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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

C A R L O   D O S S I

AMORI

SESTO CIELO.

Celeste

Dai sogni ad occhi aperti, fin quì descritti, a quelli ad occhi chiusi, mìnima è la distanza. Basta, a varcarla, un moto di pàlpebra.

Quale filòsofo abbia detto ciò, non ricordo (sono tanti i filòsofi e tanti i lor dispareri!) ma certamente fu detto che in ciascuno di noi esìstono parecchie individualità e che si vive, successivamente, più di una vita. Se questo sia esatto, riguardo alla maggior parte degli uòmini, non giurerèi: di molti anzi potrebbe dirsi che non s'accòrgono pure - e sìano pur lunghi gli anni durante i quali rùminano la bassa lor erba terrestre - di aver vissuto una volta sola. Riguardo però a mè e ad altri sognatorelli mièi pari, la molteplicità della vita è cosa interamente vera. Soltanto, non mi accorderèi con que' signori filòsofi sulla successività delle diverse nostre esistenze, essendo queste - a mio avviso - piuttosto contemporanee, paragonàbili quindi a più cavalli attaccati, in una sola schiera, ad un ùnico giogo di cocchio. Fatto è, che quando, coricàndomi, dall'esistenza che chiamerèbbesi verticale, trànsito alla orizzontale, mi si àprono a due battenti le porte di un altro mondo e là rivedo cose e persone, non rifritture di quelle che già conosco, e là ritrovo le fila di avvenimenti e di affetti, rimasti sospesi nell'intervallo del dì, alle quali mi riannodo. E allora mi desto - dirèi - dalla veglia quotidiana.

Oh sogni benedetti - delirio muto della salute che dorme - quanto vi debbo mai! e quanto più vi dovrò! Finchè voi non mi abbandoniate, non potrò dirmi infelice. Se, delle ventiquattr'ore, che fòrmano il sòlito giorno, ne possiamo solo contare - contro quattòrdici o sèdici di desiderio e dolore - otto o sei di soddisfazione e piacere, basta: la vita ci è largamente indennizzata. Or, da voi, ebbi tutto ciò che quasi sempre invano si ambisce, ricchezza, potenza, amore; e sopratutto gustài quel lìbero arbitrio, che, ad occhi aperti, non è più lungo della catena di circostanze, di tradizioni, di casi, alla quale ciascuno è legato. Ma, nel sogno, polsi e mallèoli sono fuori da ogni strettoja lògica e convenzionale, nessuna fìsica legge, a cominciare da quella della gravità, ci preme le spalle, la materia, di cui siamo schiavi e figliuoli, ci obbedisce a sua volta, nè la riflessione più insorge a turbare la schietta òpera del sentimento. Tutto, dinanzi a noi, piega. Dio, che cercavamo inutilmente nel cielo, troviamo in noi.

Quanto io viaggi, la notte, negli spazi e ne' tempi è indescrivìbile! Non vi ha treno-lampo, non vi ha palla lanciata dal più potente cannone, che mi possa seguire. Liberato dal peso del corpo, io mi sento quasi mutato in una di quelle creature fatte di trasparenza e luminosità del "Paradiso" di Dante, che guìzzano come raggi di luce nell'empireo e cantando vanìscono "come, per aqua cupa, cosa grave."

Ne' mièi voli trapasso le scene di cui si compone la storia del globo, da esso sollevàtesi come strati d'imàgini, come fogli carbonizzati di un libro, e diffondèntesi, per gli spazi inteplanetari, nella eternità.

Io attraverso i paesaggi più vari. Ecco l'ampia terra: le pioggie e le nevi di sìlice sònosi appena indurite in sabbie e macigni, e forme spettacolose di neri mostri si muòvono per le valli e pe' monti o nuòtano nel mare fumante. Altre belve, che saranno poi uòmini, si aggìrano in selve che sèmbrano lacerare coi rami il cielo, e l'èrebo colle radici, e parecchie si bàttono a colpi furiosi di clava. Una donna, ferinamente bella e non coperta che della chioma rossa, stà alle fàuci di un antro, a guardarli. I lottatori procòmbono uno appresso all'altro, massacrati. Uno solo, benchè acciaccato di colpi, è ancora in piedi, e la donna gli si getta, gli si avvinghia al villoso torace, baciando avidamente il sangue che da lui cola, misto a quello de' suòi rivali. E si dona al più forte.

Ma le secolari piante prèndono aspetto di gigantesche colonne dai capitelli a fiore di loto e il sacro orror della selva si diffonde in un tempio. La vèrgine figlia di Faraone siede alta su un trono, dinanzi la mìstica cella, circondata dai sacerdoti di Ammone, stretta la fronte da regie bende, il braccio destro appoggiato al ricurvo bastone dei pastori d'uòmini. A lei si presèntano i giòvani eredi de' regni vicini, e i sacerdoti pòngono loro quistioni più enigmàtiche delle sfingi della grande allèa del tempio, più acute degli obelischi che èrgonsi innanzi ai venerati piloni. Pur quì non si tratta di piegar l'arco pesante del rè d'Etiopia nè di vincere al corso la leggera gazzella nè di atterrare furibondi leoni, e i prìncipi, poderosi di membra, gràcili d'intelletto, impallidìscono e si ritràggon confusi. Non ne rimane che uno, a sostenere, a superare lo sguardo astuto e la insidiatrice loquela de' sacerdoti, che, a volta loro, allibìscono. La principessa si alza imperiosa, e invita a sedersi seco sul trono - dolce promessa del tàlamo - il vincitore. Ella ha eletto il più saggio.

La scena ancor cangia. Nel cielo immacolatamente azzurro, su una tondeggiante collina, posa un tempio dòrico, dalle colonne pinte di bianco e di rosso e dal frontone ornato di trìpodi d'oro, scintillanti al sole. Una processione ascende, a larghe spire, il pendìo: vecchi con rami d'ulivo, fanciulle in càndida veste con canestri di frutta sul capo, uòmini armati di lancia e di scudo. Solennemente rècano al tempio il nuovo peplo di Pàllade, ricamato dalle vèrgini della città. La intatta figlia dell'arconte regge il peplo e và a deporlo, inginocchiàndosi, sull'altar di Minerva. Ma il cuore di lei prega Vènere. E Vènere l'esaudisce. Un giòvine ardito, e splendente come l'Apollo sagittario, sorge a lato dell'ara. Ella non è più di sè stessa: è del più bello.

Poi tanta festa di luce si abbuja in un labirinto di ùmidi corritòi sotterranei. Senonchè, amore è sceso là pure. Guidate da una fanciulla in bigia stola e reggente una làmpada accesa, parecchie altre procèdono ràpide e zitte nel cunìcolo, le cui pareti, vestite di marmi scritti, ricòrdano, a un tempo, la morte e la vita perpetua. Sèmbrano gente in fuga. Or sòstano in un'àula dalle ampie nicchie dipinte, e sèggono sul gradino di un sarcòfago-altare. Cercano incoraggiarsi con ammonimenti di pietà ed esempi di virtù. Tutte ripètono il nome di un nuovo loro fratello, il giòvane centurione, confortatore de' mesti, difensore degli innocenti, preparato al martirio. Una insòlita tenerezza inonda il seno della fanciulla, che nelle tènebre arrossa. L'agnello di pace, la pura colomba che ella adora, prèndono in lei forma umana. Ella sarà del più buono.

Ritorna la luce. Ma è luce di candelabri riflettèntesi e raddoppiàntesi nei grandi specchi e nelle dorature di un appartamento. Dapertutto uòmini in nero e donne in rosa. È il dì natalizio della signorina di casa, ed essa, una pupa di quìndici anni, dall'aria fresca ed ingenua, accoglie gli omaggi ed i doni dei molti che la desìderano. A lei i forti ed i belli, pavoneggiando, s'inchìnano; a lei i buoni sospìrano; a lei sussùrrano gli intellettuali gentilezze poètiche. Ma ella a tutti ride, non sorride a nessuno. Quand'ecco, dalla via, un rumore di ruote e uno scalpitìo di cavalli. L'occhio di lei gitta un lampo. Sono sèdici ferri che bùssano il selciato, a non contare i due del padrone dell'equipaggio. Entra il losco milionario banchiere, sfolgoreggiante gemme, nella più innocente di cui giace almeno la ruina di una famiglia. La verginella a lui corre e gli stende, semplicetta, le mani, già venduta al più ricco...

Ma in mezzo a tante imàgini di cose che già fùron quaggiù o ancor sono, altre càcciansi, di cui non ravviso la provenienza - imàgini forse che si distàccan da mondi che non sono il terrestre, e si confòndono, negli spazi, con quelle diraggiate dal nostro.

Perocchè l'ànima mia erra talvolta in baratri di oscurità, in cui gallèggiano accese lanterne di mille forme e colori. Globi rossi s'incòntrano e s'accompàgnano con cubi azzurri, coni gialli con òvoli violacei, stelle bianche con triàngoli verdi, e sèmbrano parlottare amorosamente tra loro. Altre, invece, lìtigano e còzzano una contro dell'altra, finchè si ròmpono e spèngonsi. Quì, è una processione di lampioncini càndidi, seguita da un lanternone color caffè, e si direbbe una fila di collegiali che sia uscita a passeggio; là parecchie variopinte lanterne, accoppiate, dànzano a tondo mentre tre o quattro, più grosse, bàttono loro il ritmo; più in là una porpurea lanternina corre appresso - quasi moglie infuriata - ad un lungo e verdastro lampione, il marito; da ogni parte è una viva popolazione di mòccoli e carta oliata e dipinta, varia, mobilìssima.

Ma, di colpo, come a soffio improvviso, lanterne e lampioni scòppiano, e le loro innùmeri luci si fòndono in un chiarore ùnico, vivacìssimo. Èccomi in una immensa città, tutta fabbricata di fiori; case di gelsomino con tetti di geranio sanguigno e persiane di làuro; campanili che altro non sono se non altìssimi gigli, suonanti dalle loro campane profumi: sospesi ponti di glìcini, sotto i quali scòrrono fiumi di argenteo ginerio. Le vie sono affollate di belle ortensie e amarìllidi, di olee fragranti e camelie, di aspèrule odorose e balsamine momòrdiche, con girasoli, astri, adònidi primaverili, begli-uòmini e tulipani che loro pòrgono il braccio o fan l'occhiolino. Una reseda s'incontra con una viola del pensiero e pìgolansi sottovoce mille cose affettuose. Prìmule-cameriere, fritillarie-cuoche, margherite-bonnes, petunie e orchidèe-istitutrici, grisantemi-domèstici, vanno a fare la spesa, o condùcono i bimbi - bottoncini di rosa - a spasso. In una piazza, dinanzi una chiesa fatta di passiflora fiorita, un papàvero prèdica, da una specie di pùlpito, ad una dormente assemblèa di matricarie e erbe-savie, mentre tussilàggini odorose (priore della dottrinella) gìrano seccando il pròssimo, ed ùmili violette chièdono la carità. Ma l'assemblèa dell'erbe si desta, ma la folla dei fiori si ritràe a spalliera sul marciapiede, e due giganteschi cactus-carabinieri si pòngono in posizione per il saluto. Scortata da rose e da gigli, Sua Maestà passa - e anch'io mi inchino a lei - la mia graziosa quanto sensìbil regina, Mimosa pudica.

Nè lo spettàcolo finisce qui, perocchè i fiori trasfòrmansi a poco a poco in penne ed in piume di tutti i colori. Ali di piccioni, di tacchino, di fagiano, di falco, si dispòngono a colline, a vallate. Sterminate penne paonine s'innàlzano come piante isolate; penne di cigno e di struzzo, si aggrùppano a boschetti. Una lanùgine da collo di tòrtora si stende - quasi erba - sul suolo, quà e là smaltata da penne papagalline e da uccello-mosca Si avanza una penna d'oca. È probabilmente un poeta che gira in cerca della poesia. E intanto una respirazione soave, qual di bambino, fà tremolar tutto il paesaggio di piume, ed io passo di leggerezza in carezza.

Talora, invece, viaggio negli abissi infiniti della bontà. Ciò mi accade, per sòlito, quante volte ho subito ad occhi aperti la mortificazione di non aver potuto o voluto fare o ajutare un'òpera buona, oppure fremetti d'indignazione udèndone o vedèndone commèttere una malvagia, senza potèrmivici opporre. Senonchè, nel campo de' sogni, io mi rifaccio lautissimamente. Tutte le utopìe de' poeti, dalla generosità inspirate, tutti i disegni dei filàntropi dalla utilità suggeriti, divèntano, sul mio notturno guanciale, cose vere e certe. La navigazione aerea, che ne' mièi sogni è già un fatto compiuto, ha cancellato, rendendo impossìbile il mantenimento delle frontiere, le nazioni. Annientato lo spìrito nazionale, ogni ragione o bisogno di guerre cessò e i soldati fan quell'orrore che fanno oggi i carnèfici. Torna il ferro, non più omicida, alla gleba e il pane si pareggia alle bocche. Ogni donna ha l'uomo che la fà madre e non l'abbandona, ogni bambino una mamma che lo nutre e lo bacia. L'ànima mia non scorge se non visi felici e nella contentezza altrùi trova la sua.

Ed è pure in queste corse notturne della fantasìa, non distratta dal mondo esteriore, che io spesso riprendo, come dissi, qualcuna delle mie individualità, le quali, durante il giorno, stan mescolate e sbiadite in una media insignificantìssima. Ne' sogni, dunque, io mi riveggo potente signore, potente solo, s'intende, nel fare il bene, o trovatore di paradisìache melodìe inesaurìbili, o scopritore e domatore di nuove leggi della natura; e rientro in tante e tant'altre personalità, una più miracolosa dell'altra; e mi ritrovo perfino - chi il crederebbe? - donna.

Geniale amica, non rìdere! Io non so se tra quella legione di mèdici che mi sperò e tambussò e pesò, colùi che disse, che - aperto e frugato sul tavolaccio anatòmico - il mio corpo avrebbe embrionicamente tradito i segni della femminilità, spropositasse meno degli altri, ma l'apparenza è, che, non rado, quando la morte quotidiana mi grava il ciglio, la metamòrfosi del poeta Tiresia in mè si ripete. E della donna io ho conosciuta l'infanzia e l'adolescenza, quando, sognavo, fanciullo, di giocare alla bàmbola, e, giovinetto, di starmi, come educanda, in un monastero, e così via, fino a raggiùnger quest'oggi, in cui m'illudo, dormendo, di èsser ragazza - benchè un po' matura - da marito.

Che faccio ora, è presto detto: amo. Donna che non ami, non appartiene al sesso gentile. Ma io faccio qualche cosa di più: amo bene. A mè - che allora mi chiamo Celeste - amor si presenta come una varietà delle òpere caritatèvoli. Il divino maestro ne invita a cibare chi ha fame e a dissetare chi ha sete: anche l'amore è sete ed è fame e noi donne dobbiamo placarlo.

Celeste cerca dunque il suo amante. Intorno a lei molti fan ressa ed ella scorge nei loro occhi brillar desideri, nè le vèngon taciuti. Ma sì grossolani sono que' giòvani sotto le loro fine vernici, sì ottusi alle poesìe della vita, sì soddisfatti di sè medèsimi, che amore non potrebb'èsser per loro che uno svago, una carnale dilettosità, un affare matrimoniale, non un bisogno dell'ànima.

Celeste cerca ancora. Finalmente incontra la pupilla di un giòvane che spìa timidamente la sua. Nessuna fronte più pensierosa di quella di lui: nessun sorriso, del suo più melancònico. Si direbbe che l'ànima di quel giòvane, sebbene pronta a elevarsi ai più sublimi ideali, giaccia oppressa, accasciata sotto il peso di una umiliazione profonda. Oltre amore, in quelli occhi, è infelicità: egli ha dunque necessità di èssere amato.

E Celeste lo ama, e gliel dice. Investito dalle fiamme di lei, le ìntime forze del giòvane si risvègliano tutte ed eròmpono. Ella gli inspira tra le sue braccia l'entusiasmo che crèa: e l'ingegno di lui divien genio, la timidità, ardire. Di questo giòvane ignoto, Celeste potrebbe fare un guerriero invincìbile, un uomo di stato non eguagliàbile, un poeta immortale; e fà un poeta.

E, in brev'ora, egli, che già stanco sedeva sul màrgine della via a lui destinata e non ancora percorsa, l'ha tutta compiuta, e deve, per avanzar nuovamente, aprirsi altra strada.

Ora, Celeste più non gli occorre. Ei l'ha lasciata e fors'anche la dimenticò. Ma ella, pur piangendo, è felice. Il mondo ammira il nuovo grand'uomo e le madri lo addìtano ai bimbi ad esempio. Nella folla che applàude è pur confusa Celeste, ma le foglie di rosa e di làuro versate in capo al poeta, vòlano al conscio cuore della ignota sua musa.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 21.59

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