse al ditto maestro Bernardino e disse: - Vedete voi che la natura aveva preso a punto il suo bisogno, e non piú e non manco? Cosí chiedev'ella il suo bisogno, quando il povero giovane vi richiese di cavarsi sangue: se voi cognoscevi che la salute sua fussi stata ora innel bere dua fiaschi d'acqua, perché non l'aver detto prima? e voi ne aresti aùto il vanto -. A queste parole il mediconsolo ingrognato si partí, e non vi capitò mai piú. Allora maestro Francesco disse che io fussi cavato di quella camera, e che mi facessin portare inverso un di quei colli di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi fece portare a un suo luogo che gli aveva in Monte Cavallo: la sera medesima io fui portato con gran diligenza in sur una sedia ben coperto e saldo. Giunto che io fui, cominciai a vomitare; innel qual vomito mi uscí dello stomaco un verme piloso, grande un quarto di braccio: e' peli erano grandi e il verme era bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi: serbossi al medico; il quale disse non aver mai veduto una tal cosa, e poi disse, a Felice: - Abbi or cura al tuo Benvenuto, che è guarito, e non gli lasciar far disordini; perché se ben quello l'ha campato, un altro disordine ora te lo amazzerebbe. Tu vedi, la infermità è stata sí grande, che portandogli l'olio santo noi non eramo stati a tempo; ora io cognosco, che con un poco di pazienzia e di tempo e' farà ancora dell'altre belle opere -. Poi si volse a me, e disse: - Benvenuto mio, sia savio e non fare disordini nessuno: e come tu se' guarito voglio che tu mi faccia una Nostra Donna di tua mano, perché la voglio adorar sempre per tuo amore -. Allora io gnene promessi; dipoi lo domandai se fussi bene che io mi trasferissi in sino a Firenze. Allora e' mi disse che io mi assicurassi un po' meglio e che e' si vedessi quel che la natura faceva.
LXXXVI.
Passato che noi otto giorni, il miglioramento era tanto poco, che quasi io m'ero venuto a noia a me medesimo; perché io ero stato piú di cinquanta giorni in quel gran travaglio; e resolutomi mi messi in ordine; e in un paio di ceste 'il mio caro Felice e io ce ne andammo alla volta di Firenze; e perché io non avevo scritto nulla, giunsi a Firenze in casa la mia sorella, dove io fui pianto e riso a un colpo da essa sorella. Per quel dí mi venne a vedere molti mia amici; fra gli altri Pier Landi, ch'era il maggior e il piú caro che io avessi mai al mondo; l'altro giorno venne un certo Nicolò da Monte Aguto, il quale era mio grandissimo amico; e perché gli aveva sentito dire al Duca: - Benvenuto faceva molto meglio a morirsi, perché gli è venuto qui a dare in una cavezza, e non gnene perdonerò mai - venendo Nicolò a me, disperatamente mi disse: - Oimè, Benvenuto mio caro: che se' tu venuto a far qui? non sapevi tu quel che tu hai fatto contro al Duca? che gli ho udito giurare, dicendo che tu sei venuto a dare in una cavezza a ogni modo -. Allora io dissi: - Nicolò, ricordate a Sua Eccellenzia che altretanto già mi volse fare papa Clemente, e a sí torto; che faccia tener conto di me e mi lasci guarire; per che io mostrerrò a Sua Eccellenzia, che io gli sono stato il piú fidel servitore che gli arà mai in tempo di sua vita; e perché qualche mio nimico arà fatto per invidia questo cattivo uffizio, aspetti la mia sanità, che come io posso gli renderò tal conto di me, che io lo farò maravigliare -. Questo cattivo uffizio l'aveva fatto Giorgetto Vassellario aretino, dipintore, forse per remunerazione di tanti benifizii fatti a lui; che avendolo trattenuto in Roma e datogli le spese, e lui messomi assoqquadro la casa; perché gli aveva una sua lebbrolina secca, la quale gli aveva usato le mane a grattar sempre, e dormendo con un buon garzone che io avevo, che si domandava Manno, pensando di grattar sé, gli aveva scorticato una gamba al detto Manno con certe sue sporche manine, le quale non si tagliava mai l'ugna. Il ditto Manno prese da me licenza, e lui lo voleva ammazzare a ogni modo: io gli messi d'accordo; di poi acconciai il detto Giorgio col cardinal dei Medici, e sempre lo aiutai. Questo è il merito che lui aveva detto al duca Lessandro ch'io avevo detto male di Sua Eccellenzia, e che io m'ero vantato di volere essere il primo a saltare in su le mura di Firenze, d'accordo con li nimici di Sua Eccellenzia fuorasciti. Queste parole, sicondo che io intesi poi, gliene faceva dire quel galantuomo di Ottaviano de' Medici, volendosi vendicare della stizza che aveva aùto il Duca seco per conto delle monete e della mia partita di Firenze; ma io, ch'ero innocente di quel falso appostomi, non ebbi una paura al mondo: e il valente maestro Francesco da Montevarchi grandissima virtú mi medicava, e ve lo aveva condotto il mio carissimo amico Luca Martini, il quale la maggior parte del giorno si stava meco.
LXXXVII.
Intanto io avevo rimandato a Roma il fidelissimo Filice alla cura delle faccende di là. Sollevato alquanto la testa dal primaccio, che fu in termine di quindici giorni, se bene io non potevo andare con i mia piedi, mi feci portare innel palazzo de' Medici, su dove è il terrazzino: cosí mi feci mettere a sedere per aspettare il Duca che passassi. E facendomi motto molti mia amici di Corte, molto si maravigliavano che io avessi preso quel disagio a farmi portare in quel modo, essendo dalla infirmità sí mal condotto; dicendomi che io dovevo pure aspettar d'esser guarito, e dipoi visitare il Duca. Essendo assai insieme ragunati, e tutti mi guardavano per miracolo; non tanto l'avere inteso che io ero morto, ma piú pareva loro miracolo, che come morto parevo loro. Allora io dissi, presente tutti, come gli era stato detto da qualche scellerato ribaldo al mio signor Duca, che io mi ero vantato di voler essere il primo a salire in su le mura di Sua Eccellenzia, e che appresso io avevo detto male di quella; per la qual cosa a me non bastava la vistadi vivere né di morire, se prima io non mi purgavo da questa infamia, e conoscere chi fussi quel temerario ribaldo che avessi fatto quel falso rapporto. A queste parole s'era ragunato una gran quantità di que' gentiluomini; e mostrando avere di me grandissima compassione, e chi diceva una cosa e chi un'altra; io dissi che mai piú mi volevo partir di quivi, insin che io non sapevo chi era quello che mi aveva accusato. A queste parole s'accostò fra tutti que' gentiluomini maestro Agostino, sarto del Duca, e disse: - Se tu non vuoi sapere altro che cotesto, ora ora lo saprai -. A punto passava Giorgio sopraditto, dipintore: allora maestro Agustino disse: - Ecco chi t'ha accusato: ora tu sai tu se gli è vero o no -. Io arditamente, cosí come io non mi potevo muovere, dimandai Giorgio se tal cosa era vera. Il ditto Giorgio disse che no, che non era vero, e che non aveva mai detto tal cosa. Maestro Austino disse: - O impiccato, non sai tu che io lo so certissimo? - Subito Giorgio si partí, e disse che no, che lui non era stato. Stette poco e passò 'l Duca; al quali io subito mi feci sostenere innanzi a Sua Eccellenzia, e lui si fermò. Allora io dissi che io ero venuto quivi a quel modo,solo per iustificarmi. Il Duca mi guardava e si maravigliava che io fussi vivo; di poi mi disse che io attendessi a essere uomo dabbene e guarire. Tornatomi a casa, Niccolò da Monte Aguto mi venne a trovare, e mi disse che io avevo passato una di quelle furie la maggiore del mondo, quale lui non aveva mai creduto; perché vidde il male mio scritto d'uno immutabile inchiostro; e che io attendessi a guarire presto, e poi mi andassi con Dio, perché la veniva d'un luogo e da uomo, il quale mi arebbe fatto male. E poi ditto - guarti - e' mi disse: - Che dispiaceri ha' tu fatti a quel ribaldaccio di Ottaviano de' Medici? - Io gli dissi che mai io avevo fatto dispiacere allui, ma che lui ne aveva ben fatti a me: e contatogli tutto il caso della zecca, e' mi disse: - Vatti con Dio il piú presto che tu puoi, e sta' di buona voglia, che piú presto che tu non credi vedrai le tua vendette -. Io attesi a guarire: detti consiglio a Pietropagolo, ne' casi delle stampe delle monete; dipoi m'andai con Dio, ritornandomi a Roma, sanza far motto al Duca o altro.
LXXXVIII.
Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia amici, cominciai la medaglia del Duca; e avevo di già fatto in pochi giorni la testa in acciaio, la piú bella opera che mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva a vedere ogni giorno una volta almanco un certo iscioccone chiamato messer Francesco Soderini; e veduto quel che io facevo, piú volte mi disse: - Oimè, crudelaccio, tu ci vuoi pure immortalare questo arrabbiato tiranno. E perché tu non facesti mai opera sí bella, a questo si cognosce che tu sei sviscerato nimico nostro e tanto amico loro, che il Papa e lui t'hanno pur voluto fare impiccar dua volte a torto: quel fu il padre e il figliuolo; guardati ora dallo Spirito Santo -. Per certo si teneva che il duca Lessandro fussi figliuolo di papa Clemente. Ancora diceva il ditto messer Francesco e giurava ispressamente, che, se lui poteva, che m'arebbe rubato que ferri di quella medaglia. Al quale io dissi che gli aveva fatto bene a dirmelo, e che io gli guarderei di sorte, che lui non gli vedrebbe mai piú. Feci intendere a Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il rovescio della medaglia. Niccolò da Monte Agusto, a chi io l'avevo scritto, mi scrisse cosí, dicendomi che n'aveva domandato quel pazzo malinconico filosafo di Lorenzino; il quale gli aveva detto che giorno e notte non pensava ad altro, e che egli lo farebbe piú presto ch'egli avessi possuto: però mi disse, che io non ponessi speranza al suo rovescio, e che io ne facessi uno da per me, di mia pura invenzione; e che finito che io l'avessi, liberamente lo portassi al Duca, ché buon per me. Avendo fatto io un disegno d'un rovescio, qual mi pareva a proposito, e con piú sollecitudine che io potevo lo tiravo inanzi; ma perché io non ero ancora assicurato di quella ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri innell'andare a caccia col mio scoppietto insieme con quel mio caro Filice, il quale non sapeva far nulla dell'arte mia, ma perché di continuo, dí e notte, noi eramo insieme, ogniuno s'immaginava che lui fossi eccellentissimo ne l'arte. Per la qual cosa, lui ch'era piacevolissimo, mille volte ci ridemmo insieme di questo gran credito che lui si aveva acquistato; e perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva motteggiando meco: - Io mi chiamerei Filice Guadagni - poco, se non che voi mi avete fatto acquistare un tanto gran credito, che io mi posso domandare de' Guadagni - assai -. E io gli dicevo, che e' sono dua modi di guadagnare: il primo è quello che si guadagna a sé, il sicondo si è quello che si guadagna ad altri; di modo che io lodavo in lui molto piú quel sicondo modo che 'l primo, avendomi egli guadagnato la vita. Questi ragionamenti noi gli avemmo, piú e piú volte, ma in fra l'altre un dí de l'Epifania, che noi eramo insieme presso alla Magliana, e di già era quasi finito il giorno: il qual giorno io avevo ammazzato col mio scoppietto de l'anitre e de l'oche assai bene; e quasi resolutomi di non tirar piú il giorno, ce ne venivamo sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale chiamavo per nome Barucco, non me lo vedendo innanzi, mi volsi e vidi che il ditto cane ammaestrato guardava certe oche che s'erano appollaiate in un fossato. Per la qual cosa io subito iscesi; messo in ordine il mio buono scoppietto, molto lontano tirai loro, e ne investi' dua con la sola palla; ché mai non volsi tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo dugento braccia, e il piú delle volte investivo; che con quell'altri modi non si può far cosí; di modo che, avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l'altra ferita, che cosí ferita volava malamente, questa la seguitò il mio cane e portommela; l'altra, veduto che la si tuffava adrento innel fossato, li sopraggiunsi adosso. Fidandomi de' mia stivali ch'erano assai alti, spignendo il piede innanzi mi si sfondò sotto il terreno: se bene io presi l'oca, avevo pieno lo stivale della gamba ritta tutto d'acqua. Alzato il piede all'aria votai l'acqua, e montato a cavallo, ci sollecitavàno di tornarcene a Roma; ma perché egli era gran freddo, io mi sentivo di sorte diacciare la gamba, che io dissi a Filice: - Qui bisogna soccorrer questa gamba, perché io non cognosco piú modo a poterla sopportare -. Il buon Filice sanza dire altro scese del suo cavallo, e preso cardi e legnuzzi e dato ordine di voler far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mani in fra le piume del petto di quell'oche, senti' assai caldo; per la qual cosa io non lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie' quel mio stivale di quelle piume di quell'oca, e subito io sentii tanto conforto, che mi dette la vita.
LXXXIX.
Montai a cavallo, venivamo sollecitamente alla volta di Roma. Arrivati che noi fummo in un certo poco di rialto, era di già fatto notte, guardando in verso Firenze tutti a dua d'accordo movemmo gran voce di maraviglia, dicendo: - Oh Dio del cielo, che gran cosa è quella che si vede sopra Firenze? - Questo si era com'un gran trave di fuoco, il quale scintillava e rendeva grandissimo splendore. Io dissi a Filice: - Certo noi sentiremo domane qualche gran cosa sarà stata a Firenze -. Cosí venuticene a Roma, era un buio grandissimo: e quando noi fummo arrivati vicino a Banchi e vicino alla casa nostra, io avevo un cavalletto sotto, il quale andava di portante furiosissimo, di modo che, essendosi el dí fatto un monte di calcinacci e tegoli rotti nel mezzo della strada, quel mio cavallo non vedendo il monte, né io, con quella furia lo salse, di poi allo scendere traboccò, in modo che fare un tombolo: si messe la testa in fra le gambe; onde io per propria virtú de Dio non mi feci un male al mondo. Cavato fuora e' lumi da' vicini a quel gran romore, io, ch'ero saltato in piè, cosí, sanza montare altrimenti, me ne corsi a casa ridendo, che avevo scampato una fortuna da rompere il collo. Giunto a casa mia, vi trovai certi mia amici, ai quali, in mentre che noi cenavamo insieme, contavo loro le istrettezze della caccia e quella diavoleria del trave di fuoco che noi avevamo veduto: e' quali dicevano: - Che domin vorrà significar cotesto? - Io dissi: - Qualche novità è forza che sia avvenuto a Firenze -. Cosí passatoci la cena piacevolmente, l'altro giorno al tardi venne la nuova a Roma della morte del duca Lessandro. Per la qual cosa molti mia conoscenti mi venivan dicendo: - Tu dicesti bene, che sopra Firenze saria accaduto qualche gran cosa -. In questo veniva a saltacchione in sun una certa mulettaccia quel messer Francesco Soderini: ridendo per la via forte alla 'npazzata, diceva: - Quest'è il rovescio della medaglia di quello iscellerato tiranno, che t'aveva promesso il tuo Lorenzino de' Medici - e di piú aggiugneva: - Tu ci volevi immortalare e' duchi: noi non vogliàn piú duchi - e quivi mi faceva le baie come se io fussi stato un capo di quelle sette che fanno e' duchi. In questo e' sopraggiunse un certo Baccio Bettini, il quale aveva un capaccio come un corbello, e ancora lui mi dava la baia di questi duchi, dicendomi: - Noi gli abbiamo isducati, e non arem piú duchi; e tu ce gli volevi fare inmortali - con di molte di queste parole fastidiose. Le quali venutemi troppo a noia, io dissi loro: - O isciocconi, io sono un povero orefice, il quale servo chi mi paga, e voi mi fate le baie come se io fussi un capo di parte: ma io non voglio per questo rimproverare a voi le insaziabilità, pazzie e dappocaggine de' vostri passati; ma io dico bene a coteste tante risa isciocche che voi fate, che innanzi che e' passi dua o tre giorni il piú lungo, voi arete un altro duca, forse molto peggiore di questo passato -. L'altro giorno appresso venne a bottega mia quello de' Bettini, e mi disse: - E' non accadrebbe lo ispendere dinari in corrieri, perché tu sai le cose inanzi che le si faccino: che spirito è quello che te le dice? - E mi disse come Cosimo de' Medici, figliuolo del signor Giovanni, era fatto Duca: ma che egli era fatto con certe condizioni, le quali l'arebbono tenuto, che lui non arebbe potuto isvolazzare a suo modo. Allora toccò a me a ridermi di loro, e dissi: - Cotesti uomini di Firenze hanno messo un giovane sopra un maraviglioso cavallo, poi gli hanno messo gli sproni e datogli la briglia in mano in sua libertà, e messolo in sun un bellissimo campo, dove è fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli hanno detto che lui non passi certi contrassegnati termini: or ditemi a me voi, chi è quello che tener lo possa, quando lui passar li voglia? Le legge non si posson dare a chi è padron di esse -. Cosí mi lasciorno stare e non mi davon noia.
XC.
Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie faccende, non già di molto momento, perché mi attendevo alla restaurazione della sanità, e ancora non mi pareva essere assicurato dalla grande infirmità che io avevo passata. In questo mentre lo Imperadore tornava vittorioso dalla impresa di Tunizi, e il Papa aveva mandato per me e meco si consigliava che sorte di onorato presente io lo consigliavo per donare allo Imperatore. Al quale io dissi, che il piú a proposito mi pareva donare a Sua Maestà una croce d'oro con un Cristo, al quale io avevo quasi fatto uno ornamento, il quale sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo onore a Sua Santità e a me. Avendo già fatto tre figurette d'oro, tonde, di grandezza di un palmo in circa: queste ditte figure furno quelle che io avevo cominciate per il calice di papa Clemente; erano figurate per la Fede, la Speranza e la Carità; onde io aggiunsi di cera tutto il restante del piè di detta croce; e portatolo al Papa con il Cristo di cera e con molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al Papa; e innanzi che io mi partissi da Sua Santità rimanemmo conformi di tutto quello che si aveva a fare, e appresso valutammo la fattura di detta opera. Questo fu una sera a quattro ore di notte: el Papa aveva dato commessione a messer Latino Iuvinale che mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto messer Latino, che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova invenzione al Papa, la qual venissi dallui stietto; che egli disturbò tutto quello che si era ordinato; e la mattina, quando io pensai andare per li dinari, disse con quella sua bestiale prosunzione: - A noi tocca a essere gl'inventori, e a voi gli operatori. Innanzi che io partissi la sera dal Papa, noi pensammo una cosa molto migliore -. Alle qual prime parole, non lo lasciando andar piú innanzi, gli dissi: - Né voi né il Papa non può mai pensare cosa migliore, che quelle dove e' s'interviene Cristo; sí che dite ora quante pappolate cortigianesche voi sapete -. Sanza dir altro si partí da me in còllora, e cercò di dare la ditta opera a un altro orefice; ma il Papa non volse, e subito mandò per me e mi disse, che io avevo detto bene, ma che si volevan servire di uno Uffiziuolo di Madonna, il quale era miniato maravigliosamente, e ch'era costo al cardinal de' Medici a farlo miniare piú di dumila scudi: e questo sarebbe a proposito per fare un presente alla Imperatrice, e che allo Imperadore farebbon poi quello che avevo ordinato io, che veramente era presente degno di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo, perché lo Imperadore s'aspettava in Roma in fra un mese e mezzo. Al ditto libro voleva fare una coperta d'oro massiccio, riccamente lavorata, e con molte gioie addorna. Le gioie valevano in circa sei mila scudi: di modo che, datomi le gioie e l'oro, messi mano alla ditta opera, e sollecitandola in brevi giorni io la feci comparire di tanta bellezza, che il Papa si maravigliava e mi faceva grandissimi favori, con patti che quella bestia de l'Iuvinale non mi venissi intorno. Avendo la ditta opera vicina alla fine, comparse lo Imperatore, a il quale s'era fatti molti mirabili archi trionfali, e giunto in Roma con maravigliosa pompa, qual toccherà a scrivere ad altri, perché non vo' trattare se non di quel che tocca a me, alla sua giunta subito egli donò al Papa un diamante, il quale lui aveva compero dodicimila scudi. Questo diamante il Papa lo mandò per me e me lo dette, che io gli facessi un anello alla misura del dito di Sua Santità; ma che voleva che io portassi prima el libro al termine che gli era. Portato che io ebbi el libro al Papa, grandemente gli sodisfece: di poi si consigliava meco che scusa e' si poteva trovare con lo Imperadore, che fussi valida, per essere quella ditta opera imprefetta. Allora io dissi che la valida iscusa si era, che io arei detto della mia indisposizione, la quale Sua Maestà arebbe facilissimamente creduta, vedendomi cosí macilente e scuro come io ero. A questo il Papa disse che molto gli piaceva; ma che io arrogessi da parte di Sua Santità, faccendogli presente del libro, di fargli presente di me istesso: e mi disse tutto il modo che io avevo attenere, delle parole che io avevo a dire, le qual parole io le dissi al Papa, domandandolo se gli piaceva che io dicessi cosí. Il quale mi disse: - Troppo bene dicesti, se a te bastassi la vista di parlare in questo modo allo Imperadore, che tu parli a me -. Allora io dissi, che con molta maggior sicurtà mi bastava la vista di parlate con lo Imperadore; avvenga che lo Imperadore andava vestito come mi andavo io, e che a me saria parso parlare a uno uomo che fussi fatto come me; qual cosa non m'interveniva cosí parlando con Sua Santità, innella quale io vi vedevo molto maggior deità, sí per gli ornamenti eclesiastici, quali mi mostravano una certa diadema, insieme con la bella vecchiaia di Sua Santità: tutte queste cose mi facevano piú temere, che non quelle dello Imperadore. A queste parole il Papa disse: - Va, Benvenuto mio, che tu sei un valente uomo: facci onore, ché buon per te.
XCI.
Ordinò il Papa dua cavalli turchi, i quali erano istati di papa Clemente, ed erono i piú belli che mai venissi in Cristianità. Questi dua cavalli il Papa commesse a messer Durante suo cameriere che gli menassi giú ai corridoi del palazzo, e ivi li donassi allo Imperadore, dicendo certe parole che lui gl'impose. Andammo giú d'accordo; e giunti alla presenza dello Imperadore, entrò que' dua cavalli con tanta maestà e con tanta virtú per quelle camere, che lo Imperadore e ogniuno si maravigliava. In questo si fece innanzi il ditto messer Durante con tanto isgraziato modo e con certe sue parole bresciane, annodandosigli la lingua in bocca, che mai si vidde e sentí peggio: mosse lo Imperadore alquanto a risa. In questo io di già avevo iscoperto la ditta opera mia; e avvedutomi che con gratissimo modo lo Imperadore aveva volto gli occhi inverso di me, subito fattomi innanzi, dissi: - Sacra Maestà, il santissimo nostro papa Paulo manda questo libro di Madonna a presentare a Vostra Maestà, il quale si è scritto a mano e miniato per mano de il maggior uomo che mai facessi tal professione; e questa ricca coperta d'oro e di gioie è cosi imprefetta per causa della mia indisposizione: per la qualcosa Sua Santità insieme con il ditto libro presenta me ancora, e che io venga apresso a Vostra Maestà a finirgli il suo libro; e di piú tutto quello che lei avessi in animo di fare, per tanto quanto io vivessi, lo servirei -. A questo lo Imperadore disse: - Il libro m'è grato e voi ancora; ma voglio che voi me lo finiate in Roma; e come gli è finito e voi guarito, portatemelo e venitemi a trovare -. Di poi innel ragionare meco, mi chiamò per nome, per la qual cosa io mi maravigliai perché non c'era intervenuto parole dove accadessi il mio nome; e mi disse aver veduto quel bottone del piviale di papa Clemente, dove io avevo fatto tante mirabil figure. Cosí distendemmo ragionamenti di una mezz'ora intera, parlando di molte diverse cose tutte virtuose e piacevole: e perché a me pareva esserne uscito con molto maggiore onore di quello che io m'ero promesso, fatto un poco di cadenza a il ragionamento, feci reverenzia e partimmi. Lo Imperadore fu sentito che disse: - Dònisi a Benvenuto cinquecento scudi d'oro subito - di modo che quello che li portò su, dimandò qual era l'uomo del Papa che aveva parlato allo Imperatore. Si fece innanzi messer Durante, il quale mi rubò li mia cinquecento scudi. Io me ne dolsi col Papa; il quale disse che io non dubitassi; che sapeva ogni cosa, quant'io m'ero portato bene a parlare allo Imperadore, e che di quei danari io ne arei la parte mia a ogni modo.
XCII.
Tornato alla bottega mia, messi mano con gran sollecitudine a finire l'anello del diamante; el quale mi fu mandato quattro, i primi gioiellieri di Roma; perché era stato detto al Papa, che quel diamante era legato per mano del primo gioiellier del mondo in Vinezia, il quale si chiamava maestro Miliano Targhetta, e per esser quel diamante alquanto sottile, era impresa troppo difficile a farla sanza gran consiglio. Io ebbi caro e' quattro uomini gioiellieri, infra i quali si era un milanese domandato Gaio. Questo era la piú prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco e gli pareva saper piú: gli altri erano modestissimi e valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti cominciò a parlare e disse: - Salvisi la tinta di Miliano e a quella, Benvenuto, tu farai di berretta; perché sí come 'l tignere un diamante è la piú bella e la piú difficil cosa che sia ne l'arte del gioiellare, Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e questo si è il piú difficil diamante -. Allora io dissi, che tanto maggior gloria mi era il combattere con un cosí valoroso uomo d'una tanta professione; dipoi mi volsi agli altri gioiellieri e dissi: - Ecco che io salvo la tinta di Miliano; e mi proverrò se faccèndone io migliorassi quella; quando che no, con quella medesima lo ritigneremo -. Il bestial Gaio disse che, se io la facessi a quel modo, volentieri le farebbe di berretta. Al quale io dissi: - Adunque faccendola meglio, lei merita due volte di berretta: - Sí - disse; e io cosí cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con grandissima diligenzia a fare le tinte, le quali al suo luogo insegnerò come le si fanno: certissimo che il detto diamante era il piú difficile che mai né prima né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era virtuosamente fatta; però la non mi sbigottí ancora. Io, auzzato i mia ferruzzi dello ingegno, feci tanto che io non tanto raggiugnerla, ma la passai assai bene. Dipoi, conosciuto che io avevo vinto lui, andai cercando di vincer me, e con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che io avevo fatto, di gran lunga. Dipoi mandai a chiamare i gioiellieri, e tinto con la tinta di Miliano il diamante, da poi ben netto, lo ritinsi con la mia. Mòstrolo a' gioiellieri, un primo valent'uomo di loro, il quale si domandava Raffael del Moro, preso il diamante in mano, disse a Gaio: - Benvenuto ha passato la tinta di Miliano -. Gaio, che non lo voleva credere, preso il diamante in mano, e' disse: - Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati, che con la tinta di Miliano -. Allora io dissi: - Da poi che io ho vinto Miliano, vediamo se io potessi vincer me medesimo - e pregatogli che mi aspettassino un poco, andai in sun un mio palchetto, e fuor della presenza loro ritinsi il diamante, e portatolo a' gioiellieri, Gaio subito disse: - Questa è la piú mirabil cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita, perché questo diamante val meglio di diciotto mila scudi, dove che appena noi lo stimavamo dodici -. Gli altri gioiellieri voltisi a Gaio, dissono: - Benvenuto è la gloria dell'arte nostra, e meritamente e alle sue tinte e allui doviamo fare di berretta -. Gaio allora disse: - Io lo voglio andare a dire al Papa, e voglio che gli abbia mille scudi d'oro di legatura di questo diamante -. E corsosene al Papa, gli disse il tutto; per la qual cosa il Papa mandò tre volte quel dí a veder se l'anello era finito. Alle ventitré ore poi io portai su l'anello: e perché e' non mi era tenuto porta, alzato cosí discretamente la portiera, viddi il Papa insieme col marchese del Guasto, il quale lo doveva istrignere di quelle cose che lui non voleva fare, e senti' che disse al Marchese: - Io vi dico di no, perché a me si appartiene esser neutro e non altro -. Ritiratomi presto indietro, il Papa medesimo mi chiamò: onde io presto entrai, e pòrtogli quel bel diamante in mano, il Papa mi tirò cosí da canto, onde il Marchese si scostò. Il Papa in mentre che guardava il diamante, mi disse: - Benvenuto, appicca meco ragionamento che paia d'importanza, e non restar mai in sin che il Marchese istà qui in questa camera -. E mosso a passeggiare, la cosa che faceva per me, mi piacque, e cominciai a ragionar col Papa del modo che io avevo fatto a tignere il diamante. Il Marchese istava ritto da canto, appoggiato a un panno d'arazzo, e or si scontorceva in sun un piè e ora in sun un altro. La tema di questo ragionamento era tanto d'importanza, volendo dirla bene, che si sarebbe ragionato tre ore intere. Il Papa ne pigliava tanto gran piacere, che trapassava il dispiacere che gli aveva del Marchese, che stessi quivi. Io che avevo mescolato inne' ragionamenti quella parte di filosofia che s'apparteneva in quella professione, di modo che avendo ragionato cosí vicino a un'ora, venuto a noia al Marchese, mezzo in còllora si partí: allora il Papa mi fece le piú domestiche carezze, che immaginar si possa al mondo, e disse: - Attendi, Benvenuto mio, che io ti darò altro premio alle tue virtú, che mille scudi che m'ha ditto Gaio che merita la tua fatica -. Cosí partitomi, il Papa mi lodava alla presenza di quei suoi domestici, infra i quali era quel Latin Iuvenale, che dianzi io avevo parlato. Il quale, per essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi dispiacere; e vedendo che il Papa parlava di me con tanta affezione e virtú, disse: - E' non è dubbio nessuno che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegno; ma se bene ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene piú a quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene considerare in che modo e' si dee parlare di un Papa. Egli ha avuto a dire, che papa Clemente era il piú bel principe che fussi mai, e altrettanto virtuoso, ma sí bene con mala fortuna; e dice che Vostra Santità è tutta al contrario, e che quel regno vi piagne in testa, e che voi parete un covon di paglia vestito, e che in voi non è altro che buona fortuna -. Queste parole furno di tanta forza, dette da colui che benissimo le sapeva dire, che il Papa le credette: io non tanto non l'aver dette, ma in considerazion mia non venne mai tal cosa. Se il Papa avessi possuto con suo onore, mi arebbe fatto dispiacere grandissimo; ma come persona di grandissimo ingegno, fece sembiante di ridersene: niente di manco e' riservò in sé un tanto grand'odio in verso di me, che era inistimabile; e io me ne cominciai a 'vvedere, perché non entravo innelle camere con quella facilità di prima, anzi con grandissima difficultà. E perché io ero pur molt'anni pratico in queste corte, e' m'immaginai che qualche uno avessi fatto cattivo uffizio contro a di me; e destramente ricercandone, mi fu detto il tutto, ma non mi fu detto chi fussi stato; e io non mi potevo inmaginare chi tal cosa avessi detto, che sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni.
XCIII.
Attesi a finire il mio libretto; e finito che io l'ebbi, lo portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a portarlo come lui mi aveva promesso. Il Papa mi rispose, che farebbe quanto gli venissi bene di fare e che io avevo fatto quel che s'apparteneva a me. Cosí dette commessione che io fossi ben pagato. Delle quale opere in poco piú di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta scudi e non piú; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, la qual fattura ne meritava piú di mille, per essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con Dio di Roma. In questo il Papa mandò il detto libretto allo Imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, il quale presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l'ebbe gratissimo, e subito domandò di me. Il giovanetto signore Sforza, ammaestrato, disse che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto.
Intanto messomi io in ordine per andare alla volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti, perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio; questo giovane era di età molto tenera ed era il piú mirabil servitore che fossi mai al mondo; e quando io lo presi, e' s'era partito da un suo maestro, che si domandava Francesco, che era spagnolo e orefice. Io, che non arei voluto pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto spaguolo, dissi a Ascanio: - Non ti voglio, per non fare dispiacere al tuo maestro -. E' fece tanto che il maestro suo mi scrisse una polizza, che liberamente io lo pigliassi. Cosí era stato meco di molti mesi; e per essersi partito magro e spunto, noi lo domandavamo il Vecchino; e io pensavo che fossi un vecchino, sí perché lui serviva tanto bene; e perché gli era tanto saputo, non pareva ragione che innell'età di tredici anni, che lui diceva di avere, vi fussi tanto ingegno. Or per tornare, costui in quei pochi mesi messe persona, e ristoratosi dallo istento divenne il piú bel giovane di Roma, e sí per essere quel buon servitor che io ho detto, e perché gl'imparava l'arte maravigliosamente, io gli posi uno amore grandissimo come figliuolo, e lo tenevo vestito come se figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane restaurato, e' gli pareva avere aùto una gran ventura a capitarmi alle mane. Andava ispesso a ringraziare il suo maestro, che era stato causa del suo gran bene; e perché questo suo maestro aveva una bella giovane per moglie, lei diceva: - Surgetto, che hai tu fatto che tu sei diventato cosí bello? - e cosí lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio rispose a lei: - Madonna Francesca, è stato lo mio maestro che mi ha fatto cosí bello e molto piú buono -. Costei velenosetta l'ebbe molto per male che Ascanio dicessi cosí: e perché lei aveva nome di non pudica donna, seppe fare a questo giovanetto qualche carezza forse piú là che l'uso de l'onestà; per la qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava piú che 'l solito suo a vedere la sua maestra. Accadde, che avendo un giorno dato malamente delle busse a un fattorino di bottega, il quale, giunto che io fui, che venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi che Ascanio gli aveva dato sanza ragion nessuna. Alle qual parole io dissi a Ascanio: - O con ragione o senza ragione, non ti venga mai piú dato a nessun di casa mia, perché tu sentirai in che modo io so dare io -. Egli mi rispose: onde io subito mi gli gittai addosso, e gli detti di pugna e calci le piú aspre busse che lui sentissi mai. Piú tosto che lui mi possette uscir delle mane, sanza cappa e sanza berretta fuggí fuora, e per dua giorni io non seppi mai dove lui si fussi, né manco ne cercavo, se none in capo di dua giorni mi venne a parlare un gentiluomo spagnuolo, il quale si domandava don Diego. Questo era il piú liberale uomo che io conoscessi mai al mondo; io gli avevo fatte e facevo alcune opere, di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che Ascanio era tornato col suo vecchio maestro, e che, se e' mi pareva, che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo donata. A queste parole io dissi che Francesco si era portato male, e che gli aveva fatto da persona malcreata; perché se lui m'avessi detto subito che Ascanio fu andato dallui, sí come lui era in casa sua, io molto volentieri gli arei dato licenzia; ma per averlo tenuto dua giorni, poi né me lo fare intendere,io non volevo che gli stessi seco; e che facessi che io non io vedessi in modo alcuno in casa sua. Tanto riferí don Diego: per la qual cosa il detto Francesco se ne fece beffe. L'altra mattina seguente io vidi Ascanio, che lavorava certe pappolate di filo accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise. Mandommi a dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva, che io rimandassi a Ascanio e' panni che io gli avevo donati; quando che no, non se ne curava, e che a Ascanio non mancheria panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e dissi: - Signor don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il piú liberale né il piú dabbene di voi; ma cotesto Francesco è tutto il contrario di quel che voi siete, perché gli è un disonorato marrano. Ditegli cosí da mia parte, che se innanzi che suoni vespro lui medesimo non m'ha rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io l'ammazzerò a ogni modo; e dite a Ascanio, che se lui non si leva di quivi in quell'ora consacrata al suo maestro, che io farò a lui poco manco -. A queste parole quel signor don Diego non mi rispose niente, anzi andò e messe in opera cotanto spavento al ditto Francesco, che lui non sapeva che farsi. Intanto Ascanio era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a Roma da Tagliacozzi, di donde gli era; e sentendo questo scompiglio, ancora lui consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a me. Francesco diceva a Ascanio: - Vavvi da te, e tuo padre verrà teco -. Don Diego diceva: - Francesco, io veggo qualche grande scandolo: tu sai meglio di me chi è Benvenuto; rimènagnene sicuramente, e io verrò teco -. Io che m'ero messo in ordine, passeggiavo per bottega aspettando il tocco di vespro, dispostomi di fare una delle piú rovinose cose che in tempo di mia vita mai fatta avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco e Ascanio, e il padre, che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli guardavo tutti con l'occhio della stizza, Francesco di colore ismorto disse: - Eccovi rimenato Ascanio, il quale io tenevo, non pensando farvi dispiacere -. Ascanio reverentemente disse: - Maestro mio, perdonatemi; io son qui per far tutto quello che voi mi comanderete -. Allora io dissi: - Se' tu venuto per finire il tempo che tu m'hai promesso? - Disse di sí, e per non si partir mai piú da me. Io mi volsi allora e dissi a quel fattorino, a chi lui aveva dato, che gli porgessi quel fardello de' panni: e allui dissi: - Eccoti tutti e' panni che io t'avevo donati, e con essi abbi la tua libertà e va dove tu vuoi -. Don Diego restato maravigliato di questo, ché ogni altra cosa aspettava. In questo, Ascanio insieme col padre mi pregava che io gli dovessi perdonare e ripigliarlo. Domandato chi era quello che parlava per lui, mi disse esser suo padre; al quale di poi molte preghiere dissi: - E per esser voi suo padre, per amor vostro lo ripiglio.
XCIV.
Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia, sí per aver veduto che il Papa non mi aveva in quel concetto di prima, ché per via delle male lingue m'era stato intorbidato la mia gran servitú, e per paura che quelli che potevano non mi facessin peggio; però mi ero disposto di cercare altro paese, per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo. Essendomi risoluto una sera per partirmi la mattina, dissi a quel fidel Felice, che si godessi tutte le cose mia insino al mio ritorno; e se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fossi suo. E perché io avevo un garzone perugino, il quale mi aveva aiutato finir quelle opere del Papa, a questo detti licenzia, avendolo pagato delle sue fatiche. Il quale mi disse, che mi pregava che io lo lasciassi venir meco, e che lui verrebbe a sue spese; che s'egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il Re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco de li mia Italiani, e maggiormente di quelle persone che io cognoscevo che mi arebbon saputo aiutare. Costui seppe tanto pregarmi, che io fui contento di menarlo meco innel modo che lui aveva detto. Ascanio, trovandosi ancora lui alla presenza di questo ragionamento, disse mezzo piangendo: - Dipoi che voi mi ripigliasti, i' dissi di voler star con voi a vita, e cosí ho in animo di fare -. Io dissi al ditto che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero giovanetto si metteva in ordine per venirmi drieto a piede. Veduto fatto una tal resoluzione, presi un cavallo ancora per lui, e messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di molti piú ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma ne venni a Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e da Vinezia me ne andai a Padova: dove io fui levato d'in su l'osteria da quel mio caro amico, che si domandava Albertaccio del Bene. L'altro giorno a presso andai a baciar le mane a messer Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale. Il detto messer Pietro mi fece le piú sterminate carezze che mai si possa fare a uomo del mondo; di poi si volse ad Albertaccio e disse: - Io voglio che Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se lui ne avessi ben cento; sí che risolvetevi, volendo anche voi Benvenuto, a restar qui meco, altrimenti io non ve lo voglio rendere - e cosí mi restai a godere con questo virtuosissimo Signore. Mi aveva messo in ordine una camera, che sarebbe troppo onorevole a un cardinale, e continuamente volse che io mangiassi accanto a Sua Signoria. Dipoi entrò con modestissimi ragionamenti, mostrandomi che arebbe aùto desiderio che io lo ritraessi; e io, che non desideravo altro al mondo, fattomi certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino, lo cominciai; e la prima giornata io lavorai dua ore continue, e bozzai quella virtuosa testa di tanta buona grazia, che Sua Signoria ne restò istupefatta; e come quello che era grandissimo innelle sue lettere e innella poesia in superlativo grado, ma di questa mia professione Sua Signoria non entendeva nulla al mondo: il perché si è che allui parve che io l'avessi finita a quel tempo, che io non l'avevo a pena cominciata: di modo che io non potevo dargli ad intendere che la voleva molto tempo a farsi bene. All'utimo io mi risolsi a farla il meglio che io sapevo col tempo che la meritava: e perché egli portava la barba corta alla veniziana, mi dette di gran fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure la fini' e mi parve fare la piú bella opera che io facessi mai, per quanto si aparteneva a l'arte mia. Per la qual cosa io lo viddi sbigottito, perché e' pensava che avendola io fatta di cera in dua ore io la dovessi fare in dieci d'acciaro. Veduto poi che io non l'avevo potuta fare in dugento ore di cera, e dimandavo licenzia per andarmene alla volta di Francia, il perché lui si sturbava molto, e mi richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua medaglia, almanco; e questo fu un caval Pegaseo in mezzo a una ghirlanda di mirto. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli bonissima grazia; e essendo assai sadisfatto, disse: - Questo cavallo mi par pure maggior cosa l'un dieci, che non è il fare una testolina, dove voi avete penato tanto: io non son capace di questa difficultà -. Pure mi diceva e mi pregava, che io gnene dovessi fare in acciaro, dicendomi: - Di grazia fatemela, perché voi me la farete ben presto, se voi vorrete -. Io gli promessi che quivi io non la volevo fare; ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei senza manco nessuno. In mentre che noi tenevamo questo proposito, io ero andato a mercatare tre cavalli per andarmene alla volta di Francia; e lui faceva tener conto di me segretamente, perché aveva grandissima autorità in Padova; di modo che volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: - Virtuoso uomo, io vi fo un presente delli tre cavalli -. Al quale io risposi: - Tu non sei tu che me gli presenti; e da quello che me gli presenta io non gli voglio, perché io non gli ho potuto dar nulla delle fatiche mie -. Il buono uomo mi disse che, non pigliando quei cavagli, io non caverei altri cavagli di Padova e sarei necessitato a 'ndarmene a piede. A questo io me ne andai al magnifico messer Pietro, il quale faceva vista di non saper nulla, e pur mi carezzava, dicendomi che io soprastessi in Padova. Io che non ne volevo far nulla ed ero disposto a 'ndarmene a ogni modo, mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne andai.
XCV
. Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro cammino non era sicuro, rispetto alle guerre. Passammo le montagne dell'Alba e della Berlina: era agli otto dí di maggio ed era la neve grandissima. Con grandissimo pericolo della vita nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le avemmo, ci fermammo a una terra la quale, se ben mi ricordo, si domanda Valdistà: quivi alloggiammo. La notte vi capitò un corriere fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo corriere io l'avevo sentito ricordare per uomo di credito e valente nella sua professione, e non sapevo che gli era scaduto, per le sue ribalderie. Quando e' mi vedde all'osteria, lui mi chiamò per nome, e mi disse che andava per cose d'inportanza a Lione, e che di grazia io gli prestassi dinari per il viaggio. A questo io dissi, che non avevo danari da potergli prestare, ma che volendo venir meco di compagnia io gli farei le spese insino a Lione. Questo ribaldo piagneva e facevami le belle lustre dicendomi, come - per e' casi d'importanza della nazione essendo mancato danari a un povero corrieri, un par vostro è ubbrigato a 'iutarlo - e di piú mi disse che portava cose di grandissima importanza di messer Filippo Strozzi: e perché gli aveva una guaina d'un bicchiere coperta di cuoio, mi disse innell'orecchio, che in quella guaina era un bicchier d'argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di molte migliaia di ducati, e che e' v'era lettere di grandissima importanza, le quali mandava messer Filippo Strozzi. A questo io dissi a lui, che mi lasciassi rinchiuder le gioie a dosso a lui medesimo, le quali porterebbon manco pericolo che a portarle in quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale poteva valere dieci scudi incirca, e io lo servirei di venticinque. A queste parole il corrier disse, che se ne verrebbe meco, non potento far altro, perché lasciando quel bicchiere non gli sarebbe onore. Cosí la mozzammo; e la mattina partendoci arrivammo a un lago, che è in fra Valdistate e Vessa; questo lago è lungo quindici miglia, dove e s'arriva a Vessa. Veduto le barche di questo lago, io ebbi paura; perché le dette barche son d'abete, non molto grande e non molto grosse, e non son confitte, né manco impeciate; e se io non vedevo entrare in un'altra simile quattro gentiluomini tedeschi con i loro cavagli, io non entravo mai in questa; anzi mi sarei piú presto tornato addietro; ma io mi pensai, alle bestialità che io vedevo fare a coloro, che quelle acque tedesche non affogassino, come fanno le nostre della Italia. Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: - Benvenuto, questa è una pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli -. A e' quali io dicevo: - Non considerate voi, poltroni, che quei quattro gentiluomini sono entrati innanzi a noi, e vanno via ridendo? Se questo fussi vino, come l'è acqua, io direi che lor vanno lieti per affogarvi drento; ma perché l'è acqua, io so ben che e' non hanno piacere d'affogarvi, sí ben come noi -. Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre in circa; da una banda era un monte altissimo e cavernoso, dall'altra era piano e erboso. Quando noi fummo drento in circa quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna, di sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli aiutassimo vogare; cosí facemmo un pezzo. Io accennavo, e dicevo che ci gettassino a quella proda di là; lor dicevano non esser possibile, perché non v'è acqua che sostenessi la barca, e che e' v'è certe secche, per le quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure ci sollecitavano che noi aiutassimo loro. E' barcheriuoli si chiamavano l'un l'altro, chiedendosi aiuto. Vedutogli io sbigottiti, avendo un caval savio gli acconciai la briglia al collo e presi una parte della cavezza con la man mancina. Il cavallo che era, sí come sono, con qualche intelligenza, pareva che si fussi avveduto quel che io volevo fare, che avendogli volto il viso in verso quell'erba fresca, volevo che, notando, ancora me istrascicassi seco. In questo venne una onda sí grande da quel lago, che la soprafece la barca. Ascanio gridando: - Misericordia, padre mio, aiutatemi - mi si volse gittare addosso; il perché io messi mano al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino quel che io avevo insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita sí bene, com'io speravo camparla ancora io per quella via; e se piú e' mi si gittassi addosso, io l'ammazzerei. Cosí andammo innanzi parecchi miglia con questo mortal pericolo.
XCVI.
Quando noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po' di piano da poterci riposare, e in su questo piano viddi ismontato quei quattro gentiluomini tedeschi. Quando noi volemmo ismontare, il barcherolo non voleva per niente. Allora io dissi a' mia giovani: - Ora è tempo a far qualche pruova di noi: sí che mettete mano alle spade, e facciàno che per forza e' ci mettino in terra -. Cosí facemmo con gran difficultà, perché lor fecion grandissima resistenza. Pure messi che noi fummo in terra, bisognava salire due miglia su per quel monte, il quale era piú difficile che salire su per una scala a piuoli. Io ero tutto armato di maglia con istivali grossi e con uno scoppietto in mano, e pioveva quanto Idio ne sapeva mandare. Quei diavoli di quei gentiluomini tedeschi con quei lor cavalletti a mano facevano miracoli, il perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto, e crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna. Quando noi fummo in su un pezzo, il cavallo d'Ascanio, che era un cavall'unghero mirabilissimo, questo era innanzi un pochetto al Busbacca corriere, e 'l ditto Ascanio gli aveva dato la sua zagaglia, che gliene aiutassi portare; avvenne che per e' cattivi passi quel cavallo isdrucciolò e andò tanto barcollone, non si potendo aiutare, che percosse in su la punta della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere, che non l'aveva saputa iscansare; e passata al cavallo la gola a banda a banda, quell'altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo, che era un caval morello, isdrucciolò inverso il lago e s'attenne a un respo, il qual era sottilissimo. In su questo cavallo era un paio di bisacce, nelle quali era drento tutti e' mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al giovane che salvassi la sua vita, e lasciassi andare il cavallo in malora: la caduta si era piú d'un miglio e andava a sottosquadro e cadeva nel lago. Sotto questo luogo a punto era fermato quelli nostri barcheruoli; a tale che se il cavallo cadeva, dava loro a punto addosso. Io era innanzi a tutti e stavamo a vedere tombolare il cavallo, il quale pareva che andassi al sicuro in perdizione. In questo io dicevo a' mia giovani: - Non vi curate di nulla, salvianci noi e ringraziamo Idio d'ogni cosa; a me mi sa solamente male di questo povero uomo del Busbacca, che ha legato il suo bicchiere e le sue gioie, che son di valore di parecchi migliaia di ducati, all'arcione di quel cavallo, pensando quell'essere piú sicuro: e mia son pochi cento di scudi, e non ho paura di nulla al mondo, purché io abbia la grazia de Dio -. Il Busbacca allora disse: - E' non m'incresce de' mia, ma e m'incresce ben de' vostri -. Dissi a lui: - Perché t'incresc'egli de' mia pochi, e non t'incresce de' tua assai? - Il Busbacca disse allora: - Dirovelo in nel nome di Dio: in questi casi e ne' termini che noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che i vostri sono iscudi, e son da dovero; ma quella mia vesta di bicchiere, dove io ho detto esser tante gioie e tante bugie, è tutta piena di caviale -. Sentendo questo io non possetti fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui piagneva. Quel cavallo si aiutò, quando noi l'avevamo fatto ispacciato. Cosí ridendo ripigliammo le forze e mettemmoci a seguitare il monte. Quelli quattro gentiluomini tedeschi, ch'erono giunti prima di noi in cima di quella ripida montagna, ci mandorno alcune persone, le quali ci aiutorno; tanto che noi giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento: dove, essendo noi molli, istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente ricevuti; e ivi ci rasciugammo, ci riposammo, sodisfacemmo alla fame e con certe erbacce fu medicato il cavallo ferito; e ci fu insegnato quella sorte d'erbe, le quali n'era pieno la siepe, e ci fu detto, che tenendogli continuamente la piaga piena di quell'erbe, il cavallo non tanto guarirebbe, ma ci servirebbe come se non avessi un male al mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini, e noi molto ben ristorati, di quivi ci partimmo e passammo innanzi, ringraziando Idio, che ci aveva salvati da quel gran pericolo.

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 22.37