Questa mia Vita travagliata io scrivo |
per ringraziar lo Dio della natura |
che mi diè l'alma e poi ne ha 'uto cura, |
alte diverse 'mprese ho fatte e vivo. |
Quel mio crudel Destin, d'offes'ha privo |
vita, or, gloria e virtú piú che misura, |
grazia, valor,beltà, cotal figura |
che molti io passo, e chi mi passa arrivo. |
Sol mi duol grandemente or ch'io cognosco |
quel caro tempo in vanità perduto: |
nostri fragil pensier senporta 'l vento. |
Poi che 'lpentir non val, starò contento |
salendo qual'io scesi il Benvenuto |
nel fior di questo degno terren tosco. |
Io avevo cominciato a scrivere di mia mano questa mia Vita, come si può vedere in
certe carte rappiccate, ma considerando che io perdevo troppo tempo e parendomi una
smisurata vanità, mi capitò inanzi un figliuolo di Michele di Goro dalla Pieve a
Groppine, fanciullino di età di anni XIII incirca ed era ammalatuccio. Io lo
cominciaiafare scrivere e in mentre che io lavoravo, gli dittavo la Vita mia; e perché ne
pigliavo qualche piacere, lavoravo molto piú assiduo e facevo assai piú opera. Cosí
lasciai al ditto tal carica, quale spero di continuare tanto innanzi quanto mi ricorderò. |
LIBRO PRIMO |
I. |
Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia
virtuosa, o sí veramente che le virtú somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene,
di lor propia mano descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal bella
impresa prima che passato l'età de' quarant'anni. Avvedutomi d'una tal cosa, ora che io
cammino sopra la mia età de' cinquantotto anni finiti, e sendo in Fiorenze patria mia,
sovvenendomi di molte perversità che avvengono a chi vive; essendo con manco di esse
perversità, che io sia mai stato insino a questa età, anzi mi pare di essere con maggior
mio contento d'animo e di sanità di corpo che io sia mai stato per lo addietro; e
ricordandomi di alcuni piacevoli beni e di alcuni innistimabili mali, li quali, volgendomi
in drieto, mi spaventano di maraviglia che io sia arrivato insino a questa età de' 58
anni, con la quali tanto felicemente io, mediante la grazia di Dio cammino innanzi. |
II. |
Con tutto che quegli uomini che si sono affaticati con qualche poco di
sentore di virtú hanno dato cognizione di loro al mondo, quella sola doverria bastare,
vedutosi essere uomo e conosciuto; ma perché egli è di necessità vivere innel modo che
uno truova come gli altri vivono, però in questo modo ci si interviene un poco di
boriosità di mondo, la quali ha piú diversi capi. Il primo si è far sapere agli altri,
che l'uomo ha la linea sua da persone virtuose e antichissime. Io son chiamato Benvenuto
Cellini, figliuolo di maestro Giovanni d'Andrea di Cristofano Cellini; mia madre madonna
Elisabetta di Stefano Granacci, e l'uno e l'altra cittadini fiorentini. Troviamo scritto
innelle croniche fatte dai nostri Fiorentini molto antichi e uomini di fede, secondo che
scrive Giovanni Villani, sí come si vede la città di Fiorenze fatta a imitazione della
bella città di Roma, e si vede alcuni vestigi del Collosseo e delle Terme. Queste cose
sono presso a Santa Croce; il Campitoglio era dove è oggi il Mercato Vecchio; la Rotonda
è tutta in piè, che fu fatta per il tempio di Marte; oggi è per il nostro San Giovanni.
Che questo fussi cosí, benissimo si vede e non si può negare; ma sono ditte fabbriche
molto minore di quelle di Roma. Quello che le fece fare dicono essere stato Iulio Cesare
con alcuni gentili uomini romani, che, vinto e preso Fiesole, in questo luogo edificorno
una città, e ciascuni di loro prese affare uno di questi notabili edifizii. Aveva Iulio
Cesare un suo primo e valoroso capitano, il quali si domandava Fiorino da Cellino, che è
un castello il quali è presso a Monte Fiasconi a dua miglia. Avendo questo Fiorino fatti
i sua alloggiamenti sotto Fiesole, dove è ora Fiorenze, per esser vicini al fiume d'Arno
per comodità dello esercito, tutti quelli soldati e altri, che avevano affare del ditto
capitano, dicevano: - Andiamo a Fiorenze - sí perché il ditto capitano aveva nome
Fiorino, e perché innel luogo che lui aveva li ditti sua alloggiamenti, per natura del
luogo era abbundantissima quantità di fiori. Cosí innel dar principio alla città,
parendo a Iulio Cesare, questo, bellissimo nome e posto accaso, e perché i fiori
apportano buono aurio, questo nome di Fiorenze pose nome alla ditta città; e ancora per
fare un tal favore al suo valoroso capitano, e tanto meglio gli voleva, per averlo tratto
di luogo molto umile, e per essere un tal virtuoso fatto dallui. Quel nome che dicono
questi dotti immaginatori e investigatori di tal dipendenzie di nomi, dicono per essere
fluente a l'Arno; questo non pare che possi stare, perché Roma è fluente al Tevero,
Ferrara è fluente al Po, Lione è fluente alla Sonna, Parigi è fluente alla Senna; però
hanno nomi diversi e venuti per altra via. Noi troviamo cosí, e cosí crediamo dipendere
da uomo virtuoso. Di poi troviamo essere de' nostri Cellini in Ravenna, piú antica città
di Italia, e quivi è gran gentili uomini; ancora n'è in Pisa, e ne ho trovati in molti
luoghi di Cristianità; e in questo Stato ancora n'è restato qualche casata, pur dediti
all'arme; ché non sono molti anni da oggi che un giovane chiamato Luca Cellini, giovane
senza barba, combatté con uno soldato pratico e valentissimo uomo, che altre volte aveva
combattuto in isteccato, chiamato Francesco da Vicorati. Questo Luca per propria virtú
con l'arme in mano lo vinse e amazzò con tanto valore e virtú, che fe' maravigliare il
mondo, che aspettava tutto il contrario: in modo che io mi glorio d'avere lo ascendente
mio da uomini virtuosi. Ora quanto io m'abbia acquistato qualche onore alla casa mia, li
quali a questo nostro vivere di oggi per le cause che si sanno, e per l'arte mia, quali
non è materia da gran cose al suo luogo io le dirò; gloriandomi molto piú essendo nato
umile e aver dato qualche onorato prencipio alla casa mia, che se io fussi nato di gran
lignaggio, e colle mendacie qualità io l'avessi macchiata o stinta. Per tanto darò
prencipio come a Dio piacque che io nascessi. |
III. |
Si stavano innella Val d'Ambra li mia antichi, e quivi avevano molta
quantità di possessioni; e come signorotti, là ritiratisi per le parte vivevano: erano
tutti uomini dediti all'arme e bravissimi. In quel tempo un lor figliuolo, il minore, che
si chiamò Cristofano, fece una gran quistione con certi lor vicini e amici: e perché
l'una e l'altra parte dei capi di casa vi avevano misso le mani, e veduto costoro essere
il fuoco acceso di tanta importanza, che e' portava pericolo che le due famiglie si
disfacessino affatto; considerato questo quelli piú vecchi, d'accordo, li mia levorno via
Cristofano, e cosí l'altra parte levò via l'altro giovane origine della quistione.
Quelli mandorno il loro a Siena; li nostri mandorno Cristofano a Firenze, e quivi li
comperorno una casetta in via Chiara dal monisterio di Sant'Orsola, e al ponte a Rifredi
li comperorno assai buone possessioni. Prese moglie il ditto Cristofano in Fiorenze ed
ebbe figliuoli e figliuole, e acconcie tutte le sue figliuole, il restante si compartirno
li figliuoli, di poi la morte di lor padre. La casa di via Chiara con certe altre poche
cose toccò a uno de' detti figliuoli, che ebbe nome Andrea. Questo ancora lui prese
moglie ed ebbe quattro figliuoli masti. Il primo ebbe nome Girolamo, il sicondo
Bartolomeo, il terzo Giovanni, che poi fu mio padre, il quarto Francesco. Questo Andrea
Cellini intendeva assai del modo della architettura di quei tempi, e, come sua arte, di
essa viveva; Giovanni, che fu mio padre, piú che nissuno degli altri vi dette opera. E
perché, sí come dice Vitruio, in fra l'altre cose, volendo fare bene detta arte, bisogna
avere alquanto di musica e buon disegno, essendo Giovanni fattosi buon disegnatore,
cominciò a dare opera alla musica, e insieme con essa imparò a sonare molto bene di
viola e di flauto; ed essendo persona molto studiosa, poco usciva di casa. Avevano per
vicino a muro uno che si chiamava Stefano Granacci, il quale aveva parecchi figliuole
tutte bellissime. Sí come piacque a Dio, Giovanni vidde una di queste ditte fanciulle che
aveva nome Elisabetta; e tanto li piacque che lui la chiese per moglie: e perché l'uno e
l'altro padre benissimo per la stretta vicinità si conoscevano, fu facile a fare questo
parentado; e a ciascuno di loro gli pareva d'avere molto bene acconcie le cose sue. In
prima quei dua buon vecchioni conchiusono il parentado, di poi cominciorno a ragionare
della dota, ed essendo infra di loro qualche poco di amorevol disputa; perché Andrea
diceva a Stefano: - Giovanni mio figliuolo è 'l piú valente giovane e di Firenze e di
Italia, e se io prima gli avessi voluto dar moglie, arei aúte delle maggior dote che si
dieno a Firenze a' nostri pari - e Stefano diceva: - Tu hai mille ragioni, ma io mi truovo
cinque fanciulle, con tanti altri figliuoli, che, fatto il mio conto, questo è quanto io
mi posso stendere -. Giovanni era stato un pezzo a udire nascosto da loro, e sopraggiunto
all'improvviso disse: - O mio padre, quella fanciulla ho desiderata e amata, e none li
loro dinari; tristo a coloro che si vogliono rifare in su la dota della lor moglie. Sí
bene, come voi vi siate vantato che io sia cosí saccente, o non saprò io dare le spese
alla mia moglie, e sattisfarla alli sua bisogni con qualche somma di dinari manco che 'l
voler vostro? Ora io vi fo intendere che la donna è la mia e la dota voglio che sia la
vostra -. A questo sdegnato alquanto Andrea Cellini, il quale era un po' bizzarretto, fra
pochi giorni Giovanni menò la sua donna, e non chiese mai piú altra dota. Si goderno la
lor giovinezza e il loro santo amore diciotto anni, pure con gran disiderio di aver
figliuoli: di poi in diciotto anni la detta sua donna si sconciò di dua figliuoli masti,
causa della poca intelligenza de' medici; di poi di nuovo ingravidò e partorí una
femmina, che gli posono nome Cosa, per la madre di mio padre. Di poi dua anni di nuovo
ingravidò: e perché quei vizii che hanno le donne gravide, molto vi si pon cura, gli
erano appunto come quegli del parto dinanzi; in modo che erano resoluti che la dovessi
fare una femmina come la prima, e gli avevono d'accordo posto nome Reparata, per rifare la
madre di mia madre. Avvenne che la partorí una notte di tutti e' Santi, finito il dí
d'Ognisanti a quattro ore e mezzo innel mille cinquecento a punto. Quella allevatrice, che
sapeva che loro l'aspettavano femmina, pulito che l'ebbe la creatura, involta in
bellissimi panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre, e disse; - Io vi porto
un bel presente, qual voi non aspettavi -. Mio padre, che era vero filosafo, stava
passeggiando e disse: - Quello che Idio mi dà, sempre m'è caro - e scoperto i panni,
coll'occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio. Aggiunto insieme le vecchie palme, con
esse alzò gli occhi a Dio, e disse: - Signore, io ti ringrazio con tutto 'l cuor mio;
questo m'è molto caro, e sia il Benvenuto -. Tutte quelle persone che erano quivi,
lietamente lo domandavano, come e' si gli aveva a por nome, Giovanni mai rispose loro
altro se nome: - E' sia il Benvenuto -; e risoltisi, tal nome mi diede il santo Battesimo,
e cosí mi vo vivendo con la grazia di Dio. |
|
IV. |
Ancora viveva Andrea Cellini mio avo, che io avevo già l'età di tre
anni incirca, e lui passava li cento anni. Avevano un giorno mutato un certo cannone d'uno
acquaio, e del detto n'era uscito un grande scarpione, il quali loro non l'avevano veduto,
ed era dello acquaio sceso in terra, e itosene sotto una panca: io lo vidi, e, corso
allui, gli missi le mani a dosso. Il detto era sí grande, che avendolo innella picciola
mano, da uno degli lati avanzava fuori la coda, e da l'altro avanzava tutt'a dua le
bocche. Dicono, che con gran festa io corsi al mio avo, dicendo; - Vedi, nonno mio, il mio
bel granchiolino! - Conosciuto il ditto, che gli era uno scarpione, per il grande spavento
e per la gelosia di me, fu per cader morto; e me lo chiedeva con gran carezze: io tanto
piú lo strignevo piagnendo, ché non lo volevo dare a persona. Mio padre, che ancora egli
era in casa, corse a cotai grida, e stupefatto non sapeva trovare rimedio, che quel
velenoso animale non mi uccidessi. In questo gli venne veduto un paro di forbicine: cosí,
lusingandomi, gli tagliò la coda e le bocche. Di poi che lui fu sicuro del gran male, lo
prese per buono aurio. |
Innella età di cinque anni in circa, essendo mio padre in una nostra
celletta, innella quale si era fatto bucato ed era rimasto un buon fuoco di querciuoli,
Giovanni con una viola in braccio sonava e cantava soletto intorno a quel fuoco. Era molto
freddo: guardando innel fuoco, accaso vidde in mezzo a quelle piú ardente fiamme uno
animaletto come una lucertola, il quale si gioiva in quelle piú vigorose fiamme. Subito
avedutosi di quel che gli era, fece chiamare la mia sorella e me, e mostratolo a noi
bambini, a me diede una gran ceffata, per la quali io molto dirottamente mi missi a
piagnere. Lui piacevolmente rachetatomi, mi disse cosí: - Figliolin mio caro, io non ti
do per male che tu abbia fatto, ma solo perché tu ti ricordi che quella lucertola che tu
vedi innel fuoco, si è una salamandra, quali non s'è veduta mai piú per altri, di chi
ci sia notizia vera - e cosí mi baciò e mi dette certi quattrini. |
V. |
Cominciò mio padre a 'nsegnarmi sonare di flauto e cantare di musica;
e con tutto che l'età mia fussi tenerissima, dove i piccoli bambini sogliono pigliar
piacere d'un zufolino e di simili trastulli, io ne avevo dispiacere inistimabile, ma solo
per ubbidire sonavo e cantavo. Mio padre faceva in quei tempi organi con canne di legno
maravigliosi, gravi cemboli, i migliori e piú belli che allora si vedessino, viole,
liuti, arpe bellissime ed eccellentissime. Era ingegneree per fare strumenti, come modi di
gittar ponti,modi di gualchiere, altre macchine, lavorava miracolosamente; d'avorio e' fu
il primo che lavorassi bene. Ma perché lui s'era innamorato di quella che seco mi fu di
padre ed ella madre, forse per causa di quel flautetto, frequentandolo assai piú che il
dovere, fu chiesto dalliPifferi della Signoria di sonare insieme con esso loro. Cosí
seguitando un tempo per suo piacere, lo sobillorno tanto che e' lo feciono de' lor
compagni pifferi. Lorenzo de Medicie Piero suo figliolo, che gli volevano gran bene,
vedevano di poi che lui si dava tutto al piffero e lasciava in drieto il suo bello ingegno
e la sua bella arte: lo feciono levare di quel luogo. Mio padre l'ebbe molto per male, e
gli parve che loro gli facessino un gran dispiacere. Subito si rimise all'arte, e fece uno
specchio, di diamitro di un braccio in circa, di osso e avorio, con figure e fogliami, con
gran pulizia e gran disegno. Lo specchio si era figurato una ruota: in mezzo era lo
specchio; intorno era sette tondi, inne' quali era intagliato e commesso di avorio e osso
nero le sette Virtú; e tutto lo specchio, e cosí le ditte Virtú erano in un bilico; in
modo che voltando la ditta ruota, tutte le virtú si movevano; e avevano un contrapeso ai
piedi, che le teneva diritte. E perché lui aveva qualche cognizione della lingua latina,
intorno a ditto specchio vi fece un verso latino, che diceva: "Per tutti il versi che
volta la ruota di Fortuna, la Virtú resta in piede": |
Rota sum; semper, quoquo me verto |
stat virtus |
Ivi a poco tempo gli fu restituito il suo luogo del piffero. Se bene
alcune di queste cose furno innanzi ch'io nascessi, ricordandomi d'esse, non l'ho volute
lasciare indietro. In quel tempo quelli sonatori si erano tutti onoratissimi artigiani, e
v'era alcuni di loro che facevano l'arte maggiori di seta e lana; qual fu causa che mio
padre non si sdegnò a fare questa tal professione. El maggior desiderio che lui aveva al
mondo, circa i casi mia, si era che io divenissi un gran sonatore; e 'l maggior dispiacere
che io potessi avere al mondo, si era quando lui me ne ragionava, dicendomi, che se io
volevo, mi vedeva tanto atto a tal cosa, che io sarei il primo omo del mondo. |
VI. |
Come ho ditto, mio padre era un gran servitore e amicissimo della casa
de' Medici, e quando Piero ne fu cacciato, si fidò di mio padre in moltissime cose molte
importantissime. Di poi, venuto il magnifico Piero Soderini, essendo mio padre al suo
ufizio del sonare, saputo il Soderini il maraviglioso ingegno di mio padre, se ne
cominciò a servire in cose molte importantissime come ingegnere: e in mentre che 'l
Soderino stette in Firenze volse tanto bene a mio padre, quanto immaginar si possi al
mondo; e in questo tempo io, che era di tenera età, mio padre mi faceva portare in collo,
e mi faceva sonare di flauto, e facevo sovrano, insieme con i musici del palazzo innanzi
alla Signoria, e sonavo al libro, e un tavolaccino mi teneva in collo. Di poi il
Gonfalonieri, che era il detto Soderino, pigliava molto piacere di farmi cicalare, e mi
dava de' confetti e diceva a mio padre: - Maestro Giovanni, insegnali insieme con il
sonare quelle altre tue bellissime arte - al cui mio padre rispondeva: - Io non voglio che
e' faccia altra arte, che 'l sonare e comporre; perché in questa professione io spero
fare il maggiore uomo del mondo, se Idio gli darà vita -. A queste parole rispose alcuno
di quei vecchi Signori, dicendo a maestro Giovanni: - Fa' quello che ti dice il
Gonfaloniere; perché sarebbe egli mai altro che un buono sonatore? - Cosí passò un
tempo, insino che i Medici ritornorno. Subito ritornati i Medici, il cardinale, che fu poi
papa Leone, fece molte carezze a mio padre. Quella arme, che era al palazzo de' Medici,
mentre che loro erano stati fuori, era stato levato da essa le palle, e vi avevano fatto
dipignere una gran croce rossa, quali era l'arme e insegna del Comune: in modo che, subito
tornati, si rastiò la croce rossa, e in detto scudo vi si comisse le sue palle rosse, e
misso il campo d'oro, con molta bellezza acconcie. Mio padre, il quali aveva un poco di
vena poetica naturale stietta, con alquanto di profetica, che questo certo era divino in
lui, sotto alla ditta arme, subito che la fu scoperta, fece questi quattro versi: dicevan
cosí: |
Quest'arme, che sepulta è stato tanto |
sotto la santa croce mansueta, |
mostr'or la faccia gloriosa e lieta, |
aspettando di Pietro il sacro ammanto. |
Questo epigramma fu letto da tutto Firenze. Pochi giorni appresso morí
papa Iulio secondo. Andato il cardinale de' Medici a Roma, contra a ogni credere del mondo
fu fatto papa, che fu papa Leone X, liberale e magnanimo. Mio padre gli mandò li sua
quattro versi di profezia. Il papa mandò a dirgli che andasse là, che buon per lui. Non
volse andare: anzi, in cambio di remunerazioni, gli fu tolto il suo luogo del palazzo da
Iacopo Salviati, subito che lui fu fatto Gonfaloniere. Questo fu causa che io mi missi
all'orafo; e parte imparavo tale arte e parte sonavo, molto contro mia voglia. |
VII. |
Dicendomi queste parole, io lo pregavo che mi lasciassi disegnare tante
ore del giorno, e tutto il resto io mi metterei a sonare, solo per contentarlo. A questo
mi diceva: - Addunque tu non hai piacere di sonare? - Al quale io dicevo che no, perché
mi pareva arte troppa vile a quello che io avevo in animo. Il mio buon padre, disperato di
tal cosa, mi mise a bottega col padre del cavalieri Bandinello, il quale si domandava
Michelagnolo, orefice da Pinzi di Monte, ed era molto valente in tale arte; non aveva lume
di nissuna casata, ma era figliuolo d'un carbonaio: questo non è da biasimare il
Bandinello, il quali ha dato principio alla casa sua, se da buona causa la fussi venuta.
Quali lo sia, non mi occorre dir nulla di lui. Stato che io fui là alquanti giorni, mio
padre mi levò dal ditto Michelognolo, come quello che non poteva vivere sanza vedermi di
continuo. Cosí malcontento mi stetti a sonare insino alla età de' quindici anni. Se io
volessi descrivere le gran cose che mi venne fatto insino a questa età, e in gran
pericoli della propria vita, farei maravigliare chi tal cosa leggessi, ma per non essere
tanto lungo e per avere da dire assai, le lascierò indietro. |
Giunto all'età de' quindici anni, contro al volere di mio padre mi
missi abbottega all'orefice con uno che si chiamò Antonio di Sandro orafo, per soprannome
Marcone orafo. Questo era un bonissimo praticone, e molto uomo dabbene, altiero e
libero in ogni cosa sua. Mio padre non volse che lui mi dessi salario, come si usa agli
altri fattori, acciò che, da poi che volontaria io pigliavo a fare tale arte, io mi
potessi cavar lo voglia di disegnare quanto mi piaceva. E io cosí facevo molto
volentieri, e quel mio dabben maestro ne pigliava maraviglioso piacere. Aveva un suo unico
figliuolo naturale, al quali lui molte volte gli comandava, per risparmiar me. Fu tanta la
gran voglia o sí veramente inclinazione, e l'una e l'altra, che in pochi mesi io
raggiunsi di quei buoni, anzi i migliori giovani dell'arte, e cominciai a trarre frutto
delle mie fatiche. Per questo non mancavo alcune volte di compiacere al mio buon padre, or
di flauto or di cornetto sonando; e sempre gli facevo cadere le lacrime con gran sospiri
ogni volta che lui mi sentiva; e bene spesso per pietà lo contentavo, mostrando che
ancora io ne cavavo assai piacere. |
VIII. |
In questo tempo, avendo il mio fratello carnale minore di me dua anni,
molto ardito e fierissimo, qual divenne dappoi de' gran soldati che avessi la scuola del
maraviglioso signor Giovannino de' Medici, padre del duca Cosimo: questo fanciullo
aveva quattordici anni in circa, e io dua piú di lui. Era una domenica in su le 22 ore in
fra la porta a San Gallo e la porta a Pinti, e quivi si era disfidato con un garzone di
venti anni in circa con le spade in mano: tanto valorosamente lo serrava, che avendolo
malamente ferito, seguiva piú oltre. Alla presenza era moltissime persone, infra le quali
v'era assai sua parenti uomini; e veduto la cosa andare per la mala via, messono mano a
molte frombole e una di quelle colse nel capo del povero giovinetto mio fratello: subito
cadde in terra svenuto come morto. Io che a caso mi ero trovato quivi e senza amici e
senza arme, quanto io potevo sgridavo il mio fratello che si ritirassi, che quello che gli
aveva fatto bastava; intanto che il caso occorse che lui a quel modo cadde come morto. Io
subito corsi e presi la sua spada, e dinanzi a lui mi missi, e contra parecchi spade e
molti sassi, mai mi scostai dal mio fratello, insino a che da la porta a San Gallo venne
alquanti valorosi soldati e mi scamporno da quella gran furia, molto maravigliandosi che
in tanta giovinezza fussi tanto gran valore. Cosí portai il mio fratello insino a casa
come morto, e giunto a casa si risentí con gran fatica. Guarito, gli Otto che di già
avevano condennati li nostri avversari, e confinatigli per anni, ancora noi confinorno per
se' mesi fuori delle dieci miglia. Io dissi al mio fratello: - Vienne meco - e cosi ci
partimmo dal povero padre, e in cambio di darci qualche somma di dinari, perché non
n'aveva, ci dette la sua benedizione. Io me n'andai a Siena a trovare un certo galante
uomo che si domandava maestro Francesco Castoro; e perché un'altra volta io, essendomi
fuggito da mio padre, me n'andai da questo uomo dabbene e stetti seco certi giorni, insino
che mio padre rimandò per me, pure lavorando dell'arte dell'orefice; il ditto Francesco,
giunto a lui, subito mi ricognobbe e mi misse in opera. Cosí missomi a lavorare, il ditto
Francesco mi donò una casa per tanto quanto io stavo in Siena; e quivi ridussi il
mio fratello e me, e attesi a lavorare per molti mesi. Il mio fratello aveva principio di
lettere latine, ma era tanto giovinetto che non aveva ancora gustato il sapore della
virtú, ma si andava svagando. |
IX. |
In questo tempo il cardinal de' Medici, il qual fu poi papa Clemente,
ci fece tornare a Firenze alli prieghi di mio padre. Un certo discepolo di mio padre,
mosso da propia cattività, disse al ditto cardinale che mi mandassi a Bologna a 'mparare
a sonare bene da un maestro che v'era, il quali si domandava Antonio, veramente valente
uomo in quella professione del sonare. Il Cardinale disse a mio padre che, se lui mi
mandava là, che mi faria lettere di favore e d'aiuto. Mio padre, che di tal cosa se ne
moriva di voglia, mi mandò: onde io, volonteroso di vedere il mondo, volentieri andai.
Giunto a Bologna, io mi missi allavorare con uno che si chiamava maestro Ercole del
Piffero, e cominciai a guadagnare: e intanto andavo ogni giorno per la lezione del sonare,
e in breve settimane feci molto gran frutto di questo maladetto sonare; ma molto maggior
frutto feci dell'arte dell'orefice, perché, non avendo aùto dal ditto cardinale nissuno
aiuto, mi missi in casa di uno miniatore bolognese, che si chiamava Scipione Cavalletti;
stava nella strada di nostra Donna del Baraccan; e quivi attesi a disegnare e a lavorare
per un che si chiamava Graziadiogiudeo, con il quali io guadagnai assai bene. In capo di
sei mesi me ne tornai a Fiorenze, dove quel Pierino piffero, già stato allievo di mio
padre, l'ebbe molto per male; e io, per compiacere a mio padre, lo andavo a trovare a casa
e sonavo di cornetto e di flauto insieme con un suo fratel carnale che aveva nome
Girolamo, ed era parecchi anni minore del ditto Piero, ed era molto da bene e buon
giovane, tutto il contrario del suo fratello. Un giorno infra li altri venne mio padre
alla casa di questo Piero, per udirci sonare; e pigliando grandissimo piacere di quel mio
sonare, disse: - Io farò pure un maraviglioso sonatore, contro la voglia di chi mi ha
voluto impedire -. A questo rispose Piero, e disse il vero: - Molto piú utile e onore
trarrà il vostro Benvenuto, se lui attende a l'arte dell'orafo, che a questa pifferata -.
Di queste parole mio padre ne prese tanto isdegno, veduto che ancora io avevo il medesimo
oppenione di Piero, che con gran collora gli disse: - Io sapevo bene che tu eri tu quello
che mi impedivi questo mio tanto desiderato fine, e sei stato quello che m'hai fatto
rimuovere del mio luogo del Palazzo, pagandomi di quella grande ingratitudine che si usa
per ricompenso de' gran benefizii. Io a te lo feci dare, e tu a me l'hai fatto tôrre; io
a te insegnai sonare con tutte l'arte che tu sai, e tu impedisci il mio figliuolo che non
facci la voglia mia. Ma tieni a mente queste profetiche parole: e' non ci va, non dico
anni o mesi, ma poche settimane, che per questa tua tanto disonesta ingratitudine tu
profonderai -. A queste parole rispose Pierino e disse: - Maestro Giovanni, la piú parte
degli uomini, quando gl'invecchiano, insieme con essa vecchiaia impazzano, come avete
fatto voi; e di questo non mi maraviglio, perché voi avete dato liberalissimamente via
tutta la vostra roba, non considerato ch'e' vostri figliuoli ne avevano aver bisogno; dove
io penso far tutto il contrario: di lasciar tanto a' mia figliuoli, che potranno sovenire
i vostri -. A questo mio padre rispose: - Nessuno albere cattivo mai fe' buon frutto,
cosí per il contrario; e piú ti dico, che tu sei cattivo e i tua figliuoli saranno pazzi
e poveri, e verrano per la merzé a' mia virtuosi e ricchi figliuoli -. Cosí si partí di
casa sua, brontolando l'uno e l'altro di pazze parole. Onde io, che presi la parte del mio
buon padre, uscendo di quella casa con esso insieme, gli dissi che volevo far vendette
delle ingiurie che quel ribaldo li aveva fatto - con questo che voi mi lasciate attendere
a l'arte del disegno -. Mio padre disse: - O caro flgliuol mio, ancora io sono stato buono
disegnatore: e per refrigerio di tal cosí maravigliose fatiche e per amor mio, che son
tuo padre, che t'ho ingenerato e allevato e dato principio di tante onorate virtú, a il
riposo di quelle, non mi prometti tu qualche volta pigliar quel flauto e quel lascivissimo
cornetto, e, con qualche tuo dilettevole piacere, dilettandoti d'esso, sonare? - Io dissi
che sí, e molto volentieri per suo amore. Allora il buon padre disse che quelle cotai
virtú sarebbon la maggior vendetta che delle ingiurie ricevute da' sua nimici io potessi
fare. Da queste parole non arrivato il mese intero, che quel detto Pierino, faccendo fare
una volta a una sua casa, che lui aveva nella via dello Studio, essendo un giorno ne la
sua camera terrena, sopra una volta che lui faceva fare, con molti compagni; venuto in
proposito, ragionava del suo maestro, ch'era stato mio padre; e replicando le parole che
lui gli aveva detto del suo profondare, non sí tosto dette, che la camera, dove lui era,
per esser mal gittata la volta, o pur per vera virtú di Dio che non paga il sabato,
profondò; e di quei sassi della volta e mattoni cascando insieme seco, gli fiaccorno
tutte a dua le gambe; e quelli ch'erano seco, restando in su li orlicci della volta non si
feceno alcun male, ma ben restorno storditi e maravigliati; massime di quello che poco
innanzi lui con ischerno aveva lor ditto. Saputo questo mio padre, armato, lo andò a
trovare, e alla presenza del suo padre, che si chiamava Niccolaio da Volterra, trombetto
della Signoria, disse: - O Piero, mio caro discepolo, assai mi incresce del tuo male; ma,
se ti ricorda bene, egli è poco tempo che io te ne avverti'; e altanto interverrà intra
i figliuoli tua e i mia, quanto io ti dissi -. Poco tempo appresso lo ingrato Piero di
quella infirmità si morí. Lasciò la sua impudica moglie con un suo figliuolo, il quale
alquanti anni a presso venne a me per elemosina in Roma. Io gnene diedi, sí per esser mia
natura il far delle elemosine; e appresso con lacrime mi ricordai il felice istato che
Pierino aveva, quando mio padre li disse tal parole, cioè che i figliuoli del ditto
Pierino ancora andrebbono per la mercé ai figliuoli virtuosi sua. E di questo sia detto
assai, e nessuno non si faccia mai beffe dei pronostichi di uno uomo da bene, avendolo
ingiustamente ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi è la voce de Idio
istessa. |
X. |
Attendendo pure all'arte de l'orefice, e con essa aiutavo il mio buon
padre. L'altro suo figliuolo e mio fratello chiamato Cecchino, come di sopra dissi,
avendogli fatto dare principio di lettere latine, perché desiderava fare me, maggiore,
gran sonatore e musico, e lui, minore, gran litterato legista; non potendo isforzare quel
che la natura ci inclinava, qual fe' me applicato all'arte del disegno e il mio fratello,
quali era di bella proporzione e grazia, tutto inclinato a le arme; e per essere ancor lui
molto giovinetto, partitosi da una prima elezione della scuola del maravigliosissimo
signor Giovannino de' Medici; giunto a casa, dove io non era, per esser lui manco bene
guarnito di panni, e trovando le sue e mie sorelle che, di nascosto da mio padre, gli
detteno cappa e saio mia belle e nuove: ché oltra a l'aiuto che io davo al mio padre e
alle mie buone e oneste sorelle, de le avanzate mie fatiche quelli onorati panni mi avevo
fatti; trovatomi ingannato e toltomi i detti panni, né ritrovando il fratello, che
torgnene volevo, dissi a mio padre perché e' mi lasciassi fare un sí gran torto, veduto
che cosí volontieri io mi affaticavo per aiutarlo. A questo mi rispose, che io ero il suo
figliuol buono, e che quello aveva riguadagnato, qual perduto pensava avere: e che gli era
di necessità, anzi precetto de Idio istesso, che chi aveva del bene ne dessi a chi non
aveva: e che per suo amore io sopportassi questa ingiuria; Idio m'accrescerebbe d'ogni
bene. Io, come giovane sanza isperienza, risposi al povero afflitto padre; e preso certo
mio povero resto di panni e quattrini, me ne andai alla volta di una porta della città: e
non sapendo qual porta fosse quella che m'inviasse a Roma, mi trovai a Lucca, e da Lucca a
Pisa. E giunto a Pisa, questa era l'età di sedici anni in circa, fermatomi presso al
ponte di mezzo, dove e' dicono la pietra del Pesce, a una bottega d'un'oreficeria,
guardando con attenzione quello che quel maestro faceva, il detto maestro mi domandò chi
ero e che proffessione era la mia: al quale io dissi che lavoravo un poco di quella
istessa arte che lui faceva. Questo uomo da bene mi disse che io entrassi nella bottega
sua, e subito mi dette inanzi da lavorare, e disse queste parole: - Il tuo buono aspetto
mi fa credere che tu sia da bene e buono -. Cosí mi dette innanzi oro, argento e gioie; e
la prima giornata fornita, la sera mi menò alla casa sua, dove lui viveva onoratamente
con una sua bella moglie e figliuoli. Io, ricordatomi del dolore che poteva aver di me il
mio buon padre, gli scrissi come io era in casa di uno uomo molto buono e da bene, il
quale si domandava maestro Ulivieri della Chiostra, e con esso lavoravo di molte opere
belle e grande; e che stessi di buona voglia, che io attendevo a imparare, e che io
speravo con esse virtú presto riportarne a lui utile e onore. Il mio buon padre subito
alla lettera rispose dicendo cosí: - Figliuol mio, l'amor ch'io ti porto è tanto che, se
non fussi il grande onore, quale io sopra ogni cosa osservo, subito mi sarei messo a
venire per te, perché certo mi pare essere senza il lume degli occhi il non ti vedere
ogni dí, come far solevo. Io attenderò a finire di condurre a virtuoso onore la casa
mia, e tu attendi a imparar delle virtú; e solo voglio che tu ricordi di queste quattro
semplici parole: e queste osserva, e mai non te le dimenticare: |
In nella casa che tu vuoi stare, |
vivi onesto e non vi rubare. |
XI. |
Capitò questa lettera alle mane di quel mio maestro Ulivieri e di
nascosto da me la lesse; di poi mi si scoperse averla letta, e mi disse queste parole: -
Già, Benvenuto mio, non mi ingannò il tuo buono aspetto, quanto mi afferma una lettera,
che m'è venuta alle mane, di tuo padre, quale è forza che lui sia molto uomo buono e da
bene; cosí fa conto d'essere nella casa tua e come con tuo padre -. Standomi in Pisa
andai a vedere il Campo Santo, e quivi trovai molte belle anticaglie: ciò è cassoni di
marmo, e in molti altri luoghi di Pisa viddi molte altre cose antiche, intorno alle quali
tutti e' giorni che mi avanzavano del mio lavoro della bottega assiduamente mi affaticavo;
e perché il mio maestro con grande amore veniva a vedermi alla mia cameruccia, che lui mi
aveva dato, veduto che io spendevo tutte l'ore mie virtuosamente, mi aveva posto uno amore
come se padre mi fusse. Feci un gran frutto in uno anno che io vi stetti, e lavorai d'oro
e di argento cose importante e belle, le quali mi detton grandissimo animo a 'ndar piú
inanzi. Mio padre in questo mezzo mi scriveva molto pietosamente che io dovessi tornare a
lui, e per ogni lettera mi ricordava che io non dovessi perdere quel sonare, che lui con
tanta fatica mi aveva insegnato. A questo, subito mi usciva la voglia di non mai tornare
dove lui, tanto aveva in odio questo maledetto sonare; e mi parve veramente istare in
paradiso un anno intero che io stetti in Pisa, dove io non sonai mai. Alla fine de l'anno
Ulivieri mio maestro gli venne occasione di venire a Firenze a vendere certe spazzature
d'oro e argento che lui aveva: e perché in quella pessima aria m'era saltato a dosso un
poco di febbre, con essa e col maestro mi ritornai a Firenze; dove mio padre fece
grandissime carezze a quel mio maestro, amorevolmente pregandolo, di nascosto da me, che
fussi contento non mi rimenare a Pisa. Restatomi ammalato, istetti circa dua mesi, e mio
padre con grande amorevolezza mi fece medicare e guarire, continuamente dicendomi che gli
pareva mill'anni che io fossi guarito, per sentirmi un poco sonare; e in mentre ch'egli mi
ragionava di questo sonare, tenendomi le dita al polso, perché aveva qualche cognizione
della medicina e delle lettere latine, sentiva in esso polso, subito ch'egli moveva a
ragionar del sonare, tanta grande alterazione, che molte volte isbigottito e con lacrime
si partiva da me. In modo che, avedutomi di questo suo gran dispiacere, dissi a una di
quelle mia sorelle che mi portassero un flauto; che se bene io continuo avevo la febbre,
per esser lo strumento di pochissima fatica, non mi dava alterazione il sonare; con tanta
bella disposizione di mano e di lingua, che giugnendomi mio padre all'improvisto, mi
benedisse mille volte dicendomi, che in quel tempo che io ero stato fuor di lui, gli
pareva che io avessi fatto un grande acquistare; e mi pregò che io tirassi inanzi e non
dovessi perdere una cosí bella virtú. |
XII. |
Guarito che io fui, ritornai al mio Marcone, uomo da bene, orafo, il
quale mi dava da guadagnare, con il quale guadagno aiutavo mio padre e la casa mia. In
questo tempo venne a Firenze uno iscultore che si domandava Piero Torrigiani, il qual
veniva di Inghilterra, dove egli era stato di molti anni; e perché egli era molto amico
di quel mio maestro, ogni dí veniva da lui; e veduto mia disegni e mia lavori, disse: -
Io son venuto a Firenze per levare piú giovani che io posso; ché, avendo a fare una
grande opera al mio Re, voglio, per aiuto, de' mia Fiorentini; e perché il tuo modo di
lavorare e i tua disegni son piú da scultore che da orefice, avendo da fare grande opere
di bronzo, in un medesimo tempo io ti farò valente e ricco -. Era questo uomo di
bellissima forma, aldacissimo, aveva piú aria di gran soldato che di scultore, massimo a'
sua mirabili gesti e alla sua sonora voce, con uno agrottar di ciglia atto a spaventar
ogni uomo da qual cosa; e ogni giorno ragionava delle sue bravurie con quelle bestie di
quegli Inghilesi. In questo proposito cadde in sul ragionar di Michelagnolo Buonaarroti;
che ne fu causa un disegno che io avevo fatto, ritratto da un cartone del divinissimo
Michelagnolo. Questo cartone fu la prima bella opera che Michelagnolo mostrò delle
maravigliose sue virtú, e lo fece a gara con uno altro che lo faceva: con Lionardo da
Vinci; che avevano a servire per la sala del Consiglio del palazzo della Signoria.
Rappresentavano quando Pisa fu presa da' Fiorentini; e il mirabil Lionardo da Vinci aveva
preso per elezione di mostrare una battaglia di cavagli con certa presura di bandiere,
tanto divinamente fatti, quanto imaginar si possa. Michelagnolo Buonaarroti, innel suo
dimostrava una quantità di fanterie che per essere di state s'erano missi a bagnare in
Arno; e in questo istante dimostra ch' e' si dia a l'arme, a quelle fanterie ignude
corrono a l'arme, e con tanti bei gesti, che mai né delli antichi né d'altri moderni non
si vidde opera che arrivassi a cosí alto segno; e sí come io ho detto, quello del gran
Lionardo era bellissimo e mirabile. Stetteno questi dua cartoni, uno innel palazzo de'
Medici, e uno alla sala del Papa. In mentre che gli stetteno in piè, furno la scuola del
mondo. Se bene il divino Michelagnolo fece la gran cappella di papa Iulio da poi, non
arrivò mai a questo segno alla metà; la sua virtú non aggiunse mai da poi alla forza di
quei primi studii. |
XIII. |
Ora torniamo a Piero Torrigiani, che con quel mio disegno in mano disse
cosí: - Questo Buonaarroti e io andavamo a 'mparare da fanciulletti innella chiesa del
Carmine, dalla cappella di Masaccio: e perché il Buonaarroti aveva per usanza di ucellare
tutti quelli che disegnavano, un giorno in fra gli altri dandomi noia il detto, mi venne
assai piú stizza che 'l solito, e stretto la mana gli detti sí grande il pugno in sul
naso, che io mi senti' fiaccare sotto il pugno quell'osso e tenerume del naso, come se
fosse stato un cialdone: e cosí segnato da me ne resterà insin che vive -. Queste parole
generorono in me tanto odio, perché vedevo continuamente i fatti del divino Michelagnolo,
che non tanto ch'a me venissi voglia di andarmene seco in Inchilterra, ma non potevo
patire di vederlo. |
Attesi continuamente in Firenze a imparare sotto la bella maniera di
Michelagnolo, e da quella mai mi sono ispiccato. In questo tempo presi pratica e amicizia
istrettissima con uno gentil giovanetto di mia età, il quale ancora lui stava allo
orefice. Aveva nome Francesco, figliuolo di Filippo di fra Filippo eccellentissimo
pittore. Nel praticare insieme generò in noi un tanto amore, che mai né dí né notte
stavamo l'uno senza l'atro: e perché ancora la casa sua era piena di quelli belli studii
che aveva fatto il suo valente padre, i quali erano parecchi libri disegnati di sua mano,
ritratti dalle belle anticaglie di Roma; la qual cosa, vedendogli, mi innamororno assai; e
dua anni in circa praticammo insieme. In questo tempo io feci una opera di ariento di
basso rilievo, grande quanta è una mana di un fanciullo piccolo. Questa opera serviva per
un serrame per una cintura da uomo, che cosí grandi alora si usavono. Era intagliato in
esso un gruppo di fogliame fatto all'antica, con molti puttini e altre bellissime
maschere. Questa tale opera io la feci in bottega di uno chiamato Francesco Salinbene.
Vedendosi questa tale opera per l'arte degli orefici, mi fu dato vanto del meglio giovane
di quella arte. E perché un certo Giovanbatista, chiamato il Tasso, intagliatore di
legname, giovane di mia età a punto, mi cominciò a dire che, se io volevo andare a Roma,
volentieri insieme ne verrebbe meco - questo ragionamento che noi avemmo insieme fu poi il
desinare a punto - e per essere per le medesime cause del sonare adiratomi con mio padre,
dissi al Tasso: - Tu sei persona da far delle parole e non de' fatti -. Il quale Tasso mi
disse: - Ancora io mi sono adirato con mia madre, e se io avessi tanti quattrini che mi
conducessino a Roma, io non tornerei indrieto a serrare quel poco della botteguccia che io
tengo -. A queste parole io aggiunsi, che se per quello lui restava, io mi trovavo a canto
tanti quattrini, che bastavano a portarci a Roma tutti a dua. Cosí ragionando insieme,
mentre andavamo, ci trovammo alla porta a San Piero Gattolini disavedutamente. Al quale io
dissi: - Tasso mio, questa è fattura d'Idio l'esser giunti a questa porta, che né tu né
io aveduti ce ne siàno: ora, da poi che io son qui, mi pare aver fatto la metà del
cammino -. Cosí d'accordo lui e io dicevamo, mentre che seguivamo il viaggio: - Oh che
dirà i nostri vecchi stasera? - Cosí dicendo facemmo patti insieme di non gli ricordar
piú insino a tanto che noi fussimo giunti a Roma. Cosí ci legammo i grembiuli indietro,
e quasi alla mutola ce ne andammo insino a Siena. Giunti che fummo a Siena, il Tasso disse
che s'era fatto male ai piedi, che non voleva venire piú innanzi, e mi richiese gli
prestassi danari per tornarsene: al quale io dissi: - A me non ne resterebbe per andare
innanzi; però tu ci dovevi pensare a muoverti di Firenze; e se per causa dei piedi tu
resti di non venire, troveremo un cavallo di ritorno per Roma, e allora non arai scusa di
non venire -. Cosí preso il cavallo, veduto che lui non mi rispondeva, inverso la porta
di Roma presi il cammino. Lui, vedutomi risoluto, non restando di brontolare, il meglio
che poteva, zoppicando drieto assai ben discosto e tardo veniva. Giunto che io fui alla
porta, piatoso del mio compagnino, lo aspettai e lo missi in groppa, dicendogli: - Che
domin direbbono e' nostri amici di noi, che partitici per andare a Roma, non ci fussi
bastato la vista di passare Siena? - Allora il buon Tasso disse che io dicevo il vero; e
per esser persona lieta, cominciò a ridere e a cantare: e cosí sempre cantando e ridendo
ci conducemmo a Roma. Questo era a punto l'età mia di diciannove anni, insieme col
millesimo. Giunti che noi fummo in Roma, subito mi messi a bottega con uno maestro, che si
domandava Firenzola. Questo aveva nome Giovanni e era da Firenzuola di Lombardia, ed era
valentissimo uomo di lavorare di vasellami e cose grosse. Avendogli mostro un poco di quel
modello di quel serrame che io avevo fatto in Firenze col Salinbene, gli piacque
maravigliosamente, e disse queste parole, voltosi a uno garzone che lui teneva, il quale
era fiorentino e si domandava Giannotto Giannotti, ed era stato seco parecchi anni; disse
cosí: - Questo è di quelli Fiorentini che sanno, e tu sei di quelli che non sanno -.
Allora io, riconosciuto quel Giannotto, gli volsi fare motto; perché inanzi che lui
andassi a Roma, spesso andavamo a disegnare insieme, ed eravamo stati molto domestici
compagnuzzi. Prese tanto dispiacere di quelle parole che gli aveva detto il suo maestro,
che egli disse non mi cognoscere né sapere chi io mi fussi: onde io sdegnato a cotal
parole, gli dissi: - O Giannotto, già mio amico domestico, che ci siamo trovati in tali e
tali luoghi, e a disegnare e a mangiare e bere e dormire in villa tua; io non mi curo che
tu faccia testimonianza di me a questo uomo da bene tuo maestro, perché io spero che le
mane mia sieno tali, che sanza il tuo aiuto diranno quale io sia. |
XIV. |
Finito queste parole, il Firenzuola, che era persona arditissima e
bravo, si volse al detto Giannotto e li disse: - O vile furfante, non ti vergogni tu a
usare questi tali termini e modi a uno che t'è stato sí domestico compagno? -. E nel
medesimo ardire voltosi a me, disse: - Entra in bottega e fa come tu hai detto, che le tue
mane dicano quel che tu sei -: e mi dette a fare un bellissimo lavoro di argento per un
cardinale. Questo fu un cassonetto ritratto da quello di porfido che è dinanzi alla porta
della Retonda. Oltra quello che io ritrassi, di mio arricchi'lo con tante belle
mascherette, che il maestro mio s'andava vantando e mostrandolo per l'arte, che di bottega
sua usciva cosí ben fatta opera. Questo era di grandezza di un mezzo braccio in circa; ed
era accomodato che serviva per una saliera da tenere in tavola. Questo fu il primo
guadagno che io gustai in Roma; e una parte di esso guadagno ne mandai a soccorrere il mio
buon padre: l'altra parte serbai per la vita mia; e con esso me ne andavo studiando
intorno alle cose antiche, insino a tanto che e' danari mi mancorno, che mi convenne
tornare a bottega a lavorare. Quel Battista del Tasso mio compagno non istette troppo in
Roma, che lui se ne tornò a Firenze. Ripreso nuove opere, mi venne voglia, finite che io
le ebbi, di cambiate maestro, per esser sobbillato da un certo Milanese, il quale si
domandava maestro Pagolo Arsago. Quel mio Firenzuola primo ebbe a fare gran quistione con
questo Arsago, dicendogli in mia presenza alcune parole ingiuriose, onde che io ripresi le
parole in defensione del nuovo maestro. Dissi ch'io era nato libero, e cosí libero mi
volevo vivere, e che di lui non si poteva dolere; manco di me, restando aver dallui certi
pochi scudi d'accordo; e come lavorante libero volevo andare dove mi piaceva, conosciuto
non far torto a persona. Anche quel mio nuovo maestro usò parecchi parole, dicendo che
non mi aveva chiamato, e che io gli farei piacere a ritornare col Firenzuola. A questo io
aggiunsi che non cognoscendo in modo alcuno di farli torto, e avendo finite l'opere mia
cominciate, volevo essere mio e non di altri; e chi mi voleva mi chiedessi a me. A questo
disse il Firenzuola: - Io non ti voglio piú chiedere a te, e tu non capitare innanzi per
nulla piú a me -. Io gli ricordai e' mia danari: lui sbeffandomi; a il quale io dissi,
che cosí bene come io adoperavo e' ferri per quelle tale opere, che lui aveva visto, non
manco bene adoperrei la spada per recuperazione delle fatiche mie. A queste parole a sorta
si fermò un certo vecchione, il quale si domandava maestro Antonio da San Marino. Questo
era il primo piú eccellente orefice di Roma, ed era stato maestro di questo Firenzuola.
Sentito le mia ragione, quale io dicevo di sorte che le si potevano benissimo intendete,
subito preso la mia protezione, disse al Firenzuola che mi pagassi. Le dispute furno
grande, perché era questo Firenzuola maraviglioso maneggiator di arme; assai piú che ne
l'arte de l'orefice; pur è la ragione che volse il suo luogo, e io con lo istesso valore
lo aiutai, in modo che io fui pagato; e con ispazio di tempo il ditto Firenzuola e io
fummo amici, e gli battezzai un figliuolo, richiesto da lui. |
XV. |
Seguitando di lavorare con questo maestro Pagolo Arsago, guadagnai
assai, sempre mandando la maggior parte al mio buon padre. In capo di dua anni, alle
preghiere del buon padre me ne tornai a Firenze, e mi messi di nuovo a lavorare con
Francesco Salinbene, con il quale molto bene guadagnavo, e molto mi affaticavo a 'mparare.
Ripreso la pratica con quel Francesco di Filippo, con tutto che io fussi molto dedito a
qualche piacere, causa di quel maledetto sonare, mai lasciavo certe ore del giorno o della
notte, quale io davo alli studii. Feci in questo tempo un chiavacuore di argento, il quale
era in quei tempi chiamato cosí. Questo si era una cintura di tre dita larga, che alle
spose novelle s'usava di fare, ed era fatta di mezzo rilievo con qualche figuretta ancora
tonda in fra esse. Fecesi a uno che si domandava Raffaello Lapaccini. Con tutto che io ne
fussi malissimo pagato, fu tanto l'onore che io ne ritrassi, che valse molto di piú che
'l premio che giustamente trar ne potevo. Avendo in questo tempo lavorato con molte
diverse persone in Firenze, dove io avevo cognusciuto in fra gli orefici alcuni uomini da
bene, come fu quel Marcone mio primo maestro, altri che avevano nome di molto buoni
uomini, essendo sobissato da loro innelle mie opere quanto e' potettono mi ruborno
grossamente. Veduto questo, mi spiccai da loro e in concetto di tristi e ladri gli tenevo.
Uno orafo in fra gli altri, chiamato Giovanbatista Sogliani, piacevolmente mi accomodò di
una parte della sua bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo, accanto a il banco
che era de' Landi. Quivi io feci molte belle operette e guadagnai assai: potevo molto bene
aiutare la casa mia. Destossi la invidia da quelli cattivi maestri, che prima io avevo
aúti, i quali si chiamavano Salvadore e Michele Guasconti: erano ne l'arte degli orefici
tre grosse botteghe di costoro, e facevano di molte faccende; in modo che, veduto che mi
offendevano, con alcuno uomo da bene io mi dolsi, dicendo che ben doveva lor bastare le
ruberie che loro mi avevano usate sotto il mantello della lor falsa dimostrata bontà.
Tornando loro a orecchi, si vantorno di farmi pentire assai di tal parole; onde io non
conoscendo di che colore la paura si fusse, nulla o poco gli stimava. |
XVI. |
Un giorno occorse che, essendo appoggiato alla bottega di uno di
questi, chiamato da lui, e parte mi riprendeva e parte mi bravava: al cui io risposi, che
se loro avessin fatto il dovere a me, io arei detto di loro quel che si dice degli uomini
buoni e da bene: cosí, avendo fatto il contrario, dolessinsi di loro e non di me. In
mentre che io stavo ragionando, un di loro, che si domanda Gherardo Guasconti, lor cugine,
ordinato forse da costoro insieme, appostò che passassi una soma. Questa fu una soma di
mattoni. Quando detta soma fu al rincontro mio, questo Gherardo me la pinse talmente
addosso che la mi fece gran male. Voltomi subito e veduto che lui se ne rise, gli menai
sí grande il pugno in una tempia, che svenuto cadde come morto; di poi voltomi ai sua
cugini, dissi: - Cosí si trattano i ladri poltroni vostri pari -: e volendo lor fare
alcuna dimostrazione, perché assai erano, io, che mi trovavo infiammato, messi mano a un
piccol coltello che io avevo, dicendo cosí: - Chi di voi esca della sua bottega, l'altro
corra per il confessoro, perché il medico non ci arà che fare -. Furno le parole a loro
di tanto spavento, che nessuno si mosse a l'aiuto del cugino. Subito che partito io mi
fui, corsono i padri e i figliuoli agli Otto, e quivi dissono che io con armata mano gli
avevo assaliti in su le botteghe loro, cosa che mai piú in Firenze s'era usata tale. E'
signori Otto mi fecion chiamare; onde io comparsi; e dandomi una grande riprensione e
sgridato, sí per vedermi in cappa e quelli in mantello e cappuccio alla civile; ancora
perché li avversari mia erano stati a parlare a casa a quei Signori a tutti in disparte,
e io, come non pratico, a nessun di quelli Signori non avevo parlato, fidandomi della mia
gran ragione che io tenevo; e dissi, che a quella grande offesa e ingiuria che Gherardo mi
aveva fatta, mosso da còllora grandissima, e non gli dato altro che una ceffata, non mi
pareva dovere di meritare tanta gagliarda riprensione. Appena che Prinzivalle della Stufa,
il quale era degli Otto, mi lasciassi finir di dire ceffata, che disse: - Un pugno
e non ceffata gli desti -. Sonato il campanuzzo e mandatici tutti fuora, in mia difesa
disse Prinzivalle agli compagni: - Considerate, signori, la semplicità di questo povero
giovane, il quale si accusa di aver dato ceffata, pensando che sia manco errore che dare
un pugno; perché d'una ceffata in Mercato Nuovo la pena si è venticinque scudi, e d'un
pugno poco o nonnulla. Questo è giovane molto virtuoso, e mantiene la povera casa sua con
le fatiche sua, molto abundante; e volessi Idio che la città nostra di questa sorta ne
avessi abundanzia, sí come la n'ha mancamento. |
XVII. |
Era infra di loro alcuni arronzinati cappuccetti, che mossi dalle
preghiere e male informazioni delli mia avversari, per esser di quella fazione di fra
Girolamo, mi arebbon voluto metter prigione e condennarmi a misura di carboni: alla qual
cosa il buon Prinzivalle attutto rimediò. Cosí mi fece una piccola condennagione di
quattro staia di farina, le quali si dovessimo donare per elemosina al monasterio delle
Murate. Subito richiamatoci drento mi comandò che io non parlassi parola sotto pena della
disgrazia loro, e che io ubbidissi di quello che condennato io ero. Cosí dandomi una
gagliarda grida ci mandorno al cancelliere: io che borbottando sempre dicevo "ceffata
fu e non pugno", in modo che ridendo gli Otto si rimasono. Il cancelliere ci comandò
da parte del magistrato che noi ci dessimo sicurtà l'un l'altro, e me solo condennorno in
quelle quattro staia della farina. A me che parve essere assassinato, non tanto ch'io
mandai per un mio cugino, il quale si domandava maestro Anniballe cerusico, padre di
messer Librodoro Librodori, volendo io che lui per me prommettessi. Il ditto non volse
venire: per la qual cosa io sdegnato, soffiando diventai come uno aspido, e feci disperato
iudizio. Qui si cognosce quanto le stelle non tanto ci inclinano, ma ci sforzano.
Conosciuto quanto grande obrigo questo Anniballe aveva alla casa mia, m'accrebbe tanto
còllora che, tirato tutto al male e anche per natura alquanto collerico, mi stetti a
'spettare che il detto ufizio degli Otto fussi ito a desinare: e restato quivi solo,
veduto che nessuno della famiglia degli Otto piú a me non guardava, infiammato di
còllora, uscito del Palazzo, corsi alla mia bottega, dove trovatovi un pugnalotto saltai
in casa delli mia avversari, che a casa e a bottega istavano. Trova'gli a tavola, e quel
giovane Gherardo, che era stato capo della quistione, mi si gettò a dosso: al cui io
menai una pugnalata al petto, che il saio, il colletto insino alla camicia a banda a banda
io li passai, non gli avendo tocco la carne o fattogli un male al mondo. Parendo a me, per
l'entrar della mana e quello rumor de' panni, aver fatto grandissimo male, e lui per
ispavento caduto a terra, dissi: - O traditori, oggi è quel dí che io tutti vi ammazzo
-. Credendo il padre, la madre e le sorelle che quel fusse il dí del Giudizio, subito
gettatisi inginocchione per terra, misericordia ad alta voce con le bigoncie chiamavano: e
veduto non fare alcuna difesa contro di me, e quello disteso in terra come morto, troppo
vil cosa mi parve a toccargli; ma furioso corsi giú per la scala: e giunto alla strada,
trovai tutto il resto della casata, li quali erano piú di dodici; chi di loro aveva una
pala di ferro, alcuni un grosso canale di ferro, altri martella, ancudine, altri bastoni.
Giunto fra loro, sí come un toro invelenito, quattro o cinque ne gittai in terra, e con
loro insieme caddi, sempre menando il pugnale ora a questo ora a quello. Quelli che in
piedi restati erano, quanto egli potevano sollecitavano, dando a me a dua mane con
martella, con bastoni e con ancudine: e perché Idio alcune volte piatoso si intermette,
fece che né loro a me e né io a loro non ci facemmo un male al mondo. Solo vi restò la
mia berretta, la quale assicuratisi e' mia avversari che discosto a quella si eron
fuggiti, ugniuno di loro la percosse con le sua arme: di poi riguardato infra di loro de
e' feriti e morti, nessuno v'era che avessi male. |
XVIII. |
Io me ne andai alla volta di santa Maria Novella, e subito percossomi
in frate Alesso Strozzi, il quale io non conosceva, a questo buon frate io per l'amor de
Dio mi raccomandai, che mi salvassi la vita, perché grande errore avevo fatto. Il buon
frate mi disse che io non avessi paura di nulla, ché, tutti e' mali del mondo che io
avessi fatti, in quella cameruccia sua ero sicurissimo. In ispazio d'una ora a presso, gli
Otto, ragunatisi fuora del loro ordine, fecion mandare un de' piú spaventosi bandi contra
di me, che mai s'udissi, sotto pene grandissime a chi m'avessi o sapessi, non riguardando
né a luogo né a qualità che mi tenessi. Il mio afflitto e povero buon padre entrando
agli Otto, ginocchioni si buttò in terra, chiedendo misericordia del povero giovane
figliuolo: dove che un di quelli arrovellati, scotendo la cresta dello arronzinato
capuccio, rizzatosi in piedi, con alcune ingiuriose parole disse al povero padre mio: -
Lièvati di costí, e va' fuora subito, ché domattina te lo manderemo in villa con i
lanciotti -. Il mio povero padre pure ardito rispose, dicendo loro: - Quel che Idio arà
ordinato, tanto farete, e non piú là -. Al cui quel medesimo rispose che per certo cosí
aveva ordinato Idio. E mio padre allui disse: - Io mi conforto, che voi certo non lo
sapete - e partitosi dalloro, venne a trovarmi insieme con un certo giovane di mia età,
il quale si chiamava Piero di Giovanni Landi: ci volevamo bene piú che se fratelli
fussimo stati. Questo giovane aveva sotto il mantello una mirabile ispada e un bellissimo
giaco di maglia: e giunti a me, il mio animoso padre mi disse il caso, e quel che gli
avevan detto i signori Otto. Di poi mi baciò in fronte e tutti a dua gli occhi; mi
benedisse di cuore, dicendo cosí: - La virtú de Dio sia quella che ti aiuti - e pòrtomi
la spada e l'arme, con le sue mane proprie me le aiutò vestire. Di poi disse: - O
figliuol mio buono, con queste in mano, o tu vivi o tu muori -. Pier Landi, che era quivi
alla presenza, non cessava di lacrimare, e pòrtomi dieci scudi d'oro, io dissi che mi
levassi certi peletti della barba, che prime caluggine erano. Frate Alesso mi vestí in
modo di frate e un converso mi diede per compagnia. Uscitomi del convento, uscito per la
porta di Prato, lungo le mura me ne andai insino alla piazza di San Gallo; e salito la
costa di Montui, in una di quelle prime case trovai un che si domandava il Grassuccio,
fratel carnale di misèr Benedetto da Monte Varchi. Subito mi sfratai, e ritornato uomo,
montati in su dua cavalli, che quivi erano per noi, la notte ce ne andammo a Siena.
Rimandato indrieto il detto Grassuccio a Firenze, salutò mio padre e gli disse che io ero
giunto a salvamento. Mio padre rallegratosi assai, gli parve mill'anni di ritrovar quello
degli Otto che gli aveva detto ingiuria; e trovatolo disse cosí: - Vedete voi, Antonio,
ch'egli era Idio quello che sapeva quel che doveva essere del mio figliuolo, e non voi? -
Al cui rispose: - Di' che ci càpiti un'altra volta -. Mio padre allui: - Io attenderò a
ringraziare Idio, che l'ha campato di questo. |
XIX. |
Essendo a Siena, aspettai il procaccia di Roma, e con esso mi
accompagnai. Quando fummo passati la Paglia scontrammo il corriere che portava le nuove
del papa nuovo, che fu papa Clemente. Giunto a Roma mi missi a lavorare in bottega di
maestro Santi orefice: se bene il detto era morto, teneva la bottega un suo figliuolo.
Questo non lavorava, ma faceva fare le faccende di bottega tutte a uno giovane che si
domandava Luca Agnolo da Iesi. Questo era contadino, e da piccol fanciulletto era venuto a
lavorare con maestro Santi. Era piccolo di statura, ma ben proporzionato. Questo giovane
lavorava meglio che uomo che io vedessi mai insino a quel tempo, con grandissima facilità
e con molto disegno: lavorava solamente di grosseria, cioè vasi bellissimi, e bacini, e
cose tali. Mettendomi io a lavorar in tal bottega presi a fare certi candellieri per il
vescovo Salamanca spagnuolo. Questi tali candellieri furno riccamente lavorati, per quanto
si appartiene a tal opera. Un descepol di Raffaello da Urbino, chiamato Gianfrancesco, per
sopranome il Fattore, era pittore molto valente; e perché egli era amico del detto
vescovo, me gli misse molto in grazia, a tale che io ebbi moltissime opere da questo
vescovo, e guadagnavo molto bene. In questo tempo io andavo quando a disegnare in Capella
di Michelagnolo, e quando alla casa di Agostino Chigi sanese, nella qual casa era molte
opere bellissime di pittura di mano dello eccellentissimo Raffaello da Urbino; e questo si
era il giorno della festa, perché in detta casa abitava misser Gismondo Chigi, fratello
del detto misser Agostino. Avevano molta boria quando vedevano delli giovani miei pari che
andavano a 'mparare drento alle case loro. La moglie del detto misser Gismondo, vedutomi
sovente in questa sua casa - questa donna era gentile al possibile e oltramodo bella -
accostandosi un giorno a me, guardando li mia disegni, mi domandò se io ero scultore o
pittore: alla cui donna io dissi, che ero orefice. Disse lei, che troppo ben disegnavo per
orefice; e fattosi portare da una sua cameriera un giglio di bellissimi diamanti legati in
oro, mostrandomegli, volse che io gli stimassi. Io gli stimai ottocento scudi. Allora lei
disse che benissimo gli avevo stimati. A presso mi domandò se mi bastava l'animo di
legargli bene: io dissi che molto volentieri, e alla presenza di lei ne feci un pochetto
di disegno; e tanto meglio lo feci, quanto io pigliavo piacere di trattenermi con questa
tale bellissima e piacevolissima gentildonna. Finito il disegno, sopragiunse un'altra
bellissima gentildonna romana, la quale era di sopra, e scesa a basso dimandò la detta
madonna Porzia quel che lei quivi faceva: la quale sorridendo disse: - Io mi piglio
piacere il vedere disegnare questo giovane da bene, il quale è buono e bello -. Io,
venuto in un poco di baldanza, pur mescolato un poco di onesta vergogna, divenni rosso e
dissi: - Quale io mi sia, sempre, madonna, io sarò paratissimo a servirvi -. La
gentildonna, anche lei arrossita alquanto, disse: - Ben sai che io voglio che tu mi serva
- e pòrtomi il giglio, disse che io me ne lo portassi; e di piú mi diede venti scudi
d'oro, che l'aveva nella tasca, e disse: - Legamelo in questo modo che disegnato me l'hai,
e salvami questo oro vechio in che legato egli è ora -. La gentildonna romana allora
disse: - Se io fussi in quel giovane, volentieri io m'andrei con Dio -. Madonna Porzia
agiunse che le virtú rare volte stanno con i vizii e che, se tal cosa io facessi, forte
ingannerei quel bello aspetto che io dimostravo di uomo da bene - e voltasi, preso per
mano la gentildonna romana, con piacevolissimo riso mi disse: - A Dio, Benvenuto -.
Soprastetti alquanto intorno al mio disegno che facevo, ritraendo certa figura di Iove di
man di Raffaello da Urbino detto. Finita che l'ebbi, partitomi, mi messi a fare un picolo
modellino di cera, mostrando per esso come doveva da poi tornar fatta l'opera; e portatolo
a vedere a madonna Porzia detta, essendo alla presenza quella gentildonna romana, che
prima dissi, l'una e l'altra grandemente satisfatte delle fatiche mie, mi feceno tanto
favore, che mosso da qualche poco di baldanza, io promissi loro, che l'opera sarebbe
meglio ancora la metà che il modello. Cosí messi mano, e in dodici giorni fini' il detto
gioiello in forma di giglio, come ho detto di sopra, adorno con mascherini, puttini,
animali e benissimo smaltato; in modo che li diamanti, di che era il giglio, erono
migliorati piú della metà. |
XX. |
In mentre che io lavoravo questa opera, quel valente uomo Lucagnolo,
che io dissi di sopra, mostrava di averlo molto per male, piú volte dicendomi che io mi
farei molto piú utile e piú onore ad aiutarlo lavorar vasi grandi di argento, come io
avevo cominciato. Al quale io dissi, che io sarei atto, sempre che io volessi, a lavorar
vasi grandi di argento; ma che di quelle opere che io facevo, non ne veniva ogni giorno da
fare; e che in esse opere tali era non manco onore che ne' vasi grandi di argento, ma sí
bene molto maggiore utile. Questo Lucagnolo mi derise dicendo: - Tu lo vedrai, Benvenuto;
perché allora che tu arai finita cotesta opera, io mi affretterò di aver finito questo
vaso, il quale cominciai quando tu il gioiello; e con la esperienza sarai chiaro l'utile
che io trarrò del mio vaso, e quello che tu trarrai de il tuo gioiello -. Al cui io
risposi, che volentieri avevo a piacere di fare con un sí valente uomo, quale era lui,
tal pruova, perché alla fine di tale opere si vedrebbe chi di noi si ingannava. Cosí
l'uno e l'altro di noi alquanto, con un poco di sdegnoso riso, abbassati il capo
fieramente, ciascuno desideroso di dar fine alle cominciate opere; in modo che in termine
di dieci giorni incirca ciascun di noi aveva con molta pulitezza e arte finita l'opera
sua. Quella di Lucagnolo detto si era un vaso assai ben grande, il qual serviva in tavola
di papa Clemente, dove buttava drento, in mentre che era a mensa, ossicina di carne e
buccie di diverse frutte; fatto piú presto a pompa che a necessità. Era questo vaso
ornato con dua bei manichi, con molte maschere picole e grande, con molti bellissimi
fogliami, di tanta bella grazia e disegno, quanto inmaginar si possa; al quale io dissi,
quello essere il piú bel vaso che mai io veduto avessi. A questo, Lucagnolo, parendogli
avermi chiarito, disse: - Non manco bella pare a me l'opera tua, ma presto vedremo la
differenza de l'uno e de l'altro -. Cosí preso il suo vaso, portatolo al papa, restò
satisfatto benissimo, e subito lo fece pagare secondo l'uso de l'arte di tai grossi
lavori. In questo mentre io portai l'opera mia alla ditta gentildonna madonna Porzia, la
quali con molta maraviglia mi disse, che di gran lunga io avevo trapassata la promessa
fattagli; e poi aggiunse, dicendomi che io domandassi delle fatiche mie tutto quel che mi
piaceva, perché gli pareva che io meritassi tanto, che donandomi un castello, a pena gli
parrebbe d'avermi sadisfatto; ma perché lei questo non poteva fare, ridendo mi disse, che
io domandassi quel che lei poteva fare. Alla cui io dissi, che il maggior premio delle mie
fatiche desiderato, si era l'avere sadisfatto Sua Signoria. Cosí anch'io ridendo,
fattogli reverenza, mi parti', dicendo che io non voleva altro premio che quello. Allora
madonna Porzia ditta si volse a quella gentildonna romana, e disse: - Vedete voi che la
compagnia di quelle virtú che noi giudicammo in lui, son queste, e non sono i vizii? -
Maravigliatosi l'una e l'altra, pure disse madonna Porzia: - Benvenuto mio, ha' tu mai
sentito dire, che quando il povero dona a il ricco, il diavol se ne ride? - Alla quale io
dissi: - E però di tanti sua dispiaceri, questa volta lo voglio vedere ridere - e
partitomi, lei disse che non voleva per questa volta fargli cotal grazia. Tornatomi alla
mia bottega, Lucagnolo aveva in un cartoccio li dinari avuti del suo vaso; e giunto mi
disse: - Accosta un poco qui a paragone il premio del tuo gioiello a canto al premio del
mio vaso -. Al quale io dissi che lo salvassi in quel modo insino al seguente giorno;
perché io speravo che sí bene come l'opera mia innel suo genere non era stata manco
bella della sua, cosí aspettavo di fargli vedere il premio di essa. |
XXI. |
Venuto l'altro giorno, madonna Porzia mandato alla mia bottega un suo
maestro di casa, mi chiamò fuora, e pòrtomi in mano un cartoccio pieno di danari da
parte di quella signora, mi disse, che lei non voleva che il diavol se ne ridessi affatto;
mostrando che quello che la mi mandava non era lo intero pagamento che meritavano le mie
fatiche, con molte altre cortese parole degne di cotal signora. Lucagnolo, che gli pareva
mill'anni di accostare il suo cartoccio al mio, subito giunto in bottega, presente dodici
lavoranti e altri vicini fattisi innanzi, che desideravano veder la fine di tal contesa,
Lucagnolo prese il suo cartoccio con ischerno ridendo, dicendo: - Ou! ou - tre o quattro
volte, versato li dinari in sul banco con gran rumore: i quali erano venticinque scudi di
giuli, pensando che li mia fussino quattro o cinque scudi di moneta: dove che io,
soffocato dalle grida sue, dallo sguardo e risa de' circunstanti, guardando cosí un poco
dentro innel mio cartoccio, veduto che era tutto oro, da una banda del banco tenendo gli
occhi bassi, senza un romore al mondo, con tutt'a dua le mane forte in alto alzai il mio
cartoccio, il quali facevo versare a modo di una tramoggia di mulino. Erano li mia danari
la metà piú che li sua; in modo che tutti quegli occhi, che mi s'erano affisati a dosso
con qualche ischerno, subito vòlti a lui, dissono: - Lucagnolo, questi dinari di
Benvenuto per essere oro, e per essere la metà piú, fanno molto piú bel vedere che li
tua -. Io credetti certo, che per la invidia, insieme con lo scorno che ebbe quel
Lucagnolo, subito cascassi morto: e con tutto che di quelli mia danari allui ne venissi la
terza parte, per esser io lavorante - ché cosí è il costume: dua terzi ne tocca a il
lavorante e l'altra terza parte alli maestri della bottega - potette piú la temeraria
invidia che la avarizia in lui, qual doveva operare tutto il contrario, per essere questo
Lucagnolo nato d'un contadino da Iesi. Maladisse l'arte sua e quelli che gnene avevano
insegnata, dicendo che da mò innanzi non voleva piú fare quell'arte di grosseria; solo
voleva attendere a fare di quelle bordellerie piccole, da poi che le erano cosí ben
pagate. Non manco sdegnato io dissi, che ogni uccello faceva il verso suo; che lui parlava
sicondo le grotte di dove egli era uscito, ma che io gli protestavo bene, che a me
riuscirebbe benissimo il fare delle sue coglionerie, e che a lui non mai riuscirebbe il
far di quella sorte bordellerie. Cosí partendomi adirato, gli dissi che presto gnene
faria vedere. Quelli che erano alla presenza gli dettono a viva voce il torto, tenendo lui
in concetto di villano come gli era, e me in concetto di uomo, sí come io avevo mostro. |
XXII. |
Il dí seguente andai a ringraziare madonna Porzia, e li dissi che Sua
Signoria aveva fatto il contrario di quel che la disse: che volendo io fare che 'l diavolo
se ne ridessi, lei di nuovo l'aveva fatto rinnegare Idio. Piacevolmente l'uno e l'altro
ridemmo, e mi dette da fare altre opere belle e buone. In questo mezzo io cercai, per via
d'un discepolo di Raffaello da Urbino pittore, che il vescovo Salamanca mi dessi da fare
un vaso grande da acqua, chiamato un'acquereccia, che per l'uso delle credenze che in sun
esse si tengono per ornamento. E volendo il detto vescovo farne dua di equal grandezza,
uno ne dette da fare al detto Lucagnolo, e uno ne ebbi da fare io; e la modanatura delli
detti vasi, ci dette il disegno quel ditto Gioanfrancesco pittore. Cosí messi mano con
maravigliosa voglia innel detto vaso, e fui accomodato d'una particina di bottega da uno
Milanese, che si chiamava maestro Giovanpiero della Tacca. Messomi in ordine, feci il mio
conto delli danari che mi potevano bisognare per alcuna mia affari, e tutto il resto ne
mandai assoccorrere il mio povero buon padre; il quale, mentre che gli erano pagati in
Firenze, s'abbatté per sorte un di quelli arrabbiati che erano degli Otto a quel tempo
che io feci quel poco del disordine, e ch'egli svillaneggiandolo gli aveva detto di
mandarmi in villa con lanciotti a ogni modo. E perché quello arrabbiato aveva certi
cattivi figliolacci, a proposito mio padre disse: - A ogniuno piú può intervenire delle
disgrazie, massimo agli uomini collorosi quando egli hanno ragione, come intervenne al mio
figliuolo; ma veggasi poi del resto della vita sua, come io l'ho virtuosamente saputo
levare. Volesse Idio in vostro servizio, che i vostri figliuoli non vi facessino né
peggio, né meglio di quel che fanno e mia a me; perché, sí come Idio m'ha fatto tale
che io gli ho saputi allevare, cosí, dove la virtú mia non ha potuto arrivare, Lui
stesso me gli ha campati, contra il vostro credere, dalle vostre violente mane -. E
partitosi, tutto questo fatto mi scrisse, pregandomi per l'amor di Dio che io sonassi
qualche volta, acciò che io non perdessi quella bella virtú, che lui con tante fatiche
mi aveva insegnato. La lettera era piena delle piú amorevol parole paterne che mai sentir
si possa; in modo tale che le mi mossono a pietose lacrime, desiderando prima che lui
morissi di contentarlo in buona parte, quanto al sonare, sí come Idio ci compiace tutte
le lecite grazie che noi fedelmente gli domandiamo. |
XXIII. |
Mentre che io sollecitavo il bel vaso di Salamanca, e per aiuto avevo
solo un fanciulletto, che con grandissime preghiere d'amici, mezzo contra la mia voglia,
avevo preso per fattorino. Questo fanciullo era di età di quattordici anni incirca; aveva
nome Paulino ed era figliuolo di un cittadino romano, il quale viveva delle sue entrate.
Era questo Paulino il meglio creato, il piú onesto e il piú bello figliuolo, che mai io
vedessi alla vita mia; e per i sua onesti atti e costumi, e per la sua infinita bellezza,
e per el grande amore che lui portava a me, avenne che per queste cause io gli posi tanto
amore, quanto in un petto di uno uomo rinchiuder si possa. Questo sviscerato amore fu
causa, che per vedere io piú sovente rasserenare quel maraviglioso viso, che per natura
sua onesto e maninconico si dimostrava; pure, quando io pigliavo il mio cornetto, subito
moveva un riso tanto onesto e tanto bello, che io non mi maraviglio punto di quelle
pappolate che scrivono e' Greci degli dèi del cielo. Questo talvolta, essendo a quei
tempi, gli arebbe fatti forse piú uscire de' gangheri. Aveva questo Paulino una sua
sorela, che aveva nome Faustina, qual penso io che mai Faustina fussi sí bella, di chi
gli antichi libri cicalan tanto. Menatomi alcune volte alla vigna sua, e per quel che io
potevo giudicare, mi pareva che questo uomo da bene, padre del detto Paulino, mi arebbe
voluto far suo genero. Questa cosa mi causava molto piú il sonare, che io non facevo
prima. Occorse in questo tempo che un certo Gianiacomo piffero da Cesena, che stava col
Papa, molto mirabil sonatore, mi fece intendere per Lorenzo tronbone lucchese, il quale è
oggi al servizio del nostro Duca, se io volevo aiutar loro per il Ferragosto del Papa,
sonar di sobrano col mio cornetto quel giorno parecchi mottetti, che loro bellissimi
scelti avevano. Con tutto che io fussi nel grandissimo desiderio di finire quel mio bel
vaso cominciato, per essere la musica cosa mirabile in sé e per sattisfare in parte al
mio vecchio padre, fui contento far loro tal compagnia: e otto giorni innanzi al
Ferragosto, ogni dí dua ore facemmo insieme conserto, in modo che il giorno d'agosto
andammo in Belvedere, e in mentre che papa Clemente desinava, sonammo quelli disciplinati
mottetti in modo, che il Papa ebbe a dire non aver mai sentito musica piú suavemente e
meglio unita sonare. Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che luogo e in che
modo lui aveva fatto a avere cosí buon cornetto per sobrano, e lo domandò minutamente
chi io ero. Gianiacomo ditto gli disse a punto il nome mio. A questo il Papa disse: -
Adunque questo è il figliuolo di maestro Giovanni? - Cosí disse che io ero. Il Papa
disse che mi voleva al suo servizio in fra gli altri musici. Gian Iacomo rispose: -
Beatissimo Padre, di questo io non mi vanto che voi lo abbiate, perché la sua
professione, a che lui attende continuamente, si è l'arte della oreficeria, e in quella
opera maravigliosamente, e tirane molto miglior guadagno che lui non farebbe al sonare -.
A questo il Papa disse: - Tanto meglio li voglio, essendo cotesta virtú di piú in lui,
che io non aspettavo. Fagli acconciare la medesima provvisione che a voi altri; e da mia
parte digli che mi serva e che alla giornata ancora innell'altra professione ampliamente
gli darò da fare - e stesa la mana, gli donò in un fazzoletto cento scudi d'oro di
Camera, e disse: - Pàrtigli in modo, che lui ne abbia la sua parte -. Il ditto Gian
Iacomo spiccato dal Papa, venuto a noi, disse puntatamente tutto quel che il Papa gli
aveva detto; e partito li dinari infra otto compagni che noi eramo, dato a me la parte
mia, mi disse: - Io ti vo a fare scrivere nel numero delli nostri compagni -. Al quale io
dissi: - Lasciate passare oggi, e domani vi risponderò -. Partitomi da loro, io andavo
pensando se tal cosa io dovevo accettare, considerato quanto la mi era per nuocere allo
isviarmi dai belli studi della arte mia. La notte seguente mi apparve mio padre in sogno,
e con amorevolissime lacrime mi pregava, che per l'amor di Dio e suo io fussi contento di
pigliare quella tale impresa; a il quali mi pareva rispondere, che in modo nessuno io non
lo volevo fare. Subito mi parve che in forma orribile lui mi spaventasse, e disse: - Non
lo faccendo arai la paterna maladizione, e faccendolo sia tu benedetto per sempre da me -.
Destatomi, per paura corsi a farmi scrivere; di poi lo scrissi al mio vecchio padre, il
quale per la soverchia allegrezza gli prese uno accidente, il quali lo condusse presso
alla morte; e subito mi scrisse d'avere sognato ancora lui quasi che il medesimo che avevo
fatto io. |
XXIV. |
E' mi pareva, veduto di aver sadisfatto alla onesta voglia del mio buon
padre, che ogni cosa mi dovessi succedere a onorata e gloriosa fine. Cosí mi messi con
grandissima sollecitudine a finire il vaso che cominciato avevo per il Salamanca. Questo
vescovo era molto mirabile uomo, ricchissimo, ma difficile a contentare: mandava ogni
giorno a vedere quel che io facevo; e quella volta che il suo mandato non mi trovava, il
detto Salamanca veniva in grandissimo furore, dicendo che mi voleva far tôrre la ditta
opera, e darla ad altri a finire. Questo ne era causa il servire a quel maladetto sonare.
Pure con grandissima sollecitudine mi ero messo giorno e notte, tanto che conduttola a
termine di poterla mostrare al ditto vescovo, lo feci vedere: a il quali crebbe tanto
desiderio di vederlo finito, che io mi penti' d'arvegnene mostro. In termine di tre mesi
ebbi finita la detta opera con tanti belli animaletti, fogliami e maschere, quante
immaginar si possa. Subito la mandai per quel mio Paulino fattore a mostrare a quel
valente uomo di Lucagnolo detto di sopra; il qual Paulino, con quella sua infinita grazia
e bellezza, disse cosí: - Misser Lucagnolo, dice Benvenuto che vi manda a monstrare le
sue promesse e vostre coglionerie, aspettando da voi vedere le sue bordellerie -. Ditto le
parole, Lucagniolo prese in mano il vaso, e guardollo assai; di poi disse a Paulino: - O
bello zittiello, di' al tuo padrone, che egli è un gran valente uomo, e che io lo priego
che mi voglia per amico, e non s'entri in altro -. Lietissimamente mi fece la imbasciata
quello onesto e mirabil giovanetto. Portossi il ditto vaso al Salamanca, il quali volse
che si facessi stimare. Innella detta istima si intervenne questo Lucagnolo, il quali
tanto onoratamente me lo stimò e lodò da gran lunga, di quello che io mi pensava. Preso
il ditto vaso, il Salamanca spagnolescamente disse: - Io giuro a Dio, che tanto voglio
stare a pagarlo, quanto lui ha penato a farlo -. Inteso questo, io malissimo contento mi
restai, maladicendo tutta la Spagna e chi li voleva bene. Era infra gli altri belli
ornamenti un manico tutto di un pezzo a questo vaso, sottilissimamente lavorato, che per
virtú di una certa molla stava diritto sopra la bocca del vaso. Monstrando un giorno per
boria monsignor ditto a certi sua gentiluomini spagnuoli questo mio vaso, avenne che un di
questi gentiluomini, partito che fu il ditto monsignore, troppo indiscretamente
maneggiando il bel manico del vaso, non potendo resistere quella gentil molla alla sua
villana forza, in mano al ditto si roppe; e parendoli di aver molto mal fatto, pregò quel
credenzier che n'aveva cura, che presto lo portasse al maestro che lo aveva fatto, il
quali subito lo racconciassi e li prommettessi tutto il premio che lui domandava, pur che
presto fusse acconcio. Cosí capitandomi alle mani il vaso, promessi acconciarlo
prestissimo, e cosí feci. Il ditto vaso mi fu portato innanzi mangiare: a ventidua ore
venne quel che me lo aveva portato, il quale era tutto in sudore, ché per tutta la strada
aveva corso, avvengaché monsignore ancora di nuovo lo aveva domandato per mostrarlo a
certi altri signori. Però questo credenziere non mi lasciava parlar parola, dicendo: -
Presto, presto, porta il vaso -. Onde io, volontoroso di fare adagio e non gnene dare,
dissi che io non volevo fare presto. Venne il servitore ditto in tanta furia, che,
accennando di mettere mano alla spada con una mana, e con la altra fece dimostrazione e
forza di entrare in bottega; la qual cosa io subito glie ne 'nterdissi con l'arme,
accompagnate con molte ardite parole, dicendogli: - Io non te lo voglio dare; e va, di' a
monsignore tuo padrone, che io voglio li dinari delle mie fatiche, prima che egli esca di
questa bottega -. Veduto questo di non aver potuto ottenere per la via delle braverie, si
messe a pregarmi, come si priega la Croce, dicendomi, che se io gnene davo, farebbe per me
tanto, che io sarei pagato. Queste parole niente mi mossono del mio proposito, sempre
dicendogli il medesimo. Alla fine disperatosi della impresa, giurò di venire con tanti
spagnuoli, che mi arieno tagliati a pezzi; e partitosi correndo, in questo mezzo io, che
ne credevo qualche parte di questi assassinamenti loro, mi promessi animosamente
difendermi; e messo in ordine un mio mirabile scoppietto, il quale mi serviva per andare a
caccia, da me dicendo: - Chi mi toglie la roba mia con le fatiche insieme, ancora se gli
può concedere la vita? - in questo contrasto, che da me medesimo faceva, comparse molti
spagnuoli insieme con il loro maestro di casa, il quale a il lor temerario modo disse a
quei tanti, che entrassin drento, e che togliessino il vaso, e me bastonassino. Alle qual
parole io monstrai loro la bocca dello scoppietto in ordine col suo fuoco, e ad alta voce
gridavo: - Marrani, traditori, assassinas'egli a questo modo le case e le botteghe in una
Roma? Tanti quanti di voi, ladri, s'appresseranno a questo isportello, tanti con questo
mio istioppo ne farò cader morti -. E volto la bocca d'esso istioppo al loro maestro di
casa, accennando di trarre, dissi: - E tu ladrone, che gli ammetti, voglio che sia il
primo a morire -. Subito dette di piede a un giannetto, in su che lui era, e a tutta
briglia si misse a fuggire. A questo gran romore era uscito fuora tutti li vicini; e di
piú passando alcuni gentiluomini romani, dissono: -Ammazzali pur questi marrani, perché
sarai aiutato da noi -. Queste parole furno di tanta forza, che molto ispaventati da me si
partirno; in modo che, necessitati dal caso, furno forzati annarrare tutto il caso a
monsignor, il quale era superbissimo, e tutti quei servitori e ministri isgridò, sí
perché loro eran venuti a fare un tale eccesso, e perché, da poi cominciato, loro non
l'avevano finito. Abbattessi in questo quel pittore che s'era intervenuto in tal cosa, a
il quale monsignore disse che mi venissi a dire da sua parte, che se io non gli portavo il
vaso subito, che di me il maggior pezzo sarien gli orecchi; e se io lo portavo, che subito
mi darebbe il pagamento di esso. Questa cosa non mi messe punto di paura, e gli feci
intendere che io lo andrei a dire al Papa subito. Intanto, a lui passato la stizza e a me
la paura, sotto la fede di certi gran gentiluomini romani che il detto non mi
offenderebbe, e con buona sicurtà del pagamento delle mie fatiche, messomi in ordine con
un gra' pugnale e il mio buon giaco, giunsi in casa del detto monsignore, il quale aveva
fatto mettere in ordine tutta la sua famiglia. Entrato, avevo il mio Paulino appresso con
il vaso d'argento. Era né piú né manco come passare per mezzo il Zodiaco, ché chi
contrafaceva il leone, quale lo scorpio, altri il cancro: tanto che pur giugnemmo alla
presenza di questo pretaccio, il quale sparpagliò le piú pretesche spagnolissime parole
che inmaginar si possa. Onde io mai alzai la testa a guardarlo, né mai gli risposi
parola. A il quale mostrava di crescere piú la stizza; e fattomi porgere da scrivere, mi
disse che io scrivessi di mia mano, dicendo d'essere ben contento e pagato da lui. A
questo io alzai la testa e li dissi che molto volentieri lo farei se prima io avessi li
mia dinari. Crebbe còllora al vescovo; e le bravate e le dispute furno grande. Al fine
prima ebbi li dinari, da poi scrissi, e lieto e contento me ne andai. |
XXV. |
Da poi lo intese papa Clemente, il quale aveva veduto il vaso in prima,
ma non gli fu mostro per di mia mano, ne prese grandissimo piacere, e mi dètte molte
lode, e in pubblico disse che mi voleva grandissimo bene; a tale che monsignore Salamanca
molto si pentí d'avermi fatto quelle sue bravate: e per rappattumarmi, per il medesimo
pittore mi mandò a dire che mi voleva dar da fare molte grande opere; al quale io dissi
che volentieri le farei, ma volevo prima il pagamento di esse, che io le cominciassi.
Ancora queste parole vènneno agli orecchi di papa Clemente, le quale lo mossono
grandemente a risa. Era alla presenza il cardinale Cibo, al quali il Papa contò tutta la
diferenza che io avevo aùto con questo vescovo; di poi si volse a un suo ministro, e li
comandò che continuamente mi dessi da fare per il palazzo. Il ditto cardinal Cibo mandò
per me, e doppo molti piacevoli ragionamenti, mi dette da fare un vaso grande, maggior che
quello del Salamanca; cosí il cardinal Cornaro e molti altri di quei cardinali,
massimamente Ridolfi e Salviati: da tutti avevo da fare, in modo che io guadagnavo molto
bene. Madonna Porzia sopra ditta mi disse che io dovessi aprire una bottega che fusse
tutta mia: e io cosí feci, e mai restavo di lavorare per quella gentile donna da bene, la
quale mi dava assaissimo guadagno, e quasi per causa sua istessa m'ero mostro al mondo
uomo da qualcosa. Presi grande amicizia col signor Gabbriello Ceserino, il quale era
gonfaloniere di Roma: a questo signore io li feci molte opere. Una infra le altre
notabile: questa fu una medaglia grande d'oro da portare in un cappello: dentro isculpito
in essa medaglia si era Leda col suo cigno; e sadisfattosi assai delle mie fatiche, disse
che voleva farla istimare per pagarmela il giusto prezzo. E perché la medaglia era fatta
con gran disciplina, quelli stimatori della arte la stimarono molto piú che lui non
s'immaginava: cosí tenendosi la medaglia in mano, nulla ne ritraevo delle mie fatiche.
Occorse il medesimo caso di essa medaglia che quello del vaso del Salamanca. E perché
queste cose non mi tolgano il luogo da dire cose di maggiore importanza, cosí brevemente
le passerò. |
XXVI. |
Con tutto che io esca alquanto della mia professione, volendo
descrivere la vita mia, mi sforza qualcuna di queste cotal cose non già minutamente
descriverle, ma sí bene soccintamente accennarle. Essendo una mattina del nostro San
Giovanni a desinare insieme con molti della nazion nostra, di diverse professione,
pittori, scultori, orefici; infra li altri notabili uomini ci era uno domandato il Rosso
pittore, e Gianfrancesco discepolo di Raffaello da Urbino, e molti altri. E perché in
quel luogo io gli avevo condotti liberamente, tutti ridevano e motteggiavano, secondo che
promette lo essere insieme quantità di uomini, rallegrandosi di una tanto maravigliosa
festa. Passando a caso un giovane isventato, bravaccio, soldato del signor Rienzo da Ceri,
a questi romori, sbeffando disse molte parole inoneste della nazione fiorentina. Io, che
era guida di quelli tanti virtuosi e uomini da bene, parendomi essere lo offeso,
chetamente, sanza che nessuno mi vedessi, questo tale sopragiunsi, il quale era insieme
con una sua puttana, che per farla ridere, ancora seguitava di fare quella scornacchiata.
Giunto a lui, lo domandai se egli era quello ardito, che diceva male de' Fiorentini.
Subito disse: - Io son quello -. Alle quale parole io alzai la mana dandogli in sul viso,
e dissi: - E io son questo -. Subito messo mano all'arme l'uno e l'altro arditamente, ma
non sí tosto cominciato tal briga, che molti entrorno di mezzo, piú presto pigliando la
parte mia che altrimenti, essentito e veduto che io avevo ragione. L'altro giorno a presso
mi fu portato un cartello di disfida per combattere seco, il quale io accettai molto
lietamente, dicendo che questa mi pareva impresa da spedirla molto piú presto che quelle
di quella altra arte mia: e subito me ne andai a parlare a un vechione chiamato il
Bevilacqua, il quale aveva nome d'essere stato la prima spada di Italia, perché s'era
trovato piú di venti volte ristretto in campo franco e sempre ne era uscito a onore.
Questo uomo da bene era molto mio amico, e conosciutomi per virtú della arte mia, e anche
s'era intervenuto in certe terribil quistione infra me e altri. Per la qual cosa lui
lietamente subito mi disse: - Benvenuto mio, se tu avessi da fare con Marte, io son certo
che ne usciresti a onore, perché di tanti anni, quant'io ti conosco, non t'ho mai veduto
pigliare nessuna briga a torto -. Cosí prese la mia impresa, e conduttoci in luogo con
l'arme in mano, sanza insanguinarsi, restando dal mio avversario, con molto onore usci' di
tale inpresa. Non dico altri particolari; che se bene sarebbono bellissimi da sentire in
tal genere, voglio riserbare queste parole a parlare de l'arte mia, quale è quella che
m'ha mosso a questo tale iscrivere; e in essa arò da dire pur troppo. Se bene mosso da
una onesta invidia, desideroso di fare qualche altra opera che aggiugnessi e passassi
ancora quelle del ditto valente uomo Lucagnolo, per questo non mi scostavo mai da quella
mia bella arte del gioiellare; in modo che infra l'una e l'altra mi recava molto utile e
maggiore onore, e innell'una e nella altra continuamente operavo cose diverse dagli altri.
Era in questo tempo a Roma un valentissimo uomo perugino per nome Lautizio, il quale
lavorava solo di una professione, e di quella era unico al mondo. Avenga che a Roma ogni
cardinale tiene un suggello, innel quale è impresso il suo titolo, questi suggelli si
fanno grandi quanti è tutta una mana di un piccol putto di dodici anni incirca: e sí
come io ho detto di sopra, in essa si intaglia quel titolo del cardinale, nel quale
s'interviene moltissime figure: pagasi l'uno di questi suggelli ben fatti cento e piú di
cento scudi. Ancora a questo valente uomo io portavo una onesta invidia; se bene questa
arte è molto appartata da l'altre arti che si intervengono nella oreficeria; perché
questo Lautizio, faccendo questa arte de' suggelli, non sapeva fare altro. Messomi a
studiare ancora in essa arte, se bene difficilissima la trovavo, non mai stanco per fatica
che quella mi dessi, di continuo attendevo a guadagnare e a imparare. Ancora era in Roma
un altro eccellentissimo valente uomo, il quale era milanese e si domandava per nome
misser Caradosso. Questo uomo lavorava solamente di medagliette cesellate fatte di
piastra, e molte altre cose; fece alcune Pace lavorate di mezzo rilievo, e certi Cristi di
un palmo, fatti di piastre sottilissime d'oro, tanto ben lavorate, che io giudicavo questo
essere il maggior maestro che mai di tal cose io avessi visto, e di lui piú che di
nessuno altro avevo invidia. Ancora c'era altri maestri, che lavoravano di medaglie
intagliate in acciaio, le quali son le madre e la vera guida a coloro che vogliono sapere
fare benissimo le monete. Attutte queste diverse professioni con grandissimo studio mi
mettevo a impararle. Écci ancora la bellissima arte dello smaltare, quale io non viddi
mai far bene ad altri, che a un nostro fiorentino chiamato Amerigo, quale io non cognobbi,
ma ben cognobbi le maravigliosissime opere sue; le quali in parte del mondo, né da uomo
mai, non viddi chi s'appressassi di gran lunga a tal divinità. Ancor a questo esercizio
molto difficilissimo rispetto al fuoco, che nelle finite gran fatiche per ultimo si
interviene, e molte volte le guasta e manda in ruina, ancora a questa diversa professione
con tutto il mio potere mi messi; e se bene molto difficile io la trovavo, era tanto il
piacere che io pigliavo, che le ditte gran difficultà mi pareva che mi fussin riposo: e
questo veniva per uno espresso dono prestatomi dallo Idio della natura d'una complessione
tanto buona e ben proporzionata, che liberamente io mi prommettevo dispor di quella tutto
quello che mi veniva in animo di fare. Queste professione ditte sono assai e molto diverse
l'una dall'altra; in modo che chi fa bene una di esse, volendo fare le altre, quasi a
nissuno non riesce come quella che fa bene; dove che io ingegnatomi con tutto il mio
potere di tutte queste professione equalmente operare; e al suo luogo mostrerrò tal cosa
aver fatta, sí come io dico. |
XXVII. |
In questo tempo, essendo io ancora giovane di ventitré anni in circa,
si risentí un morbo pestilenziale tanto inistimabile, che in Roma ogni dí ne moriva
molte migliaia. Di questo alquanto spaventato, mi cominciai a pigliare certi piaceri, come
mi dittava l'animo, pure causati da qualcosa che io dirò. Perché io me ne andavo il
giorno della festa volentieri alle anticaglie, ritraendo di quelle or con cera or con
disegno; e perché queste ditte anticaglie sono tutte rovine, e infra quelle ditte ruine
cova assaissimi colombi, mi venne voglia di adoperare contra essi lo scoppietto: in modo
che per fuggire il commerzio, spaventato dalla peste, mettevo uno scoppietto in ispalla al
mio Pagolino, e soli lui e io ce ne andavamo alle ditte anticaglie. Il che ne seguiva che
moltissime volte ne tornavo carico di grassissimi colombi. Non mi piaceva di mettere innel
mio scoppietto altro che una sola palla, e cosí per vera virtú di quella arte facevo
gran caccie. Tenevo uno scoppietto diritto, di mia mano; e drento e fuora non fu mai
specchio da vedere tale. Ancora facevo di mia mano la finissima polvere da trarre, innella
quale io trovai i piú bei segreti, che mai per insino a oggi da nessuno altro si sieno
trovati; e di questo, per non mi ci stendere molto, solo darò un segno da fare
maravigliare tutti quei che son periti in tal professione. Questo si era, che con la
quinta parte della palla il peso della mia polvere, detta palla mi portava ducento passi
andanti in punto bianco. Se bene il gran piacere, che io traevo da questo mio scoppietto,
mostrava di sviarmi dalla arte e dagli studii mia, ancora che questo fussi la verità, in
uno altro modo mi rendeva molto piú di quel che tolto mi aveva: il perché si era, che
tutte le volte che io andavo a questa mia caccia, miglioravo la vita mia grandemente,
perché l'aria mi conferiva forte. Essendo io per natura malinconico, come io mi trovavo a
questi piaceri, subito mi si rallegrava il cuore, e venivami meglio operato e con piú
virtú assai, che quando io continuo stavo a' miei studii ed esercizii; di modo che lo
scoppietto alla fin del giuoco mi stava piú a guadagno che a perdita. Ancora, mediante
questo mio piacere, m'avevo fatto amicizie di certi cercatori, li quali stavano alle
velette di certi villani lombardi, che venivano al suo tempo a Roma a zappare le vigne.
Questi tali innel zappare la terra sempre trovavono medaglie antiche, agate, prasme,
corniuole, cammei: ancora trovavano delle gioie, come s'è dire ismeraldi, zaffini,
diamanti e rubini. Questi tali cercatori da quei tai villani avevano alcuna volta per
pochissimi danari di queste cose ditte; alle quali io alcuna volta, e bene spesso,
sopragiunto i cercatori, davo loro tanti scudi d'oro, molte volte di quello che loro
appena avevano compero tanti giuli. Questa cosa, non istante il gran guadagno che io ne
cavavo, che era per l'un dieci o piú, ancora mi facevo benivolo quasi attutti quei
cardinali di Roma. Solo dirò di queste qualcuna di quelle cose notabile e piú rare. Mi
capitò alle mane, infra tante le altre, una testa di un dalfino grande quant'una fava da
partito grossetta. Infra le altre, non istante che questa testa fusse bellissima, la
natura in questo molto sopra faceva la arte; perché questo smiraldo era di tanto buon
colore, che quel tale che da me lo comperò a decine di scudi, lo fece acconciare a uso di
ordinaria pietra da portare in anello: cosí legato lo vendé centinaia. Ancora un altro
genere di pietra: questo si fu una testa del piú bel topazio, che mai fusse veduto al
mondo: in questo l'arte adeguava la natura. Questa era grande quant'una grossa nocciuola,
e la testa si era tanto ben fatta quanto inmaginar si possa: era fatta per Minerva. Ancora
un'altra pietra diversa da queste: questo fu un cammeo: in esso intagliato uno Ercole che
legava il trifauce Cerbero. Questo era di tanta bellezza e di tanta virtú ben fatto, che
il nostro gran Michelagnolo ebbe a dire non aver mai veduto cosa tanto maravigliosa.
Ancora infra molte medaglie di bronzo, una me ne capitò, nella quale era la testa di
Iove. Questa medaglia era piú grande che nessuna che veduto mai io ne avessi: la testa
era tanto ben fatta, che medaglia mai si vidde tale. Aveva un bellissimo rovescio di
alcune figurette simili allei fatte bene. Arei sopra di questo da dire di molte gran cose,
ma non mi voglio stendere per non essere troppo lungo. |
XXVIII. |
Come di sopra dissi, era cominciato la peste in Roma: se bene io voglio
ritornare un poco indietro, per questo non uscirò del mio proposito. Capitò a Roma un
grandissimo cerusico, il quale si domandava maestro Iacomo da Carpi. Questo valente uomo,
infra gli altri sua medicamenti, prese certe disperate cure di mali franzesi. E perché
questi mali in Roma sono molto amici de' preti, massime di quei piú ricchi, fattosi
cognoscere questo valente uomo, per virtú di certi profumi mostrava di sanare
maravigliosamente queste cotai infirmità, ma voleva far patto prima che cominciassi a
curare; e' quali patti, erano a centinaia e non a decine. Aveva questo valente uomo molta
intelligenzia del disegno. Passando un giorno a caso della mia bottega, vidde a sorta
certi disegni che io avevo innanzi, in fra' quali era parecchi bizzarri vasetti, che per
mio piacere avevo disegnati. Questi tali vasi erano molto diversi e varii da tutti quelli
che mai s'erano veduti insino a quella età. Volse il ditto maestro Iacomo che io gnene
facessi d'argento; i quali io feci oltra modo volentieri, per essere sicondo il mio
capriccio. Con tutto che il ditto valente uomo molto bene me gli pagasse, fu l'un cento
maggiore l'onore che mi apportorno; perché in nella arte di quei valenti uomini orefici
dissono non aver mai veduto cosa piú bella né meglio condotta. Io non gli ebbi sí tosto
forniti, che questo uomo li mostrò al Papa; e l'altro dí dapoi s'andò con Dio. Era
molto litterato: maravigliosamente parlava della medicina. Il Papa volse che lui restassi
al suo servizio; e questo uomo disse, che non voleva stare al servizio di persona del
mondo; e che chi aveva bisogno di lui, gli andassi dietro. Egli era persona molto astuta,
e saviamente fece a 'ndarsene di Roma; perché non molti mesi apresso tutti quelli che
egli aveva medicati si condusson tanto male, che l'un cento eran peggio che prima: sarebbe
stato ammazzato, se fermato si fussi. Mostrò li mia vasetti in fra molti signori; in fra
li altri allo eccellentissimo duca di Ferrara; e disse, che quelli lui li aveva aúti da
un gran signore in Roma, dicendo a quello, se lui voleva essere curato della sua
infirmità, voleva quei dua vasetti; e che quel tal signore gli aveva detto, ch'egli erano
antichi, e che di grazia gli chiedesse ogni altra cosa, qual non gli parrebbe grave a
dargnene, purché quelli gnene lasciassi: disse aver fatto sembiante non voler medicarlo,
e però gli ebbe. Questo me lo disse misser Alberto Bendedio in Ferrara, e con gran
sicumera me ne mostrò certi ritratti di terra; al quali io mi risi; e non dicendo altro,
misser Alberto Bendedio, che era uomo superbo, isdegnato mi disse: - Tu te ne ridi, eh? e
io ti dico che da mill'anni in qua non c'è nato uomo che gli sapessi solamente ritrarre
-. E io, per non tor loro quella riputazione, standomi cheto, stupefatto gli ammiravo. Mi
fu detto in Roma da molti signori di questa opera, che a lor pareva miracolosa e antica;
alcuni di questi, amici mia; e io baldanzoso di tal faccenda, confessai d'averli fatti io.
Non volendo crederlo, ond'io volendo restar veritiero a quei tali, n'ebbi a dare
testimonianza a farne nuovi disegni; ché quella non bastava, avenga che li disegni vecchi
il ditto maestro Iacomo astutamente portar se gli volse. In questa piccola operetta io ci
acquistai assai. |
XXIX. |
Seguitando apresso la peste molti mesi, io mi ero scaramucciato,
perché mi era morti di molti compagni, ed ero restato sano e libero. Accadde una sera in
fra le altre, un mio confederato compagno menò in casa a cena una meretrice bolognese,
che si domandava Faustina. Questa donna era bellissima, ma era di trenta anni in circa, e
seco aveva una servicella di tredici in quattordici. Per essere la detta Faustina cosa del
mio amico, per tutto l'oro del mondo io non l'arei tocca. Con tutto che la dicesse essere
di me forte innamorata, constantemente osservavo la fede allo amico mio; ma poi che a
letto furno, io rubai quella servicina, la quali era nuova nuova, ché guai allei se la
sua padrona lo avessi saputo. Cosí godetti piacevolmente quella notte con molta piú mia
sadisfazione, che con la patrona Faustina fatto non arei. Apressandosi all'ora del
desinare, onde io stanco, che molte miglia avevo camminato, volendo pigliare il cibo, mi
prese un gran dolore di testa, con molte anguinaie nel braccio manco, scoprendomisi un
carbonchio nella nocella della mana manca, dalla banda di fuora. Spaventato ugnuno in
casa, lo amico mio, la vacca grossa e la minuta tutte fuggite, onde io restato solo con un
povero mio fattorino, il quale mai lasciar mi volse, mi sentivo soffocare il cuore, e mi
conoscevo certo esser morto. In questo, passando per la strada il padre di questo mio
fattorino, il quale era medico del cardinale Iacoacci e a sua provisione stava, disse il
detto fattore al padre: - Venite, mio padre, a veder Benvenuto, il quale è con un poco di
indisposizione a letto -. Non considerando quel che la indisposizione potessi essere,
subito venne a me, e toccatomi il polso, vide e sentí quel che lui volsuto non arebbe.
Subito vòlto al figliuolo, gli disse: - O figliuolo traditore, tu m'hai rovinato: come
poss'io piú andare innanzi al cardinale? - A cui il figliuol disse: - Molto piú vale,
mio padre, questo mio maestro, che quanti cardinali ha Roma -. Allora il medico a me si
volse, e disse: - Da poi che io son qui, medicare ti voglio. Solo di una cosa ti fo
avvertito, che avendo usato il coito, se' mortale -. Al quali io dissi: - Hollo usato
questa notte -. A questo disse il medico: - In che creatura, e quanto? - E gli dissi: - La
notte passata, e innella giovinissima fanciulletta -. Allora avvedutosi lui delle sciocche
parole usate, subito mi disse: - Sí per esser giovini a cotesto modo, le quali ancor non
putano, e per essere a buona ora il rimedio, non aver tanta paura, chi io spero per ogni
modo guarirti -. Medicatomi, e partitosi, subito comparse un mio carissimo amico, chiamato
Giovanni Rigogli, il quali, increscendoli e del mio gran male e dell'essere lasciato cosí
solo da il compagno mio, disse: - Non ti dubitare, Benvenuto mio, che io mai non mi
spiccherò da te, per infin che guarito io non ti vegga -. Io dissi a questo amico, che
non si appressassi a me, perché spacciato ero. Solo lo pregavo che lui fussi contento di
pigliare una certa buona quantità di scudi che erano in una cassetta quivi vicina al mio
letto, e quelli, di poi che Idio mi avessi tolto al mondo, gli mandassi a donare al mio
povero padre, scrivendogli piacevolmente, come ancora io avevo fatto sicondo l'usanza che
prommetteva quella arrabbiata istagione. Il mio caro amico mi disse non si voler da me
partir in modo alcuno, e quello che da poi occorressi innell'uno o innell'altro modo,
sapeva benissimo quel che si conveniva fare per lo amico. E cosí passammo innanzi con lo
aiuto di Dio: e con i maravigliosi rimedi cominciato a pigliare grandissimo miglioramento,
presto a bene di quella grandissima infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta,
dentrovi la tasta e un piastrello sopra, me ne andai in sun un mio cavallino salvatico, il
quale io avevo. Questo aveva i peli lunghi piú di quattro dita; era a punto grande come
un grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne andai a trovare il
Rosso pittore, il quale era fuor di Roma in verso Civitavecchia, a un luogo del conte
dell'Anguillara, detto Cervetera, e trovato il mio Rosso, il quale oltra modo si
rallegrò, onde io gli dissi: - I' vengo a fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi
sono -. Cacciatosi subito a ridere, e abracciatomi e baciatomi, appresso mi disse, che per
amor del conte io stessi cheto. Cosí filicemente e lieti con buon vini e ottime vivande,
accarezzato dal ditto conte, in circa a un mese ivi mi stetti, e ogni giorno soletto me ne
andavo in sul lito del mare, e quivi smontavo, caricandomi di piú diversi sassolini,
chiocciolette e nicchi rari e bellissimi. L'ultimo giorno, che poi piú non vi andai, fui
assaltato da molti uomini, li quali, travestitisi, eran discesi d'una fusta di Mori; e
pensandosi d'avermi in modo ristretto a un certo passo, il quali non pareva possibile a
scampar loro delle mani, montato subito in sul mio cavalletto, resolutomi al periglioso
passo quivi d'essere o arosto o lesso, perché poca speranza vedevo di scappare di uno
delli duoi modi, come volse Idio, il cavalletto, che era qual di sopra io dissi, saltò
quello che è impossibile a credere; onde io salvatomi ringraziai Idio. Lo dissi al conte:
lui dette a l'arme: si vidde le fuste in mare. L'altro giorno apresso sano e lieto me ne
ritornai in Roma. |
XXX. |
Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si
ritrovavono vivi molto allegramente l'un l'altro si carezavano. Da questo ne nacque una
compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; e il fondatore di
questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo. Questo Michelagnolo era
sanese, ed era molto valente uomo, tale che poteva comparire in fra ogni altri di questa
professione, ma sopra tutto era questo uomo il piú piacevole e il piú carnale che mai si
cognoscessi al mondo. Di questa detta compagnia lui era il piú vecchio, ma sí bene il
piú giovane alla valitudine del corpo. Noi ci ritrovavomo spesso insieme; il manco si era
due volte la settimana. Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si era Giulio
Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi del gran Raffaello da Urbino.
Essendoci trovati piú e piú volte insieme, parve a quella nostra buona guida che la
domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua, e che ciascuno di noi fussi
ubbrigato a menare la sua cornacchia, ché tal nome aveva lor posto il ditto Michelagnolo;
e chi non la menassi, fussi ubbrigato a pagare una cena attutta la compagnia. Chi di noi
non aveva pratica di tal donne di partito, con non poca sua spesa e disagio se n'ebbe
approvvedere, per non restare a quella virtuosa cena svergognato. Io, che mi pensavo
d'essere provisto bene per una giovane molto bella, chiamata Pantassilea, la quali era
grandemente innamorata di me, fui forzato a concederla a un mio carissimo amico, chiamato
il Bachiacca il quali era stato ed era ancora grandemente innamorato di lei. In questo
caso si agitava un pochetto di amoroso isdegno, perché veduto che alla prima parola io la
concessi al Bachiacca, parve a questa donna che io tenessi molto poco conto del grande
amore che lei mi portava; di che ne nacque una grandissima cosa in ispazio di tempo,
volendosi lei vendicare della ingiuria ricevuta da me; la qualcosa dirò poi al suo luogo.
Avvenga che l'ora si cominciava a pressare di appresentarsi alla virtuosa compagnia
ciascuno con la sua cornacchia, e io mi trovavo senza e pur troppo mi pareva fare errore
mancare di una sí pazza cosa; e quel che piú mi teneva si era che io non volevo menarvi
sotto il mio lume, in fra quelle virtú tali, qualche spennacchiata cornacchiuccia; pensai
a una piacevolezza per acrescere alla lietitudine maggiore risa. Cosí risolutomi, chiamai
un giovinetto de età di sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di uno
ottonaio spagnuolo. Questo giovine attendeva alle lettere latine ed era molto istudioso.
Avea nome Diego: era bello di persona, maraviglioso di color di carne: lo intaglio della
testa sua era assai piú bello che quello antico di Antino e molte volte lo avevo
ritratto; di che ne aveva aùto molto onore nelle opere mie. Questo non praticava con
persona, di modo che non era cognusciuto: vestiva molto male e accaso: solo era innamorato
dei suoi maravigliosi studi. Chiamato in casa mia, lo pregai che mi si lasciassi addobbare
di quelle veste femminile che ivi erano apparecchiare. Lui fu facile e presto si vestí, e
io con bellissimi modi di acconciature presto accresce' gran bellezze al suo bello viso:
messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi dua grosse e belle perle - li detti anelli
erano rotti; solo istrignevano gli orecchi, li quali parevano che bucati fussino -; da poi
li messi al collo collane d'oro bellissime e ricchi gioielli: cosí acconciai le belle
mane di anella. Da poi piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio
grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza disse: - Oimè, è quel,
Diego? - Allora io dissi: - Quello è Diego, il quale io non domandai mai di sorte alcuna
piacere: solo ora priego quel Diego, che mi compiaccia di uno onesto piacere: e questo si
è, che in quel proprio abito - io volevo che venissi a cena con quella virtuosa
compagnia, che piú volte io gli avevo ragionato. Il giovane onesto, virtuoso e savio,
levato da sé quella baldanza, volto gli occhi a terra, stette cosí alquanto senza dir
nulla: di poi in un tratto alzato il viso, disse: - Con Benvenuto vengo; ora andiamo -.
Messoli in capo un grainde sciugatoio, il quale si domanda in Roma un panno di state,
giunti al luogo, di già era comparso ugniuno, e tutti fattimisi incontro: il ditto
Michelagnolo era messo in mezzo da Iulio e da Giovanfrancesco. Levato lo sciugatoio di
testa a quella mia bella figura, quel Michelagnolo - come altre volte ho detto, era il
piú faceto e il piú piacevole che inmaginar si possa - appiccatosi con tutte a dua le
mane, una a Iulio e una a Gianfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li fece
abbassare, e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava tutti e' populi
dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli Angeli del Paradiso! che con tutto che si
chiamino Angeli, mirate che v'è ancora delle Angiole - e gridando diceva |
O Angiol bella, o Angiol degna, |
tu mi salva, e tu mi segna. |
A queste parole la piacevol creatura ridendo alzò la mana destra, e
gli dette una benedizion papale con molte piacevol parole. Allora rizzatosi Michelagnolo,
disse che al Papa si baciava i piedi e che agli Angeli si baciava le gote: e cosí fatto,
grandemente arrossí il giovane, che per quella causa si accrebbe bellezza grandissima.
Cosí andati innanzi, la stanza era piena di sonetti, che ciascun di noi aveva fatti, e
mandatigli a Michelagnolo. Questo giovine li cominciò a leggere, e gli lesse tutti:
accrebbe alle sue infinite bellezze tanto, che saria inpossibile il dirlo. Di poi molti
ragionamenti e maraviglie, ai quali io non mi voglio stendere, che non son qui per questo:
solo una parola mi sovvien dire, perché la disse quel maraviglioso Iulio pittore, il
quale virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno, ma piú affisato le donne
che altri, voltosi a Michelagnolo, cosí disse: - Michelagnolo mio caro, quel vostro nome
di cornacchie oggi a costoro sta bene, benché le sieno qualche cosa manco belle che
cornacchie apresso a uno de' piú bei pagoni che immaginar si possa -. Essendo presto e in
ordine le vivande, volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di volere essere lui
quel che a tavola ci mettessi. Essendogli tutto concesso, preso per mano le donne, tutte
le accomodò per di dentro e la mia in mezzo; dipoi tutti gli uomini messe di fuori, e me
in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore. Era ivi per ispalliera alle donne un
tessuto di gelsumini naturali e bellissimi, il quale faceva tanto bel campo a quelle
donne, massimo alla mia, che impossibile saria il dirlo con parole. Cosí seguitammo
ciascuno di bonissima voglia quella ricca cena, la quale era abundantissima a maraviglia.
Di poi che avemmo cenato, venne un poco di mirabil musica di voce insieme con istrumenti:
e perché cantavano e sonavano con i libri inanzi, la mia bella figura chiese da cantare
la sua parte; e perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che l'altre, dette
tanto maraviglia, che li ragionamenti che faceva Iulio e Michelagnolo non erano piú in
quel modo di prima piacevoli, ma erano tutti di parole grave, salde e piene di stupore.
Apresso alla musica, un certo Aurelio Ascolano, che maravigliosamente diceva allo
improviso, cominciatosi a lodar le donne con divine e belle parole, in mentre che costui
cantava, quelle due donne, che avevano in mezzo quella mia figura, non mai restate di
cicalare; che una di loro diceva innel modo che la fece a capitar male, l'altra domandava
la mia figura in che modo lei aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo egli
era che l'era arrivata in Roma, e molte di queste cose tale. Egli è il vero che se io
facessi solo per descrivere cotai piacevolezze, direi molti accidenti che vi accaddono,
mossi da quella Pantassilea, la quale forte era innamorata di me: ma per non essere innel
mio proposito, brevemente li passo. Ora, venuto annoia questi ragionamenti di quelle
bestie donne alla mia figura, alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta Pomona,
volendosi spiccare da quelli sciocchi ragionamenti di coloro, si scontorceva ora in sun
una banda ora in su l'altra. Fu domandata da quella femmina, che aveva menata Iulio, se
lei si sentiva qualche fastidio. Disse che sí, e che si pensava d'esser grossa di qualche
mese, e che si sentiva dar noia alla donna del corpo. Subito le due donne, che in mezzo
l'avevano, mossosi a pietà di Pomona, mettendogli le mane al corpo, trovorno che l'era
mastio. Tirando presto le mani a loro con ingiuriose parole, quali si usano dire ai belli
giovanetti, levatosi da tavola subito le grida spartesi e con gran risa e con gran
maraviglia, il fiero Michelagnolo chiese licenzia da tutti di poter darmi una penitenzia a
suo modo. Avuto il sí, con grandissime gride mi levò di peso, dicendo: - Viva il
Signore: viva il Signore - e disse, che quella era la condannagione che io meritavo, aver
fatto un cosí bel tratto. Cosí finí la piacevolissima cena e la giornata; e ugniun di
noi ritornò alle case sue. |
XXXI. |
Se io volessi descrivere precisamente quale e quante erano le molte
opere, che a diverse sorte di uomini io faceva, troppo sarebbe lungo il mio dire. Non mi
occorre per ora dire altro, se none che io attendevo con ogni sollecitudine e diligenzia a
farmi pratico in quella diversità e differenzia di arte, che di sopra ho parlato. Cosí
continuamente di tutte lavoravo: e perché non m'è venuto alla mente ancora occasione di
descrivere qualche mia opera notabile, aspetterò di porle al suo luogo; che presto
verranno. Il detto Michelagnolo sanese scultore in questo tempo faceva la sepoltura de il
morto papa Adriano. Iulio Romano pittore ditto se ne andò a servire il marchese di
Mantova. Gli altri compagni si ritirorno chi in qua e chi in là a sue faccende: in modo
che la ditta virtuosa compagnia quasi tutta si disfece. In questo tempo mi capitò certi
piccoli pugnaletti turcheschi, ed era di ferro il manico sí come la lama del pugnale:
ancora la guaina era di ferro similmente. Queste ditte cose erano intagliate, per virtú
di ferri, molti bellissimi fogliami alla turchesca, e pulitissimamente commessi d'oro: la
qual cosa mi incitò grandemente a desiderio di provarmi ancora a affaticarmi in quella
professione tanto diversa da l'altre: e veduto ch'ella benissimo mi riusciva, ne feci
parecchi opere. Queste tali opere erano molto piú belle e molto piú istabile che le
turchesche, per piú diverse cause. L'una si era che in e' mia acciai io intagliavo molto
profondamente a sotto squadro; che tal cosa non si usava per i lavori turcheschi. L'altra
si era che li fogliami turcheschi non sono altro che foglie di gichero con alcuni
fiorellini di clizia; se bene hanno qualche poco di grazia, la non continua di piacere,
come fanno i nostri fogliami. Benché innell'Italia siamo diversi di modo di fare
fogliami; perché i Lombardi fanno bellissimi fogliami ritraendo foglie de elera e di
vitalba con bellissimi girari, le quali fanno molto piacevol vedere; li Toscani e i Romani
in questo genere presono molto migliore elezione, perché contra fanno le foglie d'acanto,
detta branca orsina, con i sua festuchi e fiori, girando in diversi modi; e in fra i detti
fogliami viene benissimo accomodato alcuni uccelletti e diversi animali, qual si vede chi
ha buon gusto. Parte ne truova naturalmente nei fiori salvatici, come è quelle che si
chiamano bocche di lione, che cosí in alcuni fiori si discerne, accompagnate con altre
belle inmaginazione di quelli valenti artefici: le qual cose son chiamate, da quelli che
non sanno, grottesche. Queste grottesche hanno acquistato questo nome dai moderni, per
essersi trovate in certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali caverne
anticamente erano camere, stufe, studii, sale e altre cotai cose. Questi studiosi
trovandole in questi luoghi cavernosi, per essere alzato dagli antichi in qua il terreno e
restare quelle in basso, e perché il vocabolo chiama quei luoghi bassi in Roma, grotte;
da questo si acquistorno il nome di grottesche. Il qual non è il suo nome; perché sí
bene, come gli antichi si dilettavano di comporre de' mostri usando con capre, con vacche
e con cavalle, nascendo questi miscugli gli domandavono mostri; cosí quelli artefici
facevano con i loro fogliami questa sorte di mostri: e mostri è 'l vero lor nome e non
grottesche. Faccendo io di questa sorte fogliami commessi nel sopra ditto modo, erano
molto piú belli da vedere che li turcheschi. Accadde in questo tempo che in certi vasi, i
quali erano urnette antiche piene di cenere, fra essa cenere si trovò certe anella di
ferro commessi d'oro insin dagli antichi, e in esse anella era legato un nicchiolino in
ciascuno. Ricercando quei dotti, dissono che queste anella le portavono coloro che avevano
caro di star saldi col pensiero in qualche stravagante accidente avvenuto loro cosí in
bene come in male. A questo io mi mossi, a requisizione di certi signori molto amici miei
e feci alcune di queste anellette; ma le facevo di acciaro ben purgato: di poi, bene
intagliate e commesse d'oro, facevano bellissimo vedere; e fu talvolta che di uno di
questi anelletti, solo delle mie fatture, ne ebbi piú di quaranta scudi. Se usava in
questo tempo alcune medagliette d'oro, che ogni signore e gentiluomo li piaceva fare
scolpire in esse un suo capriccio o impresa; e le portavano nella berretta. Di queste
opere io ne feci assai, ed erano molto difficile a fare. E perché il gran valente uomo
ch'io dissi, chiamato Caradosso, ne fece alcune, le quali come erano di piú di una figura
non voleva manco che cento scudi d'oro de l'una; la qual cosa, non tanto per il premio
quanto per la sua tardità, io fui posto innanzi a certi signori, ai quali infra l'altre
feci una medaglia a gara di questo gran valent'uomo, innella qual medaglia era quattro
figure, intorno alle quali io mi ero molto affaticato. Accadde che li detti gentiluomini e
signori, ponendola accanto a quella del maraviglioso Caradosso, dissono che la mia era
assai meglio fatta e piú bella, e che io domandassi quel che io volevo delle fatiche mie;
perché, avendo io loro tanto ben satisfatti, che loro me voleano satisfare altanto. Ai
quali io dissi, che il maggior premio alle fatiche mie e quello che io piú desiderava, si
era lo aggiugnere appresso alle opere di un cosí gran valent'uomo, e che, se allor
Signorie cosí paressi, io pagatissimo mi domandavo. Cosí partitomi subito, quelli mi
mandorno appresso un tanto liberalissimo presente, che io fui contento, e mi crebbe tanto
animo di far bene, che fu causa di quello che per lo avvenire si sentirà. |
XXXII. |
Se bene io mi discosterò alquanto dalla mia professione, volendo
narrare alcuni fastidiosi accidenti intervenuti in questa mia travagliata vita; e perché
avendo narrato per l'adrieto di quella virtuosa compagnia e delle piacevolezze accadute
per conto di quella donna che io dissi, Pantassilea; la quale mi portava quel falso e
fastidioso amore; e isdegnata grandissimamente meco per conto di quella piacevolezza, dove
era intervenuto a quella cena Diego spagnuolo di già ditto, lei avendo giurato vendicarsi
meco, nacque una occasione, che io descriverò, dove corse la vita mia a ripentaglio
grandissimo. E questo fu che, venendo a Roma un giovanetto chiamato Luigi Pulci, figliuolo
di uno de' Pulci al quale fu mozzato il capo per avere usato con la figliuola; questo
ditto giovane aveva maravigliosissimo ingegno poetico e cognizione di buone lettere
latine; iscriveva bene; era di grazia e di forma oltramodo bello. Erasi partito da non so
che vescovo, ed era tutto pieno di mal franzese. E perché, quando questo giovane era in
Firenze, la notte di state in alcuni luoghi della città si faceva radotti innelle proprie
strade, dove questo giovane in fra i migliori si trovava a cantare allo inproviso; era
tanto bello udire il suo, che il divino Michelagnolo Buonaaroti, eccellentissimo scultore
e pittore, sempre che sapeva dov'egli era, con grandissimo desiderio e piacere lo andava a
udire; e un certo, chiamato il Piloto, valentissimo uomo, orefice, e io gli facevomo
campagnia. In questo modo accadde la cognizione infra Luigi Pulci e me; dove, passato di
molti anni, in quel modo mal condotto mi si scoperse a Roma, pregandomi che io lo dovessi
per l'amor de Dio aiutare. Mossomi a compassione per le gran virtú sua, per amor della
patria, e per essere il proprio della natura mia, lo presi in casa e lo feci medicare in
modo, che per essere a quel modo giovane, presto si ridusse alla sanità. In mentre che
costui procacciava per essa sanità, continuamente studiava, e io lo avevo aiutato
provveder di molti libri sicondo la mia possibilità; in modo che, cognosciuto questo
Luigi il gran benifizio ricevuto da me, piú volte con parole e con lacrime mi
ringraziava, dicendomi che se Idio li mettessi mai inanzi qualche ventura, mi renderebbe
il guidardone di tal benifizio fattoli. Al quale io dissi, che io non avevo fatto allui
quello che io arei voluto, ma sí bene quel che io potevo, e che il dovere delle creature
umane si era sovvenire l'una l'altra; solo gli ricordavo che questo benifizio, che io gli
avevo fatto, lo rendessi a un altro che avessi bisogno di lui, sí bene come lui ebbe
bisogno di me; e che mi volessi bene da amico, e per tale mi tenessi. Cominciò questo
giovane a praticare la Corte di Roma, nella quale prestò trovò ricapito, e acconciossi
con un vescovo, uomo di ottanta anni, ed era chiamato il vescovo Gurgensis. Questo vescovo
aveva un nipote, che si domandava misser Giovanni: era gentiluomo veniziano. Questo ditto
misser Giovanni dimostrava grandemente d'essere innamorato delle virtú di questo Luigi
Pulci, e sotto nome di queste sue virtú se l'aveva fatto tanto domestico, come se fussi
lui stesso. Avendo il detto Luigi ragionato di me e del grande obrigo che lui mi aveva,
con questo misser Giovanni, causò che 'l detto misser Giovanni mi volse conoscere. Nella
qual cosa accadde, che avendo io una sera infra l'altre fatto un po' di pasto a quella
già ditta Pantassilea, alla qual cena io avevo convitato molti virtuosi amici mia,
sopragiuntoci a punto ne l'andare a tavola il ditto misser Giovanni con il ditto Luigi
Pulci, apresso alcuna cirimonia fatta, restorno a cenare con esso noi. Veduto questa
isfacciata meritrice il bel giovine, subito gli fece disegno addosso; per la qual cosa,
finito che fu la piacevole cena, io chiamai da canto il detto Luigi Pulci, dicendogli, per
quanto obrigo lui s'era vantato di avermi, non cercassi in modo alcuno la pratica di
quella meretrice. Alle qual parole lui mi disse: - Oimè, Benvenuto mio, voi mi avete
dunque per uno insensato? - Al quale io dissi: - Non per insensato, ma per giovine; e per
Dio gli giurai che di lei io non ho un pensiero al mondo, ma di voi mi dorrebbe bene, che
per lei voi rompessi il collo -. Alle qual parole lui giurò che pregava Idio che, se mai
e' le parlassi, subito rompesse il collo. Dovette questo povero giovane fare tal giuro a
Dio con tutto il cuore, perché e' roppe il collo, come qui appresso si dirà. Il detto
misser Giovanni si scoprí seco d'amore sporco e non virtuoso; perché si vedeva ogni
giorno mutare veste di velluto e di seta al ditto giovane, e si cognosceva ch'e' s'era
dato in tutto alla scelleratezza e aveva dato bando alle sue belle mirabili virtú, e
faceva vista di non mi vedere e di non mi cognoscere, perché io lo avevo ripreso,
dicendogli che s'era dato in preda a brutti vizii i quali gli arien fatto rompere il collo
come disse. |
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