De Bibliotheca

La biblioteca di Babele

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Testi senza diritti d'autore

I VICERÉ

di Federico de Roberto

Parte seconda

6.

Per la via polverosa, sotto il cielo di fuoco, un'interminabile fila di carri colmi di masserizie: stridevano le ruote, tintinnavano i sonagli, e i carrettieri seduti sulle stanghe o appollaiati in cima al carico voltavano tratto tratto il capo, se uno scalpitar più frequente e un più vivace scampanellìo di sonagliere annunziavano il passaggio di qualche carrozza. Allora la fila dei carri serravasi sulla destra della via, e il legno passava, tra una nugola di polvere e lo schioccar delle fruste, mentre le facce spaventate dei fuggenti apparivano agli sportelli. «Il castigo di Dio!... Tutta colpa dei nostri peccati!... Eran più di dieci anni che vivevamo tranquilli! Assassini del governo!...» La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugar il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull'origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl'«italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s'era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d'oro e d'argento che almeno ricreavano la vista e l'udito, sotto l'altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran questi tutti i vantaggi dell'Italia una?... E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!...» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l'insorta città... E sui monticelli di breccia disposti lungo la via, al filo d'ombra proiettata dai muri, dalla cui cresta sporgevano le pale spinose dei fichi d'India, i fuggenti sedevano un poco, discutendo di queste cose, mentre continuava la sfilata delle carrozze, dei carri e dei pedoni non ancora stanchi. Alcuni tra questi, i più poveri, avevano caricato tutta la loro roba sopra un asinello, e uomini, donne e bambini seguivano a piedi, con fagotti di cenci in capo, o sotto il braccio, o infilati ad un bastone, la bestia lenta e paziente. I conoscenti si fermavano, notizie e commenti erano scambiati anche tra sconosciuti, con la solidarietà del pericolo nella comune miseria. Le donne ripetevano ciò che avevano udito dire dai preti: il colera era la pena dei tempi peccaminosi: gli scomunicati non avevano fatto la guerra al Papa? La Chiesa non era perseguitata? E adesso, per colmar lo staio, c'era la legge che spogliava i conventi! La fine del mondo! L'anno calamitoso! Chi avrebbe creduto una cosa simile! Tanti poveri monaci buttati in mezzo a una via? I luoghi santi sconsacrati? Non c'è più dove arrivare!... Queste erano sciocchezze, giudicavano invece gli uomini. I monaci avevano assai scialato senza far nulla! Mangiavano a ufo! E i muri dei conventi, se avessero potuto parlare, ne avrebbero dette di belle. Era tempo che finisse la cuccagna! L'unica cosa fatta bene dal governo!... Però, tanti santi Padri, che ce n'erano, costretti a vivere con una lira al giorno! I Benedettini, per esempio, avevano di che scialare con una lira il giorno, dopo aver fatto la vita di tanti Re! «E i quattrini che si sono divisi?» La notizia circolava da un pezzo, e certuni ne davano i particolari come se fossero stati presenti: le economie fatte negli ultimi anni, nella previsione della legge, erano state distribuite a tanto per uno: ogni monaco aveva preso nientemeno che quattromila onze di monete d'oro e d'argento. Poi s'eran spartita l'argenteria da tavola, tutta la roba di valore, e avvicinandosi il momento del congedo avevano venduto una gran quantità delle provviste accatastate nei magazzini: grandi botti di vino, grandi giare d'olio, gran sacchi di frumento e di legumi; altrettanti quattrini intascati - e nondimeno i magazzini parevano ancora colmi! «Han fatto bene! Dovevano forse lasciare anche la cassa ai ladri del governo?...» E le piccole carovane si rimettevano in marcia con le teste riscaldate all'idea dei milioni di milioni d'onze che avrebbe intascato Vittorio Emanuele vendendo i beni di San Nicola e di tutte le altre comunità... Molti mendicanti, profittando del gran passaggio di gente, tendevano la mano dal mucchio di sassi dove stavano sdraiati; i cenciosi bambini che li accompagnavano correvano dietro alle carrozze se da qualcuna di esse cadeva un soldino nella polvere dello stradale. E i pedoni riconoscevano i signori fuggenti, se ne ripetevano il nome, spaventati all'idea del vuoto della città: «il principe di Roccasciano!... La duchessa Radalì!... I Cùrcuma!... I Grazzeri!... Non resterà dunque nessuno?...»

Verso sera, quando l'ardore della giornata si temperò, tre carrozze padronali scappanti una dietro all'altra sollevarono una gran nuvola di polvere dalla città al Belvedere. Nella prima c'era il principe di Francalanza, donna Ferdinanda e la cugina Graziella, invitata alla villa perché non poteva andar sola alla Zafferana, e il principino Consalvo a cassetta, che brandiva trionfalmente la frusta, quantunque portasse ancora la tonaca benedettina perché suo padre s'era deciso a riprenderlo in casa proprio all'ultimo momento, quando i monaci s'eran dispersi e don Blasco e il Priore avevano anch'essi chiesto ospitalità al palazzo. Nella seconda carrozza stava la principessa, senza nessuno a fianco né dirimpetto e solo la cameriera nell'angolo opposto. Il contatto d'una spalla l'avrebbe fatta cadere in convulsione, perciò s'era dichiarata contentissima che il principe accompagnasse la cugina. L'altra carrozza era invece stipata: c'erano il marchese e Chiara, Rosa col bambino e finalmente don Blasco. Questi aveva rifiutato per la campagna l'ospitalità del principe e accettata quella del marchese, allo scopo d'evitare la sorella Ferdinanda; l'avversione non cedeva neppure dinanzi al pericolo del colera, gli faceva preferire la compagnia del bastardello. Il Priore, invece, era rimasto in città, al Vescovato, dove Monsignore lo aveva accolto a braccia aperte: tutte le preghiere e gli inviti dei parenti non erano valsi a farlo fuggire; il suo posto, diceva, era al capezzale degli infermi, accanto a Monsignore. Le maggiori insistenze gli erano venute dal principe, il quale sosteneva, come sempre, che in tutte le circostanze gravi e solenni la famiglia doveva tenersi unita; perciò gl'incresceva di lasciare in mezzo al pericolo qualcuno dei suoi. Che cosa si sarebbe detto? Che egli pensava solamente a se stesso?... Ma, come non era riuscito a rimuovere il Priore, così aveva fatto fiasco con Ferdinando, il quale, preso gusto alla vita cittadina, non voleva sentir parlare neppure di rifugiarsi alle Ghiande. Lucrezia era già partita nella mattina pel Belvedere col marito, il suocero e la suocera. Quanto allo zio duca, era a Firenze, vicino alla nipote Teresina, e poiché il colera non infieriva e non metteva tanto spavento quanto in Sicilia, così egli era e voleva che sua moglie fosse tranquilla. Al cavaliere don Eugenio, che se ne stava ancora a Palermo, nessuno pensava. Ricominciò al Belvedere la vita allegra della villeggiatura, tanto più che l'allarme destato dalle prime notizie della pestilenza si dimostrò presto ingiustificato: in città c'era appena qualche caso sospetto di tanto in tanto. Il principino, lasciata finalmente la tonaca per gli abiti di tutti gli altri cristiani, cominciò a prendersi quegli spassi che aveva sognati. Prima di tutto, con uno schioppo vero, se ne andava a caccia sui monti dell'Elce o dell'Urna, a sterminare conigli, lepri, pernici ed anche passeri, se non trovava altro; poi faceva attaccare ogni giorno per imparare a guidare, e il suo calessino divenne in breve il terrore di chi girava per le vie di campagna: sempre addosso ai carri ed alle carrozze, lanciato a tutta corsa per lasciare indietro ogni altro veicolo a costo di ribaltare, di fracassarsi, d'ammazzare qualcuno. Quando non guidava, se ne stava nella scuderia a veder governare le bestie, a imparare il linguaggio speciale dei cocchieri, dei cozzoni e dei maniscalchi, a criticare gli animali degli altri signori rifugiati al Belvedere o nei dintorni, gli acquisti recenti di Tizio, gli equipaggi di Filano, e donna Ferdinanda, udendolo parlare con sempre maggior competenza intorno a tali nobili argomenti, s'inorgogliva ammirando: «Queste son le cose che devi imparare!...» Anche la principessa, sebbene piangesse ancora per la lontananza di Teresina, si mostrava orgogliosa dei progressi del figliuolo, ma più la cugina, che prodigava al giovanotto continue carezze, benché Consalvo non solamente non le rispondesse con eguale effusione, ma si studiasse anche di evitarla. Non l'aveva perdonata d'essersi opposta al suo più pronto ritorno nella casa paterna; e adesso, vedendola domiciliata lì come una persona della famiglia, prendere il posto della sua mamma, la sua antipatia cresceva. Donna Graziella, in verità, più che da ospite si diportava da padrona: bisognava vederla la sera, quando veniva gente, come faceva gli onori di casa, specialmente se la principessa sentivasi indisposta E questo accadeva spesso; senza soffrire precisamente di nulla, donna Margherita, dopo la partenza della figliuoletta, accusava un sordo malessere, dolori di capo, una certa difficoltà di digestione. E felice di poter evitare la folla, le vicinanze infette, le strette di mano contagiose, se ne andava a letto, mentre nel salone la gente conversava animatamente, giocava, scioglieva sciarade. Lucrezia, lasciando la villa Giulente, partecipava con la cugina alla direzione delle faccende domestiche. Lei che in casa propria non metteva un dito all'acqua fresca, veniva a darsi un gran da fare per la vanagloria di riprendere il proprio posto nella casa del fratello principe. Chiara tirava su a zuccherini il bastardello, lo vezzeggiava molto più del marchese, il quale provava sempre un certo disagio e una certa vergogna a riconoscere pubblicamente quella paternità, mentre sua moglie quasi se ne gloriava. Se la principessa, o donna Ferdinanda, o qualche altro parente non faceva buon viso al piccolino, ella mostravasi offesa ed era capace di non metter piede per una settimana alla villa, se le passava pel capo che qualcuno incominciasse a criticare quella specie di adozione. Viceversa, era adesso tutt'una cosa con lo zio Blasco, il quale, stando con lei, la approvava implicitamente. Il monaco, alla notizia della legge che sopprimeva i conventi, durante gli ultimi tempi della vita claustrale e nei primi passati a casa del nipote, aveva fatto cose, cose dell'altro mondo: era parso veramente uno scatenato diavolone dell'Inferno. Le male parole di nuovo conio, le imprecazioni, le bestemmie eruttate contro il governo, a San Nicola, al palazzo, dalla Sigaraia, nelle farmacie borboniche e anche sulla pubblica via, non si poterono neppur noverare; i vituperi evacuati contro il fratello deputato, che aveva dato il suo voto alla legge, si lasciarono mille miglia lontano tutto quello che di più violento gli era mai uscito di bocca. Ma quasi la mostruosità compitasi fosse troppo grande, troppo stordente, egli si ridusse tosto ad un silenzio grave ed incagnato, dal quale non lo toglievano se non le voci, ripetute in sua presenza, della spartizione delle economie, delle quattromila onze toccate a ciascun Padre. Allora ricominciava a tonare: «Spartite sette paia di corna! Toccate quattromila teste di cavolo!... C'era un cavolo da spartire!... E se pure ci fosse stato qualcosa, nessuno avrebbe toccato niente! Per rendersi complici dei ladroni, ah? del rifiuto delle galere? del sublimato della briganteria?...» Egli parlava così dinanzi agli estranei, alla gente di poco affare, alle persone di servizio; in famiglia, tra gli intimi, confessava la spartizione, ma riduceva la sua quota a poche centinaia di onze, a due posate, a un paio di lenzuola, tanto da non restar sulla paglia. Da San Nicola era venuto via con due casse, delle quali non lasciava mai le chiavi; e il principe, in città, le aveva covate con gli occhi, quasi pesandole e fiutandole, con nuovo rispetto per quello zio che adesso possedeva qualcosa; ma tutto il suo studio per trovare il destro di guardar dentro alle casse era stato inutile, giacché il monaco si sprangava in camera, ogni qualvolta aveva da frugarvi. Adesso, al Belvedere, anche Chiara e Federico parlavano spesso tra loro di questi famosi quattrini che doveva possedere don Blasco. Il marchese, temendo che li sciupasse con la Sigaraia, avrebbe voluto proporgli di metterli al sicuro, di comperarne altrettanta rendita se il monaco fosse stato un altro, se ogni semestre, avvicinandosi la scadenza delle cedole, don Blasco non l'avesse vessato, punzecchiato, tormentato, profetandogli il subisso di quel titolo. Il corso forzoso, la guerra, il colera, tutte le pubbliche calamità erano stati altrettanti argomenti di giubilo pel monaco, il quale si fregava ogni volta le mani, gridando al nipote: «Addio, la carta sporca! È fritto, il tuo governo! Tu non mi hai voluto ascoltare, ben ti sta!...» Ma il marchese incassava sempre la sua rendita il giorno stabilito, fino all'ultimo centesimo. Cessato del tutto il pericolo del colera, un giorno egli scese in città per qualche affare e per riscuotere il semestre; tornato al Belvedere e passeggiando, dopo pranzo, sulla terrazza, mentre Chiara giocava col bastardello, egli riferì allo zio l'impiego della sua giornata. «Ho anche preso i quattrini delle cedole... adesso le pagano anticipatamente, per l'affare dell'aggio... A mandarle a Parigi si prenderebbero altrettanti pezzi di napoleoni. Io ho ordinato un'altra partita di cartelle... le divideremo con parecchi amici... perché oggi non c'è come impiegare il denaro...» Voleva insistere a dimostrar la bontà dell'affare, ma tacque, perché don Blasco, fermatosi di botto, gli piantò gli occhi addosso, come sul punto di scoppiare. «Potresti cedermene diecimila lire?» Il marchese, sulle prime, credé d'aver udito male. «Cederne?... Come?... A Vostra Eccellenza?...» «Dico se puoi vendermi diecimila lire di cartelle, capisci o non capisci?» «Ma credo... certo... Diecimila lire di capitale, s'intende?... Eccellenza sì; posso scrivere subito un'altra lettera, per maggior sicurezza, se Vostra Eccellenza le vuole...» «Quando scriverai?» «Domani stesso.» «E verranno subito?» «In un giro di posta.» Il monaco gli voltò le spalle e s'allontanò un poco; poi tornato indietro, ripiantatoglisi dinanzi, riprese: «Senti, giacché ci sei, fanne venire per ventimila lire.» «Eccellenza sì; quanto vuole Vostra Eccellenza...» E appena solo, il marchese corse dalla moglie, le disse col respiro rotto dallo sbalordimento: «Non sai?... Non sai?... Lo zio vuol comprare della rendita! Ventimila lire di cartelle!... M'ha dato la commissione!... Non mi par vero! Mi par di sognare!...» Chiara rispose, tranquillamente, con una scrollatina di spalle: «Di che ti stupisci? Non sai che i miei parenti sono tutti pazzi?...» Sottovoce, l'uno all'orecchio dell'altro, gli Uzeda riprendevano a darsi del matto. Non era matta Chiara che trattava la cameriera come una sorella e il bastardo di lei come un figlio suo proprio? Non era matta Lucrezia che maltrattava quel povero diavolo di Benedetto in tutti i modi? Che cos'era donna Ferdinanda, la quale, senza che gliene venisse nulla, si impacciava di tutti gli affari della parentela? E che dire del principe, il quale, dopo aver dimenticato per tanti anni la cugina, adesso si metteva con lei, sotto gli occhi del figlio?... Qui consisteva forse il motivo che rendeva la Graziella sempre più antipatica a Consalvo: egli la contraddiceva in tutto e per tutto, dinanzi alle persone; evitava poi di restar solo in sua compagnia, affettava di trattarla come una intrusa quando le persone di servizio gli parlavano di lei. Questo era però l'unico sentimento che egli manifestava; del resto, stava in casa il meno possibile, montava a cavallo quando non usciva in carrozza, inforcava tutti gli asini dei contadini, teneva conversazione con tutti i carrettieri; il cuoco, dalla finestra della cucina, da cui si scorgeva il podere fino alla chiusa degli olivi, lo vedeva rincorrere le donne che venivano a cercare i fasci dei sarmenti vecchi. Con la moglie di massaro Rosario Farsatore, il fattore lo colse quasi sul fatto, un pomeriggio, nel pagliaio: egli non si mostrò per nulla turbato, e la cosa, venuta all'orecchio di donna Ferdinanda, lo rialzò nella stima della zitellona. Il principe finse di non saper nulla: pareva si fosse proposto di lasciarlo sbizzarrire, quasi a compensarlo degli ultimi anni che lo aveva tenuto a San Nicola. «E fra' Carmelo?» domandavano di tanto in tanto donna Ferdinanda, la principessa, Lucrezia. «Che n'è di fra' Carmelo?...» ma il principino non sapeva né curavasi di sapere che fosse avvenuto del suo antico protettore. A San Nicola, quando aveva roso il freno, aspettando la legge di soppressione come l'unica via di salvezza, egli s'era divertito a tormentare il fratello predicendogli lo sbando dei monaci, la chiusura del convento; ma l'altro, scrollando il capo, sorrideva d'incredulità, non comprendeva come gli stessi Padri potessero credere a una cosa simile. Mandarli via? Vendere le proprietà? Parole, chiacchiere, queste d'ora come quelle d'un tempo! Chi avrebbe avuto tanto ardire? E la scomunica del Papa? la guerra delle potenze cattoliche? la rivoluzione di tutta la cristianità?... E nulla era riuscito a scuotere la sua sicurezza, né le notizie dei giornali, né i preparativi dello sgombero, né la partenza dei novizi. Dopo, Consalvo non aveva più avuto notizie di lui. Una mattina, al Belvedere, mentre la famiglia si levava di tavola dopo colazione, Baldassarre venne ad annunziare: «Eccellenza, c'è fra' Carmelo.» «Fra' Carmelo!» Nessuno riconobbe il fratello dal faccione bianco e roseo, dalla ciera gioviale, dal pancione arrotondato sotto la tonaca, nel personaggio che s'avanzò verso il principe, con le braccia levate: «Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» In qualche mese era dimagrato della metà, e sul viso giallo e floscio gli occhi un tempo ridenti avevano una strana espressione di inquietudine quasi paurosa. «Eccellenza, me n'hanno cacciato!... Eccellenza, me n'hanno cacciato!...» e guardava tutti i signori, tutte le signore, quasi a provocare la dimostrazione del loro sdegno contro quella mostruosità. «Dunque era vero?... Ma che non s'ha da far nulla?... Voialtri che siete ascoltati?... Lascerete che quei scellerati rubino San Nicola, San Benedetto, tutti i santi del Paradiso?...» «Che possiamo farci!...» esclamò Consalvo fregandosi le mani; e donna Ferdinanda aggiunse: «Avete voluto il governo liberale? Godetene i frutti!» «Io?... Io, Eccellenza?... Sapevo molto, io, di liberali e non liberali!... Io badavo agli affari miei!... Sessant'anni che c'ero dentro!... Nessuno aveva osato toccarlo, in tante rivoluzioni che ho viste: il Trentasette, il Quarantotto, il Sessanta...» «Bel terno!...» fece il principino; e come Baldassarre venne a dirgli che il calesse era attaccato, si alzò, esclamando sotto il naso del fratello: «Adesso c'è la legge, caro mio!...» «Ma è giusta legge questa?... I beni della Chiesa?... Allora io me ne vengo in casa delle Vostre Eccellenze e mi piglio ogni cosa?... Si può fare una legge così?...» E raccontò confusamente ciò che era avvenuto all'atto dello spogliamento: «Quel delegato, per la consegna... L'Abate non volle esser presente, ed ha ben fatto: una simile vergogna!... E s'è coricato nel letto di Sua Paternità, lo straccione: cose da non credersi... Venne il Priore, e gli ha dato tutte le chiavi, Eccellenza: della chiesa, della sacrestia, dei magazzini, del museo, della biblioteca... E tutto venduto, sulla pubblica piazza: le tavole, le seggiole, i servizi, la lana, il vino, i letti, quasi fossero di nessuno!... E i candelieri del coro, quel ladro, credendoli d'oro, di notte non li portò via?... Lo legarono, gli altri ladri più di lui!... E non c'è più niente!... I soli muri!... Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» La principessa cercava di confortarlo, con belle parole; il principe gli offrì da bere; ma egli rifiutò, riprese a narrare le stesse storie imbrogliandosi più di prima; poi se ne andò alla villa del marchese, da don Blasco, ricominciando: «Ce n'hanno cacciato!... E Vostra Paternità non fa nulla?.. Il Priore suo nipote?... Monsignor Vescovo?... Perché non scrivono a Roma?... Ha da finir così?...» Don Blasco, al quale il giorno prima era arrivata la rendita, tonò: «Come vuoi che finisca?... Quando io gridavo a quei ruffiani: "Badate ai fatti vostri? Non scherzate col fuoco! Ci rimetterete il pane!..." mi davano del pazzo, è vero? E si confortavano con gli aglietti, le bestie, dicendo che il governo non li avrebbe toccati, che avrebbe passato loro una lauta pensione, se mai!... E i tuoi compagni che facevano anch'essi i sanculotti, quel porco di fra' Cola che distribuiva bollettini ai novizi? Quell'altro collotorto di mio nipote che faceva salamelecchi a Bixio e a Garibaldi? Quell'asino con diciotto piedi dell'Abate che si grattava la tigna, e pareva un pulcino nella stoppa?... Adesso che volete? Se siete stati i vostri propri nemici?... Il governo è ladro, e doveva fare il suo mestiere di ladro: che meraviglia? La colpa è di quelle testacce di cavolo che lo aiutarono, che gli proposero: "Venite a rubarmi!..." e gli aprirono anzi le porte!... Non mi dissero, una volta, che volevano godersi un po' di libertà? Se la godano tutta, adesso!... Nessuno gliela contrasta!...» «E ce n'hanno cacciato!... Ce n'hanno cacciato!...»

Quando gli Uzeda tornarono in città, al principio dell'anno nuovo, una lettera del duca a Benedetto annunziò che la Camera sarebbe stata sciolta fra poco. Egli non si dava questa volta neppur la pena di venire, incaricava i suoi amici di lavorare per lui. Gli affari non gli consentivano di lasciar Firenze, e questi affari, in fin dei conti, erano più quelli degli elettori che i suoi propri. I suffragi dovevano quindi andare a lui, come al naturale, al legittimo rappresentante del paese; era assurdo supporre che qualcuno pensasse a contrastarglieli. Quanto a render conto del modo col quale aveva esercitato l'ufficio ed a spiegare le proprie convinzioni politiche ed a studiare i bisogni o ad ascoltare i voti del collegio, uno scambio di lettere con Giulente zio e nipote, con qualcuno dei pezzi grossi, bastò. I soliti malcontenti tornavano a fargli stupide accuse, tentavano un'altra volta di rivangare le vecchie storie; i repubblicani, i sinistri, gli rimproveravano il suo servilismo verso il governo, tentavano contrapporgli qualcuno dei loro; ma incontravano da per tutto forte resistenza, erano costretti a battere in ritirata. Un giornaletto satirico settimanale, il Ficcanaso, faceva ridere la gente, dicendo che l'onorevole d'Oragua aveva fatto alla Camera quanto Carlo in Francia senza neppure aprir bocca; ma il Pensiero italiano, successo all'Italia risorta, dichiarava che il Paese non sapeva che farsi dei chiacchieroni, e preferiva i cittadini intemerati che votavano senza ascoltare altra voce se non quella della propria coscienza. Esso non nominava mai il duca senza chiamarlo l'eminente patriotta, l'insigne patrizio, l'illustre deputato; e all'annunzio dello scioglimento della Camera ne cominciò il panegirico. Fra i tanti meriti del «cospicuo Cittadino» quello d'aver contribuito precipuamente all'istituzione della Banca Meridionale di Credito non era certo il più piccolo; e don Lorenzo Giulente, nel suo gabinetto di direttore, raccomandava alla gente che veniva a prender quattrini l'elezione del duca. «C'è bisogno di rammentarcelo?...» Ma, considerando la velleità d'opposizione, gli amici del deputato volevano ottenere una vittoria strepitosa; infatti gli misero insieme quasi trecento voti. Il duca, riconoscente, fece cadere sul collegio una nuova strabocchevole pioggia di croci di San Maurizio e Lazzaro; Benedetto ne ebbe una tra i primi, e la cosa non gli fece certo dispiacere, quantunque egli si stimasse cavaliere per nascita; ma dal giorno di quell'annunzio sua moglie non gli dette più requie: «Cavaliere!... Senti, cavaliere!... Che fai, cavaliere?... Cavaliere, vogliamo andar fuori?...» gli diceva a quattr'occhi e in presenza d'estranei, a proposito e a sproposito. E se c'erano altre persone, aggiungeva invariabilmente: «Perché adesso, non sapete? mio marito è cavaliere, sissignori: senza cavallo...» La vera, la prima origine della durezza con la quale ella lo trattava da un pezzo era la persuasione finalmente radicatasi nel suo cervello che egli non fosse abbastanza nobile per lei. A poco a poco, giorno per giorno, aveva riconosciuto che i suoi parenti dicevano giusto quando denigravano i Giulente; e, dimenticate le accuse rivolte al principe, aveva fatto la pace, cedendo per la prima, affinché non si dicesse che gli Uzeda sdegnavano di trattarla. E quanto più Benedetto le stava dinanzi sommesso, tanto più ella riconosceva di avergli accordato una grazia speciale, sposandolo. Le opinioni liberali di lui, un tempo ammirate, adesso l'esasperavano come una prova di volgarità. I puri erano tutti borbonici; lo zio duca e qualche altro facevano i liberali perché ci speculavano su. Se il patriottismo avesse fruttato qualche cosa a suo marito, un grande onore o molti quattrini, meno male; ma quei principi da straccione professati senza costrutto dimostravano insieme la bassa origine e la sciocchezza di Benedetto. Adesso, per vantarsi di quel ciondolo, di quel titolo di cavaliere toccato agli ultimi scalzacani, bisognava sapersi discendenti da mastri notari! Benedetto ci rideva un poco, ma a malincuore, e una volta, anzi, da solo a sola, le disse: «Potresti smetterlo, questo scherzo.» «Scherzo? Che scherzo? T'hanno fatto cavaliere, sì o no? È verità o è menzogna?» E per farsi un vanto del suo rigorismo, non contenta d'aver messo in ridicolo quella nomina, andava a dire dinanzi a donna Ferdinanda o a don Blasco: «Del resto, egli non ha bisogno della croce! È già cavaliere di natura...» Ma il più bello era che donna Ferdinanda, adesso, non le dava più retta, anzi parteggiava a viso aperto per Benedetto, il quale la serviva in quella stagione, per via della famosa legge sul corso forzoso. Con gli anni, quanto più il suo peculio era cresciuto, tanto più cupida ella era divenuta: adesso dava i danari al trenta, al quaranta per cento, gridando poi al ladro se qualche povero diavolo ritardava di qualche giorno il pagamento. Ora, della «carta sporca», come chiamava i biglietti di banca, ella non voleva sapere, non riconosceva altra moneta dai colonnati e dai dodici tarì in fuori; se i suoi debitori, alle scadenze, venivano a pagarle gl'interessi in tanti stracci, ella rifiutava di rinnovare il prestito, pretendeva sotto il colpo la restituzione del capitale, si faceva suggerire dal nipote avvocato il modo d'eludere la legge e d'obbligare la gente a pagare in argento sonante... Quanto a don Blasco, anch'egli aveva altre cose pel capo, e i Giulente cominciavano a entrare nelle sue grazie. Tornato dalla villeggiatura, s'era preso in affitto un quartierino verso la Trinità, per esser libero e restar vicino alla Sigaraia, come quand'era a San Nicola; ma gli bisognava frattanto ammobiliar la casetta. E vomitando maledizioni contro i «piemontesi» che lo avevano buttato in mezzo ad una via, con l'elemosina d'una lira e mezza il giorno, chiedeva qualcosa a ciascuno dei parenti: un divano al principe, un paio di poltrone al marchese, un armadio a Benedetto. Comprata un po' di biancheria, la distribuì alle parenti perché gliela facessero cucire; cucita che fu, chiese qualche piccolo ricamo per giunta; e tutti si facevano un dovere di contentarlo, rivaleggiavano anzi nel rendergli quei servizi, se lo ingraziavano, adesso che aveva anch'egli il suo gruzzolo. Quanto avesse non si sapeva con precisione; ma alla scadenza del primo semestre della sua rendita, visto che le cedole eran pagate puntualmente - in carta, è vero, ma la carta correva come moneta - egli disse al marchese di fargli comperare altre diecimila lire di cartelle. E gridando contro il governo ladro teneva sotto il guanciale i suoi titoli. Al principio dell'estate, benché la Camera fosse ancora aperta, arrivò il duca. Ricominciarono le solite dimostrazioni degli amici e degli ammiratori; egli saliva in cattedra con maggior sicumera di prima e commentava l'opera del Parlamento. La soppressione delle società religiose era il gran fatto dei tempi moderni; egli ne enumerava e dimostrava gli immensi vantaggi. Prima d'ogni cosa, i latifondi tolti alla manomorta avrebbero raddoppiato e migliorato i loro prodotti «a vantaggio dell'agricoltura, industria e commercio, sorgente precipua di ricchezza sociale»; in secondo luogo tutti, anche coloro che non avevano capitali, potevano diventar proprietari aggiudicandosi piccoli lotti da riscattare con lo stesso frutto della terra; finalmente il governo, con l'utile della vendita, avrebbe scemato le tasse «a sollievo della finanza pubblica e privata». Era come un'altra «legge agraria»: egli citava i romani, Servio Tullio; e la gente che non capiva batteva egualmente le mani, in attesa della cuccagna. Egli frattanto si preparava a comperar qualche lotto - dicevano anzi che fosse venuto proprio per questo - e consigliava al principe, a Benedetto, al marchese di fare altrettanto. Quando don Blasco ne ebbe sentore, fece cose da pazzo: «I beni della Chiesa, razza di miscredenti e di dannati? Volete dunque tenere il sacco ai ladri, ah? Non avete paura per l'altra vita? Che faccia una cosa simile quel farabutto», ormai non chiamava altrimenti il fratello deputato, «non è meraviglia, dopo che ha votato la ladreria. Nel più c'è il meno, e neppure Domineddio può cavarlo dal fuoco eterno! Ma voialtri! Guai a tutti! Fuoco dall'aria sui vostri capi! Arse l'anime!...» Donna Ferdinanda, da canto suo, era contrarissima, per scrupolo religioso; e minacciava anche lei le pene infernali ai compratori dei beni della Chiesa; la principessa, che stava peggio in salute, appoggiava la zia; e un giorno venne il Priore al palazzo, a posta per distogliere i parenti dall'acquisto col linguaggio della persuasione evangelica. «Non vi lasciate indurre in tentazione. Vi diranno che l'occasione è propizia per fare qualche guadagno materiale; ma la salute dell'anima è il sommo dei beni. Il Signore vi compenserà in altro modo, vi darà da un altro canto quello che ora rinunzierete...» Il principe stava a sentire le due campane senza esprimere la propria opinione; il marchese però giudicava eccessivi gli scrupoli; e Chiara, per seguire il marito, non dava ascolto alle ammonizioni del confessore. Lucrezia, da canto suo, spingeva Benedetto a comprare, ad arricchirsi, poiché adesso lo credeva non solo ignobile, ma anche miserabile; uno che non possedeva neppure uno straccio di feudo, mentre in casa Francalanza ce n'erano sedici!... Frattanto il Parlamento discuteva un'altra legge «a vantaggio dell'incremento pubblico e privato», come spiegava il duca, sebbene non andasse alla capitale: quella, cioè, relativa allo svincolo delle cappellanie e dei benefici laicali; e il principe, zitto zitto, cominciava a tener conferenze col notaro e col procuratore legale, preparava i suoi titoli per ottenere i beni di tutte le fondazioni degli antenati, specialmente della cappellania del Sacro Lume; quando un bel giorno don Blasco, che da un certo tempo non metteva piede al palazzo, vi piovve inaspettato. «Badiamo, ohi! Se si svincola la cappellania, la roba va divisa fra tutti i consanguinei!» «Vostra Eccellenza s'inganna,» rispose il principe. «I beni rientrano nel fedecommesso.» «Che fedecommesso d'Egitto? Dov'è il fedecommesso? Sono quarant'anni che è finito, e i titoli li ho letti anch'io!» «Ma il diritto di patronato è stato in mano mia.» «Patronato? Quasi che si trattasse di un ente autonomo!» Don Blasco parlava adesso come un trattato di giurisprudenza. «È una semplice eredità cum onere missarum: hai da spiegarmi il latino? O torniamo coi cavilli che facesti alla badìa per non pagare il legato?... Alle corte, qui bisogna intendersi: se no comincio con un dichiaratorio, e poi ce la vedremo in tribunale!» Il principe, vistosi scoperto, in un momento che la bile gli tornava a gola, esclamò: «O Vostra Eccellenza non aveva vietato di toccare i beni della Chiesa?» «Evviva la bestia!» proruppe il monaco. «Qui la Chiesa che ha da vedere? Le messe si faranno celebrare come prima, anzi meglio di prima! Tu volevi forse intascare le rendite senz'altro?» Ma non ci fu tempo di approfondire la quistione e di concretar nulla, che una sera d'agosto, mentre al palazzo una folla d'invitati assisteva alla processione del carro di Sant'Agata, arrivò il duca giallo come un morto, annunziando: «Il colera! il colera!... Un'altra volta!...» Quello buono, adesso; la dose giusta finalmente trovata dagli untori; perché, Dio ne scampi, non erano passate ventiquattr'ore che già il morbo si dilatava. E che spavento per le vie di campagna, nuovamente percorse, giorno e notte, da torme di fuggiaschi; e che terrore, infinitamente più contagioso della peste, vinceva i più coraggiosi all'annunzio del rapido progredire del male, e li cacciava su, verso la montagna, nei paesi del Bosco, dove, con la consueta fiducia nell'immunità, l'affitto d'una casupola costava un occhio del capo! Gli Uzeda erano arrivati al Belvedere poche ore dopo la notizia portata dal duca, e questi aveva preso posto nella prima carrozza, tanta tremarella aveva in corpo. La cugina Graziella era ancora una volta coi cugini: la sua presenza adesso diveniva tanto più necessaria quanto che la povera principessa andava peggio, e, o fosse la paura del colera o il disagio della fuga improvvisa, appena arrivata alla villa si mise a letto. Un po' per questo, un po' per la tristezza generale prodotta dal sapere le stragi che faceva in città la pestilenza, non più ricevimenti, non più giuochi, non più veglie. Il giorno passeggiavano nel podere; Consalvo, Benedetto e qualche altro s'arrischiavano per le vie, ma all'ave il principe voleva che tutti fossero in casa e faceva sprangare tutte le porte e tutti i cancelli; don Blasco, alla villa del marchese, si teneva prudentemente nella propria camera, e non andava neppure a litigare con Giacomo, anche per evitare la compagnia di quel «farabutto» del duca. Ma improvvisamente un brutto giorno la costernazione crebbe fuor di misura: la pestilenza era scoppiata al Belvedere; la serva di certa gente venuta tre giorni prima dalla città agonizzava; s'udiva la campanella del Viatico per le vie deserte come quelle d'un paese morto. «Bisogna scappare!... Scappiamo! Subito!... Alla Viagrande, alla Zafferana...» Lucrezia coi Giulente partì subito per Mascalucia. Il duca, più morto che vivo, avrebbe voluto andarsene sul pizzo d'Etna, per mettersi bene al sicuro; ma prevalse pel momento il partito del marchese, che diceva d'andare alla Viagrande, dov'erano quasi sicuri di trovare una casa capace di tutta la parentela. Bisognava però che qualcuno passasse innanzi per cercarla; e il duca s'offerse d'accompagnare il principe, non parendogli vero di battersela immediatamente. Giacomo disse alla moglie: «Vuoi venire anche tu?» La principessa, da alcuni giorni, aveva lo stomaco rovinato, non digeriva più, si trascinava penosamente dal letto alla poltrona; e appunto perciò tutti convennero che bisognava metterla in salvo prima degli altri. Marito e moglie partirono dunque subito con lo zio e Baldassarre; gli altri restarono a preparare i carri della roba, giacché questa volta, non andando in casa propria, bisognava portare letti, biancheria, tutte le cose d'uso giornaliero. Nella notte tornò il maestro di casa per avvertire che l'alloggio era trovato, e il domani all'alba tutti scapparono dal Belvedere dove il colera già divampava. La casa, alla Viagrande, s'era trovata grazie alle relazioni e ai quattrini del principe di Francalanza: nondimeno, era una catapecchia consistente in tre cameracce e due stanzini a pian terreno, povera abitazione d'un bottaio, dove i «Viceré» furono molto contenti di potersi ficcare. Grazie al nome di Uzeda, l'entrata in paese fu loro consentita, quantunque venissero da un luogo infetto; ma, una volta dentro, il principe, il duca, don Blasco cominciarono a gridare che non bisognava lasciar passare nessun altro, se non si voleva la rovina della Viagrande. Infatti l'epidemia decimava non solamente la popolazione rimasta in città, dove si contavano fino a trecento morti il giorno e non c'era più consorzio civile, nessuna autorità, né deputati, né consiglieri, né niente, ma diffondevasi per la prima volta con violenza straordinaria nel Bosco scampato a tutte le altre invasioni coleriche: era al Belvedere, a San Gregorio, a Gravina, alla Punta, guadagnava le case sparse, non risparmiava i casolari perduti in mezzo alle campagne; e non soltanto i poveri diavoli morivano, ma le persone facoltose, i signori che s'avevano ogni sorta di riguardi; talché la gente atterrita fuggiva da un paesuccio all'altro, come poteva, sui carri, a cavallo, a piedi; ma chi portava addosso il germe del male cadeva lungo gli stradali, si torceva nella polvere e moriva come un cane: i cadaveri insepolti, cotti dal torrido sole estivo, esalavano pestiferi miasmi, mettevano il colmo all'orrore; e i fuggiaschi che arrivavano sani e salvi ai luoghi ancora immuni erano accolti a schioppettate dai terrazzani atterriti; o, se riuscivano a trovare un rifugio, comunicavano ai sani la pestilenza. La siccità aggiungevasi a render disperate quelle tristi condizioni; tutte le cisterne erano asciutte, non si poteva far pulizia, c'era appena di che dissetarsi. Il principe, alla Viagrande, pagava una lira ogni brocca d'acqua; e la principessa pareva diventata un pozzo, tanta ne sciupava, tra per lavarsi ogni ora, in quelle stanze dai pavimenti e dai muri unti e dagli usci luridi, la cui sola vista le metteva i brividi, tra per la sete che la divorava. I dolori intestinali non la lasciavano più; a momenti pareva che avesse già i crampi del colera; tanto che il duca, atterrito, pensava di scapparsene più lontano; ma la paura di lui era fuor di luogo: quei dolori, quelle disposizioni al vomito, la principessa li soffriva da più di un anno, non con l'intensità di adesso, è vero, ma con lo stesso carattere. Il principe, assicurando lo zio, gli manifestava altri timori: «Margherita non ha voluto mai chiamare un dottore... ma io ho una gran paura... m'hanno detto che forse ha un cancro allo stomaco...» Ma il duca non gli dava retta; per adesso, aveva da pensare alla propria pelle, perché il colera poteva scoppiare da un momento all'altro alla Viagrande, anzi qualche allarme c'era già stato. «Andiamo via!...» insisteva; «andiamo più lontano, al Milo, a Cassone, sulla montagna...» e quando finalmente il primo caso fu accertato in paese, mentre tutti ripetevano: «Andiamo via... scappiamo più lontano» egli aveva la cacaiola, dalla paura. Questa volta le difficoltà per trovare una casa erano ancora più grandi. Il duca andò a cercarla dalle parti del Milo. Il principe si preparò a partire per Cassone. «Vuoi venire anche tu?» ripeté alla moglie. Ella aveva passato una notte orribile, senza sonno, tormentata dalla nausea e dal vomito; s'era levata a stento, pallida e disfatta così, che Chiara disse: «No, lasciala... verrà quando avrai trovato la casa...» Le stesse cameriere dissero che non era prudente esporla al disagio della ricerca, che meglio le conveniva partire quando si sapeva dove condurla; ma la cugina Graziella fu di contrario parere, udendo che i casi si moltiplicavano rapidamente nel villaggio. «Io direi invece di allontanarla subito... nelle sue condizioni può opporre meno resistenza al contagio... una casa qualunque Giacomo ha pure da trovarla...» Donna Ferdinanda era anche lei di questa opinione; ma Consalvo, stretto alla mamma, le diceva, piano: «No, non andare per ora... è meglio qui... andremo poi tutti...» Ella carezzava il giovanetto con la mano scarna e fredda, e guardava timidamente il marito, aspettando che egli stesso decidesse. «Vuoi o non vuoi venire?» le domandò egli, con voce breve, col tono che prendeva quando le decisioni cominciavano a seccarlo; e la domanda, che aveva il suo senso letterale per tutti, ne acquistava un altro per la principessa che comprendeva le intenzioni e i gesti, che intuiva i sottintesi. «No, t'accompagno...» Sul punto di vederla andar via, il principino insisté: «Mamma, resta... o prendimi con te,» e il giovanetto, ordinariamente allegro e spensierato, dimostrava adesso una specie d'inquietudine quasi paurosa. «Non c'è posto per tutti!» rispose il principe, brusco; e la principessa abbracciò forte il figliuolo dicendogli: «Resta... resta... domani saremo insieme...» Si mise in carrozza accanto a suo marito tenendo un pezzo di canfora alle nari; Baldassarre montò in serpa e la carrozza partì. Fino a sera, non s'ebbe più notizia di loro. A un'ora di notte arrivò un espresso mandato dal duca dal Milo, il quale avvertiva d'aver trovato uno stambugio dove c'era posto appena per lui; li lasciava quindi liberi di raggiungere Giacomo. Alla Viagrande frattanto smaniavano, perché il panico cresceva contagiosamente. Già accusavano Giacomo d'essersi scordato di loro come quell'egoista del duca; già don Blasco parlava di mettersi a cavallo a un asino e di andarsene non importava dove, quando, all'alba del domani, arrivò Baldassarre, pallido, stravolto e tremante. «Eccellenza!... Eccellenza!... La padrona, la signora principessa!... Attaccata di colera!... Spirata in tre ore!...»

7.

Al matrimonio del principe con la cugina Graziella, celebrato tre mesi dopo la cessazione dell'epidemia, solo i parenti e pochissimi intimi furono invitati: il vedovo era ancora in gramaglie e il chiasso d'una festa sarebbe stato inopportuno. Del resto il principe stesso spiegava che quel matrimonio era di semplice convenienza: tanto lui quanto la sposa avevano molti autunni sulle spalle, associavano quindi i loro destini senza nessuna delle fantasticherie giovanili, e solo per fare assegnamento sull'aiuto reciproco che si sarebbero prestato: la cugina aveva bisogno d'un uomo che tutelasse gli interessi di lei, che le ridesse una posizione in società, ed il principe trovava una nuova madre ai propri figliuoli. Quell'unione, prevista da alcuni, fin da quando la cattiva salute della principessa aveva fatto temere per la sua vita, aspettata poi da un giorno all'altro dopo la catastrofe affrettata dal colera, riscoteva perciò l'approvazione quasi universale: il confessore, il Vicario, tutti i preti che bazzicavano per la casa l'avevano giudicata conveniente e provvida. I preparativi della cerimonia nuziale furono molto modesti perché non i soli sposi erano in lutto: non c'era quasi famiglia, dopo quella terribile epidemia, che non piangesse qualche persona cara. Benedetto Giulente aveva perduto in un giorno il padre e la madre, a Mascalucia; la principessa di Roccasciano era rimasta vedova, alla duchessa Radalì era morto uno zio, il cavaliere Giovanni Artuso; ma questa disgrazia non era stata causa di grande dolore, poiché il cavaliere, ricchissimo e senza figli, aveva lasciato in casa Radalì tutta la sua sostanza: l'usufrutto alla duchessa, la proprietà a Giovannino che aveva tenuto a battesimo. Doleva piuttosto alla madre che l'eredità non fosse andata al primogenito, per amor del quale ella aveva sacrificato la propria vita. La soppressione dei conventi aveva già sconvolto tutti i suoi disegni, non potendo Giovannino professarsi più, e tornando al secolo; adesso l'eredità veniva a pareggiare la condizione dei due fratelli, cioè a diminuire quella del primogenito. Ella voleva bene ad entrambi, ma al duca, oltreché bene, portava anche una specie d'istintivo rispetto, come capo della casa, come erede e continuatore del nome e della potestà paterna. Perché la chiusura dei conventi e l'errore dello zio non disturbassero i piani di lei, bisognava che Giovannino non prendesse moglie: ella lavorava a questo scopo, lasciando il giovane libero di sbizzarrirsi a suo modo, secondando tutti i suoi gusti per la caccia, pei cavalli, per tutti i diporti, in modo che il giovane non fosse tentato di mutar vita. Che donna Graziella avrebbe fatto da madre ai figli del principe, era frattanto fuori di dubbio. Baldassarre aveva riferito ai suoi dipendenti, e questi ripetevano dovunque, i particolari delle lettere scambiate tra la sposa e la principessina. La ragazza aveva saputo a Firenze la morte della mamma, e che pianto! che convulsioni! basti dire che la direttrice del collegio s'era messe le mani in capo, non sapendo come fare. Povera signorina, aveva pure ragione! Sola, lontana da casa sua «senza poterla abbracciare un'ultima volta! Mamma mia! Mamma mia!...» Bisognava leggerle, queste lettere; perché alla Santissima Annunziata le signorine ricevevano un'istruzione comi fo e la principessina otteneva sempre i primi premi, tanto era svegliata e studiosa. Ma finalmente, quando la madrina le mandò una ciocca di capelli della buon'anima, e il suo libro di preghiere, e il suo rosario, promettendole che il principe l'avrebbe ripresa più presto in casa e raccomandandole frattanto di non affliggerlo di più, poveretto, con quelle lettere, la padroncina si venne calmando a poco a poco: «Hai ragione, mia buona madrina; dimenticavo il dolore del povero babbo per pensare al mio solo; e ciò non è giusto...» E le lettere scritte al principe direttamente? «Non ti affliggere più, babbo mio; pensa come me che la santa mamma è in Paradiso, e di là ci guarda tutti, e veglia su noi, e vuole che ci consoliamo perché ella è tra i beati e noi tutti, con la grazia del Signore, un giorno la raggiungeremo...» Cosa veramente da strabiliare che una ragazza di quattordici anni scrivesse a questo modo!... E il principe le aveva dato allora la gran notizia: inconsolabile per la perdita di quella santa, egli l'avrebbe pianta fino all'ultimo giorno della propria vita; ma i figliuoli avevano bisogno di qualcuna che tenesse loro luogo di madre, e per quest'unico scopo egli accettava i consigli di tutti i parenti che lo persuadevano a riammogliarsi: sposava quindi la cugina che gli aveva dato tante prove d'affezione nella circostanza della «grande disgrazia», ed era la più adatta, nella sua qualità di parente, a compiere la delicata missione di seconda madre. La cugina, da suo canto, scrisse in coda sotto la dettatura del Padre confessore: «Mia cara figlia, da quel che t'ha detto tuo padre, tu comprendi che da ora innanzi ho più diritto di chiamarti con questo nome che il mio cuore t'ha sempre dato. La mia più grande ambizione è quella di renderti meno sensibile la mancanza della nostra santa, non di fartela dimenticare, che sarà sempre impossibile non solo a te ma a noi tutti. Stringendo ancora più i vincoli che già ci uniscono, io ti sarò sempre a fianco per vegliare su te e tuo fratello, come quella benedetta raccomandò al letto di morte. Sono impaziente di stringerti al mio cuore: se i tuoi studi non ti permetteranno di tornare per ora a casa, verremo noi a trovarti al più presto...» Passarono però molti giorni, senza che a questa lettera venisse risposta. Che cosa succedeva? La posta ne aveva fatta qualcuna delle sue? O la signorina stava poco bene? Oppure accoglieva male l'annunzio del matrimonio?... Baldassarre fece di tutto per dissipare quest'ultimo dubbio. Veramente egli lavorava del suo meglio per nascondere alla gente anche il malumore del principino, ma non ci riusciva, perché Consalvo, fin dal primo annunzio delle nozze, aveva preso posizione contro la futura madrigna e il padre. Naturalmente, aspettando lo sposalizio, la cugina non veniva più al palazzo, adesso che non c'era più nessuna signora che la ricevesse; ma il principe andava da lei e voleva che il figliuolo le facesse visita; tutto fiato perduto: il principino non ci sentiva da quell'orecchio, e quando incontrava la promessa del padre in casa dei parenti, la salutava appena, rispondeva con una freddezza mortificante alle effusioni di lei che gli dava del «figlio mio» a tutto andare, o addirittura la sfuggiva, lasciando intendere l'avversione che quella donna gl'ispirava. Il principe, con grande e comune stupore, pareva che non se ne accorgesse, e quasi avesse mutato carattere, quasi volesse ingraziarsi anche lui il figliuolo, largheggiava a quattrini, gli lasciava fare quel che voleva, gli comperava carrozzini e cavalli inglesi; ma Consalvo era freddo anche col padre, lo evitava, stava settimane intere lontano, in campagna, a caccia, tanto che a poco a poco si vedeva il principe gonfiare, gonfiare. Il maestro di casa, tanto amante della pace, se n'accorava, e lavorava a rabbonire il padroncino. Consalvo lo lasciava dire; a un certo punto gli rispondeva freddo freddo: «Non mi seccare. Bada al tuo servizio. Non mi seccare...» Giovanotti! Giovanotti! Bisogna aver pazienza con essi, lasciarli fare a modo loro, prima che mettano giudizio! Ma la principessina? Era possibile che anche lei si voltasse contro il padre e la madrigna? Una figliuola savia, obbediente, educate alla Santissima Annunziata?... Dopo essersi fatta aspettare più d'una settimana, arrivò finalmente la risposta della signorina. «Caro babbo, cara mamma,» diceva, «non v'ho scritto più presto perché sono stata poco bene; una cosa da nulla, non v'inquietate; ora, grazie a Dio, posso dirvi con quanta gioia ho appreso ciò che fate per noi»: e così via per due pagine piene d'espressioni affettuose, fino alla chiusa che diceva: «Vostra affezionatissima e gratissima figlia, Teresa.» Scrisse anche al fratello, nello stesso senso; ma il principino, rispondendole, neppur nominò la madrigna, neppur fece un'allusione al prossimo matrimonio, come se mai ne avesse udito parlare. Due giorni prima della cerimonia, anzi, andò via con Giovannino Radalì ed altri amici, a caccia, dicendo che sarebbe rimasto fuori ventiquattr'ore; invece il giorno degli sponsali, quando il padre e la matrigna con gl'invitati andarono al Municipio, egli non era ancora arrivato. Non arrivò neppur la sera, quando gli sposi tornarono dalla chiesa: uno scandalo straordinario, la servitù che mormorava, i lavapiatti sulle spine, la sposa che sorrideva per forza, Lucrezia che ripeteva ogni quarto d'ora: «Ma Consalvo? Perché non lo mandate a chiamare?...» nonostante le avessero spiegato parecchie volte che il giovanotto era in campagna, alla Piana. Il principe, un poco pallido, diceva che doveva esser capitata qualche disgrazia alla comitiva; infatti nessuno dei compagni di Consalvo era ancora tornato, e la duchessa Radalì e il duca Michele, suo figlio, mandavano ogni mezz'ora a casa, inquieti per il loro Giovannino. La barca capovolta, al Biviere? La carrozza ribaltata? Un fucile, Dio liberi, scoppiato?... Donna Ferdinanda era invece tranquillissima, sapeva bene che il suo protetto aveva dovuto combinar la cosa per non assistere alla cerimonia nuziale; e in cuor suo lo approvava. Bella sciocchezza, da parte di Giacomo, quella di dar a intendere che si ammogliava per non lasciar senza madre i propri figli! I suoi figli non erano più bambini, da doverli allattare!... E poi, e poi, che grande autorità aveva esercitato su loro la madre! il principe non le aveva mai permesso d'attaccar loro un bottone! Adesso, invece, che si sarebbe visto? La pettegola cugina far da padrona in casa Francalanza! La zitellona diceva queste cose, piano, all'orecchio di Chiara e di Lucrezia, le quali le ripetevano al marchese, a don Blasco; e tutti riconoscevano che Giacomo sposava Graziella unicamente perché, da giovane, s'era messo in capo di sposarla. La madre non aveva voluto, ed egli s'era piegato, allora, alla ferrea volontà di lei; pareva anzi aver dimenticato la propria, trattando la cugina freddamente, quasi non l'avesse pensata mai, badando solo agli affari; ma appena finito di accomodarli, egli s'era messo con l'antica innamorata, e ora, dopo tanti anni, non più giovane, con due figli grandi e grossi sulle spalle, il suo primo pensiero, appena libero, era quello di sposarla, vedova, invecchiata, imbruttita, pur di prendere la rivincita, pur di disfare l'opera della madre. Non l'aveva disfatta in un altro modo, eludendo le volontà che ella aveva manifestate nel testamento, spogliando i legatari e il coerede? E che restava oramai dell'opera della defunta? Raimondo non aveva anch'egli disfatto il matrimonio voluto da lei? Lucrezia che doveva restare in casa non s'era sposata?... «Strambi!... Cocciuti!... Pazzi!...» Così essi scambiavansi le stesse accuse; ma stavolta tutti erano stati d'accordo nel biasimare il principe, nel coalizzarsi contro di lui; ad eccezione del solo Priore. Gli interessi mondani, le lotte della famiglia lo lasciavano adesso molto più indifferente di prima, sul punto com'era di partire per Roma. Dopo la soppressione dei conventi tutti avevano riconosciuto, alla Curia, che il dotto e santo Cassinese doveva andare avanti in altro modo. Gli era stato offerto un vescovato, a sua scelta; ma egli, che mirava più alto, aveva chiesto di andare a Propaganda. E giusto in quei giorni, con la nomina di Vescovo in partibus, era stato chiamato alla grande Congregazione. Che gl'importava del matrimonio del fratello, del testamento della madre e di tutte le trame meschine che ordivano i suoi? A Roma egli era preceduto da una fama così chiara, da raccomandazioni tanto efficaci, che in poco tempo era sicuro di raggiungere, con la propria accortezza, i più alti gradi della gerarchia... Come a lui, lo scioglimento delle corporazioni religiose aveva dato a don Blasco altri desideri, altre ambizioni. Convertiti in bella rendita sul Gran Libro i quattrini portati via dal convento, il monaco aveva finalmente visto avverarsi il sogno della sua giovinezza: aver del suo, essere capitalista. Allora aveva quasi dimenticato l'odio contro il rivale nipote, non s'era più curato né di lui né degli altri. Ma l'appetito vien mangiando, dice il proverbio, e don Blasco non si contentava di quelle poche migliaia d'onze, voleva arricchire per davvero, studiava il modo di batter moneta. Pertanto voleva assaggiare i beni delle Cappellanie e dei Benefizi; e vedendo che Giacomo gli dava erba trastulla e nonostante le promesse iniziava la causa per conto proprio, era stato l'anima della lega ordita contro di lui, mettendo in opera il sistema da lui adoperato contro i fratelli. Chi la fa l'aspetta, dice un altro proverbio, e il principe, che s'era fatto pagare da Raimondo e da Lucrezia per dar loro il suo appoggio, aveva dovuto chiuder la bocca allo zio perché questi, che non aveva mai avuto peli sulla lingua, s'era messo a cantare che la faccenda della morte della principessa non era tanto liscia, e che aver costretto la «povera Margherita» a scappare a Cassone mentre stava così male ed aveva anzi i primi sintomi del colera era stato un voler sbarazzarsi di lei, dopo averle dettato un testamento nel quale s'era fatto lasciare ogni cosa, e niente ai figli; e che la freddezza di Consalvo non era poi senza ragioni, e che... e che... Allora il principe aveva riconosciuto i diritti della parentela alla spartizione dei beni, e tutti s'erano placati. Placati in apparenza, perché i rancori ribollivano sordamente. Giacomo non se la poteva prendere col monaco, per non disgustarselo, adesso che aveva quattrini, né, per la stessa ragione, con la zia Ferdinanda; tanto meno col duca alla cui autorità di deputato ricorreva per essere assistito contro il fisco rapace. Ma sfogava contro tutti gli altri, incagnato, una furia. L'agente delle tasse, specialmente, un certo Stravuso, era il suo incubo: oltre che di ingordo, costui aveva la fama di terribile iettatore, e il principe, pigliandosela con lui, non lo poteva neppur nominare dalla paura; non lo chiamava altrimenti che «Salut'a noi!» tenendo nel pugno un amuleto, un ignobile pezzo di ferro a foggia di mano che fa il segno delle corna. «Che io parli con Salut'a noi?...» diceva allo zio, quella sera degli sponsali. «Fossi pazzo!... Fatelo andar via! Fatelo traslocare, cotesto ladro imboscato per spogliar la gente!... Non gli basta farmi pagare il venti per cento sugli svincoli, la doppia tassa di successione fra estranei! Ma se fossimo estranei non erediteremmo! I beni vengono a noi appunto perché i fondatori furono nostri antenati!» Il duca, che portava al cielo le nuove leggi, gli consigliava di non lagnarsi: anche dedotto il venti per cento, il resto era tanto di guadagnato. L'importante in tutto questo, per il legislatore, era che tante proprietà e tante rendite fossero sottratte ai monaci e destinate ad impinguare la fortuna dei privati cittadini, quindi ad aumentare la pubblica prosperità. Perciò, aspettando di prender la sua parte nella divisione dei beni svincolati, egli era rimasto aggiudicatario del Carrubo e di Fontana Rossa, due feudi della badìa di San Giuliano, dei quali a giorni sarebbe entrato in possesso, e incitava il nipote a fare altrettanto, a scegliere qualche bel tenimento di terre da pagare a tanto l'anno con gli stessi frutti e da migliorare in modo da moltiplicarne il valore; ma il principe: «Eccellenza, non posso. Il confessore non vuole. Me l'ha messo a scrupolo di coscienza; e giusto in questa circostanza solenne del mio matrimonio intendo rispettarlo. Ciò non vuol dire che Vostra Eccellenza abbia fatto male; ma i nostri casi sono diversi...» Il duca lo guardò un poco nel bianco degli occhi, come per sincerarsi se diceva sul serio o se scherzava; poi uscì nella stessa obiezione che il principe aveva rivolta a don Blasco: «O allora perché rivendichi i beni delle Cappellanie? Non sono della Chiesa anche quelli?» «Eccellenza no,» rispose il principe. «La Chiesa ne era semplice amministratrice, secondo l'intenzione dei fondatori. Le sole rendite debbono essere convertite a scopi sacri, e di ciò siamo responsabili tutti...» Mentre essi tenevano questi discorsi, l'assenza del principino continuava a far ciarlare gli altri parenti, di nascosto alla nuova principessa, la quale si mostrava sovrappensieri, temendo, come il marito, non fosse capitato un accidente al giovanotto, e parlava di spedir messi alla Piana per appurare che cos'era successo. Nonostante l'inquietudine, ella badava al servizio, dava ordini sottovoce a Baldassarre, insisteva perché gl'invitati riprendessero dolci e gelati, esercitando così per la prima volta l'ufficio di padrona di casa. Don Blasco non si facea pregar molto: adesso che a San Nicola c'era tanto di catenaccio, egli poteva far tardi quanto gli piaceva; e mentre masticava a due palmenti, utilizzava il suo tempo chiedendo informazioni alla gente sulle firme solvibili, giacché anch'egli s'era messo a dar quattrini in piazza. Di tanto in tanto s'avvicinava anche al crocchio d'uomini in mezzo al quale il duca, finito di discorrere col nipote, parlava delle pubbliche faccende. La quistione che impensieriva pel momento il deputato era quella del Municipio. Le cose vi andavano male, gli amici del grand'uomo lo pregavano con insistenza di prenderne le redini, di dare questa nuova prova di affetto al paese; ma egli dichiarava che non la volontà ma la forza gli faceva difetto. Era già deputato, consigliere comunale e provinciale, membro della Camera di commercio, del Comizio agrario, presidente del consiglio d'amministrazione della Banca di Credito, consigliere di sconto alla Banca Nazionale e al Banco di Sicilia e, come se non fosse abbastanza, lo mettevano in tutte le giunte di vigilanza, in tutte le commissioni di inchiesta. Ad ogni nuova nomina, egli protestava che era troppo, che non aveva tempo di grattarsi il capo, che bisognava dar luogo ad altri, ma dopo una lunga e cortese discussione doveva finalmente arrendersi alle insistenze degli amici. Gli avversari, i repubblicani, i malcontenti gridavano contro questo accentramento di tanti uffici in una stessa persona; e giusto il duca s'era fatto forte di tale ragione per rifiutare la sindacatura. Benedetto, dopo il gran dolore delle disgrazie sofferte, ricominciava allora ad occuparsi degli affari pubblici, e insisteva presso lo zio, gli ripeteva l'invito a nome del Consiglio comunale, adducendo la mancanza di persone capaci. «Non mi darai a intendere,» rispose il deputato, «che io solo possa fare il sindaco! Perché non lo fai tu?» «Perché io non ho i titoli di Vostra Eccellenza!» «Dimmi che accetti, e fra quindici giorni avrai la nomina.» Benedetto continuava a schermirsi, sorridendo, fingendo di non credere alla serietà dell'offerta; in cuor suo, egli non desiderava di meglio; ma una grande difficoltà lo arrestava: l'opposizione di sua moglie. Costei dimostravasi sempre più irascibile quando udiva parlare di cariche pubbliche, di uffici elettivi, di politica liberale; minacciava di far mandare ruzzoloni giù per le scale le persone che venivano a cercar di lui nella sua qualità di consigliere comunale o di presidente del Circolo Nazionale; di lacerare, prima che egli le leggesse, le carte indirizzate a suo marito. Se gli moveva tanta guerra per così poco, che avrebbe fatto sapendolo sindaco? E Benedetto, soggiogato dal timore, si schermiva contro le rinnovate offerte dello zio, il quale, come argomento irresistibile, riserbato per il colpo di grazia, gli diceva: «Il giorno che io mi ritirerò, troverai preparato il terreno...» Mentre il deputato insisteva, e Lucrezia sparlava di suo marito con Chiara, e donna Ferdinanda sparlava del principe col marchese, e i lavapiatti facevano la corte alla nuova principessa, e don Blasco ciaramellava da un gruppo all'altro, s'udì il fracasso d'una carrozza che arrivava di carriera e tutti esclamarono: «Consalvo!... Il principino!...» Baldassarre erasi precipitato ad incontrarlo. Il giovanotto aveva l'abito in assetto e gli stivaloni puliti come sul punto di andar fuori; ma al maestro di casa che gli domandava ansiosamente che cosa fosse successo: «Sono vivo per miracolo,» rispose. Entrato nel salone, mentre tutti gli si affollavano intorno, cominciò a narrare la storia d'un accidente complicatissimo, il suo smarrimento nel Biviere, la fame sofferta per dodici ore, il naufragio della barca che lo portava. «Gesù!... Gesù!... Santo Dio d'amore!...» esclamavano tutt'intorno; la principessa, specialmente, ripeteva ogni momento: «Ah, questa caccia!... Figlio mio!... Che paura!...», lo stesso principe mostrava di credere quella storia, e tutti, per prudenza, fingevano di rallegrarsi dello scampato pericolo; solo donna Ferdinanda increspava le labbra sottili ad un ironico sorriso, sapendo bene che il suo protetto non aveva corso pericolo di sorta... Benedetto, frattanto, riferiva sottovoce alla moglie l'offerta della sindacatura fattagli dallo zio e il proprio rifiuto. Lucrezia si voltò a guardarlo in faccia e gli disse sul muso: «Sempre bestia sarai?»

Le era parso che quel titolo di sindaco avrebbe nobilitato in qualche modo il marito, conferendogli l'autorità, il lustro, l'importanza che non aveva; invece, dopo che il duca ottenne per Giulente la nomina, s'accorse che gli restava più Giulente di prima, una specie d'impiegato, un miserabile passacarte, un servitore del pubblico. E quando le diedero della sindachessa, arrossì come un papavero, quasi l'insultassero, quasi le intonazioni più complimentose fossero studiate e nascondessero un ironico dileggio. Ella non diede più quartiere a Benedetto; dopo averlo spinto ad accettar l'ufficio, gliene rinfacciò l'inutilità, le noie, i pericoli; se per la moltitudine degli affari egli tornava a casa più tardi del consueto, stanco, affamato, l'accoglieva con tanto di muso, gli faceva trovare la tavola mezza sparecchiata e il desinare freddo; se veniva gente a chieder del sindaco, ella gridava alla cameriera: «Non c'è! Non c'è nessuno! Mandate via cotesti seccatori!...» in modo che i seccatori udissero e che passasse loro la voglia di mai più tornarci; se Giulente, ciò nonostante, riceveva quella gente, per prudenza, per necessità, ella si metteva lo scialle in testa e se ne andava dalle parenti, o dalle amiche, e cominciava a sfogarsi: «Non ci posso più reggere! Mi par d'impazzire! Che vita d'inferno! Se avessi saputo!...» Secondo che le dimostravano il suo torto e l'affezione e il rispetto di cui Benedetto la circondava, la sua avversione cresceva: ella immaginavasi d'esser maltrattata, attribuiva al marito ogni specie di torti. Poiché i Giulente non avevano avuto concessione di feudi, lo giudicava miserabile; ma, non potendo ragionevolmente dare a intender questo, l'accusava d'avarizia. Egli la lasciava libera di spendere ciò che voleva ma, fittosi in capo che fosse avaro, la fissazione prendeva nel cervello di lei più consistenza di un fatto; e con l'aria d'una vittima rassegnata al suo destino, quasi piangendo, rifiutava di comperar nulla per sé, rinunziava agli abiti, ai cappelli, ai gioielli, andava attorno come una cameriera. Suo marito non riusciva a strapparle la spiegazione di quella sciatteria; ma al palazzo ella si nettava la bocca contro di lui, e se il principe o donna Ferdinanda le rammentavano che smania aveva avuto di sposarlo, se la prendeva con loro: «Perché non mi apriste gli occhi? Che ne sapevo! Toccava a voialtri avvertirmi!» «Oh! Oh! Hai dunque dimenticato tutto quello che facesti?» «Che ne sapevo! Colpa vostra che non v'ostinaste a impedirmi di commettere una pazzia!» E questa nuova idea le s'inchiodava talmente in testa, che sfogandosi coi primi venuti, lagnandosi della propria infelicità con gente a cui aveva parlato appena una volta, ella l'adduceva a propria discolpa: «La mia famiglia m'ha fatto un tradimento. Questo marito non faceva per me: me l'hanno dato per forza... sono stata sacrificata!...» Poi denigrava in altro modo Giulente, metteva in ridicolo il suo patriottismo, lo attribuiva all'ambizione o lo negava del tutto. «Cotesto sciocco ha fatto il liberale per essere qualche cosa. Ma non è divenuto niente, ed ha fatto meno che niente. Il ferito del Volturno? Guardategli la coscia: l'ha più sana delle mie!» Diceva spesso cose più enormi, senza pudore, un poco perché non ne comprendeva la sconvenienza, un poco perché credeva le fosse lecito tutto. Non si levava mai prima di mezzogiorno, e per due buone ore restava discinta, con una gonna sulla camicia, il collo e le braccia nudi, i piedi nudi, nelle pantofole; si mostrava così al cameriere ed al cuoco, era capace di ricevere anche qualche visita; e se Benedetto, presente, esclamava, giungendo le mani: «Ma Lucrezia? Per carità!...» ella lo guardava stupita, spalancando tanto d'occhi: «Che c'è? Sono visite di confidenza! Ho da mettermi gli abiti da ballo? Quelli che m'hai fatto venire da Parigi?...» E se egli le diceva di ordinarli pure, di spendere tutto quel che voleva, ella si stringeva nelle spalle: «Io? A che pro? Per qual Santo? Non vado più da nessuna parte, non conosco più nessuno della mia società! Risparmia, risparmia i tuoi quattrini!...» Messo con le spalle al muro, egli perdeva talvolta la pazienza; allora ella minacciava d'andarsene via. «Ah, la prendi su questo tono? Bada che ti pianto!... Non mi far saltare il ticchio d'andar via, perché altrimenti non mi tratterrai neppur con gli argani!... Sai come siamo noi Uzeda, quando ci mettiamo una cosa in testa! Raimondo ha posto il mondo sottosopra per piantar sua moglie e prenderne un'altra! Giacomo aveva giurato di sposar Graziella, ed ha fatto morire quella disgraziata prima del tempo...» «Taci!... Che dici!...» Egli sopportava pertanto le stramberie, i capricci, le contraddizioni, i rimproveri, le ironie di lei. Ma la sorda guerra della moglie non gli noceva meno della protezione dello zio duca. Questi, che oramai non andava più alla capitale, consacrava tutto il suo tempo ai propri affari, badava alle cose di campagna, migliorava le proprietà comprate dalla manomorta, speculava sugli appalti, si giovava del suo credito presso le amministrazioni pubbliche per rifarsi di quel che gli costava la rivoluzione. E con l'aria di consigliare Giulente, lo persuadeva a fare ciò che voleva. Ufficialmente, il sindaco era suo nipote; in fatto, era egli stesso. Non si rimuoveva una seggiola, al Municipio, senza la sua approvazione; ma specialmente nella nomina degli impiegati, nella concessione di lavori pubblici, nella distribuzione di incarichi gratuiti ma indirettamente o moralmente profittevoli, egli faceva prevalere la propria volontà, proteggeva i suoi fedeli, fossero anche inetti, metteva avanti la gente da cui poteva sperare qualcosa in cambio, non dava quartiere a quelli del partito avverso, qualunque titolo possedessero, da qualunque parte glieli raccomandassero. Aveva l'abilità di fingersi assolutamente disinteressato, di spingere il nipote a fare ciò che egli stesso voleva come se invece non gl'importasse nulla di nulla, e il Municipio diventava così, a costo di patenti ingiustizie, di manifeste violazioni della legge, un'agenzia elettorale, una fabbrica di clienti. Per rispetto e per soggezione, soprattutto per la speranza di raccogliere l'eredità politica dello zio, Benedetto non osava contrariarlo; se, per qualche fatto più grave degli altri, egli esitava un momento, il duca vinceva quegli scrupoli, o adducendogli le necessità della lotta politica, o impegnandosi a riparare più tardi, o facendogli semplicemente comprendere che, in fin dei conti, a quel posto l'aveva messo lui, perciò conveniva che facesse ciò che a lui piaceva. Per compenso, gli garantiva l'appoggio del governo e della prefettura, lo sosteneva in consiglio, tesseva i suoi elogi perfino in famiglia, tenendo fronte a Lucrezia, che lo vilipendeva dinanzi a tutti. Costei, per far la corte allo zio, rispondeva che un po' di bene suo marito lo faceva solo quando seguiva i consigli di lui; viceversa, da sola a solo con Benedetto, gli rinfacciava la cieca obbedienza prestata al duca. «Bestia! Sciocco! Stupido! Non capisci che ti spreme come un limone? Che vuol prendere la castagna dal fuoco senza scottarsi?... Almeno, sapessi farti dare la tua parte!» E gli consigliava di mettersi nei loschi affari del deputato, di vendere la propria autorità, di farsi pagare gli atti che era in dovere di compiere; e ciò senza scrupoli, come una cosa naturalissima, come avevano fatto i Viceré al tempo della loro potenza. Così, un po' per la moglie, un po' per lo zio, Giulente commetteva ingiustizie d'ogni sorta rifiutandone il prezzo, metteva a rischio la sua bella riputazione di liberale disinteressato, di «ferito del Volturno». Ma l'ambizione lo accecava, egli voleva rappresentare una parte in politica, e il Parlamento era la mèta per la quale sopportava il Municipio. Poiché presto o tardi il duca si sarebbe ritirato, egli voleva sostituirlo; tutta la parentela uccellava i quattrini messi assieme dal deputato, egli aspirava all'eredità politica; il seggio alla Camera sarebbe stato la conferma, il riconoscimento del suo patriottismo, della sua capacità. Pertanto, il disprezzo di sua moglie cresceva: ella non capiva che si potesse esercitare un ufficio pubblico pel piacere di esercitarlo, senza specularci sopra, perdendoci il tempo, trascurando per esso ogni altra occupazione, non badando agli affari propri, non andando mai in campagna, lasciando fare ai castaldi e agli affittaiuoli. Quasi che potesse permettersi questo lusso! Quasi fosse il principino di Mirabella!... Consalvo, sì, poteva fare e faceva quel che gli piaceva. Non solo egli non badava agli affari di casa - ché suo padre ci pensava per lui - ma non stava in casa se non per dormire - quando ci dormiva. Lasciata la camera che aveva occupata al ritorno dal convento, s'era accomodato un quartierino al primo piano, dalla parte del secondo cortile, sfondando muri, murando finestre, aprendo una nuova scala, disordinando ancora un altro poco la pianta del palazzo. Il principe l'aveva lasciato fare. Non contento di starsene così interamente segregato dal resto della famiglia, con persone di servizio esclusivamente addette alla sua persona, adesso desinava solo, dichiarando che le ore di suo padre non gli convenivano. E il principe si piegava anche a questo, con grande stupore di quanti conoscevano la sua prepotenza, il suo bisogno d'assoluto comando. Il giovanotto faceva la bella vita: cavalli, carrozze, caccia, scherma, giuoco ed il resto. Finito, dopo l'incendio del Sessantadue, il Casino dei Nobili, egli aveva fondato, insieme con qualche dozzina di compagni, un club che era la risurrezione più elegante e più ricca dell'antica istituzione: quantunque solo i nobili autentici vi fossero ammessi, Consalvo vi aveva ficcato due o tre giovanotti che non appartenevano alla casta, ma gli facevano da mezzani. Accordava la sua protezione e la sua amicizia solo a quelli che lo servivano, che lo ammiravano, che gli facevano la corte. Come al Noviziato, anche adesso derideva i meno nobili e meno ricchi di lui: un motivo di cruccio contro suo padre era appunto l'avarizia di costui che si lasciava prender la mano dai nuovi arricchiti. Il lusso esteriore degli Uzeda, che prima del Sessanta pareva straordinario, adesso cominciava ad esser agguagliato se non superato dalla gente rifatta, e mentre al palazzo i mobili di cinquant'anni addietro cadevano a pezzi e le livree del secolo passato servivano al pasto delle tignole, c'era gente che spendeva un occhio del capo a metter su case ed equipaggi col gusto moderno. Ma agli occhi del principe la vecchiaia dei mobili e delle livree era come un altro titolo di nobiltà; e se tutti tenevano adesso il guardaportone, mentre vent'anni addietro c'era in città solo quello di casa Uzeda, chi aveva nel vestibolo la rastrelliera?... Del resto, Consalvo lavorava per conto suo a distruggere gli effetti della spilorceria paterna. Quando, dall'alto di un break o d'uno stage, attillato negli abiti venuti apposta da Firenze, guidava come il più esperto cocchiere un tiro a quattro, fermandosi per far salire gli amici che incontrava lungo la via, avanzando poi tutti gli altri equipaggi, frustando come i suoi antenati i cocchieri che osavano contrastargli il passo, la gente si fermava ad ammirare, a ripetere il suo nome e il suo titolo con un senso d'alterezza, quasi un poco del suo lustro si riversasse su chi poteva salutarlo, su chi lo conosceva almeno di nome, sulla stessa città che gli aveva dato i natali. Se egli comperava o vendeva una pariglia di cavalli, se mandava via o riprendeva un servitore, se vinceva o se perdeva al giuoco, le notizie di questi avvenimenti facevano le spese delle conversazioni; la sua antipatia per la madrigna gli era ascritta generalmente a lode, spiegata com'era col rispetto da lui portato alla memoria della madre; tutti avevano interesse e premure di dargli moglie, e di tanto in tanto la voce d'un possibile matrimonio circolava per ogni dove, finché, ripetuta dinanzi a lui, lo faceva scoppiare in una risata. Per ora egli voleva divertirsi; ci sarebbe poi stato tempo ad incatenarsi. E le sue visite assidue a questa od a quella signora, i vistosi regali che faceva alle cantanti ed alle attrici spiegavano la sua risposta: tornavano per Pasqualino Riso i bei tempi del contino Raimondo: il padroncino gli faceva guadagnare il pane. Le sue gesta avevano anche un altro campo, meno elegante, ma altrettanto famoso. Insieme con gli amici più scapestrati, aveva combinato una compagnia che era, la notte, il terrore di mezza città. Armati di stocchi, di rivoltelle o anche di semplici coltelli, portavano a spasso le ciarpe d'infima classe, cantando a squarciagola, spegnendo i fanali del gas, attaccando briga coi passanti, facendo aprire per forza, a furia di schiamazzi e di sassate ai vetri, le taverne e le case pubbliche, giocando al tocco o a briscola coi bertoni, ordinando cene che finivano con la rottura di tutte le stoviglie: i padroni li lasciavano sbizzarrire perché, se facevano danni, sapevano anche risarcirli. Certe volte, però, per capriccio, pel gusto di commettere un sopruso, per esercitare l'ereditaria prepotenza dei Viceré, il principino non voleva pagare lo scotto, o lo pagava a legnate; e, mentre profondeva i quattrini con le donne, era capace di portar via a certe povere diavole, per spasso, i pochi soldi che avevano in tasca - salvo a compensarle un'altra volta - lasciandole intanto piangenti o vomitanti un sacco di sozzure che lo facevano ridere a crepapelle. Spesso scendeva con la sua comarca al porto, andava a far baccano nelle taverne dove i marinai inglesi s'ubriacavano come bruti: egli saliva sopra una tavola, prendeva la parola senza soggezione, predicava la Regola di San Benedetto, ripeteva le sentenze politiche dello zio duca e di Giulente; senza sapere una parola d'inglese teneva lunghi discorsi, serio serio, ai marinai foggiando per proprio uso e consumo una lingua che nessuno intendeva; la cosa spesso finiva con una partita di box e relative ammaccature di costole e rotture di stoviglie... Se lo avesse visto fra' Carmelo! il fratello appariva di tanto in tanto al palazzo, sempre più magro e stralunato, per ricantare il consueto: «Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» Non gli strappavano di bocca nient'altro. Quando nelle sue escursioni notturne Consalvo andava dalle parti di San Nicola, lo incontrava immancabilmente, errante per le vie del quartiere come un'anima in pena o fermo a considerare la massa scura del convento; il principino, alterando la voce, gli dava la baia, lo chiamava: «Padre Priore!... Padre Abate!... Dove sono i porci di Cristo?...» tra le risa della comitiva. Egli ne era l'anima, il capo riconosciuto e obbedito. Giovanni Radalì veniva spesso con lui; ma quantunque ora fosse libero, ricco e barone, non aveva l'umore costante: talvolta faceva pazzie straordinarie, talaltra frenava i compagni; più spesso, prendendo parte ai bagordi, aveva la ciera funebre, un riso falso. Di tanto in tanto scompariva, se ne andava ad Augusta, nelle terre lasciategli dallo zio, donde nessuno riusciva a scovarlo, se egli stesso, mutata fantasia, non si decideva a tornare. Allora Consalvo lo trascinava ai bagordi. Una notte, per quistione di donne, la banda venne alle mani con una comitiva di popolani, di barbieri, di sensali; piovvero le legnate, luccicarono i coltelli, ma per buona sorte, sopravvenute le guardie, tutti scomparvero. I bastonati, i mariti canzonati, le vittime della loro prepotenza non osavano ricorrere: se qualcuno minacciava di querelarsi, la gente lo dissuadeva, considerando chi erano quei signori: il barone Radalì, il principino di Mirabella, il marchesino Cugnò! E la polizia, se ricorrevano ad essa, faceva accomodar la cosa: qualche biglietto di banca, e tutti lesti. Ma il prestigio di quei nomi era tale che pochi osavano lagnarsi; la più parte si stimavano onorati di competere con quei signori, li ammiravano, parlavano di loro col massimo rispetto. In carnevale, la mascherata favorita dei monelli, dei facchini, era quella del barone: sui calzoni a sbrendoli e sulle camicie rattoppate, un vecchio abito a coda di rondine, un enorme colletto di carta, una tuba di cartone alta quanto una canna di camino: andavano così a crocchi chiamandosi scambievolmente, ad alta voce, fra le risa dei passanti, col nome dei baroni per davvero: «Addio, Francalanza!... Radalì, come stai?... Andiamo al teatro, marchese!...» Senza quei nobili l'operaio come avrebbe fatto? il loro lusso, i loro piaceri, le loro stesse pazzie erano altrettante occasioni perché la gente minuta lavorasse e buscasse qualcosa! E il principino spendeva e spandeva, regalmente, come se avesse le mani bucate. Suo padre gli pagava i cavalli e le carrozze, i fucili e i cani, e pei minuti piaceri gli passava cento lire il mese; ma Consalvo, alle volte, perdeva in una notte la pensione dell'anno intero; e il domani ricorreva a tutti gli usurai della città, i quali, contro la firma d'una cambialina, gli davano quel che voleva. Quanto ai parenti, essi o lo incoraggiavano a scialare, o non si occupavano di lui, o erano disarmati dalla sua politica, giacché egli sapeva prenderli pel loro verso, secondando le fisime di ciascuno. Solo Benedetto comprendeva che quella vita doveva costargli molto e sospettava qualcosa dei debiti; ma il giovanotto lo tirava dalla sua, sollecitandolo nella sua vanità di patriotta, di ferito del Volturno, di futuro deputato; e del resto se Benedetto manifestava le proprie paure alla moglie perché questa mettesse sull'avviso il principe: «Di che ti mescoli?» saltava su Lucrezia. «Lascialo fare! Credi che mio nipote sia un pezzente, da non potersi permettere questo lusso? Può pagarli i suoi debiti, se mai!» Donna Ferdinanda da canto suo andava in estasi per la riuscita del suo protetto e, dalla soddisfazione, gli regalava di tanto in tanto qualche biglietto da cinque lire che il giovanotto, dopo essersi profuso in ringraziamenti, lasciava come mancia al cameriere del Caffè di Sicilia. Il duca, ingolfato negli affari, aveva qualche sentore dei pasticci del pronipote, ma bastava a costui dargli del salvatore del paese, del grande statista o profetargli un posto al Ministero, perché il deputato si chetasse. Più tardi, per ingraziarsi meglio donna Ferdinanda, Consalvo le dava ragione se l'udiva gridare contro il fedifrago; e in questo era sincero, perché, senza mescolarsi nella politica, egli parteggiava pel governo assoluto, protettore dei signori, sciabolatore della canaglia. Questi sentimenti però non gl'impedivano di prender con le buone lo zio Giulente, al quale non dava tuttavia dell'Eccellenza, ma del semplice voi; e più tardi conveniva con la zia Lucrezia se costei lagnavasi di quella bestia del marito. Così, nonostante la freddezza col padre, seguiva l'esempio di lui, pigliando ciascuno pel suo verso, secondando le fissazioni di tutti gli Uzeda. La zia Chiara già parlava d'adottare il bastardo della cameriera: egli approvava questa risoluzione. Lo zio Ferdinando, credutosi affetto da tutte le malattie quando vendeva salute, adesso che deperiva visibilmente credeva invece d'esser sanissimo e non poteva soffrire che la gente gli consigliasse di chiamare un dottore: Consalvo si rallegrava con lui per l'ottima ciera... Quanto a don Blasco, da un pezzo non si faceva più vedere al palazzo. Dacché stava per casa sua, amministrando i propri capitali, la sua smania di criticar tutto e tutti in famiglia era finita: quando capitava tra i parenti, discorreva un poco del più e del meno e andava via presto. Per non star solo, in casa, s'era messo dentro la Sigaraia, suo marito e le sue figlie; talché ora, servito di tutto punto, non aveva più bisogno di nulla. E, da un certo tempo, era diventato addirittura irreperibile. «Che cosa fa lo zio?... Che cosa fa don Blasco?...» ma nessuno ne sapeva niente. Il principe, il marchese, Lucrezia, un po' anche Benedetto, cercavano d'ingraziarselo, per via dei quattrini che doveva aver da parte; ma egli li sfuggiva tutti, e se li udiva alludere, sorridendo, alla sua ricchezza, ripigliava a vociare come un tempo: «Che ricchezze e povertà?... Che...» e giù male parole di nuovo conio. Un bel giorno però Benedetto, leggendo sul foglio d'annunzi della prefettura l'elenco degli ultimi aggiudicatari dei beni ecclesiastici, trovò il nome di Matteo Garino. «Non si chiama così il marito della Sigaraia?» domandò alla moglie. «Credo... Perché?» «Ha comprato il Cavaliere, una delle migliori terre dei Benedettini.» Senza esitare un istante, Lucrezia esclamò: «Garino? Questo è lo zio don Blasco che l'ha comprato!...» Infatti di lì a poco la verità si seppe; Garino era il prestanome di don Blasco; questi aveva messo fuori i quattrini ed era già entrato in possesso del latifondo... Un monaco, un monaco benedettino, uno che aveva fatto voto di povertà, comprare una terra del suo stesso convento, calpestare in tal modo la legge divina?... Lo scandalo fu straordinario: donna Ferdinanda disse vituperi del fratello; il duca sorrise scetticamente, rammentando le furibonde minacce di dannazione eterna eruttate dal Cassinese; lo stesso principe, quantunque non volesse inimicarsi uno zio che comprava di tali poderi, scrollava il capo; e tutti i cattolici zelanti, i partigiani della Curia, i monaci a spasso, i borbonici un tempo amicissimi di don Blasco gli si misero contro; ma a chi gli riferiva le voci malevole egli gridava: «Sissignore, il Cavaliere è stato comprato per mio conto: e poi? Chi ci trova da ridire? Mia sorella che ha fatto l'usuraia per cinquant'anni? Mio nipote che ha rubato tutti i suoi? Sono questi gli scrupolosi e i timorati?... Io non ho scrupoli di sorta! Se non avessi comprato io il Cavaliere, l'avrebbe preso un altro: al convento non restava di sicuro, per la buona ragione che il convento non c'è più!... Anzi, in mano mia, è come se fosse di San Nicola; a segno che ho fatto restaurare la cappella, e vi dico la messa tutti i giorni, quando salgo lassù: che se andava ad altri, a quest'ora l'avrebbero ridotta a uso di porcile!...» La messa, veramente, egli la diceva di tanto in tanto, perché aveva molto da fare: dissodava la chiusa, strappava vecchie piante, scavava un pozzo, ingrandiva la fattoria trasformandola in casina di villeggiatura, spostava il muro di cinta arrotondando a modo suo i confini; doveva quindi stare con tanto d'occhi aperti sugli zappatori e sui muratori perché non lo rubassero. In campagna, per esser pronto ad esporsi all'acqua ed al vento, indossava una giacca corta da cacciatore e portava gli stivaloni fino a mezza gamba; tornato in città, smise la tonaca e lo scapolare, ma si compose un abito nero, da ministro protestante, col panciotto abbottonato fino in cima e il colletto clericale. Pertanto disapprovava quei due o tre antichi suoi compagni che s'erano spogliati del tutto, dandosi senza riguardo alla vita del secolo, come il sanculotto Padre Rocca; o quelli che, senza smetter l'abito, davano da ciarlare alla gente con la loro condotta, come Padre Agatino Renda che stava tutto il giorno in casa della vedova Roccasciano, giocando mattina e sera. Padre Gerbini se n'era andato a Parigi, dov'era stato creato rettore della Maddalena; altri, rimasti in città, facevano la vita dei preti; ma don Blasco proponeva a tutti se stesso come modello. Fra' Carmelo, che, come dal principe, veniva spesso anche da lui, pareva non si fosse accorto del mutamento di Sua Paternità, e ripeteva con gesti disperati il suo eterno ritornello: «Me n'hanno cacciato!... Me n'hanno cacciato!...» Don Blasco gli dava qualche soldo e gli offriva da bere, confortandolo con belle parole; ma il maniaco, dopo bevuto, ragionava meno, cominciava a prendersela con gli indiavolati che avevano spogliato il convento: «Assassini e ladri! Ladri e assassini! il più gran convento del Regno!... E quegli altri ladri che si son prese le sue proprietà! All'Inferno! All'Inferno, scomunicati...» Una volta, delirante più del solito, si mise in ginocchio, declamando, con gran gesti di croce: «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Vi scongiuro per parte di Dio!... Restituite il maltolto a San Nicola!... Ladri!... Schifosi!... Siete cristiani o turchi?... Pensate all'anima! Fuoco d'inferno!...» Don Blasco, perdendo finalmente la pazienza, lo prese per una spalla e lo spinse fuori: «Va bene, va bene, abbiamo inteso.., ma per adesso vattene, che ho da fare...» E sbattutogli l'uscio sul muso mentre sopravveniva donna Lucia: «Comincia a rompermi la divozione, questo vecchio pazzo!... Se torna un'altra volta, buttatelo giù dalle scale, avete capito?...»

 

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.47.43