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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

La Divina Commedia

di: Dante Alighieri

PURGATORIO

[Canto XXV] [Canto XXVI] [Canto XXVII] [Canto XXVIII]

 [Canto XXIX] [Canto XXX] [Canto XXXI]

[Canto XXXII] [Canto XXXIII]

Canto XXV

 Ora era onde 'l salir non volea storpio;

ché 'l sole avea il cerchio di merigge

lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:

per che, come fa l'uom che non s'affigge

ma vassi a la via sua, che che li appaia,

se di bisogno stimolo il trafigge,

così intrammo noi per la callaia,

uno innanzi altro prendendo la scala

che per artezza i salitor dispaia.

E quale il cicognin che leva l'ala

per voglia di volare, e non s'attenta

d'abbandonar lo nido, e giù la cala;

tal era io con voglia accesa e spenta

di dimandar, venendo infino a l'atto

che fa colui ch'a dicer s'argomenta.

Non lasciò, per l'andar che fosse ratto,

lo dolce padre mio, ma disse: "Scocca

l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto".

Allor sicuramente apri' la bocca

e cominciai: "Come si può far magro

là dove l'uopo di nodrir non tocca?".

"Se t'ammentassi come Meleagro

si consumò al consumar d'un stizzo,

non fora", disse, "a te questo sì agro;

e se pensassi come, al vostro guizzo,

guizza dentro a lo specchio vostra image,

ciò che par duro ti parrebbe vizzo.

Ma perché dentro a tuo voler t'adage,

ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego

che sia or sanator de le tue piage".

"Se la veduta etterna li dislego",

rispuose Stazio, "là dove tu sie,

discolpi me non potert'io far nego".

Poi cominciò: "Se le parole mie,

figlio, la mente tua guarda e riceve,

lume ti fiero al come che tu die.

Sangue perfetto, che poi non si beve

da l'assetate vene, e si rimane

quasi alimento che di mensa leve,

prende nel core a tutte membra umane

virtute informativa, come quello

ch'a farsi quelle per le vene vane.

Ancor digesto, scende ov'è più bello

tacer che dire; e quindi poscia geme

sovr'altrui sangue in natural vasello.

Ivi s'accoglie l'uno e l'altro insieme,

l'un disposto a patire, e l'altro a fare

per lo perfetto loco onde si preme;

e, giunto lui, comincia ad operare

coagulando prima, e poi avviva

ciò che per sua matera fé constare.

Anima fatta la virtute attiva

qual d'una pianta, in tanto differente,

che questa è in via e quella è già a riva,

tanto ovra poi, che già si move e sente,

come spungo marino; e indi imprende

ad organar le posse ond'è semente.

Or si spiega, figliuolo, or si distende

la virtù ch'è dal cor del generante,

dove natura a tutte membra intende.

Ma come d'animal divegna fante,

non vedi tu ancor: quest'è tal punto,

che più savio di te fé già errante,

sì che per sua dottrina fé disgiunto

da l'anima il possibile intelletto,

perché da lui non vide organo assunto.

Apri a la verità che viene il petto;

e sappi che, sì tosto come al feto

l'articular del cerebro è perfetto,

lo motor primo a lui si volge lieto

sovra tant'arte di natura, e spira

spirito novo, di vertù repleto,

che ciò che trova attivo quivi, tira

in sua sustanzia, e fassi un'alma sola,

che vive e sente e sé in sé rigira.

E perché meno ammiri la parola,

guarda il calor del sole che si fa vino,

giunto a l'omor che de la vite cola.

Quando Lachesìs non ha più del lino,

solvesi da la carne, e in virtute

ne porta seco e l'umano e 'l divino:

l'altre potenze tutte quante mute;

memoria, intelligenza e volontade

in atto molto più che prima agute.

Sanza restarsi per sé stessa cade

mirabilmente a l'una de le rive;

quivi conosce prima le sue strade.

Tosto che loco lì la circunscrive,

la virtù formativa raggia intorno

così e quanto ne le membra vive.

E come l'aere, quand'è ben piorno,

per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,

di diversi color diventa addorno;

così l'aere vicin quivi si mette

in quella forma ch'è in lui suggella

virtualmente l'alma che ristette;

e simigliante poi a la fiammella

che segue il foco là 'vunque si muta,

segue lo spirto sua forma novella.

Però che quindi ha poscia sua paruta,

è chiamata ombra; e quindi organa poi

ciascun sentire infino a la veduta.

Quindi parliamo e quindi ridiam noi;

quindi facciam le lagrime e ' sospiri

che per lo monte aver sentiti puoi.

Secondo che ci affiggono i disiri

e li altri affetti, l'ombra si figura;

e quest'è la cagion di che tu miri".

E già venuto a l'ultima tortura

s'era per noi, e vòlto a la man destra,

ed eravamo attenti ad altra cura.

Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,

e la cornice spira fiato in suso

che la reflette e via da lei sequestra;

ond'ir ne convenia dal lato schiuso

ad uno ad uno; e io temea 'l foco

quinci, e quindi temeva cader giuso.

Lo duca mio dicea: "Per questo loco

si vuol tenere a li occhi stretto il freno,

però ch'errar potrebbesi per poco".

'Summae Deus clementiae' nel seno

al grande ardore allora udi' cantando,

che di volger mi fé caler non meno;

e vidi spirti per la fiamma andando;

per ch'io guardava a loro e a' miei passi

compartendo la vista a quando a quando.

Appresso il fine ch'a quell'inno fassi,

gridavano alto: 'Virum non cognosco';

indi ricominciavan l'inno bassi.

Finitolo, anco gridavano: "Al bosco

si tenne Diana, ed Elice caccionne

che di Venere avea sentito il tòsco".

Indi al cantar tornavano; indi donne

gridavano e mariti che fuor casti

come virtute e matrimonio imponne.

E questo modo credo che lor basti

per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:

con tal cura conviene e con tai pasti

che la piaga da sezzo si ricuscia.

 che la piaga da sezzo si ricuscia.

 che la piaga da sezzo si ricuscia.

 che la piaga da sezzo si ricuscia.

   

Canto XXVI

 Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro,

ce n'andavamo, e spesso il buon maestro

diceami: "Guarda: giovi ch'io ti scaltro";

feriami il sole in su l'omero destro,

che già, raggiando, tutto l'occidente

mutava in bianco aspetto di cilestro;

e io facea con l'ombra più rovente

parer la fiamma; e pur a tanto indizio

vidi molt'ombre, andando, poner mente.

Questa fu la cagion che diede inizio

loro a parlar di me; e cominciarsi

a dir: "Colui non par corpo fittizio";

poi verso me, quanto potean farsi,

certi si fero, sempre con riguardo

di non uscir dove non fosser arsi.

"O tu che vai, non per esser più tardo,

ma forse reverente, a li altri dopo,

rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.

Né solo a me la tua risposta è uopo;

ché tutti questi n'hanno maggior sete

che d'acqua fredda Indo o Etiopo.

Dinne com'è che fai di te parete

al sol, pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro da la rete".

Sì mi parlava un d'essi; e io mi fora

già manifesto, s'io non fossi atteso

ad altra novità ch'apparve allora;

ché per lo mezzo del cammino acceso

venne gente col viso incontro a questa,

la qual mi fece a rimirar sospeso.

Lì veggio d'ogni parte farsi presta

ciascun'ombra e basciarsi una con una

sanza restar, contente a brieve festa;

così per entro loro schiera bruna

s'ammusa l'una con l'altra formica,

forse a spiar lor via e lor fortuna.

Tosto che parton l'accoglienza amica,

prima che 'l primo passo lì trascorra,

sopragridar ciascuna s'affatica:

la nova gente: "Soddoma e Gomorra";

e l'altra: "Ne la vacca entra Pasife,

perché 'l torello a sua lussuria corra".

Poi, come grue ch'a le montagne Rife

volasser parte, e parte inver' l'arene,

queste del gel, quelle del sole schife,

l'una gente sen va, l'altra sen vene;

e tornan, lagrimando, a' primi canti

e al gridar che più lor si convene;

e raccostansi a me, come davanti,

essi medesmi che m'avean pregato,

attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.

Io, che due volte avea visto lor grato,

incominciai: "O anime sicure

d'aver, quando che sia, di pace stato,

non son rimase acerbe né mature

le membra mie di là, ma son qui meco

col sangue suo e con le sue giunture.

Quinci sù vo per non esser più cieco;

donna è di sopra che m'acquista grazia,

per che 'l mortal per vostro mondo reco.

Ma se la vostra maggior voglia sazia

tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi

ch'è pien d'amore e più ampio si spazia,

ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi,

chi siete voi, e chi è quella turba

che se ne va di retro a' vostri terghi".

Non altrimenti stupido si turba

lo montanaro, e rimirando ammuta,

quando rozzo e salvatico s'inurba,

che ciascun'ombra fece in sua paruta;

ma poi che furon di stupore scarche,

lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,

"Beato te, che de le nostre marche",

ricominciò colei che pria m'inchiese,

"per morir meglio, esperienza imbarche!

La gente che non vien con noi, offese

di ciò per che già Cesar, triunfando,

"Regina" contra sé chiamar s'intese:

però si parton 'Soddoma' gridando,

rimproverando a sé, com'hai udito,

e aiutan l'arsura vergognando.

Nostro peccato fu ermafrodito;

ma perché non servammo umana legge,

seguendo come bestie l'appetito,

in obbrobrio di noi, per noi si legge,

quando partinci, il nome di colei

che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.

Or sai nostri atti e di che fummo rei:

se forse a nome vuo' saper chi semo,

tempo non è di dire, e non saprei.

Farotti ben di me volere scemo:

son Guido Guinizzelli; e già mi purgo

per ben dolermi prima ch'a lo stremo".

Quali ne la tristizia di Ligurgo

si fer due figli a riveder la madre,

tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo,

quand'io odo nomar sé stesso il padre

mio e de li altri miei miglior che mai

rime d'amore usar dolci e leggiadre;

e sanza udire e dir pensoso andai

lunga fiata rimirando lui,

né, per lo foco, in là più m'appressai.

Poi che di riguardar pasciuto fui,

tutto m'offersi pronto al suo servigio

con l'affermar che fa credere altrui.

Ed elli a me: "Tu lasci tal vestigio,

per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,

che Leté nol può tòrre né far bigio.

Ma se le tue parole or ver giuraro,

dimmi che è cagion per che dimostri

nel dire e nel guardar d'avermi caro".

E io a lui: "Li dolci detti vostri,

che, quanto durerà l'uso moderno,

faranno cari ancora i loro incostri".

"O frate", disse, "questi ch'io ti cerno

col dito", e additò un spirto innanzi,

"fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d'amore e prose di romanzi

soverchiò tutti; e lascia dir li stolti

che quel di Lemosì credon ch'avanzi.

A voce più ch'al ver drizzan li volti,

e così ferman sua oppinione

prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.

Così fer molti antichi di Guittone,

di grido in grido pur lui dando pregio,

fin che l'ha vinto il ver con più persone.

Or se tu hai sì ampio privilegio,

che licito ti sia l'andare al chiostro

nel quale è Cristo abate del collegio,

falli per me un dir d'un paternostro,

quanto bisogna a noi di questo mondo,

dove poter peccar non è più nostro".

Poi, forse per dar luogo altrui secondo

che presso avea, disparve per lo foco,

come per l'acqua il pesce andando al fondo.

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,

e dissi ch'al suo nome il mio disire

apparecchiava grazioso loco.

El cominciò liberamente a dire:

"Tan m'abellis vostre cortes deman,

qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;

consiros vei la passada folor,

e vei jausen lo joi qu'esper, denan.

Ara vos prec, per aquella valor

que vos guida al som de l'escalina,

sovenha vos a temps de ma dolor!".

Poi s'ascose nel foco che li affina.

  

Canto XXVII

 Sì come quando i primi raggi vibra

là dove il suo fattor lo sangue sparse,

cadendo Ibero sotto l'alta Libra,

e l'onde in Gange da nona riarse,

sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva,

come l'angel di Dio lieto ci apparse.

Fuor de la fiamma stava in su la riva,

e cantava 'Beati mundo corde!'.

in voce assai più che la nostra viva.

Poscia "Più non si va, se pria non morde,

anime sante, il foco: intrate in esso,

e al cantar di là non siate sorde",

ci disse come noi li fummo presso;

per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,

qual è colui che ne la fossa è messo.

In su le man commesse mi protesi,

guardando il foco e imaginando forte

umani corpi già veduti accesi.

Volsersi verso me le buone scorte;

e Virgilio mi disse: "Figliuol mio,

qui può esser tormento, ma non morte.

Ricorditi, ricorditi! E se io

sovresso Gerion ti guidai salvo,

che farò ora presso più a Dio?

Credi per certo che se dentro a l'alvo

di questa fiamma stessi ben mille anni,

non ti potrebbe far d'un capel calvo.

E se tu forse credi ch'io t'inganni,

fatti ver lei, e fatti far credenza

con le tue mani al lembo d'i tuoi panni.

Pon giù omai, pon giù ogni temenza;

volgiti in qua e vieni: entra sicuro!".

E io pur fermo e contra coscienza.

Quando mi vide star pur fermo e duro,

turbato un poco disse: "Or vedi, figlio:

tra Beatrice e te è questo muro".

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio

Piramo in su la morte, e riguardolla,

allor che 'l gelso diventò vermiglio;

così, la mia durezza fatta solla,

mi volsi al savio duca, udendo il nome

che ne la mente sempre mi rampolla.

Ond'ei crollò la fronte e disse: "Come!

volenci star di qua?"; indi sorrise

come al fanciul si fa ch'è vinto al pome.

Poi dentro al foco innanzi mi si mise,

pregando Stazio che venisse retro,

che pria per lunga strada ci divise.

Sì com'fui dentro, in un bogliente vetro

gittato mi sarei per rinfrescarmi,

tant'era ivi lo 'ncendio sanza metro.

Lo dolce padre mio, per confortarmi,

pur di Beatrice ragionando andava,

dicendo: "Li occhi suoi già veder parmi".

Guidavaci una voce che cantava

di là; e noi, attenti pur a lei,

venimmo fuor là ove si montava.

'Venite, benedicti Patris mei',

sonò dentro a un lume che lì era,

tal che mi vinse e guardar nol potei.

"Lo sol sen va", soggiunse, "e vien la sera;

non v'arrestate, ma studiate il passo,

mentre che l'occidente non si annera".

Dritta salia la via per entro 'l sasso

verso tal parte ch'io toglieva i raggi

dinanzi a me del sol ch'era già basso.

E di pochi scaglion levammo i saggi,

che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense,

sentimmo dietro e io e li miei saggi.

E pria che 'n tutte le sue parti immense

fosse orizzonte fatto d'uno aspetto,

e notte avesse tutte sue dispense,

ciascun di noi d'un grado fece letto;

ché la natura del monte ci affranse

la possa del salir più e 'l diletto.

Quali si stanno ruminando manse

le capre, state rapide e proterve

sovra le cime avante che sien pranse,

tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve,

guardate dal pastor, che 'n su la verga

poggiato s'è e lor di posa serve;

e quale il mandrian che fori alberga,

lungo il pecuglio suo queto pernotta,

guardando perché fiera non lo sperga;

tali eravamo tutti e tre allotta,

io come capra, ed ei come pastori,

fasciati quinci e quindi d'alta grotta.

Poco parer potea lì del di fori;

ma, per quel poco, vedea io le stelle

di lor solere e più chiare e maggiori.

Sì ruminando e sì mirando in quelle,

mi prese il sonno; il sonno che sovente,

anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.

Ne l'ora, credo, che de l'oriente,

prima raggiò nel monte Citerea,

che di foco d'amor par sempre ardente,

giovane e bella in sogno mi parea

donna vedere andar per una landa

cogliendo fiori; e cantando dicea:

"Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda.

Per piacermi a lo specchio, qui m'addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga

dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ell'è d'i suoi belli occhi veder vaga

com'io de l'addornarmi con le mani;

lei lo vedere, e me l'ovrare appaga".

E già per li splendori antelucani,

che tanto a' pellegrin surgon più grati,

quanto, tornando, albergan men lontani,

le tenebre fuggian da tutti lati,

e 'l sonno mio con esse; ond'io leva'mi,

veggendo i gran maestri già levati.

"Quel dolce pome che per tanti rami

cercando va la cura de' mortali,

oggi porrà in pace le tue fami".

Virgilio inverso me queste cotali

parole usò; e mai non furo strenne

che fosser di piacere a queste iguali.

Tanto voler sopra voler mi venne

de l'esser sù, ch'ad ogni passo poi

al volo mi sentia crescer le penne.

Come la scala tutta sotto noi

fu corsa e fummo in su 'l grado superno,

in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

e disse: "Il temporal foco e l'etterno

veduto hai, figlio; e se' venuto in parte

dov'io per me più oltre non discerno.

Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce;

fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.

Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce;

vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli

che qui la terra sol da sé produce.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli

che, lagrimando, a te venir mi fenno,

seder ti puoi e puoi andar tra elli.

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch'io te sovra te corono e mitrio".

  

Canto XXVIII

 Vago già di cercar dentro e dintorno

la divina foresta spessa e viva,

ch'a li occhi temperava il novo giorno,

sanza più aspettar, lasciai la riva,

prendendo la campagna lento lento

su per lo suol che d'ogni parte auliva.

Un'aura dolce, sanza mutamento

avere in sé, mi feria per la fronte

non di più colpo che soave vento;

per cui le fronde, tremolando, pronte

tutte quante piegavano a la parte

u' la prim'ombra gitta il santo monte;

non però dal loro esser dritto sparte

tanto, che li augelletti per le cime

lasciasser d'operare ogni lor arte;

ma con piena letizia l'ore prime,

cantando, ricevieno intra le foglie,

che tenevan bordone a le sue rime,

tal qual di ramo in ramo si raccoglie

per la pineta in su 'l lito di Chiassi,

quand'Eolo scilocco fuor discioglie.

Già m'avean trasportato i lenti passi

dentro a la selva antica tanto, ch'io

non potea rivedere ond'io mi 'ntrassi;

ed ecco più andar mi tolse un rio,

che 'nver' sinistra con sue picciole onde

piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo.

Tutte l'acque che son di qua più monde,

parrieno avere in sé mistura alcuna,

verso di quella, che nulla nasconde,

avvegna che si mova bruna bruna

sotto l'ombra perpetua, che mai

raggiar non lascia sole ivi né luna.

Coi piè ristretti e con li occhi passai

di là dal fiumicello, per mirare

la gran variazion d'i freschi mai;

e là m'apparve, sì com'elli appare

subitamente cosa che disvia

per maraviglia tutto altro pensare,

una donna soletta che si gia

e cantando e scegliendo fior da fiore

ond'era pinta tutta la sua via.

"Deh, bella donna, che a' raggi d'amore

ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti

che soglion esser testimon del core,

vegnati in voglia di trarreti avanti",

diss'io a lei, "verso questa rivera,

tanto ch'io possa intender che tu canti.

Tu mi fai rimembrar dove e qual era

Proserpina nel tempo che perdette

la madre lei, ed ella primavera".

Come si volge, con le piante strette

a terra e intra sé, donna che balli,

e piede innanzi piede a pena mette,

volsesi in su i vermigli e in su i gialli

fioretti verso me, non altrimenti

che vergine che li occhi onesti avvalli;

e fece i prieghi miei esser contenti,

sì appressando sé, che 'l dolce suono

veniva a me co' suoi intendimenti.

Tosto che fu là dove l'erbe sono

bagnate già da l'onde del bel fiume,

di levar li occhi suoi mi fece dono.

Non credo che splendesse tanto lume

sotto le ciglia a Venere, trafitta

dal figlio fuor di tutto suo costume.

Ella ridea da l'altra riva dritta,

trattando più color con le sue mani,

che l'alta terra sanza seme gitta.

Tre passi ci facea il fiume lontani;

ma Elesponto, là 've passò Serse,

ancora freno a tutti orgogli umani,

più odio da Leandro non sofferse

per mareggiare intra Sesto e Abido,

che quel da me perch'allor non s'aperse.

"Voi siete nuovi, e forse perch'io rido",

cominciò ella, "in questo luogo eletto

a l'umana natura per suo nido,

maravigliando tienvi alcun sospetto;

ma luce rende il salmo Delectasti,

che puote disnebbiar vostro intelletto.

E tu che se' dinanzi e mi pregasti,

dì s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta

ad ogni tua question tanto che basti".

"L'acqua", diss'io, "e 'l suon de la foresta

impugnan dentro a me novella fede

di cosa ch'io udi' contraria a questa".

Ond'ella: "Io dicerò come procede

per sua cagion ciò ch'ammirar ti face,

e purgherò la nebbia che ti fiede.

Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,

fé l'uom buono e a bene, e questo loco

diede per arr'a lui d'etterna pace.

Per sua difalta qui dimorò poco;

per sua difalta in pianto e in affanno

cambiò onesto riso e dolce gioco.

Perché 'l turbar che sotto da sé fanno

l'essalazion de l'acqua e de la terra,

che quanto posson dietro al calor vanno,

a l'uomo non facesse alcuna guerra,

questo monte salìo verso 'l ciel tanto,

e libero n'è d'indi ove si serra.

Or perché in circuito tutto quanto

l'aere si volge con la prima volta,

se non li è rotto il cerchio d'alcun canto,

in questa altezza ch'è tutta disciolta

ne l'aere vivo, tal moto percuote,

e fa sonar la selva perch'è folta;

e la percossa pianta tanto puote,

che de la sua virtute l'aura impregna,

e quella poi, girando, intorno scuote;

e l'altra terra, secondo ch'è degna

per sé e per suo ciel, concepe e figlia

di diverse virtù diverse legna.

Non parrebbe di là poi maraviglia,

udito questo, quando alcuna pianta

sanza seme palese vi s'appiglia.

E saper dei che la campagna santa

dove tu se', d'ogni semenza è piena,

e frutto ha in sé che di là non si schianta.

L'acqua che vedi non surge di vena

che ristori vapor che gel converta,

come fiume ch'acquista e perde lena;

ma esce di fontana salda e certa,

che tanto dal voler di Dio riprende,

quant'ella versa da due parti aperta.

Da questa parte con virtù discende

che toglie altrui memoria del peccato;

da l'altra d'ogni ben fatto la rende.

Quinci Letè; così da l'altro lato

Eunoè si chiama, e non adopra

se quinci e quindi pria non è gustato:

a tutti altri sapori esto è di sopra.

E avvegna ch'assai possa esser sazia

la sete tua perch'io più non ti scuopra,

darotti un corollario ancor per grazia;

né credo che 'l mio dir ti sia men caro,

se oltre promession teco si spazia.

Quelli ch'anticamente poetaro

l'età de l'oro e suo stato felice,

forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente l'umana radice;

qui primavera sempre e ogni frutto;

nettare è questo di che ciascun dice".

Io mi rivolsi 'n dietro allora tutto

a' miei poeti, e vidi che con riso

udito avean l'ultimo costrutto;

poi a la bella donna torna' il viso.

  

Canto XXIX

 Cantando come donna innamorata,

continuò col fin di sue parole:

'Beati quorum tecta sunt peccata!'.

E come ninfe che si givan sole

per le salvatiche ombre, disiando

qual di veder, qual di fuggir lo sole,

allor si mosse contra 'l fiume, andando

su per la riva; e io pari di lei,

picciol passo con picciol seguitando.

Non eran cento tra ' suoi passi e ' miei,

quando le ripe igualmente dier volta,

per modo ch'a levante mi rendei.

Né ancor fu così nostra via molta,

quando la donna tutta a me si torse,

dicendo: "Frate mio, guarda e ascolta".

Ed ecco un lustro sùbito trascorse

da tutte parti per la gran foresta,

tal che di balenar mi mise in forse.

Ma perché 'l balenar, come vien, resta,

e quel, durando, più e più splendeva,

nel mio pensier dicea: 'Che cosa è questa?'.

E una melodia dolce correva

per l'aere luminoso; onde buon zelo

mi fé riprender l'ardimento d'Eva,

che là dove ubidia la terra e 'l cielo,

femmina, sola e pur testé formata,

non sofferse di star sotto alcun velo;

sotto 'l qual se divota fosse stata,

avrei quelle ineffabili delizie

sentite prima e più lunga fiata.

Mentr'io m'andava tra tante primizie

de l'etterno piacer tutto sospeso,

e disioso ancora a più letizie,

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,

ci si fé l'aere sotto i verdi rami;

e 'l dolce suon per canti era già inteso.

O sacrosante Vergini, se fami,

freddi o vigilie mai per voi soffersi,

cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami.

Or convien che Elicona per me versi,

e Uranìe m'aiuti col suo coro

forti cose a pensar mettere in versi.

Poco più oltre, sette alberi d'oro

falsava nel parere il lungo tratto

del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;

ma quand'i' fui sì presso di lor fatto,

che l'obietto comun, che 'l senso inganna,

non perdea per distanza alcun suo atto,

la virtù ch'a ragion discorso ammanna,

sì com'elli eran candelabri apprese,

e ne le voci del cantare 'Osanna'.

Di sopra fiammeggiava il bello arnese

più chiaro assai che luna per sereno

di mezza notte nel suo mezzo mese.

Io mi rivolsi d'ammirazion pieno

al buon Virgilio, ed esso mi rispuose

con vista carca di stupor non meno.

Indi rendei l'aspetto a l'alte cose

che si movieno incontr'a noi sì tardi,

che foran vinte da novelle spose.

La donna mi sgridò: "Perché pur ardi

sì ne l'affetto de le vive luci,

e ciò che vien di retro a lor non guardi?".

Genti vid'io allor, come a lor duci,

venire appresso, vestite di bianco;

e tal candor di qua già mai non fuci.

L'acqua imprendea dal sinistro fianco,

e rendea me la mia sinistra costa,

s'io riguardava in lei, come specchio anco.

Quand'io da la mia riva ebbi tal posta,

che solo il fiume mi facea distante,

per veder meglio ai passi diedi sosta,

e vidi le fiammelle andar davante,

lasciando dietro a sé l'aere dipinto,

e di tratti pennelli avean sembiante;

sì che lì sopra rimanea distinto

di sette liste, tutte in quei colori

onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.

Questi ostendali in dietro eran maggiori

che la mia vista; e, quanto a mio avviso,

diece passi distavan quei di fori.

Sotto così bel ciel com'io diviso,

ventiquattro seniori, a due a due,

coronati venien di fiordaliso.

Tutti cantavan: "Benedicta tue

ne le figlie d'Adamo, e benedette

sieno in etterno le bellezze tue!".

Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette

a rimpetto di me da l'altra sponda

libere fuor da quelle genti elette,

sì come luce luce in ciel seconda,

vennero appresso lor quattro animali,

coronati ciascun di verde fronda.

Ognuno era pennuto di sei ali;

le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo,

se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forme più non spargo

rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,

tanto ch'a questa non posso esser largo;

ma leggi Ezechiel, che li dipigne

come li vide da la fredda parte

venir con vento e con nube e con igne;

e quali i troverai ne le sue carte,

tali eran quivi, salvo ch'a le penne

Giovanni è meco e da lui si diparte.

Lo spazio dentro a lor quattro contenne

un carro, in su due rote, triunfale,

ch'al collo d'un grifon tirato venne.

Esso tendeva in sù l'una e l'altra ale

tra la mezzana e le tre e tre liste,

sì ch'a nulla, fendendo, facea male.

Tanto salivan che non eran viste;

le membra d'oro avea quant'era uccello,

e bianche l'altre, di vermiglio miste.

Non che Roma di carro così bello

rallegrasse Affricano, o vero Augusto,

ma quel del Sol saria pover con ello;

quel del Sol che, sviando, fu combusto

per l'orazion de la Terra devota,

quando fu Giove arcanamente giusto.

Tre donne in giro da la destra rota

venian danzando; l'una tanto rossa

ch'a pena fora dentro al foco nota;

l'altr'era come se le carni e l'ossa

fossero state di smeraldo fatte;

la terza parea neve testé mossa;

e or parean da la bianca tratte,

or da la rossa; e dal canto di questa

l'altre toglien l'andare e tarde e ratte.

Da la sinistra quattro facean festa,

in porpore vestite, dietro al modo

d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.

Appresso tutto il pertrattato nodo

vidi due vecchi in abito dispari,

ma pari in atto e onesto e sodo.

L'un si mostrava alcun de' famigliari

di quel sommo Ipocràte che natura

a li animali fé ch'ell'ha più cari;

mostrava l'altro la contraria cura

con una spada lucida e aguta,

tal che di qua dal rio mi fé paura.

Poi vidi quattro in umile paruta;

e di retro da tutti un vecchio solo

venir, dormendo, con la faccia arguta.

E questi sette col primaio stuolo

erano abituati, ma di gigli

dintorno al capo non facean brolo,

anzi di rose e d'altri fior vermigli;

giurato avria poco lontano aspetto

che tutti ardesser di sopra da' cigli.

E quando il carro a me fu a rimpetto,

un tuon s'udì, e quelle genti degne

parvero aver l'andar più interdetto,

fermandosi ivi con le prime insegne.

  

Canto XXX

 Quando il settentrion del primo cielo,

che né occaso mai seppe né orto

né d'altra nebbia che di colpa velo,

e che faceva lì ciascun accorto

di suo dover, come 'l più basso face

qual temon gira per venire a porto,

fermo s'affisse: la gente verace,

venuta prima tra 'l grifone ed esso,

al carro volse sé come a sua pace;

e un di loro, quasi da ciel messo,

'Veni, sponsa, de Libano' cantando

gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Quali i beati al novissimo bando

surgeran presti ognun di sua caverna,

la revestita voce alleluiando,

cotali in su la divina basterna

si levar cento, ad vocem tanti senis,

ministri e messaggier di vita etterna.

Tutti dicean: 'Benedictus qui venis!',

e fior gittando e di sopra e dintorno,

'Manibus, oh, date lilia plenis!'.

Io vidi già nel cominciar del giorno

la parte oriental tutta rosata,

e l'altro ciel di bel sereno addorno;

e la faccia del sol nascere ombrata,

sì che per temperanza di vapori

l'occhio la sostenea lunga fiata:

così dentro una nuvola di fiori

che da le mani angeliche saliva

e ricadeva in giù dentro e di fori,

sovra candido vel cinta d'uliva

donna m'apparve, sotto verde manto

vestita di color di fiamma viva.

E lo spirito mio, che già cotanto

tempo era stato ch'a la sua presenza

non era di stupor, tremando, affranto,

sanza de li occhi aver più conoscenza,

per occulta virtù che da lei mosse,

d'antico amor sentì la gran potenza.

Tosto che ne la vista mi percosse

l'alta virtù che già m'avea trafitto

prima ch'io fuor di puerizia fosse,

volsimi a la sinistra col respitto

col quale il fantolin corre a la mamma

quando ha paura o quando elli è afflitto,

per dicere a Virgilio: 'Men che dramma

di sangue m'è rimaso che non tremi:

conosco i segni de l'antica fiamma'.

Ma Virgilio n'avea lasciati scemi

di sé, Virgilio dolcissimo patre,

Virgilio a cui per mia salute die'mi;

né quantunque perdeo l'antica matre,

valse a le guance nette di rugiada,

che, lagrimando, non tornasser atre.

"Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non pianger ancora;

ché pianger ti conven per altra spada".

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora

viene a veder la gente che ministra

per li altri legni, e a ben far l'incora;

in su la sponda del carro sinistra,

quando mi volsi al suon del nome mio,

che di necessità qui si registra,

vidi la donna che pria m'appario

velata sotto l'angelica festa,

drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.

Tutto che 'l vel che le scendea di testa,

cerchiato de le fronde di Minerva,

non la lasciasse parer manifesta,

regalmente ne l'atto ancor proterva

continuò come colui che dice

e 'l più caldo parlar dietro reserva:

"Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.

Come degnasti d'accedere al monte?

non sapei tu che qui è l'uom felice?".

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;

ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba,

tanta vergogna mi gravò la fronte.

Così la madre al figlio par superba,

com'ella parve a me; perché d'amaro

sente il sapor de la pietade acerba.

Ella si tacque; e li angeli cantaro

di subito 'In te, Domine, speravi';

ma oltre 'pedes meos' non passaro.

Sì come neve tra le vive travi

per lo dosso d'Italia si congela,

soffiata e stretta da li venti schiavi,

poi, liquefatta, in sé stessa trapela,

pur che la terra che perde ombra spiri,

sì che par foco fonder la candela;

così fui sanza lagrime e sospiri

anzi 'l cantar di quei che notan sempre

dietro a le note de li etterni giri;

ma poi che 'ntesi ne le dolci tempre

lor compatire a me, par che se detto

avesser: 'Donna, perché sì lo stempre?',

lo gel che m'era intorno al cor ristretto,

spirito e acqua fessi, e con angoscia

de la bocca e de li occhi uscì del petto.

Ella, pur ferma in su la detta coscia

del carro stando, a le sustanze pie

volse le sue parole così poscia:

"Voi vigilate ne l'etterno die,

sì che notte né sonno a voi non fura

passo che faccia il secol per sue vie;

onde la mia risposta è con più cura

che m'intenda colui che di là piagne,

perché sia colpa e duol d'una misura.

Non pur per ovra de le rote magne,

che drizzan ciascun seme ad alcun fine

secondo che le stelle son compagne,

ma per larghezza di grazie divine,

che sì alti vapori hanno a lor piova,

che nostre viste là non van vicine,

questi fu tal ne la sua vita nova

virtualmente, ch'ogni abito destro

fatto averebbe in lui mirabil prova.

Ma tanto più maligno e più silvestro

si fa 'l terren col mal seme e non cólto,

quant'elli ha più di buon vigor terrestro.

Alcun tempo il sostenni col mio volto:

mostrando li occhi giovanetti a lui,

meco il menava in dritta parte vòlto.

Sì tosto come in su la soglia fui

di mia seconda etade e mutai vita,

questi si tolse a me, e diessi altrui.

Quando di carne a spirto era salita

e bellezza e virtù cresciuta m'era,

fu' io a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,

imagini di ben seguendo false,

che nulla promession rendono intera.

Né l'impetrare ispirazion mi valse,

con le quali e in sogno e altrimenti

lo rivocai; sì poco a lui ne calse!

Tanto giù cadde, che tutti argomenti

a la salute sua eran già corti,

fuor che mostrarli le perdute genti.

Per questo visitai l'uscio d'i morti

e a colui che l'ha qua sù condotto,

li prieghi miei, piangendo, furon porti.

Alto fato di Dio sarebbe rotto,

se Leté si passasse e tal vivanda

fosse gustata sanza alcuno scotto

di pentimento che lagrime spanda".

  

Canto XXXI

 "O tu che se' di là dal fiume sacro",

volgendo suo parlare a me per punta,

che pur per taglio m'era paruto acro,

ricominciò, seguendo sanza cunta,

"dì, dì se questo è vero: a tanta accusa

tua confession conviene esser congiunta".

Era la mia virtù tanto confusa,

che la voce si mosse, e pria si spense

che da li organi suoi fosse dischiusa.

Poco sofferse; poi disse: "Che pense?

Rispondi a me; ché le memorie triste

in te non sono ancor da l'acqua offense".

Confusione e paura insieme miste

mi pinsero un tal "sì" fuor de la bocca,

al quale intender fuor mestier le viste.

Come balestro frange, quando scocca

da troppa tesa la sua corda e l'arco,

e con men foga l'asta il segno tocca,

sì scoppia' io sottesso grave carco,

fuori sgorgando lagrime e sospiri,

e la voce allentò per lo suo varco.

Ond'ella a me: "Per entro i mie' disiri,

che ti menavano ad amar lo bene

di là dal qual non è a che s'aspiri,

quai fossi attraversati o quai catene

trovasti, per che del passare innanzi

dovessiti così spogliar la spene?

E quali agevolezze o quali avanzi

ne la fronte de li altri si mostraro,

per che dovessi lor passeggiare anzi?".

Dopo la tratta d'un sospiro amaro,

a pena ebbi la voce che rispuose,

e le labbra a fatica la formaro.

Piangendo dissi: "Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi,

tosto che 'l vostro viso si nascose".

Ed ella: "Se tacessi o se negassi

ciò che confessi, non fora men nota

la colpa tua: da tal giudice sassi!

Ma quando scoppia de la propria gota

l'accusa del peccato, in nostra corte

rivolge sé contra 'l taglio la rota.

Tuttavia, perché mo vergogna porte

del tuo errore, e perché altra volta,

udendo le serene, sie più forte,

pon giù il seme del piangere e ascolta:

sì udirai come in contraria parte

mover dovieti mia carne sepolta.

Mai non t'appresentò natura o arte

piacer, quanto le belle membra in ch'io

rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte;

e se 'l sommo piacer sì ti fallio

per la mia morte, qual cosa mortale

dovea poi trarre te nel suo disio?

Ben ti dovevi, per lo primo strale

de le cose fallaci, levar suso

di retro a me che non era più tale.

Non ti dovea gravar le penne in giuso,

ad aspettar più colpo, o pargoletta

o altra vanità con sì breve uso.

Novo augelletto due o tre aspetta;

ma dinanzi da li occhi d'i pennuti

rete si spiega indarno o si saetta".

Quali fanciulli, vergognando, muti

con li occhi a terra stannosi, ascoltando

e sé riconoscendo e ripentuti,

tal mi stav'io; ed ella disse: "Quando

per udir se' dolente, alza la barba,

e prenderai più doglia riguardando".

Con men di resistenza si dibarba

robusto cerro, o vero al nostral vento

o vero a quel de la terra di Iarba,

ch'io non levai al suo comando il mento;

e quando per la barba il viso chiese,

ben conobbi il velen de l'argomento.

E come la mia faccia si distese,

posarsi quelle prime creature

da loro aspersion l'occhio comprese;

e le mie luci, ancor poco sicure,

vider Beatrice volta in su la fiera

ch'è sola una persona in due nature.

Sotto 'l suo velo e oltre la rivera

vincer pariemi più sé stessa antica,

vincer che l'altre qui, quand'ella c'era.

Di penter sì mi punse ivi l'ortica

che di tutte altre cose qual mi torse

più nel suo amor, più mi si fé nemica.

Tanta riconoscenza il cor mi morse,

ch'io caddi vinto; e quale allora femmi,

salsi colei che la cagion mi porse.

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,

la donna ch'io avea trovata sola

sopra me vidi, e dicea: "Tiemmi, tiemmi!".

Tratto m'avea nel fiume infin la gola,

e tirandosi me dietro sen giva

sovresso l'acqua lieve come scola.

Quando fui presso a la beata riva,

'Asperges me' sì dolcemente udissi,

che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.

La bella donna ne le braccia aprissi;

abbracciommi la testa e mi sommerse

ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.

Indi mi tolse, e bagnato m'offerse

dentro a la danza de le quattro belle;

e ciascuna del braccio mi coperse.

"Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle:

pria che Beatrice discendesse al mondo,

fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo

lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi

le tre di là, che miran più profondo".

Così cantando cominciaro; e poi

al petto del grifon seco menarmi,

ove Beatrice stava volta a noi.

Disser: "Fa che le viste non risparmi;

posto t'avem dinanzi a li smeraldi

ond'Amor già ti trasse le sue armi".

Mille disiri più che fiamma caldi

strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,

che pur sopra 'l grifone stavan saldi.

Come in lo specchio il sol, non altrimenti

la doppia fiera dentro vi raggiava,

or con altri, or con altri reggimenti.

Pensa, lettor, s'io mi maravigliava,

quando vedea la cosa in sé star queta,

e ne l'idolo suo si trasmutava.

Mentre che piena di stupore e lieta

l'anima mia gustava di quel cibo

che, saziando di sé, di sé asseta,

sé dimostrando di più alto tribo

ne li atti, l'altre tre si fero avanti,

danzando al loro angelico caribo.

"Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi",

era la sua canzone, "al tuo fedele

che, per vederti, ha mossi passi tanti!

Per grazia fa noi grazia che disvele

a lui la bocca tua, sì che discerna

la seconda bellezza che tu cele".

O isplendor di viva luce etterna,

chi palido si fece sotto l'ombra

sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

che non paresse aver la mente ingombra,

tentando a render te qual tu paresti

là dove armonizzando il ciel t'adombra,

quando ne l'aere aperto ti solvesti?

  

Canto XXXII

 Tant'eran li occhi miei fissi e attenti

a disbramarsi la decenne sete,

che li altri sensi m'eran tutti spenti.

Ed essi quinci e quindi avien parete

di non caler - così lo santo riso

a sé traéli con l'antica rete! -;

quando per forza mi fu vòlto il viso

ver' la sinistra mia da quelle dee,

perch'io udi' da loro un "Troppo fiso!";

e la disposizion ch'a veder èe

ne li occhi pur testé dal sol percossi,

sanza la vista alquanto esser mi fée.

Ma poi ch'al poco il viso riformossi

(e dico 'al poco' per rispetto al molto

sensibile onde a forza mi rimossi),

vidi 'n sul braccio destro esser rivolto

lo glorioso essercito, e tornarsi

col sole e con le sette fiamme al volto.

Come sotto li scudi per salvarsi

volgesi schiera, e sé gira col segno,

prima che possa tutta in sé mutarsi;

quella milizia del celeste regno

che procedeva, tutta trapassonne

pria che piegasse il carro il primo legno.

Indi a le rote si tornar le donne,

e 'l grifon mosse il benedetto carco

sì, che però nulla penna crollonne.

La bella donna che mi trasse al varco

e Stazio e io seguitavam la rota

che fé l'orbita sua con minore arco.

Sì passeggiando l'alta selva vòta,

colpa di quella ch'al serpente crese,

temprava i passi un'angelica nota.

Forse in tre voli tanto spazio prese

disfrenata saetta, quanto eramo

rimossi, quando Beatrice scese.

Io senti' mormorare a tutti "Adamo";

poi cerchiaro una pianta dispogliata

di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata

più quanto più è sù, fora da l'Indi

ne' boschi lor per altezza ammirata.

"Beato se', grifon, che non discindi

col becco d'esto legno dolce al gusto,

poscia che mal si torce il ventre quindi".

Così dintorno a l'albero robusto

gridaron li altri; e l'animal binato:

"Sì si conserva il seme d'ogni giusto".

E vòlto al temo ch'elli avea tirato,

trasselo al piè de la vedova frasca,

e quel di lei a lei lasciò legato.

Come le nostre piante, quando casca

giù la gran luce mischiata con quella

che raggia dietro a la celeste lasca,

turgide fansi, e poi si rinovella

di suo color ciascuna, pria che 'l sole

giunga li suoi corsier sotto altra stella;

men che di rose e più che di viole

colore aprendo, s'innovò la pianta,

che prima avea le ramora sì sole.

Io non lo 'ntesi, né qui non si canta

l'inno che quella gente allor cantaro,

né la nota soffersi tutta quanta.

S'io potessi ritrar come assonnaro

li occhi spietati udendo di Siringa,

li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;

come pintor che con essempro pinga,

disegnerei com'io m'addormentai;

ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.

Però trascorro a quando mi svegliai,

e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo

del sonno e un chiamar: "Surgi: che fai?".

Quali a veder de' fioretti del melo

che del suo pome li angeli fa ghiotti

e perpetue nozze fa nel cielo,

Pietro e Giovanni e Iacopo condotti

e vinti, ritornaro a la parola

da la qual furon maggior sonni rotti,

e videro scemata loro scuola

così di Moisè come d'Elia,

e al maestro suo cangiata stola;

tal torna' io, e vidi quella pia

sovra me starsi che conducitrice

fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.

E tutto in dubbio dissi: "Ov'è Beatrice?".

Ond'ella: "Vedi lei sotto la fronda

nova sedere in su la sua radice.

Vedi la compagnia che la circonda:

li altri dopo 'l grifon sen vanno suso

con più dolce canzone e più profonda".

E se più fu lo suo parlar diffuso,

non so, però che già ne li occhi m'era

quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.

Sola sedeasi in su la terra vera,

come guardia lasciata lì del plaustro

che legar vidi a la biforme fera.

In cerchio le facean di sé claustro

le sette ninfe, con quei lumi in mano

che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.

"Qui sarai tu poco tempo silvano;

e sarai meco sanza fine cive

di quella Roma onde Cristo è romano.

Però, in pro del mondo che mal vive,

al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,

ritornato di là, fa che tu scrive".

Così Beatrice; e io, che tutto ai piedi

d'i suoi comandamenti era divoto,

la mente e li occhi ov'ella volle diedi.

Non scese mai con sì veloce moto

foco di spessa nube, quando piove

da quel confine che più va remoto,

com'io vidi calar l'uccel di Giove

per l'alber giù, rompendo de la scorza,

non che d'i fiori e de le foglie nove;

e ferì 'l carro di tutta sua forza;

ond'el piegò come nave in fortuna,

vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.

Poscia vidi avventarsi ne la cuna

del triunfal veiculo una volpe

che d'ogni pasto buon parea digiuna;

ma, riprendendo lei di laide colpe,

la donna mia la volse in tanta futa

quanto sofferser l'ossa sanza polpe.

Poscia per indi ond'era pria venuta,

l'aguglia vidi scender giù ne l'arca

del carro e lasciar lei di sé pennuta;

e qual esce di cuor che si rammarca,

tal voce uscì del cielo e cotal disse:

"O navicella mia, com'mal se' carca!".

Poi parve a me che la terra s'aprisse

tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago

che per lo carro sù la coda fisse;

e come vespa che ritragge l'ago,

a sé traendo la coda maligna,

trasse del fondo, e gissen vago vago.

Quel che rimase, come da gramigna

vivace terra, da la piuma, offerta

forse con intenzion sana e benigna,

si ricoperse, e funne ricoperta

e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto

che più tiene un sospir la bocca aperta.

Trasformato così 'l dificio santo

mise fuor teste per le parti sue,

tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.

Le prime eran cornute come bue,

ma le quattro un sol corno avean per fronte:

simile mostro visto ancor non fue.

Sicura, quasi rocca in alto monte,

seder sovresso una puttana sciolta

m'apparve con le ciglia intorno pronte;

e come perché non li fosse tolta,

vidi di costa a lei dritto un gigante;

e baciavansi insieme alcuna volta.

Ma perché l'occhio cupido e vagante

a me rivolse, quel feroce drudo

la flagellò dal capo infin le piante;

poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,

disciolse il mostro, e trassel per la selva,

tanto che sol di lei mi fece scudo

a la puttana e a la nova belva.

 

Canto XXXIII

 'Deus, venerunt gentes', alternando

or tre or quattro dolce salmodia,

le donne incominciaro, e lagrimando;

e Beatrice sospirosa e pia,

quelle ascoltava sì fatta, che poco

più a la croce si cambiò Maria.

Ma poi che l'altre vergini dier loco

a lei di dir, levata dritta in pè,

rispuose, colorata come foco:

'Modicum, et non videbitis me;

et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me'.

Poi le si mise innanzi tutte e sette,

e dopo sé, solo accennando, mosse

me e la donna e 'l savio che ristette.

Così sen giva; e non credo che fosse

lo decimo suo passo in terra posto,

quando con li occhi li occhi mi percosse;

e con tranquillo aspetto "Vien più tosto",

mi disse, "tanto che, s'io parlo teco,

ad ascoltarmi tu sie ben disposto".

Sì com'io fui, com'io dovea, seco,

dissemi: "Frate, perché non t'attenti

a domandarmi omai venendo meco?".

Come a color che troppo reverenti

dinanzi a suo maggior parlando sono,

che non traggon la voce viva ai denti.

avvenne a me, che sanza intero suono

incominciai: "Madonna, mia bisogna

voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono".

Ed ella a me: "Da tema e da vergogna

voglio che tu omai ti disviluppe,

sì che non parli più com'om che sogna.

Sappi che 'l vaso che 'l serpente ruppe

fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda

che vendetta di Dio non teme suppe.

Non sarà tutto tempo sanza reda

l'aguglia che lasciò le penne al carro,

per che divenne mostro e poscia preda;

ch'io veggio certamente, e però il narro,

a darne tempo già stelle propinque,

secure d'ogn'intoppo e d'ogni sbarro,

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque.

E forse che la mia narrazion buia,

qual Temi e Sfinge, men ti persuade,

perch'a lor modo lo 'ntelletto attuia;

ma tosto fier li fatti le Naiade,

che solveranno questo enigma forte

sanza danno di pecore o di biade.

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a' vivi

del viver ch'è un correre a la morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,

di non celar qual hai vista la pianta

ch'è or due volte dirubata quivi.

Qualunque ruba quella o quella schianta,

con bestemmia di fatto offende a Dio,

che solo a l'uso suo la creò santa.

Per morder quella, in pena e in disio

cinquemilia anni e più l'anima prima

bramò colui che 'l morso in sé punio.

Dorme lo 'ngegno tuo, se non estima

per singular cagione esser eccelsa

lei tanto e sì travolta ne la cima.

E se stati non fossero acqua d'Elsa

li pensier vani intorno a la tua mente,

e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,

per tante circostanze solamente

la giustizia di Dio, ne l'interdetto,

conosceresti a l'arbor moralmente.

Ma perch'io veggio te ne lo 'ntelletto

fatto di pietra e, impetrato, tinto,

sì che t'abbaglia il lume del mio detto,

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,

che 'l te ne porti dentro a te per quello

che si reca il bordon di palma cinto".

E io: "Sì come cera da suggello,

che la figura impressa non trasmuta,

segnato è or da voi lo mio cervello.

Ma perché tanto sovra mia veduta

vostra parola disiata vola,

che più la perde quanto più s'aiuta?".

"Perché conoschi", disse, "quella scuola

c'hai seguitata, e veggi sua dottrina

come può seguitar la mia parola;

e veggi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina".

Ond'io rispuosi lei: "Non mi ricorda

ch'i' straniasse me già mai da voi,

né honne coscienza che rimorda".

"E se tu ricordar non te ne puoi",

sorridendo rispuose, "or ti rammenta

come bevesti di Letè ancoi;

e se dal fummo foco s'argomenta,

cotesta oblivion chiaro conchiude

colpa ne la tua voglia altrove attenta.

Veramente oramai saranno nude

le mie parole, quanto converrassi

quelle scovrire a la tua vista rude".

E più corusco e con più lenti passi

teneva il sole il cerchio di merigge,

che qua e là, come li aspetti, fassi

quando s'affisser, sì come s'affigge

chi va dinanzi a gente per iscorta

se trova novitate o sue vestigge,

le sette donne al fin d'un'ombra smorta,

qual sotto foglie verdi e rami nigri

sovra suoi freddi rivi l'Alpe porta.

Dinanzi ad esse Eufratès e Tigri

veder mi parve uscir d'una fontana,

e, quasi amici, dipartirsi pigri.

"O luce, o gloria de la gente umana,

che acqua è questa che qui si dispiega

da un principio e sé da sé lontana?".

Per cotal priego detto mi fu: "Priega

Matelda che 'l ti dica". E qui rispuose,

come fa chi da colpa si dislega,

la bella donna: "Questo e altre cose

dette li son per me; e son sicura

che l'acqua di Letè non gliel nascose".

E Beatrice: "Forse maggior cura,

che spesse volte la memoria priva,

fatt'ha la mente sua ne li occhi oscura.

Ma vedi Eunoè che là diriva:

menalo ad esso, e come tu se' usa,

la tramortita sua virtù ravviva".

Come anima gentil, che non fa scusa,

ma fa sua voglia de la voglia altrui

tosto che è per segno fuor dischiusa;

così, poi che da essa preso fui,

la bella donna mossesi, e a Stazio

donnescamente disse: "Vien con lui".

S'io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i' pur cantere' in parte

lo dolce ber che mai non m'avrìa sazio;

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l'arte.

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinnovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire alle stelle.

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento:15/11/98 1.13