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Alessandro Manzoni
IL CONTE DI CARMAGNOLA
TRAGEDIA
AL SIGNOR
CARLO CLAUDIO FAURIEL
IN ATTESTATO DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA
LAUTORE
PREFAZIONE
Pubblicando unopera
dimmaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in
Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il
lettore con una lunga esposizione de princìpi che ho seguiti in questo lavoro.
Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di
così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione dun
dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò
non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a
chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono
questi: quale sia lintento dellautore; se questo intento sia ragionevole; se
lautore labbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta
forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto
luniversalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un
lavoro: il che per altro è uno de più piccoli mali che possano accadere in questo
mondo.
Tra i vari espedienti che
gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de più ingegnosi è
quello davere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute egualmente come
infallibili. Applicando questuso anche ai piccoli interessi della poesia, essi
dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi
abbiano lasciato lesempio. Questi comandi che rendono difficile larte più di
quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione
dun lavoro poetico; quandanche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui
sespone sempre lapologista de suoi propri versi.Ma poiché la quistione
delle due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far
parola della presente qualsisia tragedia: e poiché queste unità, malgrado gli argomenti
a mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi
tenute per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne brevemente
lesame. Mi studierò per altro di fare piuttosto una picciola appendice, che una
ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.I. Lunità di luogo, e la
così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dellarte, né
connaturali allindole del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene
intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse.
Lunità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano
unazione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un
esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. Lunità di tempo ebbe
origine da un passo di Aristotele,([1]) il quale, come benissimo
osserva il signor Schlegel,([2]) non contiene un precetto, ma
la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che
se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dellarte, questa sua
frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere unidea precisa, e di non
essere accompagnata da alcun ragionamento.Quando poi vennero quelli che, non badando
allautorità, domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero
trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione
dunazione, diventa per lui inverisimile che le diverse parti di questa
avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non
essersi mosso di luogo, e davere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa
ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì
come parte dellazione; quando è, per così dire, una mente estrinseca che la
contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle relazioni dellazione col
suo modo attuale di essere, ma da quelle che le varie parti dellazione hanno tra di
loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dellazione, largomento in
favore delle unità svanisce.II. Queste regole non sono in analogia con gli altri
princìpi dellarte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti
sammettono nella tragedia come verisimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse
sapplicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il
principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que fatti soli che
saccordano con la presenza dello spettatore, dimanieraché possano parergli fatti
reali. Se uno dicesse, per esempio: que due personaggi che parlano tra loro di cose
segretissime, come se credessero desser soli, distruggono ogni illusione, perché io
sento desser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi duna
moltitudine; gli farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle
tragedie dove sono trascurate le due unità. A questuomo non si può dare che una
risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità.
Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e
non si sia imposto allarte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe altro,
se non che per questi casi non ci era un periodo dAristotele.III. Se poi queste
regole si confrontano con lesperienza, la gran prova che non sono necessarie alla
illusione è, che il popolo si trova nello stato dillusione voluta dallarte,
assistendo ogni giorno e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate;
e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la
distinzione dei diversi generi dillusione, e non avendo alcuna idea teorica del
verosimile dellarte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun
precedente giudizio potrebbe fargli ricevere unimpressione di verosimiglianza da
cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena
distruggessero lillusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel
popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a
secondar lintenzioni dellartista.Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare
qual caso si sia fatto di queste regole ne teatri colti delle diverse nazioni,
troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per principio, e che sè fatto
contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che largomento lo ha richiesto; che i
poeti drammatici inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti
nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano
per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e lunità di luogo
in ispecie incontrò ostacoli da parte de comici stessi, quando vi fu messa in
pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese:
quasi fosse un destino che la regolarità deva sempre cominciare da una Sofonisba noiosa.
In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia,
e quindi probabilmente senza esame.
IV. Per colmo poi di
bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano
esattamente in fatto. Perché, senza parlare di qualche violazione dellunità di
luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate
esclusivamente regolari, è noto che lunità di tempo non è osservata né
pretesa nel suo stretto senso, cioè nelluguaglianza del tempo fittizio attribuito
allazione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il
teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme
il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent
être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on la
étendue jusquà vingt-quatre heures.([3]) Con una tale transazione
i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere lirragionevolezza della regola,
e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché si
potrà ben discutere con chi è di parere che lazione non deva oltrepassare il tempo
materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione
pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si può mai
dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole? Accade qui, come in
molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto che il poco. Ci sono ragioni
più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per
ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice
un altro critico) que la durée fictive de laction pût se borner au temps du
spectacle; mais cest être ennemi des arts, et du plaisir quils causent, que
de leur imposer des lois quils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources
les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont
le Public convient tacitement avec les poètes, à condition quils les employent à
lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est lextension feinte et supposée du
temps réel de laction théâtrale.([4]) Ma le licenze felici sono
parole senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano
unidea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente
rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa
contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso licenze felici,
perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura
delle cose richieda. Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene;
perché le regole grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può
uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche
alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura,
necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de critici, trovate, non fatte;
e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice. Ma perché
queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta lerrore.
Quando sabbraccia unopinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi
metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché la frase chiara
svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro lerroneità della opinione,
bisogna indicare dove sta lequivoco.V. Finalmente queste regole impediscono molte
bellezze, e producono molti inconvenienti.Non discenderò a dimostrare con esempi la prima
parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più di una volta. E la
cosa resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione dalcune tragedie
inglesi e tedesche, che i sostenitori stessi delle regole sono costretti a riconoscerla.
Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo
a una imitazione ben altrimenti varia e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito
delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacché per
ottenerle bisogna cadere nellinverosimile. Ora, ammettendo lobiezione, è
chiaro che linverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla
rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace
di quel grado di perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando non si consideri che
come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal
caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre
questo secondo genere di tragedia: e nellalternativa di sacrificare o la
rappresentazione materiale, o ciò che forma lessenza del bello poetico, chi
potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno dogni altro quei critici i quali sono
sempre di parere che le tragedie greche non siano mai state superate dai moderni, e che
producano il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla lettura. Non ho
inteso con ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla
recita: ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del
principio.Glinconvenienti che nascono dallastringersi alle due unità, e
specialmente a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici. Anzi non par
credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole,
siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine
dottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans
Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet dEmilie, et
quAuguste vienne dans ce mêne cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est
peu naturel. La sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la
giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faut.([5])Forse si è qui
eccessivamente ciarlato su una questione già così bene sciolta, e che a molti può parer
troppo frivola. Rammenterò a questi ciò che disse molto sensatamente in un caso
consimile un noto scrittore: Il ny a pas grand mal à se tromper en tout cela:
mais il vaut encore mieux ne sy point tromper, sil est possible.([6]) E del rimanente, credo
che una tale questione abbia il suo lato importante. Lerrore solo è frivolo in ogni
senso. Tutto ciò che ha relazione con larti della parola, e coi diversi modi
dinfluire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con
oggetti gravissimi. Larte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati:
essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un
mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa indifferente. Ed è certo che tutto
ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione,
deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.Questultime
riflessioni conducono a una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che
io credo tuttaltro che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa.
So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò,
dacché il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del
teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una
sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet, e di G. G.
Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi
hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed
esaminati sono immorali: laltro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire
freddo, e quindi vizioso secondo larte; e che in conseguenza la poesia drammatica
sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri,
perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico
giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che
ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale. Mi pare che siano stati tratti
in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se
ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado dinteresse e
immune daglinconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben
lungi dallessergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico,
mero proposto dunire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune
circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito dannunziarlo;
perché mi pare cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria allopinione
ragionata duomini di primordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza
prometterle almeno([7]).Mi rimane a render conto del
Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi
che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne
lintenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori
greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de pensieri morali che
lazione ispira, come lorgano de sentimenti del poeta che parla in nome
dellintera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il
Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il
difensore della causa dellumanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso
temperava limpressioni violente e dolorose dun azione qualche volta troppo
vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie
emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza dunespressione lirica e
armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione.([8]) Ora mè parso che,
se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però
ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici
composti sullidea di que Cori. Se lessere questi indipendenti
dallazione e non applicati a personaggi li priva duna gran parte
delleffetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili
duno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli
antichi il vantaggio dessere senza inconvenienti: non essendo legati con
lorditura dellazione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si
scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per larte, in
quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli
diminuiranno la tentazione dintrodursi nellazione, e di prestare ai personaggi
i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza
indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io
propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore desaminare
questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto
mi sembra potere essere atto a dare allarte più importanza e perfezionamento,
somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato dinfluenza
morale.Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti che sono
largomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un componimento misto
dinvenzione e di verità storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere
ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.
NOTIZIE STORICHE
Francesco di Bartolommeo
Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è rimasto
nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli, che ne scrisse la
vita nella Biografia Piemontese, crede che sia stato verso il 1390. Mentre ancor
giovinetto pascolava delle pecore, laria fiera del suo volto fu osservata da un
soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri,
e si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre condottiero.Qui la storia del
Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa
se non i fatti principali, e particolarmente quelli che sono accennati o rappresentati
nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati così diversamente dagli storici, che è
impossibile formarsene e darne una opinione, certa e unica. Tra le relazioni spesso varie,
e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse più verosimili, o sulle quali gli
scrittori vanno più daccordo.Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca di Milano
(1412), il di lui fratello Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del
Ducato. Ma questo Stato, ingrandito dal loro padre Giovanni Galeazzo, sera sfasciato
nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo.
Molte città serano ribellate, alcune erano tornate in potere de loro antichi
signori, daltre serano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali.
Facino Cane uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed altre città sera
formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria fu
ucciso da congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e
con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute da lui, e de suoi
militi.Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già un comando. Questo esercito corse col
nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il
quale se nera impadronito, e lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase
ucciso.Il Carmagnola si segnalò tanto in questa impresa, che fu nominato condottiero dal
Duca.Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu
il Carmagnola che gli riacquistò in poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre
città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le
avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà
probabilmente stato il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la
riunì agli stati del Duca. E questo, che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in
Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate» a, per servirmi delle parole di
Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessa,([9]) e colla fede e col valore
del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnovo; sposò
Antonietta Visconti parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il
palazzo chiamato ancora del Broletto.Lalta fama dellesimio condottiero,
lentusiasmo de soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza
forse de suoi servizi, gli alienarono lanimo del Duca. I nemici del Conte, tra i
quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano,
fomentarono i sospetti e lavversione del loro signore. Il Conte fu spedito
governatore a Genova, e levato così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il
comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il
Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dellarmi un uomo nutrito tra
larmi: e ben saccorse, dice il Bigli,([10]) che questo era un consiglio
de suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto
a condizione privata. Non ottenendo risposta né alle lagnanze, né alla domanda espressa
dessere licenziato dal servizio, il Conte si risolvette di recarsi in persona a
parlare col principe. Questo dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò
per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare
al Duca, ebbe in risposta chera impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette,
dicendo daver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la
prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli
rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe
desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi
compagni che aveva condotti con sé, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del
Bigli, credette meglio di non arrivarlo.Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi
con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo;
poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo
confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese.([11])Giunto il Carmagnola a
Venezia il giorno 23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato
alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo
seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio della repubblica con 300 lance.([12])I Fiorentini, impegnati
allora in una guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano lalleanza dei
Veneziani: il Duca instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui. In
questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca
dammazzare il Carmagnola, purché gli fosse concesso di ritornare a casa. La trama
fu sventata, e levò ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per
riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a questa
scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in senato che si
consultasse il Carmagnola: questo consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per
essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati dItalia fu proclamata
in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu
creato capitano generale delle genti di terra della repubblica; e il 15 gli fu dato dal
doge il bastone e lo stendardo di capitano, allaltare di san Marco.Trascorrerò più
rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu
interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla
tragedia.«Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola
virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di
Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta
mirabile.»([13]) Papa Martino V
sintromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace, nella quale Filippo
cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola
mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un doppio
recinto di carri, sopra ognuno de quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli
fatti, e dopo la presa dalcune terre, saccampò sotto il castello di Maclodio,
chera difeso da una guarnigione duchesca.Comandavano nel campo del Duca quattro
insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò
Piccinino.([14]) Essendo nata discordia
tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di
nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava lingegno. Questo
storico osserva che il supremo comando dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la
rivalità de condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava
dubbidire al Carmagnola, benché avesse sotto di sé condottieri celebri, e
principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e
Giovanni Varano, di Camerino.Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale
nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del quale era il campo
duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale
passava una strada elevata a guisa dargine: e tra le paludi salzavano qua e
là delle macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati, e
si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli
storici lo sono poco meno. Ma lopinione che pare più comune, è che il Pergola e il
Torello, sospettando dagguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il
Piccinino la volessero a ogni costo. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu
pienamente sconfitto. Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a
destra e a sinistra dallimboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque,
secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche lui; gli altri quattro,
chi in una maniera, chi nellaltra, si sottrassero.Un figlio del Pergola si trovò
tra i prigionieri.La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà
quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano lesercito, ne fecero
delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno de suoi cosa fosse
avvenuto de prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in
libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo
luso.([15])Uno storico che non solo
scriveva in que tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il
solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di questuso militare
dallora. Egli lattribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto
finite le guerre, e di sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati.([16])I Signori veneti furono
punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione. Infatti, prendendo
al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo le leggi della
guerra comunemente seguite; e non potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il
rischioso impegno dopporsi a unusanza così utile e cara ai soldati,
esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi dogni appoggio.
Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione
illimitata: questa saccorda solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o
per dovere. Non trovo però che dopo le prime osservazioni de commissari, la
Signoria abbia fatte col Carmagnola altre lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che
donori e di ricompense.Nellaprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il
Duca unaltra di quelle solite paci.La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il
Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in
Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al
Carmagnola. Questo ci andò con una parte dellesercito, e cadde in un agguato, dove
lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a
stento.Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dellarmata veneta sul Po, venne
alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler
attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in aiuto allarmata veneta, e
intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle navi del Duca. Quando il
Carmagnola savvide dellinganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era
vicino allaltra riva. Larmata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa
fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano
qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di
giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che dessersi lasciato
ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da
principio, e irresoluta nella battaglia.([17]) Fu bandito, e gli furono
confiscati i beni; «e al capitano generale (Carmagnola), per imputazione di non aver dato
favore allarmata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensione».([18])
Il giorno 18
dottobre, il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de suoi condottieri,
di sorprender Cremona. Questo riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini
levati a stormo, dovette abbandonare limpresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette
a proposito dandar col grosso dellesercito a sostenere questimpresa; e
mi par cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria. La
resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il generale non
si sia ostinato a combattere una città che sperava doccupare tranquillamente per
sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola
avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu dalcun vantaggio
per il nemico.Ma la Signoria, risoluta, secondo lespressione del Navagero, di
liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e
non ne trovò una più pronta né più sicura, che dinvitarlo a Venezia col pretesto
di consultarlo sulla pace. Ci andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti
onori straordinari a lui, e al Gonzaga che laccompagnava. Tutti gli storici, anche
veneziani, sono daccordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento di
compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava
prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia, «gli furono mandati incontro otto
gentiluomini, avanti chegli smontasse a casa sua, che laccompagnarono a San
Marco».([19]) Entrato che fu nel
palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a
lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato da una
Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il
giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della
Piazzetta, e decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni)
si trovavano allora in Venezia.Nulla dautentico si ha sullinnocenza o sulla
reità di questo granduomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che
volevano scrivere e viver tranquilli, lavrebbero trovato colpevole. Essi esprimono
questopinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi
parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola
fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi
di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è linfamissimo primo,
quello che non prova nulla.Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette
storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere
improbabile. Né i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento
pattuito; né da altra parte sè saputo mai nulla dun tale trattato.
Questaccusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche
svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e
sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia
del generale ogni evento infelice. Si badi inoltre allessere il Conte andato a
Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi allaver sempre
la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia dingratitudine e
dingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare
il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in
quanto sadoprava con uno che non era veneziano, e non poteva aver partigiani nel
popolo; si badi finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si
vedrà che luno e laltro ripugnano alla supposizione dun trattato di
questa sorte tra di loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato
orribilmente ingrato, e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da
stracco, anzi di lasciarsi battere, non saccordano con lanimo impetuoso,
attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che
lo conosceva meglio dogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una
riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non
poteva mai venire in mente a quelluomo che aveva esperimentate le retribuzioni di
Filippo beneficato.Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia
dunopinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far
prevalere; ed ecco ciò che nho potuto raccogliere.
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge:
«Dissesi che questo hanno fatto perché egli non faceva lealmente per loro la guerra
contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che sintendeva col Duca. Altri dicono
che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano dun
tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo
potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che
abbiano fatto saviamente; perché par pure, che per questo la Signoria abbia molto
diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano.»([20])E il Poggio: «Certuni
dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse
cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti.»([21])Il Corio poi, scrittore non
contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: «Gli tolsero il valsente di più di
trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che
altro.»Senza dar molto peso a questultima congettura, mi pare che le prime due,
cioè il timore e le vendette private dellamor proprio, bastino, per que
tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di
un tradimento contrario allindole e allinteresse delluomo a cui fu
imputato.Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche,
le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, chio sappia, si mostrò
persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza. Questo è il
Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo
avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui
voluto informarsi esattamente de fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue
parole: «O fossegli allontanato, per una ripugnanza dellanimo, dal portare
così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto
del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero fossegli ancora nella fiducia, che
umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i
meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o
qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei
Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati
bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti
prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il seguito delle sue imprese
fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le occasioni, e lentamente
progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma giunse a tale evidenza
la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che, venne, dopo formale processo,
decapitato in Venezia... come reo di alto tradimento.» Fa stupore il vedere addotto in
prova della reità dun uomo in giudizio segreto di que tempi, da uno storico
che ne ha tanto conosciuta liniquità, e che tanto si studia di farla conoscere
a suoi lettori. In quanto al fatto de prigionieri, ognuno vede gli errori
della relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i
soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che
il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al
Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perché si entri in congetture
per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per
motivo unusanza comune.
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta lItalia; e pare che in
particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo
indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.
Il primo
sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni
dun loro agente di Milano, il quale era venuto a sapere «che un Carlo Giuffredo
Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re
Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi
abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto».Non
ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo
municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo gran capitano in quella
nobile e bellicosa parte dItalia, che lo considerava più specialmente come suo.A
quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia,
sè conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se
ne eccettui laver supposto accaduto in Venezia lattentato contra la vita del
Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.
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