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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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I VICERÉ

di Federico de Roberto

Parte terza

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6.

Uno dei primissimi provvedimenti del giovane sindaco, appena insediato al Municipio, era stato quello relativo alla costruzione di un'«aula» per le riunioni consiliari. All'antica saletta fu sostituito un gran salone provvisto di due file di banchi che, per gradi, si elevavano dal suolo ad anfiteatro, con tre ordini di posti per ciascuna fila. In fondo al salone una specie di alto e vasto pulpito comprendeva: a destra, in basso, i posti della Giunta, in alto quello degli scrutinatori e la poltrona destinata al prefetto; a sinistra, l'ufficio di segreteria; nel mezzo di tutta la baracca, sopra un'alta predella, il seggiolone sindacale dorato e scolpito, con un cuscino che l'usciere toglieva e chiudeva a chiave quando il principino scioglieva l'adunanza e se ne andava. Nel centro del salone, un gran banco per le commissioni; più oltre, tavole per «la stampa»; dirimpetto al pulpito sindacale la tribuna pubblica. «Un Parlamento in miniatura!» dicevano quelli che erano stati a Roma; e le adunanze del Consiglio, sotto la presidenza di Consalvo, prendevano ora un vero carattere parlamentare. L'ordine del giorno, che prima attaccavano manoscritto dietro un uscio, si distribuiva, stampato, a tutti i consiglieri; un apposito regolamento, elaborato dal sindaco, prescriveva le norme da seguire nelle discussioni pubbliche. Gli oratori non potevano parlare più di tre volte sopra uno stesso soggetto; al segretario era rigorosamente vietato d'interloquire, neppure per rispondere alle domande dei consiglieri, e se qualcuno di costoro aveva da lagnarsi della sporcizia stradale o dei cani senza guinzaglio, il principino gli gridava dal suo seggiolone: «Presenti domanda d'analoga interpellanza.» Prima cura della nuova amministrazione furono i lavori pubblici. Il sindaco, in un discorso dove rammentò la via Appia, «che da Roma conduceva all'Adriatico», dimostrò la necessità di sistemare le strade; e la città fu messa sottosopra, somme considerevoli furono spese per indennizzare i proprietari danneggiati; ma la vistosità dei risultati fruttò considerevoli elogi al giovane amministratore. Con le strade, l'amministrazione di Mirabella, come tutti la chiamavano, provvide alla costruzione d'un grande mercato, d'un grande teatro, d'un grande macello, d'una grande caserma, d'un gran cimitero. Nuovi edifizi sorgevano da per tutto, il lavoro non cessava, la città trasformavasi, le lodi del principino salivano al cielo. Qualcuno, timidamente, faceva osservare che tutte quelle cose stavano benissimo; ma, e i quattrini? Ce n'erano abbastanza?... Consalvo rispondeva che il bilancio d'una città in via di continuo progresso «presentava tale elasticità» da permettere non che quelle, ma spese anche maggiori. La popolarità essendo tutta sua, egli faceva degli assessori ciò che voleva; se manifestavasi qualche velleità di contraddizione, la sedava suscitando gli uni contro gli altri coloro che s'accordavano nell'opposizione; oppure, quando la faccenda era più seria, minacciando di andarsene. Allora tutti si chetavano. E di quel che riusciva bene egli aveva tutto il merito; di quel che non otteneva l'approvazione del popolo rigettava la colpa sulle spalle della Giunta. Le tornate consiliari erano diventate uno spettacolo a cui, grazie alla «tribuna» pubblica, la gente accorreva come alla commedia o al giuoco dei bussolotti; i soci del club, gli ex compagni di bagordi del principino salivano di tanto in tanto lassù, con l'intenzione di canzonarlo; ma la serietà, il sussiego, l'autorità di Consalvo s'imponevano talmente, che essi arrischiavano appena tra loro qualche epigramma... Chi rammentava più la prima fase della sua vita? La sua riuscita lo insuperbiva, la sua forza quasi lo stupiva; ma oramai non era sicuro di poter arrivare dove avrebbe voluto? «Sarà deputato, lo manderemo a Roma quando avrà gli anni; in lui c'è la stoffa d'un ministro!» cominciavano a dire in città; ma se udiva queste cose, egli scrollava le spalle, con un sorriso mezzo di compiacimento, mezzo di modestia, quasi a significare: «Grazie della buona opinione che avete di me; ma ci vuol altro!» Così egli si teneva bene con tutti, raccoglieva lodi da ogni parte. Quelli che s'accorgevano del suo giuoco e lo denunziavano, o non erano creduti, o erano sospettati d'invidia o di malignità, o finalmente, se trovavano credito, sentivano rispondersi: «Fanno tutti così, in questi tempi d'armeggio! Il principino ha questo di vantaggio, che è ricco e non ha da ingrassarsi alle spalle nostre!» Ma gli oppositori più vivaci non mancavano. Come trasformavasi materialmente, la città prendeva anche moralmente un nuovo indirizzo. La popolarità del vecchio duca andava scemando di giorno in giorno; il Circolo Nazionale, che aveva spadroneggiato, perdeva sempre più credito. Le nuove società popolari non ne avevano ancora, ma le riforme promesse dalla sinistra l'avrebbero loro conferito: frattanto, alla discussione dei negozi pubblici partecipavano classi e persone dapprima incapaci di comprenderne nulla. Anche la stampa era più ardita, se non più libera, e trattava con pochi riguardi, gli antichi spadroneggiatori. Il principino, fiutando il vento, sfoggiava coi democratici le sue linee di democrazia. A udirlo, la libertà, l'eguaglianza scritte nelle leggi erano ancora un mito: il popolo era stato cullato nell'opinione che le antiche barriere fossero state infrante; ma i privilegi esistevano sempre ed erano soltanto d'altra natura. Avevano largito il diritto del voto, e questo era parso una rivoluzione; ma quanti godevano di cotesto diritto? Bisognava dunque farne un'altra, «legale e morale», per estenderlo a tutti. La parola «rivoluzione» gli scottava le labbra e gli faceva tremare il cuore; e il desiderio intimo, sincero, ardente dell'animo suo era che vi fosse un numero di carabinieri doppio di quello dei cittadini; ma poiché il vento soffiava da un'altra parte, egli cercava la compagnia dei radicali più noti per dir loro: «La repubblica è il regime ideale, il sogno sublime che un giorno sarà realtà, poiché essa suppone uomini perfetti, virtù adamantine, e il costante progresso dell'umanità ci fa antivedere il giorno del suo compimento.» E dichiarava: «Io sono monarchico per la necessità di questo periodo transitorio. Milioni e milioni d'uomini liberi possono volontariamente riconoscersi e vantarsi sudditi di un uomo come loro? Io non ho nessun padrone!» E in questo era sincero, perché avrebbe voluto esser egli stesso padrone degli altri. Il duca e i suoi malvacei amici, ostinandosi a giurar sulla destra, aspettando il ritorno di Sella e Minghetti come quello di Nostro Signore, avevano creato un'Associazione Costituzionale, di cui tuttavia l'onorevole deputato non aveva voluto esser capo. Anch'egli adesso, in cuor suo, riconosceva che la strada non aveva uscita; ma oramai egli stava per toccare la settantina, era stanco, non gli restava più nulla da fare. In meno di venti anni aveva messo insieme una sostanza di parecchi milioni, le cure della quale prendevano tutto il resto della sua attività. Deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica, aveva un'ultima ambizione: quella d'essere nominato senatore; se, quindi, per finir bene dinanzi all'opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s'era legato ancora più stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale, contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro questa società era sorta una Progressista, alla quale s'era fatto ascrivere Consalvo. «Zio e nipote l'un contro l'altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchio?» dicevano in piazza; ma le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d'amore e d'accordo, che il duca era ben contento d'avere il nipote nel campo contrario, come il principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto, quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la sinistra non aveva ancora «un finanziere della forza del Sella», né «oratori eleganti come Minghetti». Ma a quelli che non nascondevano i disinganni prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: «L'errore è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto bisogno d'un pastore con relativi bastoni e cani di guardia...» Dava ragione perfino a quei pochi che rimpiangevano l'autonomia della Sicilia: «Diciamolo francamente tra noi: forse oggi staremmo meno peggio!» Non avrebbe fatto nessuna difficoltà a concedere alla zia Ferdinanda che il governo borbonico era il solo amabile; ma poiché la vecchia non poteva giovargli, lasciava ch'ella cantasse. Anzi, si giovava di quell'opposizione, non che della rottura col padre. Siccome sapeva che molti, udendo celebrare la sua fede democratica, ridevano d'incredulità, esclamando: «Lui, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza, il discendente dei Viceré? Andiamo!...» egli affermava: «Per questa fede, per questi princìpi io sono venuto in urto con mio padre, ho rinunziato all'eredità di mia zia, sosterrei ogni maggiore avversità!...» Nella Giunta, tra i conservatori aristocratici e i radicali progressisti di tanto in tanto s'accendeva una lite; allora egli esclamava: «Qui non bisogna parlar di politica!...» ma una volta che la contesa divenne più vivace, lo tirarono in ballo. Rizzoni, radicalissimo, esclamò: «Ma domandatelo al principino, se l'avvenire non è nostro, se anch'egli non è democratico!...» «Mio nipote?» rispose Benedetto Giulente. «L'aristocrazia incarnata?...» Costretto a rispondere, egli sorrise, si lisciò i baffi, e disse: «L'ideale della democrazia è aristocratico.» «Come? Sentiamo!... Questa è nuova!... Che diavolo...» esclamarono tutti. Egli lasciò che dicessero: poi ripeté: «L'ideale della democrazia è aristocratico... Che cosa vuole infatti la democrazia? Che tutti gli uomini sieno eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nella povertà e nella soggezione? Eguali nelle dovizie, nella forza, nella potenza...» E poiché, dopo un momento di stupore, le esclamazioni ricominciavano, egli troncò di botto la discussione: «Adesso passiamo all'altro articolo: voto al governo per la costituzione d'un bacino di carenaggio...»

Egli andava adesso qualche volta da suo padre. Non sentiva più avversione contro di lui: lo zelo, la febbre con la quale s'occupava della cosa pubblica, la tensione di tutte le sue energie al conseguimento del nuovo scopo non lasciavano posto a nessun altro sentimento né d'odio né d'amore. Quanto al principe, le visite del figliuolo gli mettevano i brividi addosso, ed appena lo udiva annunziare dal nuovo maestro di casa - poiché Baldassarre, cocciuto come un vero Uzeda, era proprio andato via - ficcava la sinistra in tasca e non la traeva se non per spianarla, aperta col segno delle corna, dietro al figliuolo, quando costui si decideva a sgomberare. I loro discorsi s'aggiravano sopra cose indifferenti, come fra estranei; il principe fingeva di non sapere che Consalvo fosse il primo magistrato civico; ma insomma adesso stavano insieme da cristiani. Teresa, ora duchessa Radalì, vedeva in tal modo compensato il proprio sacrifizio. Eccettuati i primissimi tempi, quando la memoria di Giovannino non era interamente morta nel suo cuore, e più grande le era parsa la superiorità di lui sull'altro fratello, ella non aveva del resto sofferto quanto aveva temuto. Il duca Michele non solo la trattava bene e le lasciava ogni libertà; ma le dimostrava, a modo suo, un po' alla grossa, un affetto vivo e sincero. La duchessa madre, anche lei, dalla soddisfazione di vedere riusciti i propri disegni, le faceva gran festa e la metteva perfino a parte del governo della casa. Il barone se n'era andato ad Augusta, badava agli affari di campagna e scriveva due o tre volte il mese al fratello od alla madre, chiudendo le sue lettere con un «saluto la cognata». La tranquillità che regnava nella sua nuova casa, la pace che ristabilivasi nell'antica, l'affezione del marito, i trionfi di Consalvo, le lodi che raccoglieva ella stessa - poiché, tra le giovani signore, aveva occupato subito il primo posto - facevano fiorire sulle sue labbra sorrisi a grado a grado più schietti. Veramente, ella non sentiva più l'anima disposta a comporre musiche o poesie, ma sedeva ancora spesso al pianoforte per esercitarsi, e nel farsi bella spendeva forse maggiori cure di prima. Adesso era libera di leggere i libri che più le piacevano; e quando non aveva nulla da fare, divorava romanzi, drammi e poesie. L'eccitazione di quelle letture non le impediva però di attendere alle pratiche religiose con zelo e fervore: in casa Radalì venivano lo stesso Monsignor Vescovo, lo stesso Vicario, gli stessi prelati che frequentavano la casa del principe: essi additavano a tutti la duchessa nuora come modello di domestiche e cristiane virtù. Presto la gravidanza le fece dimenticare del tutto i sogni del passato, e l'affezionò meglio alla realtà del presente. Soffrì pochissimo durante la gestazione; il tempo volò rapido in mezzo a tante cure ed a tanti pensieri. Il parto fu felicissimo: tutti aspettavano un maschio e un maschio nacque, un bambino grosso e florido che pareva d'un anno. «Poteva essere altrimenti?» dicevano tutti. «Per una figlia e una sposa buona come lei, protetta da una Santa in cielo?...» I preparativi del battesimo furono grandiosi: il duca volle il fratello come padrino. La duchessa madre approvò; Teresa, riposando sul letto nuziale, dove restava più per una beata indolenza che per necessità, disse che naturalmente la scelta non poteva essere migliore. Giovannino tardò a rispondere, ma, sollecitato dal duca anche a nome della madre e della moglie, arrivò la vigilia della cerimonia. Pareva un altr'uomo: s'era fatto più forte, il sole lo aveva abbronzato, la barba cresciuta gli dava un'aria più maschia, simpatica quanto l'antica, ma in modo diverso. Strinse la mano alla cognata, chiedendole premurosamente notizie della sua salute, e volle veder subito il nipotino che giudicò un amore e baciò e ribaciò fino alla sazietà. Ancora più calma e serena di lui, ella lo accolse come un amico che non si vede da molto tempo. Dopo la cerimonia del battesimo, alla quale furono invitati tutti i parenti stretti e larghi, tutte le conoscenze, mezza città, Giovannino annunziò che ripartiva. Fecero a gara per trattenerlo, ma egli dichiarò che c'era molto da fare in campagna, e andò via promettendo ad ogni modo di tornar presto a rivedere il figlioccio.

Molti degli invitati al battesimo, nuovi tra gli Uzeda, avevano chiesto chi fosse un vecchio magro e sfiancato, il quale portava un abito nuovo fiammante e certe scarpe che non ne potevano più, un cappello unto, e una mazza col pomo d'argento. Era il cavaliere don Eugenio. La stampa del Nuovo Araldo, ossivero Supplimento, gli aveva procurato un altro momento di benessere. Aveva scialato, possedeva qualche soldo: ma lo scandalo era enorme: egli aveva attribuito titoli di nobiltà e stemmi e corone a quanti lo avevano pagato: speziali, calzolai, barbieri sfoggiavano dentro le botteghe quadri dalle cornici dorate dove, sotto corone, elmi e variopinti svolazzi, si vedevano scudi con leoni, aquile, serpenti, gatti, lepri, conigli, ogni sorta di bestie passanti e volanti; e poi castelli, torri, colonne, montagne; e poi astri di tutte le grandezze, lune d'argento, piene e falcate; soli d'oro, stelle, comete; e tutti i colori dell'iride, tutti i metalli, tutti i mantelli. Né scrupoli, né difficoltà lo avevano arrestato: a chi si chiamava Panettiere aveva dato per arme un forno fiammante in campo d'oro, a chi portava il nome di Rapicavoli un bel mazzo di verdura in campo d'argento. Così l'impresa aveva fruttato di gran bei quattrini; ma, come l'altra volta, buona parte s'era perduta per via. Egli aveva però riscattato l'edizione del primo Araldo che il tipografo teneva sotto sequestro, e con mille copie dell'opera se n'era tornato al suo paese per venderle e mangiarci su. Faceva il conto senza il principe. Sistemato l'affare della lite, questi s'era pentito dell'accordo, e si lagnava d'essere stato defraudato, d'esser rimasto con un pugno di mosche, mentre l'eredità di don Blasco doveva toccare tutta a lui. Il malumore, l'inappetenza, la debolezza di cui aveva sofferto tornavano a tormentarlo: sordamente irritato, incapace di confessarsi ammalato pel superstizioso timore di accrescere con la confessione la malattia, se la prendeva con la figlia che gli aveva imposto la transazione, dichiarava d'essere stato spogliato come in un bosco. Appena visto tornare lo zio, e udito che aveva qualche soldo, andò a chiedergli la restituzione del prestito. E siccome don Eugenio tirò in ballo la rinunzia ai propri diritti, egli gridò: «Che diritti e che storti? Sono stato spogliato! Si sono preso tutto! Io v'ho dato i quattrini; restituiteli, adesso che li avete.» Vista la mala parata, don Eugenio gli confidò: «Non li ho! Ti giuro che non li ho! Ho quattro soldi per tirare innanzi; se ti do duemila e cinquecento lire, come mangio?» «Datemi allora le copie,» rispose pronto Giacomo. «Ma sono il mio solo provento! Se tu me le togli, dove vado a sbattere? Che t'importa di un po' di carta sporca?... Tu che sei tanto ricco? Per me è il pane!... Le venderò a poco a poco, avrò tanto da campucchiare...» Inflessibile, il principe volle presso di sé tutta l'edizione dell'Araldo sicolo e del Supplimento, come garanzia del proprio credito. Quantunque mezza Sicilia fosse inondata di quella pubblicazione, pure riusciva spesso a don Eugenio di collocarne qualche copia; e allora andava a prenderla dal principe promettendo di portare i quattrini per poi dividerli con lui; ma i quattrini non venivano mai, talché un bel giorno, stanco d'esser beffato, il nipote gli dichiarò: «Mi pare che lo scherzo sia durato a lungo; d'ora in poi, se vorrete altri esemplari, li pagherete anticipatamente.» Allora, finiti i soldi che aveva portato da Palermo, gl'imbarazzi ricominciarono per l'ex Gentiluomo di Camera. Come un fattorino di libraio, egli saliva e scendeva scale coi piedi gonfi dalla gotta, trascinandosi penosamente, per offrire il suo Araldo, per mostrarne un fascicolo di saggio, e quando arrivava a scovare un compratore correva a supplicare il principe perché gli desse la copia, giurando e spergiurando che sarebbe tornato subito coi quattrini; ma il principe, duro: «Portateli prima!» Non sapendo dove dar il capo, il vecchio fermava i parenti e le semplici conoscenze per farsi prestare le trenta lire; raggranellatele, le portava al nipote, il quale solo dopo averle intascate rilasciava l'esemplare. Ma, riscosso il prezzo dal compratore, don Eugenio dimenticava di soddisfare i debiti contratti, talché l'operazione si rinnovava ogni volta con maggior difficoltà. Del resto il cavaliere trovava da un certo tempo la piazza molto più dura di prima: da gente a cui egli non aveva mai proposto l'Araldo sentivasi rispondere: «Un'altra volta? L'ho già!» Dicevano così per mandarlo via?... Un giorno, per sincerarsene, volle domandare a uno di costoro come l'avesse: «Oh, bella! L'ho comprato! È venuta una persona di casa vostra: non siete zio del principe?...» Il vecchio si batté la fronte: quel birbone di Giacomo!.. Non contento di avergli preso novemila lire di roba in cambio delle duemila e cinquecento anticipate, non contento d'avergli reso impossibile la vendita pretendendo l'anticipazione del prezzo, adesso vendeva le copie per proprio conto! «Ah, ladro! Ah, ladro!...» Ma, composta la fisionomia all'abituale bonarietà, corse al palazzo. «Se anche tu hai venduto l'opera, facciamo i conti!» disse al principe. «Che conti?» rispose costui, quasi cascando dalle nuvole. «Hai venduto il libro! A quest'ora il mio debito sarà estinto.» «Ci vuol altro!... I conti li faremo quando avrò tempo...» Don Eugenio tornò, assiduamente; ma il nipote un po' gli diceva che aveva da fare, un po' che gli doleva il capo, un po' che stava per andar fuori. Lo zio non perdeva la pazienza; tornava ogni giorno, a rammentargli la promessa; anzi una brutta mattina gli disse, gettandosi sopra una seggiola: «Senti, i conti li faremo quando sarai comodo; ma oggi non ho niente in tasca e sono stanco. Prestami qualche cosa.» «Come? Volete il resto?» esclamò il principe impallidendo. «Credete forse che siamo pari? Si sono vendute mezza dozzina di copie in tutto! Avete il viso di chiedere altri denari?» «Non ho come fare,» gli confidò il cavaliere, con un viso da affamato, guardandolo bene negli occhi. «E venite da me? Che pretendete? Che vi dia da mangiar io? Perché avete sciupato ogni cosa? Perché non avete pensato mai all'avvenire?» «Io ho da mangiare, capisci?» ripeté il cavaliere, con lo stesso tono di voce; e i suoi occhi parevano volersi mangiare il nipote. «Andate da vostro fratello, da vostra sorella... che hanno l'obbligo d'aiutarvi... Perché venite da me?» Ma, spaventato dall'espressione del vecchio, gli voltò le spalle. Quando lo udì andar via, chiamò il portinaio per ordinargli di non lasciarlo mai più salire. E il provvedimento riscosse l'unanime approvazione della servitù: veramente quel cavaliere non faceva onore alla famiglia, non tanto per quel che si diceva sul conto di lui, quanto per la condizione in cui era caduto. Il nuovo maestro di casa confessò: «Io mi vergognavo ogni volta che lo dovevo annunziare al padrone...» Tutti i tentativi del vecchio per salire al palazzo furono vani: egli ebbe un bel dichiarare: «Mio nipote mi aspetta, m'ha detto che sarebbe in casa,» oppure: «L'ho visto rientrare,» oppure: «Eccolo lì, dietro quella finestra...» il portinaio, i cocchieri, i famigli gli dicevano sul muso: «Vostra Eccellenza può andarsene, che perde il suo tempo,» e gli davano dell'Eccellenza come in tempo di carnevale ai facchini di piazza vestiti da barone. Egli tentò di salire per forza, ma allora lo afferrarono e lo spinsero fuori: «Eccellenza, con le brusche?... Questi non son modi da Eccellenza pari vostra!...» Un giorno, si mise a sedere in portineria, dichiarando che non si sarebbe mosso fino al passaggio del nipote. Sulle prime, il guardaportone ci scherzò su; poi tentò persuaderlo con le buone, prendendolo dal lato dell'amor proprio: «Qui non è il posto di Vostra Eccellenza!... Un cavaliere come Vostra Eccellenza sedere con un portinaio! Non si vergogna?...» Ma il vecchio non si moveva, non rispondeva, cupo, affamato come un lupo; e il portinaio cominciò a perdere la pazienza, smise a un tratto l'Eccellenza: «Se ne vuole andare, sì o no?...» e come don Eugenio restava inchiodato sulla seggiola, quell'altro montò finalmente in bestia, smise anche il lei e, afferratolo per le spalle, lo fece sorgere e lo spinse fuori ad urtoni, gridando: «Fuori, vi dico, corpo del diavolo!»

Donna Ferdinanda lo cacciò via come un cane rognoso: il duca gli dette un piccolo soccorso, facendogli intendere di non dover fare assegnamento sopra altre elemosine. Procurargli un posto era il meglio che si potesse fare e ciò che egli desiderava; quindi Benedetto Giulente, il quale lo aveva anch'egli sovvenuto, ne parlò a Consalvo. «Che posto volete dargli?» rispose il principino. «È una bestia, non sa far nulla. Volete che lo zio del sindaco serva da usciere o da accalappiacani?» Era chiaro che al Municipio non c'era da far niente per il legittimo orgoglio del principino. Giulente andò dal duca, suggerendogli di metterlo in qualche ufficio alla provincia o alla prefettura. E il duca, per evitare altre domande di sussidi, fece in modo da ottenergli un posto di copista all'Archivio provinciale, il meglio che si poté trovare. Ma quando ne diedero comunicazione all'interessato, il cavaliere diventò rosso come un rosolaccio. «A me un posto di scrivano? Per chi m'avete preso?» «Ma veda...» gli fece considerare rispettosamente Benedetto, «Vostra Eccellenza non ha titoli accademici... è avanzata in età... le amministrazioni pubbliche sono esigenti...» «E mi proponi di fare il copista?» gridò il cavaliere. «A me, Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Ferdinando II, autore dell'Araldo sicolo?... Perché non lo fai tu, pezzo d'asino che sei?» Il vecchio ricominciò a chiedere aiuto. Ma il duca, per punirlo del rifiuto del posto, gli chiuse la porta in faccia, e Lucrezia, dopo averlo giudicato degno dei più alti uffici per far onta al marito, non lo volle neppur lei per la casa quando lo vide questuare... Un giorno, il cavaliere, sempre più miserabile e stracciato, andò dalla nipote Teresa. Il portinaio, non riconoscendolo, non voleva lasciarlo passare; arrivato finalmente dinanzi alla duchessa nuora, che giunse le mani vedendolo in quello stato, cominciò a querelarsi: «Vedi come m'ha ridotto tuo padre? Quel birbante che mi ha rubato il libro? Quel ladro che mi ha...» «Zio, per carità!...» esclamò Teresa: e vuotò la sua borsa nelle mani del vecchio che tremava dalla cupidigia alla vista dei quattrini. Egli si ripresentò altre volte al palazzo ducale, ma la duchessa madre, per evitare i commenti tra la servitù, dichiarò a Teresa che, se voleva soccorrerlo, facesse pure; ma che in casa non lo lasciasse più venire. Ed anche quella porta gli fu chiusa. Egli aspettava che gli procurassero un posto di professore o di cassiere, tanto da vivere signorilmente senza far nulla; e siccome non lo contentavano, fermava per istrada le persone di sua conoscenza, narrava a modo suo i propri casi: «M'hanno spogliato, m'hanno ridotto alla miseria! Mio fratello il Benedettino m'aveva lasciato cinquecent'onze, e stracciarono il testamento, ne fecero uno falso! Il principe mio nipote m'ha rubato la mia grand'opera dell'Araldo sicolo!... Mi chiudono la porta in faccia! A me, Eugenio di Francalanza! Gentiluomo di Camera! Presidente dell'Accademia dei Quattro Poeti!... Sanno forse chi sono io? Se veniste a casa mia, vi farei vedere quante medaglie e diplomi: uno scaffale intero!...» La sua megalomania, con la miseria, gli stenti, le umiliazioni, cresceva di giorno in giorno; egli annunziava: «Il governo m'ha invitato a Roma per una cattedra dantesca. Ma io non ci vado! Fossi pazzo! Me ne andrò piuttosto in Alemagna, dove conoscono tutte le mie celebri opere, e la scienza è rispettata!... Il prefetto mi ha detto che il Re mi vuole come professore di suo figlio. Io fare il maestro di scuola? Per chi m'hanno preso? Se lui si chiama Savoia, io mi chiamo Uzeda. Ehi, don Umberto, siete forse al buio?...» Poi, all'orecchio: «Potreste favorirmi cinque lire? Ho dimenticato il portafogli a casa...» Gliene davano due, una o anche mezza; egli metteva in tasca ogni cosa. I parenti, avvertiti di quello scandalo, si stringevano nelle spalle, o dicevano: «Bisogna finirla», senza far poi nulla. Giulente e Teresa, di nascosto, lo soccorrevano come meglio potevano: ma egli aveva già preso l'abitudine di questuare, il mestiere era dolce e comodo, il passaggio del denaro dalla tasca altrui alla propria gli pareva naturalissimo; e poi un sordo istinto di rappresaglia contro i parenti lo spingeva a continuare per far loro onta. E un giorno si diffuse per tutta la città una notizia: «Non sapete nulla? il cavaliere don Eugenio chiede l'elemosina!» Egli accattava, alla lettera. Anche se aveva in tasca qualche lira, s'avvicinava agli sconosciuti, tendeva la mano, diceva: «Per gentilezza, mi favorite due soldi? Un soldo, per comprare un sigaro?» Acchiappava la moneta come una preda, la cacciava in tasca; s'avvicinava a un altro: «Un soldo, per favore?» Teresa, accompagnata dal marito, andò a trovarlo nello stambugio dove s'era ridotto, gli si gettò ai piedi: «Zio, noi le daremo tutto quel che vorrà, purché non faccia più questa cosa!... Una persona come lei, abbassarsi così?» «Sì, sì...» Egli prese i denari che gli porgevano; il domani ricominciò. Adesso era un'idea fissa; la malattia che tornava a tormentarlo finiva di scombuiare la sua debole testa d'Uzeda. Lacero come un vero accattone, con la barba bianco-sporca spelazzata sul viso smunto, i piedi in grosse scarpe di panno, andava attorno, appoggiandosi a un bastone, chiedendo: «Un soldo, per favore!... per questa volta sola!...» E per procacciarselo dava spettacolo della sua pazzia. Certuni gli domandavano chi era, se non era il cavaliere Uzeda? e allora lui: «Eugenio Consalvo Filippo Blasco Ferrante Francesco Maria Uzeda di Francalanza, Mirabella, Oragua, Lumera, etc., etc., Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà, quello era Re!» e si cavava il cappello, «Ferdinando II; medagliato da Sua Altezza il Bey di Tunisi del Nisciam-Ifitkar, presidente dell'Accademia dei Quattro Poeti, membro corrispondente di più società scientifico-letterarie-vulcanologiche di Napoli, Londra, Parigi, Caropepe, Pietroburgo, Paoloburgo, Nuova York e Forlimpopoli, autore della celebre opera storico-araldico-blasonico-gentilesco-cronologica intitolata l'Araldo sicolo con supplimento... Un soldo, per comprarmi un sigaro...»

7.

Il secondo figliuolo di Teresa, un altro maschio, nacque un anno dopo il primo, tanto che tutti dicevano agli sposi: «Si vede che non perdete tempo!» Se al primo parto la duchessa non aveva sofferto, di quest'altro quasi non s'accorse: degno premio della purezza dei suoi costumi. La cerimonia del battesimo, questa volta, fu modesta, un po' perché era nato un cadetto, il baroncino, un po' per un'altra ragione incresciosa. Grattandosi un giorno sotto la nuca, in mezzo alle spalle, per un forte prurito, il principe aveva calcato le unghie sino a farsi un po' di sangue. Lì per lì non ci aveva badato, ma dopo qualche tempo gli si formò, nel punto maltrattato, una specie di bottone che crebbe fino a impacciarlo nei movimenti e ad impedirgli di star supino nel letto. Tutti attribuirono il fatto all'eccessivo grattamento; nondimeno, siccome l'incomodo non andava via, fu necessità chiamare un chirurgo. Il dottore confermò che era una cosa da nulla, ma disse che senza una piccola incisione non sarebbe guarita. Il principe all'annunzio dell'operazione impallidì, rifiutando di sottoporvisi; ma giusto, dopo il parto di Teresa, quel tumoretto era cresciuto ancora, dandogli tanto fastidio che egli aveva consentito a lasciarselo tagliare. L'operazioncella durò più che non si credesse e il principe dové restare molti giorni in casa; pertanto il battesimo del baroncino di Filici fu celebrato senza pompa. Il sindaco Consalvo fece da compare; da Augusta venne per assistere alla cerimonia Giovannino. Durante l'anno, egli aveva fatto, secondo la promessa, due o tre visite al figlioccio: visite brevi d'uno o due giorni. Dicevano che egli avesse ad Augusta, e propriamente nelle terre di Costantina, la figliuola d'un fattore, una bella contadina bianca, rossa e prosperosa, per via della quale rifiutava di stare a lungo a Catania. La duchessa madre ne era contentissima, come della più sicura garanzia contro il matrimonio. Il duca godeva nel sentire che suo fratello si divertiva; e quanto a Teresa, nonostante che l'onestà le impedisse d'approvar quel legame, pure dimostrava al cognato un affetto fraterno, e gli faceva molta festa; se da Augusta egli mandava qualche commissione alla madre, spesso l'eseguiva ella stessa. Chiedeva ordinariamente biancheria, oggetti d'uso domestico, ma di tanto in tanto anche tagli d'abiti da donna, busti, fazzoletti di seta... Servivano per la figlia del fattore? Tutte le volte che veniva alla casa materna, egli aveva il viso più cotto, con la barba più ispida, la pelle delle mani più dura. Su quella faccia da arabo del deserto il bianco degli occhi era però dolcissimo. Teresa ringraziava il Signore della saggezza che gli aveva ispirata, della salute che gli accordava; però, in cuor suo, ella domandava come mai quel giovane tanto elegante, così avido di piaceri, delle cose belle e ricche, aveva potuto rassegnarsi a far la dura vita di campagna, a vivere con una contadina, in mezzo a contadini... Non era però lei stessa la causa di quella trasformazione? E subito, quasi a scagionarsi ai propri occhi, ella pensava: «Sono trasformata anch'io!...» Dov'erano più, infatti, le sue ispirazioni poetiche, le sue alate fantasie? Aveva preso marito da due anni, e già cominciava la terza gravidanza. Quand'ella sognava di Giuliano Biancavilla, di Giovannino, pensava forse di divenire una macchina da far figliuoli?... Ora dava guerra a quei pensieri che lo spirito della tentazione doveva certo suggerirle... Biancavilla, tornato dal suo viaggio, dimenticava anche lui, prendeva moglie: un giorno ella lo incontrò a faccia a faccia; trasalì un momento, ma un'ora dopo l'incontro se ne dimenticò. Giovannino era suo cognato; più nulla restava così dei sogni antichi. Se ne doleva forse? No! Pensava: «Che cosa mi manca per esser felice? Sono giovane, bella e ricca, tutti mi vogliono bene, tutti mi lodano, ho due angioletti di figli: di che mi lagno?» E nella misura delle proprie forze aveva fatto il bene: la sua mamma di lassù non doveva benedirla? La Beata non poteva esser contenta di quella lontana discendente? Lo spirito della tentazione si serviva di arti molto sottili per turbarla in quella serenità. Forse erano i libri, le poesie, i romanzi, quelli che, certe volte, quando si sentiva più tranquilla e sicura e sorrideva di maggior beatitudine, facevano sorgere a un tratto una specie di nebbia che offuscava il suo bel cielo, e le davano un senso di oscuro sgomento, e il rancore d'un bene perduto prima ancora che ella avesse potuto raggiungerlo. Era peccato leggere quei libri, seguire quelle visioni? Il confessore, i preti che la circondavano dicevano sì, che erano pericolosi; ma non riconoscevano forse nello stesso tempo che il pericolo, per lei, era molto più lontano, giacché ella aveva un'anima retta e una mente sana e una coscienza purissima?... E poi, e poi, e poi, ella aveva rinunziato a tante cose; se avesse rinunziato anche a vivere con la fantasia, che le sarebbe rimasto? Anche Giovannino leggeva molto: tutte le volte che veniva da Augusta le domandava: «Cognata, avete libri da prestarmi?» e ne portava via a casse, in mezzo alla roba di cui veniva a rifornirsi. In qual modo ammazzare il tempo quando non c'era da vegliare ai lavori della terra: la vendemmia, le seminagioni, i raccolti?... Un'altra cosa di cui si provvedeva, venendo in città, era il solfato di chinino. A Costantina, nei poderi della Balata e della Favarotta regnava la malaria; egli, veramente, nella stagione del pericolo se ne andava a Melilli, sui colli Iblei, dove l'aria era balsamica; ma, ad ogni buon fine, per sé come pei lavoratori, era bene che il sovrano rimedio non mancasse mai. Una bella sera d'estate, Teresa e la duchessa madre, lasciato a casa, in custodia della cameriera, il duchino, e presa in carrozza la balia col figliuolo più piccolo, facevano la consueta passeggiata. Il baroncino lattante, cullato dal moto dolce del legno, dormiva in mezzo a una nube di garza sulle ginocchia della nutrice. Teresa portava per la prima volta un abito molto ricco arrivatole da qualche giorno da Torino; ella vedeva che tutte le signore le cui carrozze incrociavansi con la sua si voltavano, esaminandola, ammirandola. La carrozza salì fino alla Madonna delle Grazie; le padrone e la balia scesero, entrarono nell'angusta cappella e s'inginocchiarono dinanzi all'altare. Teresa aveva chinato gli sguardi per evitare la vista del muro pieno di ex voto orribili, del carnaio che la disgustava ora come l'inorridiva bambina; ma, fissando l'immagine della Vergine, le diceva tutta la sua gratitudine per le grazie di cui la colmava. Sentivasi tanto calma, da un certo tempo; quasi felice! Da un pezzo nulla più la turbava; nessun soccorso aveva da chiedere alla Madonna. Sì, la salute sempre malferma di suo padre, l'umor tetro che lo rodeva dopo l'operazione chirurgica. Chiuso, cupo, cruccioso, con più bisogno di prima di prendersela con qualcuno, egli era tornato a rimuginar l'idea di dar moglie a Consalvo. Quantunque non parlasse e paresse non occuparsi di quel iettatore, rodevasi al pensiero della fine della propria razza, se quel iettatore non prendeva moglie. E gli aveva cercato un nuovo partito, a Palermo, un partito che tutti assicuravano straordinario; ma Consalvo aveva detto ancora di no, e il principe aveva rotto un'altra volta più violentemente con lui... Teresa pregò più a lungo, pertanto; poi si segnò e sorse in piedi. La suocera era già alzata; la balia, l'umile contadina che reggeva in braccio il frutto delle sue viscere, finiva di pregare; il bambino, destato dallo scalpiccio dei passi, dal borbottare dei ciechi questuanti, guardava la fiamma dell'altare tra ridente ed attonito. Ella distribuì tutto quel che aveva in tasca ai poveri e risalì in carrozza. La duchessa madre ordinò al cocchiere di andare a fermarsi al Caffè di Sicilia. Lì, il cameriere non aveva ancora portato i gelati, che una voce alterata esclamò dietro la carrozza: «Teresa... Mamma...» Era il duca, irriconoscibile, con la camicia disfatta dal sudore, pallido come un morto. Rivolto al cocchiere, mentre esse domandavano sgomente: «Che c'è?... Michele!... Che hai?...» «Torna a casa!» ordinava egli. «Torna subito...» E aprì lo sportello, salì, si gettò a sedere accanto alla balia. «Mio padre?... Il bambino?» esclamava già Teresa, afferrandogli una mano; ma egli: «No, no...» E mentre i cavalli, sferzati, partivano traendo scintille dal lastricato, spiegò finalmente: «Giovannino... Un telegramma del fattore... La perniciosa!... Sono corso dal dottore, poi alla stazione... Vi ho cercato da per tutto... Partirò stanotte, con un treno straordinario...»

Nel primo momento, Teresa provò quasi un senso di sollievo. Smarrita alla vista del marito, atterrita dalle sue oscure parole, aveva creduto alle più terribili catastrofi: la morte del padre, un'improvvisa minaccia per l'altro suo figlio. Assicurata che nessuno dei suoi era in pericolo, ella non attribuì molta gravità alla malattia del cognato. Poiché Michele perdeva la testa, e la suocera, improvvisamente intenerita per quel figliuolo che aveva tanto trascurato, smaniava adesso e parlava di partire, di correre a chiamare altri dottori, ella sentiva che toccava a lei ragionare. Letto il telegramma del fattore, la sua fiducia s'affermò. Il telegramma diceva: «Fratello Vostra Eccellenza trovasi a letto con febbre alta, somministrato subito chinino temendo trattisi perniciosa; venga qualcuno famiglia insieme dottore.» Il duca non aveva posto attenzione alla forma dubitativa dell'annunzio; ella diede coraggio a tutti, s'offerse di accompagnarli; ma la duchessa che esclamava ogni due minuti: «Figlio mio!... Figlio mio!...» volle che restasse. Allora ella preparò le valige pel marito e per la suocera, non dimenticando nulla, raccomandando loro di non lasciarla senza notizie, assicurandoli che anche della perniciosa il chinino già somministrato e le cure del dottore di Catania avrebbero sicuramente trionfato. All'una della notte Michele e la duchessa partirono. Restata sola in casa, la sua fiducia cominciò a mancare. Se non si fosse trattato d'una cosa grave, il dispaccio, la richiesta d'un altro dottore, la chiamata dei parenti non sarebbero stati necessari. E perché non aveva firmato egli stesso il telegramma?... Stringendosi al petto i bambini ella pregava in cuor suo: «Signore, Madonna delle Grazie, fate che non succeda una disgrazia!...» E perché col giorno, quando Michele e la duchessa dovevano esser giunti al capezzale di lui, non veniva nessuna notizia?... Ella diceva tra sé, per darsi coraggio: «Nessuna nuova, buona nuova!...» e tentava raffigurarsi i volti ilari del marito e della suocera nel vedere il fratello e il figlio sorrider loro, rassicurarli... Perché dunque non rassicuravano lei stessa? Non sapevano che anche lei era inquieta?... Come si rimproverava, adesso, il crudele egoismo che l'aveva quasi fatta gioire udendo che in pericolo versava il cognato! Non le era quasi fratello? Non l'amava ella di fraterno amore?... Come si perdeva adesso, come si cancellava la memoria di quell'altro amore che aveva nutrito per lui! Adesso restava solo l'amico, il parente, colui che aveva tenuto al fonte della redenzione la creaturina sua!... E le notizie mancavano ancora. Veniva gente a chiederne, parenti, amici: ed ella non poteva darne. Il marchese Federico, scotendo il capo, riferì d'aver sentito dire che l'imprudente giovanotto era stato a dormire parecchie notti nelle terre della Balata, nel fitto della malaria: «Ho paura che sia di quella buona: sarebbe peggio d'una schioppettata.» La principessa Graziella protestava: «Ma che! Le male nuove le porta il vento!... Se gli hanno dato il chinino a tempo, non c'è pericolo!» Fino a mezzogiorno non venne nulla. Ella stessa voleva fare un dispaccio per sollecitar la risposta; ma, comunicata l'idea alla madrigna, costei rispose che non le pareva il caso, che era meglio aspettare. Nel pomeriggio restò di nuovo sola. I tristi pensieri tornarono ad assalirla. Per combatterli, per discacciarli, si mise in orazione. Pregando, pensò alla Beata, alle lampade votive ardenti nella sua cappella. Con la veste che indossava, buttatosi soltanto uno scialle sulle spalle, accompagnata dalla cameriera, si fece portare in carrozza chiusa ai Cappuccini. Sotto l'altare stava sempre la secolare cassa mortuaria, l'oggetto dei suoi terrori. Ella ne sostenne la vista, giunse le mani, invocò dalla santa parente la salute del poveretto, e ordinò al sagrestano d'accendere una lampada perpetua. Tornata a casa, non trovò nulla, ma uno squillo di campanello la fece trasalire: forse era il dispaccio. Era invece un usciere municipale mandato da Consalvo, il quale voleva sapere le novità... Ella schiuse una finestra, avendo bisogno d'aria. Tornando in camera sua, cadde sopra una seggiola, col viso nascosto tra le mani. Lo vide morto. Michele non le dava la notizia funesta per riguardo del suo stato. E a un tratto, il passato le tornò tutto alla memoria: ella lo rivide come lo aveva conosciuto, come lo aveva amato: udì la sua voce dolce quando le aveva domandato: «Teresa, Teresa, mi vuoi bene?...» e con gli occhi aridi, con voce strozzata, ella riconobbe: «Sì, l'ho ucciso io!... Per me ha mutato vita... è andato a seppellirsi laggiù... ha trovato la morte!...» Sorse in piedi. Se qualcuno l'avesse udita?... Le creature dormivano; ella era sola. E i dolorosi, i malvagi pensieri tornarono ad assalirla. Non era stata soltanto lei, erano stati anche, e più, tutti quegli altri! La sua madrigna, suo padre, la madre di lui, tutta quella gente dura, spietata, inesorabile, tutti quelli che avevano impedito d'esser felice a lui ed a lei stessa. Perché ella non era stata felice, no, mai! E le davan lode per l'amore che portava al marito! Se non l'aveva amato neppure un momento! Se le ispirava quasi disgusto! Se disprezzava la sua ignoranza, la sua volgarità! E l'avevano sacrificata pei loro puntigli, pei loro capricci, per la superstizione dei titoli, per l'idolatria delle vane parole! Pazzi e maligni: aveva ragione Consalvo. Egli aveva ben fatto, che s'era ribellato. La sciocchezza era stata tutta sua, nell'obbedir ciecamente. Colpa sua! Anche sua! Per obbedire, per rispettare, per contentare: chi? «Gli assassini di nostra madre!...» Con gli occhi spalancati, ella trattenne il respiro. Il bambino l'aveva udita?... La guardava, coi chiari occhi sereni, lucenti come celesti spiracoli nella penombra della sera... Non corse a lui. Nella penombra, anche l'argento del Crocifisso, il vetro del quadro della Madonna lucevano. Perché dunque Essi permettevano queste cose? Non le sapevano? Non le vedevano? Non potevano impedirle? La porta si schiuse: la cameriera entrò esclamando: «Eccellenza, il telegramma!» Ella lesse: «Dottori assicurano superato ultimo accesso. Riprende conoscenza. Siamo più tranquilli.» Allora ruppe in pianto.

Il duca tornò dopo una settimana. Suo fratello era entrato in convalescenza, ma quel giorno dell'arrivo lo avevano trovato boccheggiante: in un accesso di delirio aveva tentato di buttarsi giù dal balcone; quattro uomini a stento erano riusciti a trattenerlo. Un vero miracolo l'aveva salvato. Appena in grado di viaggiare, lo avrebbero riportato a casa per assicurare la guarigione col cambiamento d'aria. Infatti, pochi giorni dopo, la duchessa madre, restata al suo capezzale, scrisse chiamando il duca per aiutarla a trasportare il sofferente. Quando Teresa lo vide arrivare, curvo, dimagrito, con la barba ispida sul viso giallo, quasi non lo riconobbe. La pace era tornata adesso nell'anima di lei. Aveva un istante disperato del soccorso divino, e giusto mentr'ella dubitava, mentre quasi accusava il Signore d'averla dimenticata, un miracolo aveva salvato il poveretto. Ella vi riconosceva l'intercessione della Beata: innalzava quindi al cielo le più fervide azioni di grazie. La lampada ardeva ora notte e giorno nella cappella, la voce del prodigioso soccorso accresceva la fama della Santa. Nessuna traccia della tempesta restò più in lei. Dinanzi al cognato, debole, scarno e tremante, ella non provava null'altro che una grande pietà, non faceva altri voti che per la sua guarigione. Mentre gli prodigava tutte le sue cure, come una suora, pensava: «Com'è imbruttito! Non si riconosce più!...» Egli lasciavasi curare come un bambino, senza forza, senza volontà, senza memoria. Il terribile colpo l'aveva stordito, la fibra si rinsanguava a poco a poco, ma le facoltà della mente erano più tarde a ripristinarsi. Le fortissime dosi di chinino gli avevano quasi tolto l'udito; spesso, egli credeva d'essere ancora ad Augusta, chiamava la gente che aveva intorno laggiù. La parola era rara sulle sue labbra; lo sguardo stanco, fisso, a momenti pareva cieco. Dopo un mese, i dottori consigliarono di portarlo in montagna. Sua madre lo accompagnò alla Tardarìa. Durante la loro assenza, che durò tre mesi, Teresa partorì un altro maschietto. In novembre, il freddo non permettendo più di stare in mezzo ai boschi, la duchessa e il convalescente tornarono: Giovannino era adesso guarito del tutto, i colori della salute gli fiorivano in viso; la mente però era debole ancora. La sua lieve sordità lo rendeva inquieto, irritabile, nervoso. Ora smaniava per andar fuori, per veder gente; ora si chiudeva in camera, evitando tutti. Spesso, ad una lieve contraddizione, a un'osservazione senza importanza della madre o del fratello, si spazientiva, rispondeva sgarbatamente; alle volte gridava con le mani in testa: «Volete dunque farmi impazzire?...» Solo Teresa pareva esercitare un'influenza pacificatrice sul suo spirito ammalato. Come per virtù d'un senso più fine, perfetto, egli intendeva sempre tutto ciò che diceva Teresa, quasi leggesse le sue parole negli sguardi, nello stesso movimento delle labbra. Ed a poco a poco, per quel benefico influsso, egli migliorò, guarì, riprese le abitudini d'un tempo, ricominciò a vestirsi con cura, a prendere interesse alle cose che vedeva e udiva. Un giorno si fece radere la barba: fu una specie di trasformazione come quelle che si vedono al teatro: ringiovanì in un momento, il bel ragazzo di un tempo riapparve. «Così va bene!» gli disse Consalvo, che veniva spesso a trovarlo, quando le sue occupazioni sindacali lo lasciavano libero Egli era adesso all'apogeo della popolarità: non si sentiva parlare d'altro che della sua intelligenza, della sua accortezza, del gran bene che faceva al paese: il governo l'aveva nominato commendatore della Corona d'Italia. Spesso, tuttavia, s'impegnavano discussioni tra lui e Giovannino, poiché quest'ultimo osservava che col sistema di buttar via allegramente i quattrini in opere più o meno utili le finanze del comune, già floridissime, correvano rischio di dare un crollo. «Chi ne ha ne spende!» rispondeva Consalvo. «Après moi le déluge...» «Dovranno far debiti, se continuerai di questo passo...» «Qualcuno li pagherà. Mio caro, ho da farmi popolare; mi servo dei mezzi che trovo. Credi tu che questo gregge m'apprezzi per quel che valgo? S'ha da buttargli la polvere agli occhi!» Teresa e Giovannino, nei loro discorsi, parlavano sempre di lui, s'accordavano interamente nel giudicarlo. Quel suo disprezzo di tutto e di tutti li addolorava: certo, era un segno di forza; ma alla lunga non avrebbe potuto nuocergli? Teresa, specialmente, credeva che la forza vera fosse più modesta, più riguardosa, più timida; il cognato consentiva nei suoi giudizi; però scagionava Consalvo, attribuiva quel che c'era di men bello in lui al sistema politico. Doleva sopra ogni cosa a lei che il fratello non avesse una fede salda e desse ragione a tutti e si ridesse di tutto. Egli non praticava più, e ciò la crucciava infinitamente; ma avrebbe piuttosto preferito una franca negazione ai sotterfugi ch'egli poneva in opera. Per Sant'Agata, alla testa della Giunta, con l'abito nero e le decorazioni, egli assisteva alla messa pontificale dinanzi a migliaia di persone stipate nella cattedrale; poi dichiarava: «La mascherata è finita!» «Perché ci vai, allora?» gli domandava la sorella. «È meglio restare a casa, se credi che sia una mascherata.» «È meglio...» confermava Giovannino. «Se resto a casa, perdo l'appoggio dei sagrestani e dei baciapile!» «Ma i liberi pensatori che ti vedono in chiesa,» soggiungeva il cugino, mentre Teresa approvava col capo, «che dicono?» «Dicono, come me: "Costa, il favore popolare!..."» No, no, ella non voleva che suo fratello fosse così. E sosteneva con lui discussioni vivaci durante le quali le dava della pinzochera, della clericale, per finire con una raccomandazione: «Non m'inimicare i tuoi Monsignori!» Ma i prelati che venivano a trovare la giovane duchessa le facevano anch'essi molti elogi del fratello. Scrollavano un poco il capo, veramente, a motivo dello scetticismo di lui, ma riconoscevano le sue buone qualità; e «quando il fondo è buono, non bisogna disperare». La frequentazione di quegli ecclesiastici, l'ascolto che prestava loro non facevano rinunziare Teresa alle sue idee, in fatto di politica religiosa. Devota credente, ma non bigotta, ella non poteva condannare, per esempio, la soppressione delle fraterie, udendo narrare - adesso che era maritata - gli scandali dei Benedettini. E perché mai il Papa ostinavasi a pretendere il dominio temporale, se Gesù aveva detto: «Il mio regno non è di questo mondo»?... Ma simili opinioni, che avrebbero fatto scomunicare ogni altra, erano in lei tollerate dai suoi confidenti spirituali, i quali del resto le stavano attorno, tiravano partito della sua pietà, dell'influenza che esercitava sul fratello sindaco. Se volevano far entrare certi ragazzi all'Ospizio di beneficenza o certi vecchi a quello di mendicità o certi ammalati agli ospedali; se bisognava sostenere le Suore di carità che gli atei volevano mandar via, oppure ottenere a prezzo di favore il terreno per gli asili cattolici; se sorgevano contestazioni tra il Municipio e la curia, Teresa serviva da intermediaria, otteneva spesso da Consalvo quanto gli chiedeva. Ma gli scherzi, i motteggi, le scettiche dichiarazioni del fratello, che diceva di concedere quelle cose per ottenerne il ricambio a suo tempo, le facevano male. Una volta che ella gli rimproverò la mancanza di carattere, le rispose sorridendo: «Mia cara, non sai la storia di quello che vedeva una festuca negli occhi altrui e non la trave nei propri? Pensa un po' a ciò che hai fatto tu stessa!» Erano soli. Ella chinò il capo. «Volevi sposar Giovannino, ed hai preso Michele che non volevi: è vero, sì o no? Ed era un atto gravissimo, il più grave di tutta la vita, quello che decide dell'esistenza... Hai fatto così per mancanza di carattere, potrei dirti per seguire il tuo esempio. Io dirò invece che l'hai fatto perché t'è convenuto! Il carattere, tienlo bene a mente, è ciò che torna conto...» Ella continuò a tacere. Era la prima volta che il fratello le parlava di quelle cose intime. Ma, quasi per correggere ciò che vi poteva esser d'urtante nelle sue parole, Consalvo riprese: «Del resto, non te ne faccio colpa. Può darsi che sia stato meglio per te. Il povero Giovannino, dopo la malattia, non ha più la testa a posto...» «Perché?...» domandò ella. «Come puoi dirlo? A me non pare...» «Non parrà a te, pare a tutti quelli che gli parlano. Non vedi com'è sempre nelle nuvole? Guardalo quando cammina solo per le strade: urta i passanti, non vede le carrozze, tal e quale come suo padre...» «Dici davvero?» «L'altro giorno, se non erano le guardie di città, restava sotto un carro. Certe volte non ragiona, mi fa ripetere due o tre volte le cose prima che capisca... Parlane a tuo marito, fatelo curare, state attenti prima che succeda una disgrazia.» Ella rimase profondamente turbata. Le pareva che il cognato fosse ristabilito del tutto; nulla le faceva più sospettare che lo squilibrio della sua mente durasse. Ora, aspettando ch'egli rincasasse, provava quasi un senso di paura, come se veramente un pazzo stesse per venirle dinanzi. Ma vedendolo rientrare sereno, sorridente, con un cartoccio di dolci pei bambini, con una quantità di notiziole per lei, ella fu certa che Consalvo s'ingannava, o almeno che esagerava sicuramente. «Sai,» gli disse la prima volta che restò sola con lui, «i tuoi timori sono ingiustificati; Giovannino non ha nulla...» Consalvo scosse il capo; ma come Teresa insisteva dimostrandogli che in casa il giovane non dava alcun sospetto, che con lei ragionava benissimo, egli si lasciò scappare, con aria di galanteria: «Credo che stia bene... con te.» A quelle parole, repentinamente, prima ancora che ne avesse considerata la significazione, una vampa le salì al viso. Voleva rispondergli, dirgli che lo scherzo era sconveniente e indegno, che quelle parole contenevano un sospetto ingiurioso ed infame, chiedergli di spiegarle meglio, costringerlo a disdirle... ma tutte quelle idee passavano ratte come lampi per la sua mente, ed ella restava muta, soffocata, avvampante, non udendo più nulla dei discorsi del fratello... Quando si trovò sola provò a ragionare. Che aveva voluto dire Consalvo? Era possibile che sospettasse di lei? E se anche avesse accolto un sospetto di quel genere, sarebbe venuto ad esprimerlo dinanzi a lei?... No, era uno scherzo, un'allusione sconsiderata ma innocente a quel che c'era stato un tempo... Ma perché non aveva ella risposto subito, dichiarando che quelle parole erano fuori di luogo? Perché era rimasta così turbata, perché la sua inquietudine durava ancora, adesso che ella si prendeva la testa fra le mani e si rivolgeva tutte quelle domande?... Aveva taciuto perché era stata colta in fallo?... Suo cognato, dunque, era inquieto lontano da lei e non ragionava, per causa di lei? E allora per qual virtù, quando le stava dinanzi, era sorridente e sereno?... Ed ella, che cosa aveva fatto perché ciò fosse possibile? Lo aveva curato, gli aveva dimostrato il bene fraterno che gli voleva, s'era valsa dell'ascendente che esercitava su lui per guarirlo... E poi? Nient'altro!... Nient'altro!... Il Signore le era testimonio!... Nulla, come suo fratello!... Perché dunque le parole del fratello suo?... Forse perché c'era stato qualcosa fra loro, un tempo, tanto tempo prima? Perché Giovannino non le era fratello di sangue?... E un dubbio atroce le passò per la mente: «Se quello che ha detto Consalvo è ripetuto dagli altri?...» Lo stupore dominava quella tempesta di dubbi, di paure, di proteste. Come mai, se ella era innocente non solo di atti ma anche di pensieri, Consalvo aveva potuto pensare al male o solamente rammentare il passato ch'ella credeva morto e sepolto? Come mai?... Perché?... E vedendo rincasar Giovannino, udendolo discorrere seduto accanto a lei alla tavola comune, ella comprese: perché vivevano adesso sotto lo stesso tetto, perché erano tutto il giorno insieme, perché uscivano insieme in carrozza, perché ella lo ritrovava in casa del padre, delle zie, da per tutto dove andava... No, non s'era accorta ancora che la loro intimità fosse giunta a tal segno, o piuttosto non aveva compreso che quell'intimità potesse far nascere un sospetto orribile; ma ecco che la sua mente cominciava a rischiararsi: sì, non le era fratello, era un estraneo, un uomo che ella aveva amato altra volta... Bisognava dunque che egli andasse via, che se ne stesse lontano, come nei primi anni del matrimonio, come prima della malattia... Sì, andarsene via... E ad un tratto ella comprese una cosa più terribile di tutte: che ciò era impossibile, perché ella lo amava. All'idea di non vederlo più, al pensiero di rompere quella cara e dolce comunione di anime, ella sentì lacerarsi il cuore. E poiché non più lampi interrotti, ma una luce cruda illuminava adesso il suo pensiero, ella riconobbe che non lo amava soltanto per la compagnia spirituale, ma tutto, anima e corpo, come prima, come sempre... Suo marito s'era fatto più grasso e più goffo, aveva perduto gli ultimi capelli: il suo cranio lucido le faceva ribrezzo. All'idea di passar la mano sulla chioma folta e odorosa di Giovannino ella tremava... perché s'accordavano nei giudizi, nei gusti, nelle opinioni? Perché si amavano!... Perché ella sola, nel tempo che egli soffriva, era stata buona a sedare lo spirito inquieto? Perché si amavano!... S'amavano, voleva dire che erano infami! Tanto più degni d'eterna dannazione, quanto più sacri erano i vincoli che avrebbero dovuto rispettare!... Lei, la santa!... la santa!... Ed alla sua mente atterrita parve che il peccato fosse commesso, senza più scampo. Tutte le volte che Giovannino le stava vicino, ella tremava come dinanzi al testimonio ed al complice della propria colpa. Lo evitava, non lo guardava più in viso, smaniava quand'egli teneva in braccio i nipotini, baciandoli lungamente, avidamente, quasi baciasse lei stessa, una parte della sua carne... «Che avete, Teresa?» le domandava egli; e l'imbarazzo, la freddezza di lei divenivano più grandi, poiché non le diceva più cognata, ma la chiamava per nome, ed ella stessa lo chiamava per nome, tanto la loro intimità s'era stretta. Michele, la suocera cominciavano a notare anch'essi il mutato umore di lei e non sapevano a che attribuirlo, o lo mettevano in conto di un malessere indefinibile di cui ella lagnavasi. Se avessero saputo!... Se avessero scoperto!... Quando giunse al parossismo, il suo terrore si risolse, come una febbre. Che potevano scoprire? Quali atti, quali parole, quali sguardi d'intelligenza? Era mai accaduto nulla fra di loro, un giorno, un'ora, un minuto, che li avesse costretti ad arrossire? Dov'era la colpa, fuorché nel pensiero? Ed era ella proprio sicura che egli nutrisse come lei il pensiero peccaminoso? Che prova diretta ne aveva? Quel suo spavento, al contrario, la repulsione che ora gli dimostrava, non potevano essere gli unici indizi denunziatori? E a poco a poco, sforzandosi a ragionare, quetossi. Egli sarebbe andato via, il tempo avrebbe ancor una volta spento il fuoco divampante a tratti nel suo cuore, come gl'incendi vulcanici...

Un improvviso peggioramento del padre la aiutò a dimenticare. Il tumore, scomparso da un pezzo nel punto dov'era passato il ferro del chirurgo, riappariva nuovamente più a destra, verso l'ascella. L'infermo, appena accortosi della nuova formazione maligna, ebbe un così formidabile accesso di furore impotente, che lo spavento gelò le anime dei suoi. Ella accorse, passò intere giornate al capezzale del disperato, sopportò pazientemente tutti gli scoppi del suo livore, alleviò le pene della madrigna. I dottori, al momento opportuno, s'apprestavano a tagliare, a bruciare; anche questa volta l'infermo urlò che non voleva. «Vogliono ammazzarmi! Non sono dottori, sono macellai!.. Li pagate per ammazzarmi, per liberarvi di me!...» E nel delirio, buttava via a un tratto la maschera dello zelante cattolico timorato di Dio, orribili, sconce bestemmie gli uscivano dalle labbra. La principessa si turava le orecchie, Teresa alzava gli occhi al cielo; i Monsignori però affermavano: «Non è lui quello che parla, è il male... Egli non sa ciò che dice...» Ma, scorgendo le vesti nere, l'infermo gridava: «E voialtri corvacci, che volete?... Fiutate la carne umana, corvacci?... Via di qua!... Via di qua!...» La crisi finì con un pianto dirotto. Egli promise Messe alle anime del Purgatorio, ceri e lampade a tutte le Madonne e a tutti i Crocifissi, chiese perdono ai suoi, scongiurando che non lo abbandonassero. Teresa, inginocchiata al suo capezzale, lo indusse a lasciarsi operare un'altra volta. «Fate... fate come volete... Ma non mi lasciate!... Per carità, per l'anima di tua madre! non mi lasciare...» Ella assisté al macello. Dapprima, la vista del padre che per l'azione del cloroformio, sotto la maschera di feltro, s'agitò, rise, disse parole incomprensibili, poi si quetò, impallidì, parve morto, le gelò il sangue nelle vene; ma ella fece forza a se stessa per non essere di impaccio ai dottori; e con straordinaria tensione della volontà vinse i propri nervi. Ma alla vista dei ferri, alle zaffate dell'acido fenico che si mescolavano alle esalazioni dell'anestetico, un senso di freddo le salì al cuore, un moto di nausea le passò per la gola, e a un tratto le parve che tutte le cose girassero. «Vada via! Vada via!...» le diceva il chirurgo quando tornò in sensi; ma ella scosse il capo: aveva promesso, restò. Non vedeva la piaga, ma il gesto circolare che l'operatore faceva col braccio, il sangue che sprizzò sui grembiali del chirurgo e degli assistenti, che macchiò il letto e il pavimento, che fece più disgustoso l'odore dell'aria. Quanto sangue! Quanto sangue! Se ne colmavano le catinelle; vuotate, si ricolmavano... Ella stava dall'altro lato del letto, tenendo una mano del padre, fredda come quella d'un cadavere. Non poteva né pregare né pensare, vinta dall'orrore: una sola idea occupava il suo spirito: «Quando finiranno?... Non finiranno più?...» Non finivano mai. Come un artefice alle prese con la materia inerte da ridurre alla forma prestabilita, il chirurgo tagliava ancora, recideva, raschiava; lasciava uno strumento e ne pigliava un altro, poi riprendeva il primo, calmo, freddo, attentissimo. Ed un incidente prolungò l'attesa, ritardò l'operazione. Una goccia del putrido sangue cadde sulla mano scalfita dell'assistente; perché quell'uomo non fosse avvelenato accesero il termocauterio, il platino rovente fu passato sulla sua mano; s'udì il frizzo della carne bruciata, l'aria divenne mefitica. Dopo un'ora, tutto finì. Lavate le macchie, fasciata la piaga, riposti gli strumenti nelle custodie, il principe fu destato. Il primo sguardo del padre, cieco ancora, ancora morto, accrebbe il terrore di Teresa. Nondimeno, ella attese il ritorno della vita; disse al padre, sorridendogli, stringendogli la mano: «È fatto... tutto è andato benissimo... Non è vero, dottore?...» Ma ad un tratto ogni forza l'abbandonò. Suo marito, entrato con la principessa e gli altri parenti, la portò via, in una sala lontana. Il dottore venne a dire, con tono d'autorità: «Volete sì o no andarvene a casa, adesso?... Andate a riposarvi: qui non c'è più nulla da fare...» Non ebbe la forza di rientrare neppure un istante nella camera dell'infermo; volle però che Michele restasse, per recargliene più tardi le nuove. Scese le scale barcollando, appoggiata al braccio del dottore, e si lasciò cadere sul sedile della carrozza. E mentre i cavalli correvano, e l'aria smossa le vivificava il petto, anche lo spirito liberavasi finalmente dalla lunga oppressione. Ella pensava: «Quanti dolori! quante miserie!» Che valevano al padre le ricchezze, l'impero ai quali aveva tanto tenuto? Non avrebbe dato tutto per la salute?... Ed era condannato! Quell'operazione era quasi inutile: l'ascesso sarebbe riapparso altrove... E contro quella povera vita ròsa dal male, un giorno, un momento, in cuor suo - non a parole, Signore, col solo pensiero; ma con un pensiero egualmente colpevole - contro quella povera vita ella s'era ribellata... Perché?... Come era stato possibile?... Se egli aveva torti, adesso li pagava, con un supplizio atroce. E se aveva torti, toccava a lei giudicarlo? Egli non aveva posto opera a farla felice: poteva giudicarlo per ciò?... E dov'era la felicità? Sarebbe ella stata felice altrimenti? Chi sa quali altri dolori! Quante miserie!... E sempre il gesto del chirurgo che incideva la viva carne le stava dinanzi agli occhi... Pensava suo padre a queste cose? Riconosceva d'essersi ingannato?... Ella non doveva giudicarlo; ma perché dunque le tornavano a mente tutte le accuse che aveva udito ripeter contro di lui: che era stato duro, falso, violento; che aveva spogliato le sorelle e i fratelli, e falsificato il testamento del monaco, e lasciato morire accattando lo zio, e amareggiato la vita e affrettato la morte della moglie, della madre di lei?.. Erano vere queste cose? Era egli così tristo?... Se l'invidia, la malignità lo avevano calunniato, quanto più tristo era il mondo? Che tristo e orribile mondo, quello dove l'odio tra padre e figlio poteva allignare!... Egli non voleva veder Consalvo; il sacrifizio di lei era stato dunque inutile! Sarebbe morto senza vederlo, bestemmiando e piangendo... Che mondo di tristezza, che mondo di miseria!... Allora, rapidamente, quasi i cavalli che la trascinavano la trasportassero indietro nel tempo, ella pensò alla badìa, dove, fanciulla, s'era sentita opprimere, come ad un sicuro rifugio, a un porto riparato dalle tempeste. Beata, sì, la zia monaca che passava i suoi giorni, tutti eguali, tra le preghiere e le semplici cure della santa casa, fuor della vista del male, al sicuro dalle tentazioni, dagli errori e dalle colpe. Ella pensava: «Perché ho avuto paura del monastero?... Così vi fossi entrata per sempre!...» L'imaginazione dolente riconosceva adesso che la verità era lì, in quel silenzio, in quella solitudine, in quella rinunzia. «Vi entrerei ora?» chiedeva a se stessa; e rispondeva: «Ora, all'istante!» Che era la vita se non l'aspettazione della morte? Perché avrebbe provato repugnanza per la solitudine, la rinunzia, il silenzio della vita claustrale, se ella sentivasi sola, spaventosamente sola, se aveva rinunziato a tante cose che le erano state a cuore, se le voci del mondo erano tristi e dolorose? «Se io non fossi nata?...» Un brivido di freddo l'assalì quando la carrozza arrestossi nel cortile di casa sua. E i suoi figli? Aveva dimenticato i suoi figli? Quando li ebbe stretti al petto, la lunga agitazione del suo spirito si risolse in pianto. Ed in quel punto ella udì una voce, una voce viva, dolce e pietosa: «Teresa, che avete?... Com'è andata?... Sta male?...» Non poté rispondere; il pianto la strozzava. «Teresa!... Per l'amor di Dio, non v'angustiate così! Voi che siete tanto forte!... L'operazione non è riuscita? Sì?... E allora?... Andiamo, Teresa, siate ragionevole!... Guarirà, vedrete... Poveretta!... Ha ragione... Ma ora basta! Basta, Teresa... Sentitemi... ditemi... Michele non è venuto con voi?...» Ella rispondeva a cenni col capo. Voleva dirgli di tacere perché quella voce dolce, quelle parole buone accrescevano la tempesta del pianto, perché quella soave pietà le rivelava la propria miseria. No, ella non era forte; era debole, timida, fragile; non poteva dare aiuto agli altri; aveva ella stessa bisogno d'appoggio e di soccorso. E la caritatevole voce diceva ancora: «Poveretta! Poveretta!... Fatevi animo... Sono qui i vostri figli; guardateli, guardate come sono belli... Fatelo per amore di questi angioletti, non v'ammalate anche voi... E la mamma che non c'è!... Volete vostro fratello? Volete che lo mandi a chiamare?... Dite che cosa volete; son qua io...» Ed il suo braccio la cinse, la sua tempia sfiorò la tempia di lei. Ella piangeva ancora, ma di tenerezza, non di dolore: dopo l'orrore che aveva visto, dopo le tristezze che aveva pensate, l'anima sua aveva bisogno di conforti, e le confortanti parole le scendevano soavi all'anima come un balsamo. Avendo pensato d'esser sola al mondo, di non aver nessuno che l'intendesse, abbandonavasi ora, con la trepida voluttà della debolezza, a quella forza, a quella simpatia. Egli le asciugava gli occhi, le divideva sulla fronte i capelli scomposti. La sua mano tremava. «Così...» mormorava, «basta così...» Le passò nuovamente il braccio attorno alla vita, le prese una mano. I singhiozzi che le sollevavano il seno ambasciato facevano più stretto l'abbraccio. La baciò in fronte. Ella si liberò dalla stretta e levossi. La duchessa sopravveniva.

Da quel momento, entrambi lessero il pensiero della colpa nei loro sguardi. Evitavano di guardarsi, ma il pensiero persisteva, come se qualcuno, le stesse mute cose lo esprimessero. Se la mano, se l'abito dell'una sfiorava quello dell'altro, le fronti arrossivano, le menti si turbavano. Ella non pensava più a suo padre che se ne moriva, non ai suoi figli. Alla tentazione, soltanto, sempre. Andò a gettarsi dinanzi alla Beata: la lampada votiva ardeva perennemente, come la fiamma che struggeva il suo cuore. Non valsero le preghiere: nessuno le udiva. Nulla valeva. Ella pensava: «Sarà oggi... sarà domani...» Suo marito le disse una volta: «Giovannino m'inquieta... torna ad esser turbato come dopo la malattia, hai visto?» Ella non aveva visto nulla: stupivasi come non si fossero accorti ancora dello smarrimento suo proprio. «Non parla, non ride, pare che ricominci a tormentarlo qualche fissazione... Che possiamo fare?» Che potevano fare? Un giorno, a tavola, Giovannino annunziò: «Parto per Augusta.» Era la salvezza, ella pensava che era la salvezza, mentre la duchessa e Michele esclamavano: «Un'altra volta? Per prendere una recidiva? In questa stagione?... Di qui non ti lasceremo partire!» Ella pensava che era la salvezza; e come Michele le domandò: «È vero che non può partire?» «È un'imprudenza...» rispose. Egli alzò lo sguardo su lei. Non si guardavano negli occhi da tanto tempo. Allora ella ebbe paura: quegli occhi spalancati, fiammanti, terribili, gli occhi del folle, ripetevano a lei: «Volete dunque farmi impazzire?» E rimase. Ma divenne un selvaggio. Ella s'accorse subito della pazzia, perché era rivolta contro di lei. La evitava, non le rivolgeva la parola. Quando gli presentavano i bambini li respingeva, quasi toccasse lei stessa nel toccar la carne della sua carne. Una terribile misantropia lo assalì, non andò più fuori: un giorno, costretto ad uscire, non rincasò. Tornò il domani: non si seppe dov'era stato. Quel giorno ella fu chiamata, all'alba, dalla principessa. Il principe Giacomo era agli estremi; il sangue avvelenato incancreniva a poco a poco tutto il suo corpo. La mattina prima, con grande stupore di tutti, egli aveva mandato a chiamare Consalvo. Voleva fare un ultimo tentativo per indurlo a prender moglie; la paura della iettatura cedeva dinanzi alla suprema necessità di assicurare la discendenza. Nella mente superstiziosa, indebolita ancor più dal male, il matrimonio del figlio era d'altronde l'unico mezzo di togliergli quel funesto potere. Ammogliato, stabilito in una casa propria, padrone d'un assegno e della dote della moglie, non avrebbe avuto ragione di augurare corta vita al padre. Consalvo venne subito, s'informò premurosamente della sua salute, sedette al suo capezzale. Il principe spiegò «T'ho fatto chiamare per dirti una cosa.. È tempo che tu prenda moglie.» «Pensi Vostra Eccellenza a guarire!» esclamò Consalvo. «Poi si parlerà di questi negozi.» «No,» insisté il principe. «Devi prender moglie ora...» Non aggiunse: «Perché io sto per morire...» Consalvo frenò un moto di fastidio «Ma che teme Vostra Eccellenza?... Che la nostra razza si spenga?... Non dubiti... prenderò moglie, glielo prometto... Mi lasci però un po' di tempo... Vuole che io ne prenda l'impegno in iscritto?» aggiunse sorridendo. «Sono pronto!... È contenta?...» L'infermo tacque un poco; poi riprese con voce breve: «Voglio che tu non perda tempo... Ha da esser ora.» «Oggi, subito, all'istante?...» continuò Consalvo con lo stesso tono di scherzo. «Ora... o te ne pentirai!» Egli nascose più difficilmente un moto di ribellione. «Ma, santo Dio, che fretta ha mai Vostra Eccellenza... Neanche s'io fossi una ragazza che invecchiando corresse il rischio di non trovar più partiti! Ho appena ventinove anni; posso aspettare ancora, fare una buona scelta. Ai tempi di Vostra Eccellenza davano moglie ai ragazzi di diciott'anni; ora le idee sono altre. Non dico che col sistema antico riuscissero cattivi mariti e padri... ma, come si pensa oggi, come penso io, bisogna aver acquistato una larga esperienza, essere nella pienezza della vita prima di dar la vita ad altri. Forse sbaglierò; ma a prender moglie ora, le assicuro che farei infelice la mia compagna e sarei infelice io stesso. Mi pentirei se ascoltassi Vostra Eccellenza. Vorrei farla contenta, se l'obbedienza al suo desiderio non portasse conseguenze troppo gravi a me e ad altri...» Finché il figlio parlò, sfoggiando la sua eloquenza, il principe non disse una parola. Quando Consalvo andò via, egli s'afferrò al campanello e sonò disperatamente; e la principessa, le persone accorse lo trovarono in uno stato da fare spavento. Pallido come fosse già morto, con le mascelle contratte, con le coltri strettamente afferrate tra le mani adunche: «Il notaio! Il notaio! Il notaio!» mugolava. Ad ogni parola dei familiari che gli domandavano che avesse, che tentavano calmarlo, mugolava, come un cane arrabbiato: «Il notaio!... Il notaio!... Il notaio!...» Teresa lo trovò in quello stato. Non si chetò se non prima venne il notaro. E allora diseredò il figlio. Solamente nell'impeto dell'ira, per vendicarsi, aveva potuto indursi a dettare le sue ultime volontà. E, arrestando con rauche grida le osservazioni del vecchio notaro che non credeva alle proprie orecchie e cercava richiamarlo alla ragione e impedire quella mostruosità, dettò: «Nomino erede universale di tutto il mio patrimonio, di tutto il mio patrimonio, mia figlia Teresa Uzeda duchessa di Radalì... con l'obbligo che faccia precedere il cognome dei suoi figli dal mio casato, chiamandoli Uzeda Radalì di Francalanza... e così per tutta la discendenza, sino alla fine...» «Eccellenza...» «Scrivete!... Lascio a mia moglie Graziella principessa di Francalanza il mio palazzo avito... con l'obbligo espresso, espresso, scrivete: espresso, che vi dimori essa sola, vita natural durante...» «Signor principe!...» «Scrivete!...» E continuò a dettare i legati alle persone di servizio, ai parenti per il corrotto, alle chiese per le messe, ai preti per le elemosine; e non una sola parola, non un accenno a quel figlio. Ordinò che i funerali fossero celebrati col decoro competente al suo nome, che il suo corpo fosse imbalsamato; ma a mano a mano che esprimeva queste intenzioni, la sua voce s'arrochiva, gli spiriti vitali lo abbandonavano: quando finì, parve al notaio che l'ultimo momento fosse giunto davvero. Ma allora l'infermo si rianimò, prese il foglio, lo rilesse parola per parola e lo firmò. Quando le ultime formalità furono compite, quando il testamento fu chiuso, quella violenta eccitazione venne meno a un tratto. Egli aveva parlato della propria morte! Aveva dettato le ultime volontà! Aveva provveduto ai funerali! Egli era iettatore di se stesso! Non gli restava più che morire! Nessuno gli cavò più una parola: immobile, tetro, serrò gli occhi, aspettando. Il notaio era già corso dal duca: «Il principino diseredato! Messo fuori di casa! Erede universale la figlia! Il palazzo alla madrigna!... E quando mai s'è vista una cosa simile?... La casa Francalanza è proprio finita?... Pensateci voi!... Riparate lo scandalo!... Persuadete quel pazzo!...» Il duca, in quei giorni, aveva da fare: la tredicesima legislatura era stata chiusa, i comizi convocati per il 26 maggio. Deciso a ritirarsi se lo avessero nominato senatore, egli ripresentavasi ancora una volta perché la nomina non voleva venire. E tra la devozione dei vecchi amici, tra l'indifferenza sfiduciata di quanti speravano nella promessa riforma elettorale per sbarazzarsi di lui, la sua candidatura non andava peggio delle altre volte: Giulente, credutosi sul punto di ottenere il posto, tornava a battersi per lo zio. Nonostante le sue occupazioni, udite le notizie portategli dal notaio, il duca accorse al palazzo; ma il principe aveva dato ordine di non lasciar entrare anima viva. Andò allora in cerca di Consalvo. Questi era al Municipio, dove presiedeva, nella sala della Giunta, una riunione d'ingegneri per una nuova opera che aveva divisata: la costruzione di grandi acquedotti destinati a dotar d'acqua la città. Udendo che suo zio lo chiamava, chiese permesso agli astanti e andò a riceverlo nel suo gabinetto. «Non sai che succede?» esclamò piano il duca, ma con aria grave ed inquieta; e gli riferì ogni cosa. «Ebbene?» rispose Consalvo, arricciandosi i baffi. «Come, ebbene?... Ma va' a gettarti ai suoi piedi!... Chiedigli perdono!... Arrenditi una buona volta...» «Io?... Perché?...» E con un sorriso ambiguo, soggiunse: «Può togliermi quel che mi dà la legge? No?... Faccia del resto ciò che gli pare!» Lo zio restò a guardarlo, interdetto, non comprendendo. Era dunque vero? Quell'Uzeda non somigliava a tutti gli altri? Quando gli altri litigavano, s'azzuffavano, passavano sopra a tutti gli scrupoli e a tutte le leggi pur di far quattrini, quello lì restava indifferente, sorrideva udendo che era diseredato? «Ma tu non pensi a ciò che perdi!... Il palazzo lasciato a sua moglie per cacciartene via?... Non capisci questa cosa?... Non te ne duole?...» Consalvo lasciò che lo zio dicesse; poi rispose: «Vostra Eccellenza ha finito?... Sappia che la legittima, cioè un quarto del patrimonio, mi basta, anzi mi soverchia. Quanto al palazzo...» egli tacque un poco, perché questo veramente gli coceva: il principe aveva saputo portare il colpo, «quanto al palazzo, case non ne mancano, e coi quattrini se ne fanno di più belle della nostra... Adesso Vostra Eccellenza permetta: la commissione m'aspetta.» E la notizia si diffuse per la città. Ad una voce, in alto e in basso, il principe fu biasimato. Antipatia e odio contro il figliuolo, sia pure; ma fino a questo punto?... L'anima a Dio e la roba a chi spetta!... Non si rammentava egli dunque che anche la vecchia principessa sua madre lo aveva odiato, ma che, nondimeno, lo aveva trattato come il prediletto?.. La cosa era solo possibile in quella gabbia di matti. Pazzo il padre e pazzo il figlio! Ma i fautori del principino esclamarono: «Vedete il suo disinteresse?... Per esser uomo di carattere, per non transigere, perde un patrimonio, e non gliene importa niente!» Ma se tutti, universalmente, biasimavano il principe, tra la servitù, tra i familiari, tra i lavapiatti regnava una vera costernazione. La casa Francalanza finita! Le ricchezze alla femmina! Il palazzo alla moglie! Era venuta dunque la fine del mondo?... E una sola persona durava fatica a nascondere la propria gioia: la duchessa Radalì madre. La sostanza che si riuniva nelle mani del suo primogenito era dunque immensa! Il duchino non avrebbe potuto contare le proprie rendite. Se Giovannino non si fosse ammogliato - e lei c'era per questo! - la ricchezza del futuro duca avrebbe dato le vertigini!... Ella quasi le provava, non comprendeva come Michele restasse indifferente a quell'annunzio, come le dicesse: «Mamma, non penso a questo... Penso a Giovannino... Non lo vedete? Cupo, taciturno, certi giorni mi fa spavento...» Ella non vedeva nulla, era persuasa che Michele esagerasse; la soddisfazione le si leggeva negli occhi, si manifestava ad ogni atto, ad ogni parola. E Teresa la guardava, non comprendendo. Sola fra tutti, ella non sapeva del testamento del padre. Non udiva i borbottii dei parenti, non comprendeva le allusioni della gente. Aveva un fuoco ardente nel petto, un chiuso fuoco che la consumava a poco a poco... Perché non lo aveva lasciato andar via? Perché non aveva stornato la tentazione? E gli occhi di lui dicevano sempre: «Volete dunque farmi impazzire?...» Ella non poteva né udire né comprendere nulla, sotto il peso della tragica fatalità che sentiva aggravarsi tutt'intorno. A momenti pregava che l'agonia del padre durasse, perché solo quell'agonia, quello spavento di morte la distoglieva dal pensiero cocente. Che sarebbe avvenuto dopo la morte del padre?... Poi, vedendo l'atroce supplizio del principe, s'incolpava di quella preghiera inumana... Il principe moriva a pezzo a pezzo, tra bestemmie e preghiere, scoppi di furore e di pianto. Ora aveva paura di restar solo, ora la vista della gente sana lo rendeva furibondo. Nominata erede la figlia, respingeva anche lei, poiché, dovendo ereditare, anche lei doveva affrettar coi voti la sua morte. Nessuno gli parlava né del testamento, né di null'altro: bisognava, per accontentarlo, che egli stesso avviasse un discorso. Più spesso, la sua porta era chiusa: nessuno poteva penetrare fino a lui. E una notte un servo corse in casa Radalì: il principe era agli estremi. La notizia fu comunicata al barone Giovanni, perché avvertisse il fratello che dormiva con la moglie. «E come si fa?... Come si fa?...» balbettava egli, in preda a una confusione straordinaria. Andò finalmente a chiamare la madre. La duchessa corse nella camera maritale; all'improvvisa apparizione Teresa, che non dormiva più da tanto tempo, sentì un gran freddo serpeggiarle pel corpo. «Mio padre?...» e, cacciato un grido, cadde riversa sul letto. La duchessa scosse il duca Michele per destarlo dal sonno greve, e corse a cercare un cordiale. La cameriera e la balia accorsero anch'esse. Nella stanza attigua il barone pareva istupidito. Suo fratello lo chiamava, le persone di servizio gli dicevano, passando e ripassando in fretta: «La povera duchessina!... Venga anche Vostra Eccellenza...» ma egli guardava la soglia della camera nuziale con occhio fisso, dilatato, come se ci vedesse qualche cosa di orribile. «Giovannino!» gridò a un tratto il duca. Egli entrò. Era distesa sul letto, con le braccia nude, il seno nudo, i capelli d'oro diffusi sul guanciale, le labbra dischiuse, gli occhi rovesciati. «Aiutami a sollevarla...» Era rigida come una morta. Egli la sollevò per le ascelle. Come se le mani gli scottassero, si mise a scuoterle. Tremava. Tremavano tutti, perché la notte era glaciale. «Riprende i sensi,» annunziò la duchessa. Allora egli s'allontanò, andò a mettersi dietro la finestra dell'altra stanza. Mezz'ora dopo uscirono tutti e tre: la suocera e il marito reggevano Teresa; Michele disse al fratello: «Tu va' a letto... Fa freddo... Tornerò appena potrò.» In casa del principe c'era tutta la parentela. Consalvo stava nella Sala Gialla con gli zii; al capezzale del morente c'eran solo la principessa e lo zio duca. Teresa andò a mettersi accanto alla madrigna. «È meglio che finisca,» dicevano nella Sala Gialla, «soffre troppo...» Consalvo non diceva nulla. Pensava impaurito a quel male terribile che un giorno avrebbe potuto rodere, distruggere il suo proprio corpo in quel momento pieno di vita. Era il sangue impoverito della vecchia razza che faceva, dopo Ferdinando, un'altra vittima precoce, poiché suo padre aveva appena cinquantacinque anni. Sarebbe anch'egli morto prima del tempo, prima di conseguire il trionfo, ucciso da quei mali terribili che ammazzavano gli Uzeda giovani ancora? Suo padre avrebbe dato tutte le proprie ricchezze per vivere un anno, un mese, un giorno di più. Che avrebbe dato egli stesso, perché nelle proprie vene scorresse il sangue vivido e sano di un popolano?... «Niente!...» Il sangue povero e corrotto della vecchia razza lo faceva quel che era: Consalvo Uzeda, principino di Mirabella oggi, domani principe di Francalanza. A quello storico nome, a quei titoli sonori egli sentiva di dovere il posto guadagnato nel mondo, la facilità con cui le vie maestre gli s'aprivano innanzi. «Tutto si paga!...» pensava; ma piuttosto che dare qualcosa per vivere la vita lunga e forte d'un oscuro plebeo, egli avrebbe dato tutto per un solo giorno di gloria suprema, a costo d'ogni male... «Anche a costo della ragione?» Solo quest'altro oscuro pericolo che pesava su tutta la gente della sua razza lo atterriva; ma poi, considerando la lucidità del suo spirito, la giustezza dei suoi criteri, l'acutezza della sua vista, rassicuravasi; quei poveri di spirito, quei monomaniaci che s'eran chiamati Ferdinando ed Eugenio Uzeda avevano potuto perdere la ragione: non egli era minacciato... Ed in quel momento, sotto l'influenza di quei pensieri, di quel senso di paura, si giudicava quasi severamente per la lunga lotta sostenuta contro il padre. L'ostinazione, l'irremovibile durezza di cui aveva fatto mostra non era un sintomo inquietante, la prova che anch'egli poteva un giorno smarrirsi, come quegli altri? Anche resistendo alle imposizioni del padre, anche giudicandolo come meritava, non avrebbe egli potuto conservare una certa misura, rispettare le forme, salvar le apparenze? Perché quello scandalo? Non poteva fargli anzi torto?... E adesso sentivasi quasi disposto a chieder perdono al morente, a mutar politica... Recitavano le preghiere degli agonizzanti, nella camera dell'infermo; il principe rantolava. Dinanzi allo spettacolo della morte, il senso di paura agghiacciava nuovamente il cuore di Consalvo. Egli aveva pietà del padre, di tutti i suoi. Stravaganti, duri, prepotenti, maniaci: erano forse responsabili delle loro brutte qualità? «Tutto si paga!...» e anch'essi pagavano il gran nome, la vita fastosa, le più invidiate fortune!... Ma quel viso affilato del padre, quello sguardo cieco, quel rantolo affannoso!... Il giovane piegava i ginocchi, intuiva cose che aveva negate. Egli che s'era fatto beffe della religiosità della sorella, accusandola di bigotteria, comprendeva ora che la preghiera e la fede erano per lei un rifugio. Inginocchiata, con le mani giunte, immobile come una figura sepolcrale, ella non vedeva, non udiva. Consalvo quasi invidiava l'immancabile conforto cui ella poteva ricorrere nella tristezza... Il sacerdote che vegliava l'agonizzante alzò ad un tratto le braccia al cielo. S'udì lo scoppio di pianto della principessa, i gemiti delle donne di servizio, i sospiri della marchesa e di Lucrezia. Solo Teresa non piangeva; neppure la duchessa Radalì e donna Ferdinanda, in verità. Tutti sfilarono dinanzi al cadavere, baciandone le mani. Le donne si lasciarono condur via, tranne la figlia e la moglie. Nella Sala Rossa, la duchessa ripeteva che era meglio fosse morto, quel poveretto; non era vivere, il suo. Il duca col maestro di casa e Benedetto Giulente davano disposizioni per la circostanza, mentre i servi sbarravano tutte le finestre, tutti i portoni. Michele, fattosi vicino a Consalvo, gli stringeva la mano, mormorando: «Coraggio!...» Egli stava per rispondere qualcosa, quando udì una voce: «Eccellenza...» Era il portinaio che gli faceva cenno di dovergli parlare. «Permetti...» disse al cugino, e avvicinossi al servo, credendo gli chiedesse qualche ordine. «Eccellenza... venga qui...» mormorava l'altro, trascinandolo nella stanza attigua con aria di mistero, che Consalvo, nonostante la tristezza del momento, giudicava un poco buffa. «Eccellenza!» esclamò a un tratto, quando furono soli, con voce di terrore che diede un senso di raccapriccio al giovane. «Che disgrazia, Eccellenza!... Suo cugino il barone... Il cognato della duchessa...» «Giovannino?» esclamò egli, non comprendendolo. «S'è ammazzato, è morto!... Or ora; è venuto or ora il cameriere della duchessa... L'ho lasciato abbasso... Morto, con una pistolettata... Per avvertir prima Vostra Eccellenza... Bisogna mandare qualcuno...» Un sospiro di terrore e d'ambascia sfuggì dal petto a Consalvo. Il «figlio del pazzo», la pazzia, la morte violenta!... Ad un tratto si scosse, strinse il braccio al servo: «Non una parola a nessuno, capisci?... Andrò io stesso... Aspetta il mio ritorno... Non dire che sono andato fuori...» Sentiva di dover fare qualcosa. E quel sentimento, la nettezza della percezione, la rapidità della risoluzione gli procuravano un vero senso di sollievo, di fiducia, come se uscendo da un sogno penoso s'accorgesse in quel punto d'esser desto e al sicuro... Alla pazzia, al suicidio del cugino non era estranea Teresa: egli non sapeva in qual misura, ma era certo che non la sola eredità, non la sola malattia avevano sconvolto il cervello del giovane. Bisognava dunque nascondere il suicidio per Teresa, per la famiglia, per la gente... E appena giunto in casa dei Radalì, appena entrato nella camera dove il cadavere giaceva per terra, ai piedi di un divano, sotto un trofeo d'armi, esclamò dinanzi alla servitù costernata: «Ah, quest'armi maledette!... Credeva che la rivoltella fosse scarica... Povero Giovannino!... Che disgrazia!...» Nessuno osò rispondere. Prima che sopraggiungesse la giustizia, egli tolse l'arma che il morto stringeva nel pugno, ne cavò le cinque cartucce rimaste, e la ripose in mano al cadavere. E al pretore, che saputa la morte del principe Giacomo, gli diceva con aria dolente: «Signor principe!... Che disgrazie!... Due in una volta!... Non pare credibile!...» «Non pare davvero...» confermò egli, con chiara voce, interamente rassicurato. Quel «signor principe» che il magistrato gli dava prima d'ogni altro gli rammentava che una nuova èra s'apriva per lui. La fermezza di cui aveva dato prova, la prontezza con cui aveva visto quel che doveva fare lo rassicuravano: egli non aveva paura di cadere nelle pazzie degli Uzeda; dei suoi aveva soltanto la ricchezza e la potenza. E l'inganno in cui trascinava la giustizia non era l'ultimo motivo del suo compiacimento; egli diceva al pretore: «Il mio povero cugino era solo in casa... aveva la passione delle armi... Credette che questa rivoltella fosse scarica... Invece, guardi, c'era una sola cartuccia dimenticata...»

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.47.18