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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

C A R L O   D O S S I

AMORI

 

QUARTO CIELO.

Elvira

Nel sommo del cielo letterario è la soglia del musicale, ed io su questa sostài. Non l'ho varcata, ma, a giudicare dall'emozione che m'investì solo tendendo l'orecchio verso l'abisso di melodiosi bagliori innanzi a mè spalancato, dico e credo che se il paradiso ha un'anticàmera, è questa. Qualche passo più in là e il mio èssere si sarebbe di voluttà liquefatto, rarefatto, in uno spìrito puro.

Giordano Bruno, in quelle sue pàgine sì geniosamente mal scritte, chiamava la divinità "ànima dell'ànima". Con egual frase io definirèi la mùsica; quella dei suoni, intendiàmoci, non quella dei rumori. Essa infatti ha un nonsochè di divino, e, a differenza delle altre arti, non sà esprìmere ottimamente che la bontà. I colori, gli odori, le forme hanno occulti e stretti rapporti con essa, e verrà tempo in cui si canteranno e suoneranno dal vero un mazzo di fiori, un vassojo di dolci, una statua, un edificio, come oggi un foglio di romanza od uno spartito di melodramma, aperti sul leggio. Poichè due lingue universali ci andiamo preparando noi uòmini, mentre si tende a riaffratellarci travolgendo governi e frontiere - una di cifre, una di note - e se diverremo completamente malvagi, intèprete delle nostre idèe sarà la prima; se torneremo buoni, l'altra.

Ora, io ebbi un amore interamente musicale. Della mia vita, numeravo in quel tempo diciottanni di meno. Una notte, verso le dieci, stavo nel mio studiuolo, colla finestra aperta. La finestra guardava sopra una serie di giardinetti ben pettinati, che dall'alto sembràvano fazzoletti a colori, e da essi, col tepore del maggio, salivano a mè le mille fragranze e i mille silenzi della verde addormentata natura. Stàvomi nell'oscurità, sdrajato in una poltrona, fiso al cielo stellato, in un vaneggio di pensieri.

A un tratto oscillò nel silenzio un sospiro di violino, lungo, lamentèvole. Il mio cuore drizzò palpitando l'orecchio. Al sospiro tenne dietro un motivo bizzarro e insieme soave, una trina di suoni dal capriccioso disegno su un fondo di malinconia. Io ascoltavo e tremavo. Quando il violino si taque, m'accorsi di avere le guance bagnate e gli occhi pieni di làgrime.

Indifferentemente si può udire, impunemente si può suonare il pianoforte, non il violino. Nel pianoforte il fabbricatore mette quel tanto di sentimento che il prezzo concede e alla mano non resta che di evocarlo meccanicamente - si tira, per così dire, al cane la coda e il cane guaisce - nè più del vino che è in botte si cava. I cembalisti pòssono tutti arrivare ad un segno; i cembalisti si fàbbricano come i loro strumenti. Nel violino, invece, è l'ànima di chi suona che, alleàndosi alle vocali minugie, trova una lingua. Tante ànime, tanti violinisti. Nel pianoforte senti sempre la materia inorgànica, metallo e legno; nel violino odi la mesta eco di una vita che fu. Uno suona, l'altro canta. Là è lo strumento la principal parte, qui chi l'adopra. Là non ti stanchi se non le dita e puòi mèttere pancia: qui soffri e ti si affilan le gote.

La notte appresso, all'ora medèsima, la musicale voce ricominciò il suo innamorato lamento, e così l'altra ancora e così la seguente. Io non sapevo, nè mi curavo sapere, donde venisse, io non cercavo d'indovinare se sulla sua cuna di abete fosse chinato un volto di mamma o di babbo: solo sentivo di èssere perdutamente innamorato di lei. E tutto il giorno durava in mè la vibrazione di quella voce e ansioso desideravo che la notte, funerea coltre, si adagiasse sulla bara terrestre, per andarmi a rinchiùdere - perocchè nulla è più dolce dell'amore furtivo - nello studiuolo, e là attèndere la mia invisibile amica fatta di suoni.

Ned essa mancava mai al convegno. Al primo rinsenso della conosciuta voce, correva per tutto il mio fràgile èssere un trèmito. Come ipnotizzato da lei, io gioiva o soffriva ogni sorta di sensazione che le piacesse d'impormi.

Mi sembrava talvolta, da lei guidato, di trovarmi fra alte disabitate montagne in riva ad un lago senza vele, senz'onde, sull'aqua del quale scivolasse un raggio lunare e nel raggio una tàcita frotta di càndidi cigni; talaltra, di èssere in una immota atmosfera di luce elèttrica, in mezzo a un paese, i cui monti èran cristallo di rocca e le piante vitrificazioni a colori, vitrifatto pure io: talaltra ancora, di scèndere scèndere per caverne rutilanti d'oro e scintillanti di gemme, finchè - restringèndosi intorno a mè le pareti della spelonca e sul punto di rimanere asfissiato - si squarciava, di colpo, la terra, e io mi sentivo attirato all'insù qual bolla d'aria e trasportato (oh la serena, oh la fresca mattina di primavera!) in una selva odorosa di castagno e di timo e gorgheggiante d'augelli, dove mi smarrivo estasiato - come il mònaco santo della leggenda - per sècoli.

Ma, poi, dalle màgiche corde balzàvano cozzo d'armi e fanfare guerresche. Senonchè, la nota della mestizia riaquistava sùbito il sopravvento. Pareva allora di udire due vecchi valorosi raccontarsi la loro ùltima avversa battaglia. All'urto infuriato de' cavalli nemici, si aprivano i reggimenti de' granatieri e cadevano le àquile sotto i cadàveri dei loro alfieri. Solo un uomo, dal cappellino sugli occhi aggrondati e dalla destra nella bottoniera del bigio sopràbito, stava eretto ed immòbile nella sventura, e il suo profètico sguardo imperiale vedèa la gloria - all'inno della "Marsigliese" - coronare i vinti.

Altre volte, l'addolorata ànima del mio violino sembrava rammaricarsi teneramente coll'amato e dirgli: "perchè svegliasti il mio cuore se non gli volevi accompagnare il tuo? perchè tante promesse, collo sguardo, m'hai fatto se pensavi tradirle? perchè lasciasti lagrimare quest'occhi che chiamavi sì belli e impallidir questa guancia che tanto desideravi?", Ma, impietosito, l'amato parèa azzittisse la dolce querela, sulla bocca di lei, con un bacio, ed era allora un duello di baci, temendo ognuno di darne meno dell'altro. Tutto finiva in un rugugliar di colombi, in un sospiro di felicità.

Ma la voce del dolore erompeva di nuovo ed il suo flutto copriva, inghiottiva il sottil velabro di gioia. Solenne era il lamento. Una grand'ànima, alto-appesa in cospetto del mondo, bramava inutilmente di stringere tra le sue braccia l'umanità che gliele aveva divise e inchiodate. "Perché" - sembrava essa dire - "sarò io la sola, che, non riamata, eternamente ama?" Il cielo nereggiava di nubi, e le sue vìscere rumoreggiàvan tempesta. Dalla croce fuggìvano, in ogni parte, battendo spaventati le ali, i paffutelli amorini pagani. Grosse làgrime cadèvano dalla grande ànima abbandonata, mutàndosi sulla terra in rose, ed ella elevàvasi lentamente a Dio ed in lui si aquietava.

Io rimanevo, intanto, come incantato. assorbendo la misteriosa musica, sentèndone, per così dire, il contatto, abbracciàndola quasi, finchè l'arco non si fosse staccato dal fecondo suo congiungimento con le corde canore, gocciante ancora di note.

Allora solo potevo alzarmi ed uscire dalla stanzuccia, gonfio di bontà. Oh quanto mi sarèi riputato felice di avere allora un nemico, chè sarèi corso a domandargli perdono! Ed è a questo perìodo della mia vita che io debbo, pressochè tutte, attribuire le poche buone òpere che mi fu fatto di còmpiere e le molte d'imaginare.

Ma una notte - dopo due mesi di amore - la musicale mia amante non apparve al convegno. E inutilmente due, tre, quattro dì l'aspettài. Non più melodìe, non più sospiri amorosi, tremolanti per l'àere. Dai cespugliosi giardini, avvolti nell'ombra, non mi arrivava che il monòtono grido dei grilli e il singulto del cùcolo.

Una strana inquietùdine mi sorprese, un'angoscia muta, come il presentimento di una sventura. Che era avvenuto di lei? A nessuno osavo chièderne: trattàvasi di un segreto d'amore e non potevo tradirlo. Giravo dunque, giravo da solo e come smarrito, intorno all'isolato di case dov'era pure la mia e che rinserrava, con sì gran nùmero di pigionanti, quell'àngiolo ùnico di violino, spiando a ogni porta, ad ogni finestra, cercando con le pupille di traversar tanta spessezza di muri e di fronti.

Così passàrono quindici giorni - giorni di strazio - quasi assistessi alla lenta agonìa di una persona cara. Finalmente, un mattino, uscendo, vidi, dinanzi al portone di una casa vicina, un carro mortuario. Stàvano sulla soglia e sul marciapiede parecchie fanciulle abbigliate e velate di nero, e disotto i veli apparivan visetti dagli occhi rossi e dalle labbra aggreppate, visi che ricordavo di aver qualche volta incontrati nella pròssima via del Conservatorio di mùsica. Una bara fu trasportata fuor dal portone - ed era breve e parèa leggera - e collocata sul carro e coperta da una coltre bianca ed argentea, sulla quale e sul padiglione del carro fùron posate corone di càndide rose dai lunghi nastri pendenti e dalla scritta "Ad Elvira, le coallieve". Lentamente il carro si mosse. Le gentili compagne gli si raggrupparono intorno, seguèndolo, col fazzoletto sugli occhi.

Portàvano a sepelirmi la Mùsica. E la cortina del quarto mio cielo pesantemente cadde.

 

IN TERRA.

Ester e Lisa

Mi ritrovài dunque in terra. Non era la prima volta, nè doveva èsser l'ùltima, che io fossi riafferrato dalla realtà, ma le mie catture tra le mani di questa fùrono sempre brevi. Toccavo terra ma a modo di augello, che ne' suòi voli posa a tratti su'n ramo d'àlbero, su'no scoglio, su'n fumajolo, per riapprovvigionarsi - mìnimo Antèo pennuto - di forze e slanciarsi dalla cocca terrestre a mete più eccelse. Se lo specchio de' mièi amori ideali restò talora annebbiato dal fumo dell'umana palude, l'appannamento ben presto si dissolveva, lasciando lo specchio più lucente di prima.

Un cuore fin quì vedesti, o amica geniale, che, anelàndone e invano cercàndone un altro, foggia quest'ùltimo con parte di sè: ora il cuore stà in presenza di un suo possìbil compagno, e benchè l'amore ch'ei ne risente sia ancor fatto più di suòi pàlpiti che d'altrùi, prende almeno, da questi, calore.

Siamo al capìtolo dov'io vorrèi ricordare, con fervore di gratitùdine, tutti gli sguardi che rispòsero ai mièi, tutte le strette parlanti di mano e le dolci parole e i sorrisi - udìbili e visìbili baci - e gli innocenti rossori per colpe non commettende e i sùbiti imbarazzi e persino le iruzze e i dispettucci adoràbili, gèmiti d'amor represso, tutte, in una parola, le caste concessioni di cui donne e fanciulle mi beneficàrono. È sulla terra che noi quì camminiamo, ma è terra vestita di muschio e sparsa di gigli.

Nè dal mio atto di grazia io intendo quelle di esclùdere - e sono le più - che pur non sentendo amore per mè, me ne ispiràrono vivo per esse. Innamorarla, è già fare ad un'ànima dono divino. Come la voluttà di oprare il bene, quella di volerne, è, per sè sola, tale, che, anche priva di contraccambio, basta. Esìger di più, è usura.

Certamente, l'uomo il cui midollo sentimentale è difeso da una pelle ippopotamina, l'uomo pel quale nessuna donna satis nuda jacet, capirà nulla affatto di questi ch'egli potrebbe chiamare prime aste od arpeggi scolàstici, e, sàturo di grassa concupiscenza o di soddisfatta sensualità, si burlerà delle gioje, che io vanto, del desiderio puro e del tàcito innamoramento. Ma a mè poco importa. Io non scrivo per lui. I mièi lettori ed io con essi, possessori di fibre men spesse, sappiamo per prova che i mìnimi presentimenti d'amore bàstano a suscitare in noi emozioni che appena si accennerèbbero, nei contatti più ìntimi della carne, in que' grossolani cuòi, cosicchè la donna che a noi è cortese di un sorriso o di una occhiata di simpatìa, di un sospiro desideroso o pietoso, dà assài più che non dia, concedèndosi tutta, a que' nostri non-sìmili.

Oh quanto mai vi rammento e ancora mi confortate, gentili mie, di cui non sfiorài che la veste, se pure! Nessuna di voi mi ha lasciato e lascerà mai, a cominciare da quella frotta folleggiante di ragazzette, che, su'n gran prato, tenèndosi a mano, mi sorprendèvano, mi accerchiàvano, mè più bimbo di esse, girotondando schiamazzanti, mentr'io, in mezzo di loro, cercavo afferrar questa o quella, senza - come poi sempre mi accadde - riuscirvi, perchè mi piacèvano tutte e le avrèi tutte volute.

E, una appresso all'altra, mi riappàjono tre fanciulle dai dòdici ai quìndici anni, lietezza della mia adolescenza.

La prima, fulva come uno scojàttolo e che sapèa lieve di ginepro, avèa per mè le tenerezze selvàtiche di una scimmietta: la mi guardava fiso in pien volto con occhi di maliziosa affettuosità, mi saltava talvolta pazzerellamente alle spalle battèndomele forte, mi si pendeva con improvvisi abbandoni al braccio o mi stringeva e pizzicottava con mani che èrano tanagliette, sino a farmi guair dal dolore, un dolor delizioso.

Era l'altra una giovinetta fràgile e trasparente, devota a pròssima morte. Quante tòmbole ho mai giocato con essa! Ella, che, tra le prosperose compagne, parèa una càndida rosa in un cestello di rosse, amava sedersi presso presso di mè, e, quando parlàvami, avèa nella voce soavità e tremolìi e fruscìi commoventi. E mettevamo, s'intende, in comune le nostre cartelle, ma, mentre gli altri badàvano ai loro nùmeri, noi badavamo ai nostri occhi: ci guardavamo sempre e vincevamo mai.

Quanto alla terza, tenèa guancie lattee e maggiostrine che ricordàvano l'imbellettatura e la bàmbola. Questa non era uscita mai di città - una città geograficamente ed intellettualmente ben bassa - cosicchè l'aria montana in cui era venuta colla sua mamma a passare una quindicina di giorni presso la mia, avèvala come ubbriacata. Fùrono quìndici dì, per mè e per lei, di moto e di gàudio. In pie' alle cinque della mattina, salivamo a far colazione sui poggi circostanti, correvamo pei prati inseguendo or le farfalle, volanti fiori, or noi stessi, ci arrampicavamo sugli àlberi del frutteto, o, eretti sulla assicella della biciàncola, faccia a faccia, ci lanciavamo, al mutuo impulso de' ginocchi, nello spazio, facendo a gara a chi spingesse più alto; poi, giù, a còrrere ancora col cerchio o la corda, a giuocare alla palla, ad abbàtter birilli, a scompigliar ànatre ed oche, finchè, giunta la sera, ballavamo al suono di qualche avventizio organetto, non smettendo se non con esso. Ma il giorno del distacco ci sopraccolse. Quando, in uno dei due momenti (l'altro è quello dell'arrivo, o se vuòi meglio, della nàscita) in cui l'uomo - come scrive Jean-Paul - sembra più caro del sòlito, il momento della partenza (e così della morte), le nostre mani trovàronsi per l'ùltima volta una nell'altra, un singhiozzo mi montò alla gola, e gli occhi s'imbambolàrono a lei. Addìo, fanciulla latte e fràgole! Già lontani, ella, sporgèndosi dalla carrozza che me la portava via, sventolava ancora il suo fazzoletto, bianco ospizio di làgrime; io, dal giardino che sovrastava alla tortuosa strada, tenevo alto e agitavo i fiori che, ùltimi, essa m'avèa donati e che non dovèvano mai, nell'ànima mia, essiccare.

E quì mi ritorni anche tu, fanciulla bruna dai grossi coralli agli orecchi, i cui capelli èran notte e lo sguardo giorno, e con tè l'emozione di quando, sullo stesso divano, sfogliavamo qualche gran libro di stampe, aperto sui nostri ginocchi, o guardavamo, nella medèsima ampia lente, imàgini di lontani paesi, in cui ci parèa di camminare a braccetto. Fra la mia guancia e la tua, appena appena sarebbe passato un velo da sposa ed entrambe scottàvano della stessa fiamma; eppur restàvan disgiunte. Un ricciolino della tua chioma, avvicinàndosi a' mièi capelli, pur ricci, cercava quasi di allacciarsi con essi, eppure non si toccàvano, nè si toccàrono mai.

E voi, belle incògnite, apparse e quasi tosto sparite ne' mièi viaggi, come potrèi obliarvi? L'intera notte l'avèa trascorsa in vagone colla misteriosa signora. Era il vagone occupato da viaggiatori, uòmini tutti: non rimaneva altro posto per mè che al fianco di lei. I nostri ginocchi, i gòmiti nostri, non potèvano non incontrarsi. Ned ella sfuggiva i mièi, ma vi appoggiava, anzi, contro, i suòi lievissimamente. Uno sbigottimento soave inondava - son certo - ambedùe, e lo gustavamo in silenzio. Oh quanti rosati castelli edificài quella notte! oh qual romanzo credetti di aver cominciato! Ma il viaggio finì, e i castelli si sciòlsero, e del romanzo non restò scritto che il tìtolo.

Or che vuòi? io preferìi sempre l'amore in bocciuolo a quello, non dirò pure in frutto, ma in fiore; io non seppi decìdermi mai, perchè l'àngelo non mi fuggisse, a tagliargli le ali. E anche tu lo puòi dire, o gentile, il cui volto parèa uno schizzo a carbone su'n bianco muro, tu, che, divisa da mè da una via, uscivi sul terrazzino a coltivar fiori, quand'io mettèvomi con un libro al mio davanzale, rimpetto al tuo. Noi sentivamo, io ciò che tu confidavi ai fiori, tu quello che io leggevo nel libro. Quando poi, venuta la sera, la tua finestra s'illuminava, scorgevo, dietro le calate tendine di mùssolo, il grazioso profilo di una inclinata testina e di dita che agucchiàvano svelte. Ma capo e mani, talvolta, si confondèvano in una sola ombra qual di piangente, e allor mi era dolce di lagrimare teco. Un dì apparisti sul balconcino con una lèttera in mano; ne leggevi una linea, poi mi guardavi, ne leggevi un'altra e tornavi a guardarmi. Quella lèttera, non v'ha dubbio, ti annunciava amore e ti era stata inviata da un amico a tè ignoto ed anche, disgraziatamente, a mè. Oh quanto io gioivo della tua gioia e insieme dolèvami di non avèrtela procurata io! Ma ora tu avevi trovato e avresti posseduto tra poco chi ti amava; io dunque non ti abbisognavo più, cara giòvine; e da quel giorno, per tè felice, infàusto per me, cessài dal guardarti.

Ma, più che ogni altra, io ho in cuore tè - come mai ti chiamavi? - buona e sana e rubiconda fanciulla, dal volto e dalle manine piene di fossarelle, dallo sguardo lìmpido e aperto... - ah sì, Èster - che eri, ad un tempo, la cameriera e la confidente di una mia zia. Il tuo eburneo allegro sorriso, quel sorriso che è il sale della bellezza, avèa in sè la luminosità di mille candele. Sovente, io passavo la sera da zia, cenando e poi giocando con essa al pacìfico dòmino. Tu intanto, silenziosamente seduta in un àngolo della sala, cucivi, e tratto tratto sospiravi. Oh avessi saputo come io attendevo con ansia - colla stessa tua ansia forse - l'istante di potèrmene andare, perocchè, uscendo, tu mi accompagnavi a farmi lume giù per le scale e ad aprirmi il portone. Più scendevamo e più il passo facèvasi lento. Talora ci soffermavamo, minuti, sui pianeròttoli senza saperne il perchè, in uno di que' silenzi zeppi di tante parole, mentre il lume fumoso nella distratta tua mano pingèa di accusatrici macchie la parete. A mè le fresche fragranze delle verginali tue carni affluìvano come àure primaverili da prati di màmmole. Mangiavo con gli occhi le mele appiuole della tua faccia e le rosse ciliegie della tua bocca, mature ai baci; e di baci avrèi voluto rièmpiere le tue cento fossette, i capelli, gli occhi, i rosei ginocchietti delle dita. Senonchè, tutti e due si ripigliava la pigra discesa. Giunti al portone, tu non riuscivi mai, se non dopo assài prove, ad infilare la chiave nella toppa, nè io sapeva ajutarti, cosicchè, spesso, si rimaneva là, uno in faccia dell'altro, arrossendo, balbettando, finchè qualche inquilino - soprarrivando dalla strada - non ci togliesse dal grato imbarazzo. E allora io doveva, melanconicamente, rivedere le stelle, e tu risalire le scale... con l'inquilino. Poi, morì zia. Casa sua, e tu con essa, spariste. Dove ora sei, buona Èster?

Un altro mio amore naque, crebbe, finì a strette di mano. Fra i tatti, quel della mano è il rè. Màssima intèrprete o còmplice della volontà, la mano coltiva ed edìfica, scrive e plasma, carezza ed uccide. Essa è l'azione ed è la persona: essa ci fà sùbito noto con chi trattiamo, chè vi ha la mano intellettuale e la mano cretina, una tutta frèmiti, geli, accensioni, l'altra impassìbile, dura: vi ha la mano che attira e quella che respinge; vi ha la mano di pressochè tutte e la mano di... Lisa.

Era, questa, lunga e bianca, liscia qual perla, trasparente come alabastro, dalle dita le cui cime polseggiàvano - dita affusolate e flessìbili sì da poterle rovesciar su sè stesse quasi fòsser senz'ossa, eppur tali, per nervosità, da non èsser piegate che a forza, se non volèvano cèdere. I microscòpici òrgani elettro-motori, da Pacini scoperti ne' polpastrelli, dovèvano èssere in sifatta mano sàturi di elettricità. La prima volta che io l'ebbi nella mia, parèa muta, marmorea, cadavèrica: il suo tocco, una forma convenzionale di saluto, non l'accòrrere di una sensibilità verso l'altra. Ma, a poco a poco, le nostre mani si intèsero: quella di Lisa cominciò a prèmer più forte quand'io mi congedavo da lei di quando me le presentavo. Oh come bianca quella manina! oh come negri gli occhi di chi me la offriva! Una sera, toccàndola, scattò da essa un trèmito che mi arrivò sino al cuore. D'allora in poi, Lisa più non mi porse la palma sua con l'abbandono, più non serrò la mia con la sicurezza di prima: nell'istante del commiato un indefinìbil ritegno, una parèntesi di riflessione, si metteva fra noi, incerti a chi primo dovesse stènder la mano. Dove l'amore è molto, poca è la disinvoltura. Senonchè, quando il casto connubio era osato, non più sapevamo, quasi a compenso della anteceduta tardanza, dissòlverlo. E allora, guardàndoci, tacevamo. Non è forse il silenzio, in amore, la più deliziosa delle sue dichiarazioni? Ma, pur troppo, altri parlò in vece mia. Costùi potèa coprire di gemme quanto io avrèi solo potuto di baci, e fu dai parenti, se non da Lisa, ascoltato. Or la manina di lei, quell'augelletta che, a volte, io dubitavo, per non sciuparla, di strìngere, giace sepolta nel cavo di una manaccia rozza, callosa, insensìbile - teca di piombo e di quercia ad un inno, in cinque strofe, d'amore.

Oh strette di mano, celate elemòsine di affetto, oh sguardi densi di preghiere e promesse, oh titubanze e rossori, impallidimenti e sospiri, oh cento e mille sottintesi e presensi, quanto mai vi ricordo, e come, tuttora, mi consolate! Nè tra voi manca il bacio - ùnico bacio che nel dar mi fu dato.

Era allora il settembre dell'anno e il maggio della mia vita. Io mi trovavo sulla sponda di un lago straniero, in un vasto albergo. L'albergo era stipato di gente che io non conoscevo neppur di linguaggio, e però in esso, vivente deserto per mè, godevo tutti i vantaggi, tutto il piacere della solitùdine. E un dì, sul tramonto, rincasavo da una delle mie camminate a caccia di fiori e di idèe. La campanella avèa già sussultato di bronzea tosse chiamando a tàvola, dal giardino, dai pòrtici, dalle càmere, i forastieri sbadigliosi e nojati. Solo, dietro la grande vetriata del salone che si apriva sul pòrtico esterno, una fanciulla indugiava. Un rosso scialletto le copriva le spalle cingèndole i fianchi, e il pellùcido volto di lei, improntato a sofferenza gentile e serbante le traccia di una pioggia di làgrime, appoggiàvasi estaticamente all'ampio cristallo, contro il quale la punta del suo nasino e le labbra mostràvansi, a mè di quà della lastra, espanse e come schiacciate. E sulle labbra parèa sospeso un sospiro in attesa di un bacio.

Come negàrglielo? Con un sùbito moto posài la mia bocca sovra il cristallo contro la sua e baciài. Le ànime nostre toccàronsi. Fu un istante ineffàbile. La fanciulla si distaccò, si strappò quasi dalla vetriata e fuggì. Ma splendeva.

Ed io? Io, all'alba seguente, partivo - sbigottito e felice di aver tanto osato o sì poco.

ANCORA IN TERRA.

Adele

E non solo de' mièi, ma degli amori degli altri ho goduto e specialmente di quelli degli amici. Se taluno quì sogghignando dicesse: "ciò è d'uso", potrèi rispòndergli col fiero e pudico motto dei cavalieri della Giarrettiera. Le brìciole degli altrùi banchetti amorosi hanno sempre avuto per mè sapori e profumi, insospettati a coloro medèsimi che vi sedèvano, ingordi o nauseati.

Ho già detto quanto mi appassionassi ai romanzi, sino a confòndermi coi lor personaggi, e come mi innamorassi delle simpàtiche eroine, fino ad incollerirmi coi loro amanti, quando questi le trattàvano non a seconda delle mie intenzioni. Soggiungerò che la lieta fine di un amore scritto - raramente lieta in uno vissuto - il matrimonio, rendeva mè pure beato. Mercè i romanzi, io mi trovài dunque, più volte, amante riamato o sposo felice, senz'òbblighi notarili o morali di rimangiarmi per tutta quanta la vita i detriti della felicità.

E, come sul cammino del romanzo, così in quello della vita reale, io sempre mi rallegrài e rallegro all'incontro di una coppia ben assortita e contenta. La direte follìa - non però tu, amica geniale - ma io credo e mi persuado ognor più che ciascuno di noi è il volume di un'ùnica òpera, la molècola di un medèsimo sterminato individuo sulla foggia del Leviathan di Hobbes o dei mondi animati del Nolano. E però le altrùi glorie, quando schiette, m'inorgoglìscono come se fòssero mie; gli amori degli altri, quando veri e profondi, mi consòlano come se appartenèssero a mè. Nulla mi è più gradito degli sguardi mutuati tra pupille che si comprèndono e si vògliono bene; io mai non mi posi tra essi; anzi, fin dove è onesto, li favorìi. Oh, con quale occhiata tu mi ringraziavi, o fanciulla, quando, uscendo a passeggio, io sequestravo alla tua ìspida istitutrice il braccio, mentre l'amato giòvane offriva a tè il suo: oh come, ritardando, più che potevo, il passo, mentre vojaltri lo allungavate, accompagnavo con occhio di affetto la vostra coppia gentile che si scambiava sussurri, inarrivàbili alle tesi reti acùstiche della tua vìgile!

Senonchè, quanto mi è a gioja l'assìstere ad una mùsica mite d'amore a quattro mani suonata, a due desideri placati in un'ùnica soddisfazione, altrettanto m'indispettisce lo spettàcol di donna che, amando èssere amata, gli amanti odia, e li cangia, coi mille capricci della sua malvagità, in spregèvoli servi; o, peggio ancora, d'uomo che, feroce e vigliacco, fà piànger colèi che lo adora. E qui ricordo un mio condiscèpolo d'università, del quale si era pazzamente innamorata una fanciulla buona e bella. Di quale plebèo combustìbile si alimèntano molte volte le pure fiamme di una ragazza, è strano! in bocca di quali gattacci vàdano spesso a finire tante canarine graziose, è deplorèvole! Aveva egli una di quelle faccie convenzionali di bel-giòvine che vèggonsi sui giornali dei sarti. Nè l'animaccia, che, come il sale, impedìvagli di completamente marcire, disaccordàvasi dall'aspetto. Costùi, sempre in ammirazione di sè medèsimo - e tenèasi addosso, pensa! uno specchietto in cui si mirava di tratto in tratto scimmiescamente - riceveva, spesso, lèttere della pòvera bimba e, tra lo sprezzante e il vanesio, me le mostrava. Certamente, non èrano testi di lingua: a scuola non avrèbbero, forse, neppur riportato i punti occorrenti alla promozione, tuttavìa spiràvano tale una ingenua e profonda passione che, leggèndole io, mentr'egli, il furfante, sogghignava arricciàndosi i baffi, mi sentivo commosso di tenerezza per la innocente fanciulla e d'ira per l'indegnìssima càusa delle sue afflizioni. E allora, per una magnètica trasposizione di sentimenti, mi sembrava che tutte le lèttere che io leggeva di lei, fòssero, non a lui, ma veramente dirette a mè che le meritavo, e godevo delle loro espressioni come se fòssero a mè dedicate. Non solo: ma componevo le più amorose risposte, le ricopiavo sulla carta più fina e le mettevo in... pila. È un epistolario, come altri cèlebri, in cui la posta nulla ha che vedere e che potrebbe, quandochessìa, èsser dato alle stampe senza perìcolo di rossori mièi od altrùi. Un giorno, mi venne poi fatto - ned era così diffìcile, poichè il mio condiscèpolo piacèvasi di dimenticar dappertutto i documenti della sua vanità - d'impossessarmi di una lèttera di quel cuore malcapitato. Per lungo tempo, essa mi fu soave compagna: la recavo con mè nelle passeggiate: la miravo talvolta con le pupille annuvolate di làgrime e ne baciavo con religione d'amore la firma: quando poi, coricàndomi, l'avevo nascosta sotto il guanciale, mi pareva di giacere men solo. Oh fanciulla non vista mai nè a mè nota, che ti disperavi di non èsser riamata, quanto invece lo fosti! Se nelle regioni spirìtiche, se nel mondo della quarta dimensione, c'incontreremo, come impalliderài di giojosa sorpresa, trovando negli occhi mièi le mille dichiarazioni d'amore da tè sognate, quelle dichiarazioni, che tante volte ti ho dette e tu non udisti, che tante volte ti ho scritto e tu non leggesti!

Pronto invece fui sempre, come Ovidio, a favorire gli amori altrùi. Abitavo - molti anni son corsi - un pìccolo alloggio, in una via fuori di mano e tranquilla, tutta giardini e conventi. Di tempo in tempo, un amicìssimo mio me la chiedeva in prestanza per un segreto convegno - con chi non diceva - ma dal suo occhio sereno capivo trattarsi di ben differenti cospirazioni delle polìtiche, ed il silenzio di lui èrane prova. E allora abbigliavo a festa la mia casetta, come se la sponsa de Lìbano dovesse scèndere a mè, non a lui; cancellavo dagli specchi ogni mìnima appannatura e dai mòbili ogni velo di pòlvere; stendevo i lini più mòrbidi e i tappeti più sòffici, non lasciando càlice senza fiore, nè fiala senz'essenza odorosa nè cuscinetto senza spilli: disponevo perfino sui tàvoli libri di gentilezza, e sul leggìo del pianoforte pàgine musicali, dirèi amorose se tutta la mùsica non fosse voce, anche nell'ira, d'amore. Rientrando poi, a notte alta, in casa, benchè l'àngiolo nel suo passaggio non vi avesse piuma perduto, sentivo cullarsi nell'aria una sottile fragranza come di violette fiorite in ajuole celesti, e negli specchi mi pareva sorprèndere ancora il riflesso di una forma di cherubino; e, quella notte, il letto mi si cangiava, tra i sogni, in càndide braccia femminee. Sovratutto gioivo, allorchè qualche fiore, di quelli che avevo io colto e apprestato, mancava, imaginàndomelo ne' suòi capelli. Una volta, per contro, ne trovài uno di più - posato sulla "Divina comedia", e precisamente ai versi "amore - acceso di virtù sempr'altri accese, - purchè la fiamma sua paresse fuore", un incoraggiamento e un consiglio. E con riconoscente tremore me lo avvicinài alle labbra, come se offèrtomi, e lo baciài. Molti anni - ripeto - son corsi. Il mio amico dimenticò interamente questo episodio della sua vita. Io serbo tuttora, nella tomba immortale dove fu posto, quel fiore e con esso il ricordo di un anònimo amore che ogni dì più và facèndosi mio.

Un'altra volta, un altro amico mi pregò di dargli una mano in un incontro ch'egli desiderava di avere con una giòvine da lui amata e lontana. Il mio amico reggeva, in una borgata pettègola, un pùbblico uffìcio che non gli avrebbe permesso di accògliere in casa ragazze sole senza esporsi a commenti infiniti. La giòvine, che io non conoscevo neppur di veduta, dovèa figurar, quindi, come sorella mia e tutti e due passare per nipoti suòi. Io mi sarei recato a ricèverla sulla riva di un lago, distante poche ore dalla borgata, e gliela avrèi condotta. Per riconòscerci, era inteso che la giòvine, nello sbarcare, terrebbe in mano un volumetto dalla verde rilegatura e che io me le sarèi presentato con un garòfano rosso all'occhiello.

Mi recài dunque, nel giorno e nell'ora posta, all'indicato luogo ed ivi aspettài la mia improvvisata parente. Il piròscafo apparve (oh come il cuore mi palpitò quand'esso riunissi alla riva!) e tra i passeggeri che ne discèsero, vidi la giòvine col volumetto verde - una magrolina ventenne, tutta sola, che intorno guardàvasi miopemente, cercando, essa pure, qualcuno. A lei mi avvicinài arrossendo, e anch'essa arrossì. Una carrozzella attendeva lì presso. Ella vi montò su, svelta, da un predellino, io dall'altro, e la carrozzella si mosse.

Era ben naturale che nei primi momenti ci si sentisse assài imbarazzati. Ambedùe ci vedevamo in una posizione delicatissima, dubitando e temendo ciascuno di parere all'altro quello che veramente non era. Io studiavo sott'occhio l'aspetto della mia compagna. Ella era tutta modestia, nell'àbito, nell'atteggiamento, nel viso - un viso che io avrèi definito: un complesso simpàtico di difetti. Per interròmpere un silenzio che cominciava a farsi uggioso, le domandài quale fosse il nome del libro che teneva fra mani... - nè come ella si nominasse sapevo ancora.

Ella, confusa, mi disse invece il suo - Adele -, e mel disse con una melodiosa oscillazione di voce: poi, accòrtasi, mentre mi rispondeva, della domanda che fatta gli avevo, mi porse, arrossendo, il libro.

Era questo un poema in versi, breve di mole, denso di affetto, "Enoch Arden" di Tènnyson, un di que'libri la cui lettura è per l'ànimo come un bagno di bontà. Io espressi le mie simpatìe pel generoso poeta ed ella si unì a mè nella lode. Avviato il discorso sulla carreggiata della letteratura, scopersi presto in Adele, non solo una leggitrice insaziàbile ed un finìssimo crìtico, ma - quanto più mi fu caro - un'alleata nelle mie letterarie adorazioni. Comunanza di amicizie è di amicizia cagione. Frequentatori ambedùe di casa Shakspeare, casa Montaigne, casa Lamb, Rìchter, Manzoni e altrettali, non potevamo più considerarci, reciprocamente, forastieri.

Passava la strada fra vigneti gravi di porpuree uve e sparsi di vendemmiatori. Adele uscì in una esclamazione ammirativa e desiderosa. Feci fermare la carrozzella, e comprammo dai vignajuoli una grembialata di gràppoli. Steso quindi un giornale sulle mie e sulle ginocchia di lei e ammucchiàtavi l'uva, ci mettemmo deliziosamente a mangiarla, spiccando gli àcini dallo stesso gràppolo e insieme cianciando e ridendo all'ombra delle vaste impassìbili spalle del vetturino.

E più Adele parlava ed io miràvala e più mi sembrava che le sue cento bruttezze minùscole si fondèssero in una sola e grande bellezza, quella della intelligente bontà: la sua medèsima miopìa, che dapprincipio parèami fastidiosa, conferiva al suo viso una espressione tutta speciale di attentività, gratìssima a chi la guardava e parlàvale. All'imbarazzo era insomma sottentrato una vera famigliarità e la parte di stretti parenti, stàtaci imposta, ci diventava sempre più fàcile.

Ma, ad un tratto, il battuto della piana strada di campagna cede' all'acciottolato fracassoso e trabalzatore di una città.

- Siamo giunti! - dissi.

- Di già! - esclamò ella in tuon di rammàrico, e taque.

La carrozzella si arrestò ad una bianca casetta. Il mio amico, un giovinottone acceso di colorito e baffuto, era sul marciapiede ad attènderci. Si fe' al predellino ed ajutò a scèndere Adele, o a meglio dire, la trasportò giù come un cuscino di penne. "Come state, carìssimi nipoti mièi?" - vociava egli a noi o piuttosto ai vicini affacciati a tutte le porte e finestre - "spero bene che questa volta non mi scapperete via sì presto!" - E in casa ci trasse, sollevàndoci quasi di terra, uno per braccio.

Verso sera, mi congedài da lui e... da lei. Ella mi accompagnò fino all'albergo dove il vetturino era andato a staccare e donde sarèi ripartito - solo - con esso. Gli occhi di Adele èrano ùmidi e tristi, e anche i mièi. Non mai fratello fu salutato con affetto più intenso, non mai sorella lasciata con maggiore dolore.

 

[ SEMPRE IN TERRA ]

Tea

In procinto di riallargare le ali, mezzo impacciate di terra, per ritentare la via dei cieli, mi si attacca alla punta di una un pìccolo èssere abbigliato da cagnolina, che facendo lingua degli occhi e della coda par dica: non mi scordare. E come lo potrèi, Tea mia? come oserèi, scrivendo di amori, non citare il tuo nome, non fare anche a tè, cui debbo tanto, una carezza di carta?

Chiunque, sia egli il più scellerato, il più duro, il più odiato tra gli uòmini, ha vitale bisogno di voler bene a qualcuno, a qualchecosa. Finchè a tè fan corona le bionde chiome de' tuòi figliuoletti e le nere della tua sposa alternate coi grigi capelli de' tuòi genitori ed i bianchi de' nonni, e sulla tàvola vostra il cibo sùpera l'appetito, nè il notajo vi si presenta se non per rogare contratti di nozze, il prete per benedire neonati, il mèdico per brindeggiare alla salute di tutti, è probàbile che l'umanità a quattro gambe o con ali o con pinne non desti in tè più di quel senso di generale benevolenza che un cuor contento non può non sentire per ogni cosa animata. Ma avvenga che que' capelli non ti sieno più se non recise memorie, che nessun braccio più attenda il sostegno del tuo od il tuo speri quello degli altri, avvenga che degli opimi banchetti più non ti avanzi neppure la tàvola e col cuoco ti abbian fuggito amici e clienti e favor pùbblico, avvenga in una parola che tutte le maledizioni dell'Èrebo sìeno scoppiate sulla innocente tua testa, che, a tè, tradito persino dalla Illusione e dalla Speranza - le due meno incerte amiche dell'uomo - ti si affacci, la prima volta, il terrore della solitùdine, oh allora sentirài quale onda di riconoscenza, di amore, di gioja sorgerà nel tuo petto all'apparizione di un ùmile cane che cerchi le tue carezze, come a dire "io ti resto". Peggiori ancora il tuo stato: dell'ampio universo non ti si concèdano che pochi metri quadrati di prigione; sia tu privo del volto persino de' tuoi carcerieri - e allora al minùscolo topo che avresti, a piena dispensa, tranquillamente cibato... di veleno, offrirài grato il pan nero a tè scarso, e allora trarrài pur dalla compagnìa di un ragno, di cui tanti schiacciasti colle piatte pantòfole, consolazioni che, uguali, non ti dièdero mai gli amici scomparsi.

Qual meraviglia dunque, se, in una vita, come la mia, pressochè tutta da chiostro e da càrcere - una vita da Ròbinson Crusoe senza Venerdì - le bestie (tra le quali io mi comprendo ben volentieri) àbbiano avuto una parte non indifferente? Prima ancora che giungessi a scoprire di che affetti sono esse capaci, è attraverso le bestie che mi fu facile di studiar l'uomo e me stesso. In quella maniera, di fatti, che per tentar di risòlvere i problemi del mondo esteriore occorre anzitutto osservarli nelle loro espressioni più sèmplici, così, per formarci una giusta idèa del mondo interiore, dei sentimenti che lo govèrnano, delle passioni che lo contùrbano, d'uopo sarà analizzare gli organismi intellettualmente men complicati. Cento virtù, mille vizi ha in sè medèsimo ogni uomo, virtù e vizi che s'intrècciano, si confòndono, si neutralìzzano reciprocamente, e rèndono malagèvole e quasi impossìbile la sìngola lor percezione: nella bestia invece (questo anagramma dell'uomo, come fu definita) trovi l'umana natura lìbera dalle sofisticazioni della civiltà, dagli artifici della educazione: una sola qualità buona o cattiva dòmina in ciascuna lor progenie: non vi sono le altre che semplicemente accennate, come i denti del giudizio in noi. Fàcile ei quindi - ripeto - di rilevare e studiare le caratteristiche della qualità dominante.

Oh a quante idèe, nella cui òrbita, filòsofi, economisti, polìtici non rièscono spesso di lusingarci, voi, bestie, praticamente ci persuadete. Uno fra i temi favoriti dagli scrittori di socialismo è quello del godimento in comune delle ricchezze, del boccone che tocchi a ciascuno in eguale misura: senonchè, pur ammirando il generoso propòsito, fieri dubbi pòssono sòrgere in voi, come sòrsero in mè, sulla permanente applicabilità sua. Orbene, egli basta che voi passiate vicino, come io passài, ad un mucchio d'immondezza sovra il quale cani, gatti, topi, banchèttino insieme senza litigi e senza alcun desiderio di assaggiarsi l'un l'altro, e tosto l'idèa della universa comunione dei beni vi sembrerà piana ed attuàbile. Medesimamente; corazzàtevi pure di tutto il ricettario di Sèneca per non temere la morte e di Tomaso a Kèmpis per spregiare la vita, quando la morte vi chiamerà, voi tremerete entro la vostra corazza: possiate invece in quel punto ricordar solo il pacìfico velarsi degli occhi nella eternità di un ùmile gatto, di un mìnimo augelletto, e tranquillamente uscirete di vita, come si esce di casa, senza bisogno di filosofìa e teologìa. Dignità e pazienza, indipendenza e coraggio, risparmio e self-help, tutte insomma le virtù imaginabili, noi le possiamo conòscere e apprèndere nella loro purezza, assai più che nei libri degli uòmini in un pràtico corso di zoologìa morale.

Di tutte le bestie, però, quella che io preferisco, dopo la donna, è il cane. L'àquila che, con le ali aperte e gli occhi ardenti, piomba dal cielo, il leone dalla faccia gigantescamente umana e dall'incesso maestoso, il tigre che flessuoso ed armato sta per lanciarsi sulla preda, sùscitano, è vero, una estètica ammirazione, pur sarà sempre prudente di mantenere fra essi e noi una buona inferriata. Ben volentieri si palpa il collo superbo del cavallo e con interesse si guarda il meditabondo occhio del bove e la filosòfica fronte dell'asino, ma il troppo volume dell'individuo da amarsi è di ostàcolo all'intimità dell'affetto. Solo gli uccellini ed i gatti potrèbbero compètere coi cani nelle nostre affezioni. Senonchè, per gli augelli, esiste al rovescio l'ostàcolo che abbiamo rispetto alla bestie maggiori di noi - son troppo pìccoli; e quanto ai loro destinatari... Quanto ai gatti, cioè, ben concedo che essi possièdono una qualità nobilìssima di cui il cane difetta, l'amore della indipendenza. Pur se si lòdano le virtù, mal si soppòrtano i virtuosi, tanto più trattàndosi di virtù - come questa - che offende noi altri padroni. Perciò preferisco - ripeto - i cani.

Nè dimenticherò mai Tea. Era Tea una cagnolina quasi tascabile di schiatta terragnola, a chiazze bianche, nere e castagne, bastardetta anzichè nò - ma quale più nobile schiatta non ha in sè del bastardo? In compenso, possedeva coda ed orecchie intatte e sapeva con esse esprìmersi più chiaramente che non noi, verso lei, colla voce. Tea mi era stata donata già grandicella, e nel suo stato di servizio contava parecchi fatti ammirèvoli, tra i quali la pacificazione di una famiglia. Perocchè in questa famiglia, composta di tre ricche ed oziose quindi nojate persone, scoppiàvano quotidianamente, prima che Tea vi comparisse, grosse liti. A ciò sceglièvasi solitamente l'ora dei pasti. Avèa ciascuno il suo sacchetto di bile a vuotare: la signora garriva aspra il marito: il padre rimproverava a torto e a ragione il figlio: quest'ùltimo rispondeva villanamente a tutti e due. Rado il giorno, in cui si arrivasse alle frutta senza aver rotto un pajo di piatti e di bicchieri o rovesciata qualche sedia. Senonchè il nero musetto, appena nato, di Tea, apparì, luminoso, in siffatta casa. Que' tre strumenti di capi, che non potèvano mai accordarsi in nessun tuono e motivo, trovàronsi, per la prima volta, all'unìsono nel far festa alla nuova venuta. Ed essa, a festeggiar loro. Tea divenne, in breve, la più grande, l'ùnica preoccupazione dei suoi tre padroni, lo scopo dei loro discorsi, la messaggera delle loro carezze, la particella congiuntiva degli ànimi loro - i quali, così occupati senza interruzione di lei, dimenticàvano presto e completamente sè stessi. E, dov'era guerra, fu pace.

L'intelligente affettuosità di Tea avrebbe potuto suggerire non poche pàgine d'appendice al plutarchiano opuscolo de solàtio animalium. Quand'io rincasavo, ella sùbito indovinava, mentre la fantesca non si addava di nulla, il mio umore; e, se gajo, ballàvami intorno la più allegra accoglienza: se melancònico, andava a raggomitolarsi in un àngolo del canapè e mi fisava con certi furbi e lùcidi occhietti, che parèvano àcini d'uva nera, finchè non mi avesse cavato un sorriso d'invito che me la faceva balzare sulle ginocchia. Sempre vispa e contenta, del resto, perfino ne' suòi ùltimi istanti, allorchè con l'àrida e stanca lingua, lambìvami ancora la mano, non si querelava e piangeva che al suono vespertino delle campane. Ed era un lamento lungo, ineffàbile. La Tea doveva esser l'ànima di una monachella morta d'amore.

Oh quanti buoni consigli Tea mi diede che non seguìi. Fu un'estate in cui avevo preso abitùdine di recarmi di buon mattino ai giardini pùbblici, e là sedermi con un libro su'na panchetta, mentre la mia pìccola amica col suo musetto studiava, tra la pròssima erba, botànica. Ora, di rimpetto a mè, di là dall'allèa, non sò se per caso suo o mio, si metteva sempre a sedere su un'altra panchetta o già si trovava seduta una signora modestamente elegante e bella, pur con un libro. Ella leggeva ed anch'io, ma i nostri sguardi s'incontràvano spesso di sopra le pàgine. Tea non tardò ad accòrgersi delle nostre simpatìe, e fece quanto avrèi dovuto fare io: attraversò l'allèa e si fermò dinanzi alla graziosa signora, con un'amichevole aria d'interrogazione tra chi domandi e chi offra. La signora la chiamò a sè sottovoce. Tea non si fece pregare. Raccolta carezzosamente da terra, si acchiocciolò tutta contenta nel nuovo grembo, come in casa sua, volgèndomi una guardatina, come a dire: impara o sciocco. Ma io non mi mossi. Allora Tea saltò giù con una scosserella dalla invidiàbil nicchiuccia e corse a me, piroettàndomi intorno, abbajando, tiràndomi per i calzoni, finchè io mi alzài, ed andài... via. E questa pantomima a tre attori si ripetè suppergiù il dì successivo e parecchi dì appresso. Finalmente un mattino, in cui dopo molti sì e nò, conchiusi, secondo il mio sòlito, con un getto di dadi, avevo risoluto di osare, la graziosa signora mancò allo spontaneo convegno. Nè più apparve. Moderata aspettazione - come lieve soffio - infiamma il desiderio, troppo - come buffo violento - lo spegne. Tea aveva fatto quanto poteva per ajutarci, ma il suo padroncino era nato per arrivar, sempre ed in tutto, un momento dopo. In qualsiasi amore vi ha un quarto d'ora, in cui la vittoria è fàcile e certa. Guai a colùi o a colèi che non ne approfittano. Quel quarto d'ora non torna più.

Grazie, o Tea, de' tuòi savi consigli, quantunque, per colpa mia, inùtili. Grazie delle tante volte che col tuo vezzeggiare, colle smorfiuccie, colla sola presenza, cangiasti in un sorriso il greppo delle mie labbra. Sempre mite, obediente, paziente, riempisti d'affetto - come treggèa in una scàtola di grossi dolci - gli interstizi tra un mio amore e l'altro, cosicchè posso dire che, mercè tua, durante alcuni anni, sul mio cuore non pendè mai l'est locanda. E oggi ancora, dall'alto della libreria, che di faccia mi stà mentre scrivo, tu bianco-nera, imbalsamata mia amica, col tuo zampino anteriore levato, le orecchie tese, il codino all'insù, mi proteggi, e col tuo sguardo di nero cristallo fra punti di sopragitto, sembri dirmi: ti amo.

Oh, a te credo.

DI NUOVO AL CIELO.

Antonietta

Avèa diciasettanni, si chiamava Antonietta, era bella, era buona, e morì. Dìcono fosse consunta da un amore profondo che non volle mai palesare. Così, tra una faràggine di parole, e nel rassettarmi la càmera, mi raccontò la portiera, la mattina stessa in cui Antonietta era stata portata via.

La ragazza abitava all'ùltimo piano della casa dov'io studentescamente avevo alloggio. Viveva, insieme alla madre, vèdova di un impiegato, colla scarsa pensione di questa, e più col lavoro delle sue dita di cucitrice. Io non le avevo parlato mai: solo mi ricordavo di avere, qualche rara volta, incontrato sulle scale o sotto il portone, un viso pàllido e ovale, dagli occhi bassi e cerchiati di lividure, che dovèa èssere il suo. Ebbene; all'annuncio che ella era partita per non più ritornare, un affanno mi strinse, come se si trattasse di sventura mia. Quasi afferrato pel braccio e strappato da una mano invisìbile, uscìi sul ripiano, scesi le scale, ancor di rosa e di cera odoranti, e m'incamminài verso la città della morte.

E là giunto (non so qual senso più sottile degli altri cinque facèssemi certo della via) tenni diritto a un gran prato trafitto di croci, dov'era un pìccolo spazio e sovr'esso fresche corone di fiori. Sarèbbesi detto, dinanzi quel rigonfiamento di suolo, che la terra si sollevasse per non sciupare il virgineo corpo che le dormiva sotto, e quasi stesse per schiùdersi a ritornarlo al sole. Ivi sostài, guardando gli oziosi fiori uniti in corone, che, ad uno ad uno, avrèbber destato altrettanti sorrisi nella fanciulla ancor viva, e mi sentìi nella conchiglia degli occhi nàscer la perla del dolore. Sventurata Antonietta! Di tutte le povertà, la più tormentosa è quella d'amore. Io ti vedevo, chinata la sofferente testina sul telajo del ricamo o il tòmbolo del merletto, le pupille ammaccate da un lavor senza tregua e dal pianto, sempre aspettando sulla fossarella del collo il bacio che ti avrebbe fatto felice e guarita. Ma nulla, nulla mai, ed anche la speme - sogno di chi veglia - si dilegua da tè. Solo dura la malinconìa, quel verme in un bottone di rosa, roditrice delle tue gote, del seno, del cuore, nè più ti manca, per èssere morta completamente, che di serrar le palpebre.

Senonchè, quì mi sorse il pensiero, insinuante, insistente, che io, io stesso, l'avrèi potuta salvare, con una parola, con uno sguardo d'affetto. E chi sa mai che l'ànimo suo non si trovasse già schiuso a ricèvere il mio, che, anzi, Antonietta segretamente non mi amasse? Fosse ciò stato, il non èssermi io accorto di lei, era, più che una disgrazia per tutti e due, un torto non perdonàbile in mè. E di fantasìa in fantasìa, avvolgèndomi nei labirinti della lògica sentimentale, la quale ha règole affatto al rovescio dell'altra, finìi col persuadermi che tutte le imaginazioni mie non fòssero che realtà, a ravvisarmi quasi colpèvole della immatura morte di lei, a soffrire, in ogni suo aculeo, quel tormento del galantuomo, che è il rimorso.

Insomma, capitò a mè quello che avvenne, quattrocento e più anni fà, a Lorenzo de' Mèdici, quando vide portata, scoperta, alla sepoltura la salma di Simonetta Cattaneo "che avèa nella morte superato quella bellezza che in lei viva pareva insuperàbile", m'innamorài della gentil trapassata. Di questa mia nuova passione la nota fondamentale fu il dolore. In nessun'altra època scialaquài tante làgrime come in questa. Forse in mè già celàvasi un'anònima ambascia, cosicchè altro non feci che darle un nome - Antonietta. Ma il pianto non solamente è sollievo, è piacere. Recàvomi dunque, pressochè tutti i giorni, al camposanto, e là, innanzi al tùmulo della mia pòstuma amante, riandavo tutta una storia non avvenuta, da quando, sulle scale, ella avrebbe udito da mè la tanto aspettata parola a quando me la avrebbe ripetuta tra i baci: così m'imbevevo, qual carta sugante, m'inzuppavo, quale àrida spugna, di amorosa pietà, e tornato a casa, chiùsomi in càmera, singhiozzavo e piangevo fino al semi-deliquio. Se non mi guadagnài, in quell'època, una cardiopatìa, bisogna dir proprio o che il mio cuore fosse ben forte o il dolore ben tenue.

Col tempo, questa eròtica sofferenza per Antonietta si mitigò - non dico si cancellò, perocchè io mai non cedetti una sola delle mie illusioni - e passò ad agglomerarsi, colle molte altre, in quell'amor complessivo in cui si abbràcciano cose e persone; tuttavìa mi continuàrono a parte, e ancor dùrano, l'abitùdine e il gusto di passeggiare e pensare nelle campagne della messe umana falciata.

Silenziosa è la felicità, silenziosa è la morte. Luogo di pace e riposo fu sempre detto il cimitero, questo gran dormitorio della vita, e, certamente, a prima vista, par tale. Presso il ricco, il mìsero giace senza invidia, presso il mìsero il ricco senza paura. Marito e moglie àbitano la medèsima angusta arca sine querella; tòccano le ossa del debitore quelle del creditore: il mèdico vi ha raggiunto il cliente, e con l'uccisore si confonde l'ucciso. Senonchè, tendendo l'orecchio dell'ànimo, ti accorgi che tanta quiete e silenzio còprono un moto febbrile, un lavorìo instancàbile Anche quì, come nella vita, qualchecosa si attende, aspìrasi ad una meta e vi si industria, vi si sforza di pervenire. Sulla terra sono scopi l'amore, la ricchezza, il dominio, raramente raggiunti, non il sepolcro, a tutti aperto; sottoterra, i vinti dalla morte cèrcano risollevarsi, anticipando lo squillo delle trombe divine, e lavòrano indefessamente per dissòlversi e spàrgersi nelle innumerèvoli vie della terra e de' cieli e conquistar nuove forme. In questa pugna ostinata, in questa vita di putrefazioni, i pòveri si tròvano sempre più favoriti dei ricchi, poichè non dèbbon lottare che con sè stessi: gli amici, i parenti, hanno lor fatta la carità di non vestirli neppure di abete. Ai ricchi, invece, gli eredi, i quali tèmono le risurrezioni, dònan lenzuola di piombo, mura granìtiche, bronzee porte... oh pòveri ricchi! Di tutti, però, il più sventurato, il più lagrimando, è sempre il sovrano, che, cangiato in mummia grottesca, è costretto a restar morto per sècoli, inutilmente invocante pietosi violatori alla regia sua tomba, troppo ben custodita.

Quand'oggi entro in un cimitero, mi par d'èsservi accolto da un immenso gèmito. Quel passato che cerca affannosamente di prepararsi un avvenire, sembra raccomandarsi a noi - ùnico suo presente - e supplicarci perchè la terra gli sia davvero, come noi usiamo augurargli, fàcile e pervia. Il mio sguardo passa di pietra in pietra, di croce in croce, ed ogni ricordo di un tènero bambù spezzato ha un sospiro da mè. E penso ai tanti disavventurati, tornati al comune crogiuolo, senza aver veduto fiorire, nel loro giardino, le due più belle rose dell'esistenza, l'amicizia e l'amore. Più avanzo negli anni e più la voce "che dal tùmulo a noi manda Natura" ha conosciute e care note per mè. Lungo il fiume della memoria, dalla sponda buja (quella della vita), scorgo sull'altra sponda (la luminosa, ossìa della morte) sempre più aumentarsi i volti amici, che intorno a mè van mancando. Ed io ed essi scambiamo sorrisi e saluti e baci dall'una all'altra riva.

E, dalla riva in luce, mi sorride Tranquillo Cremona, il pittore della bellezza casta, le cui tele, dense di sole e d'amore, sèmbrano, non fatte ma create; il mio Tranquillo dal genioso epigramma e dalla sapiente spensieratezza, insostituìbile amico.

E, presso a lui, è Pàolo Gorini di tanti pìccoli mondi e di sì gran pensamenti suscitatore. Più non crèscono le sue montagnuole, or selvose di minerbina, sono spenti i suòi vulcanetti, perocchè sovr'essi più non si china la bianca barba e la fronte affollata d'idèe e la pupilla ùmida di bontà del lor Creatore. Ma le fiamme del nostro affetto per Pàolo sàlgono sempre più alte e vivaci, e sempre il monte più cresce della ammirazione nostra e di tutti per lui.

E, tra Gorini e Cremona, tra la scienza e l'arte, un altro esploratore glorioso degli intellettuali dominii dell'avvenire mi guarda benignamente. Grazie, o Giuseppe Rovani, maestro mio, scrittore e dicitore magnìfico di cose degne a dirsi ed a scrìversi - nato alle càttedre universitarie ed alle tribune de' parlamenti, eppure, dalla ignorante viltà de' tuòi concittadini costretto al tàvolo dell'amanuense ed alla panca della taberna! Ma tu, quale un dio, recavi dovunque il tuo tempio, e quel tempio ancor si erge e si ergerà eternamente, festoneggiato di fiori e fumante d'incenso, sulle nostre casùpole.

Amici mièi, e tu, ombra soave, con essi - madre mia - ho ben coraggio, credete, se, scorgèndovi di là del fiume, quì tuttavìa rimango in tènebre e in gelo, attendendo la zàttera del destino che a voi mi trasporti, e se ancor vinco la smania di gettarmi nel gorgo per raggiùngere a nuoto la riva donde voi mi accennate - riva primaverilmente verde e fiorita, e soleggiata d'amore.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 21.58

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