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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

La Divina Commedia

di: Dante Alighieri

PARADISO

[Canto XVII] [Canto XVIII] [Canto XIX] [Canto XX]

 [Canto XXI] [Canto XXII] [Canto XXIII] [Canto XXIV]

Canto XVII

Qual venne a Climené, per accertarsi

di ciò ch'avea incontro a sé udito,

quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi;

tal era io, e tal era sentito

e da Beatrice e da la santa lampa

che pria per me avea mutato sito.

Per che mia donna "Manda fuor la vampa

del tuo disio", mi disse, "sì ch'ella esca

segnata bene de la interna stampa;

non perché nostra conoscenza cresca

per tuo parlare, ma perché t'ausi

a dir la sete, sì che l'uom ti mesca".

"O cara piota mia che sì t'insusi,

che, come veggion le terrene menti

non capere in triangol due ottusi,

così vedi le cose contingenti

anzi che sieno in sé, mirando il punto

a cui tutti li tempi son presenti;

mentre ch'io era a Virgilio congiunto

su per lo monte che l'anime cura

e discendendo nel mondo defunto,

dette mi fuor di mia vita futura

parole gravi, avvegna ch'io mi senta

ben tetragono ai colpi di ventura;

per che la voglia mia saria contenta

d'intender qual fortuna mi s'appressa;

ché saetta previsa vien più lenta".

Così diss'io a quella luce stessa

che pria m'avea parlato; e come volle

Beatrice, fu la mia voglia confessa.

Né per ambage, in che la gente folle

già s'inviscava pria che fosse anciso

l'Agnel di Dio che le peccata tolle,

ma per chiare parole e con preciso

latin rispuose quello amor paterno,

chiuso e parvente del suo proprio riso:

"La contingenza, che fuor del quaderno

de la vostra matera non si stende,

tutta è dipinta nel cospetto etterno:

necessità però quindi non prende

se non come dal viso in che si specchia

nave che per torrente giù discende.

Da indi, sì come viene ad orecchia

dolce armonia da organo, mi viene

a vista il tempo che ti s'apparecchia.

Qual si partio Ipolito d'Atene

per la spietata e perfida noverca,

tal di Fiorenza partir ti convene.

Questo si vuole e questo già si cerca,

e tosto verrà fatto a chi ciò pensa

là dove Cristo tutto dì si merca.

La colpa seguirà la parte offensa

in grido, come suol; ma la vendetta

fia testimonio al ver che la dispensa.

Tu lascerai ogni cosa diletta

più caramente; e questo è quello strale

che l'arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,

sarà la compagnia malvagia e scempia

con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia

si farà contr'a te; ma, poco appresso,

ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo

farà la prova; sì ch'a te fia bello

averti fatta parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello

sarà la cortesia del gran Lombardo

che 'n su la scala porta il santo uccello;

ch'in te avrà sì benigno riguardo,

che del fare e del chieder, tra voi due,

fia primo quel che tra li altri è più tardo.

Con lui vedrai colui che 'mpresso fue,

nascendo, sì da questa stella forte,

che notabili fier l'opere sue.

Non se ne son le genti ancora accorte

per la novella età, ché pur nove anni

son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni,

parran faville de la sua virtute

in non curar d'argento né d'affanni.

Le sue magnificenze conosciute

saranno ancora, sì che ' suoi nemici

non ne potran tener le lingue mute.

A lui t'aspetta e a' suoi benefici;

per lui fia trasmutata molta gente,

cambiando condizion ricchi e mendici;

e portera'ne scritto ne la mente

di lui, e nol dirai"; e disse cose

incredibili a quei che fier presente.

Poi giunse: "Figlio, queste son le chiose

di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie

che dietro a pochi giri son nascose.

Non vo' però ch'a' tuoi vicini invidie,

poscia che s'infutura la tua vita

vie più là che 'l punir di lor perfidie".

Poi che, tacendo, si mostrò spedita

l'anima santa di metter la trama

in quella tela ch'io le porsi ordita,

io cominciai, come colui che brama,

dubitando, consiglio da persona

che vede e vuol dirittamente e ama:

"Ben veggio, padre mio, sì come sprona

lo tempo verso me, per colpo darmi

tal, ch'è più grave a chi più s'abbandona;

per che di provedenza è buon ch'io m'armi,

sì che, se loco m'è tolto più caro,

io non perdessi li altri per miei carmi.

Giù per lo mondo sanza fine amaro,

e per lo monte del cui bel cacume

li occhi de la mia donna mi levaro,

e poscia per lo ciel, di lume in lume,

ho io appreso quel che s'io ridico,

a molti fia sapor di forte agrume;

e s'io al vero son timido amico,

temo di perder viver tra coloro

che questo tempo chiameranno antico".

La luce in che rideva il mio tesoro

ch'io trovai lì, si fé prima corusca,

quale a raggio di sole specchio d'oro;

indi rispuose: "Coscienza fusca

o de la propria o de l'altrui vergogna

pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov'è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta

nel primo gusto, vital nodrimento

lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,

che le più alte cime più percuote;

e ciò non fa d'onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,

nel monte e ne la valle dolorosa

pur l'anime che son di fama note,

che l'animo di quel ch'ode, non posa

né ferma fede per essempro ch'aia

la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia".

Canto XVIII

Già si godeva solo del suo verbo

quello specchio beato, e io gustava

lo mio, temprando col dolce l'acerbo;

e quella donna ch'a Dio mi menava

disse: "Muta pensier; pensa ch'i' sono

presso a colui ch'ogni torto disgrava".

Io mi rivolsi a l'amoroso suono

del mio conforto; e qual io allor vidi

ne li occhi santi amor, qui l'abbandono:

non perch'io pur del mio parlar diffidi,

ma per la mente che non può redire

sovra sé tanto, s'altri non la guidi.

Tanto poss'io di quel punto ridire,

che, rimirando lei, lo mio affetto

libero fu da ogni altro disire,

fin che 'l piacere etterno, che diretto

raggiava in Beatrice, dal bel viso

mi contentava col secondo aspetto.

Vincendo me col lume d'un sorriso,

ella mi disse: "Volgiti e ascolta;

ché non pur ne' miei occhi è paradiso".

Come si vede qui alcuna volta

l'affetto ne la vista, s'elli è tanto,

che da lui sia tutta l'anima tolta,

così nel fiammeggiar del folgór santo,

a ch'io mi volsi, conobbi la voglia

in lui di ragionarmi ancora alquanto.

El cominciò: "In questa quinta soglia

de l'albero che vive de la cima

e frutta sempre e mai non perde foglia,

spiriti son beati, che giù, prima

che venissero al ciel, fuor di gran voce,

sì ch'ogni musa ne sarebbe opima.

Però mira ne' corni de la croce:

quello ch'io nomerò, lì farà l'atto

che fa in nube il suo foco veloce".

Io vidi per la croce un lume tratto

dal nomar Iosuè, com'el si feo;

né mi fu noto il dir prima che 'l fatto.

E al nome de l'alto Macabeo

vidi moversi un altro roteando,

e letizia era ferza del paleo.

Così per Carlo Magno e per Orlando

due ne seguì lo mio attento sguardo,

com'occhio segue suo falcon volando.

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo

e 'l duca Gottifredi la mia vista

per quella croce, e Ruberto Guiscardo.

Indi, tra l'altre luci mota e mista,

mostrommi l'alma che m'avea parlato

qual era tra i cantor del cielo artista.

Io mi rivolsi dal mio destro lato

per vedere in Beatrice il mio dovere,

o per parlare o per atto, segnato;

e vidi le sue luci tanto mere,

tanto gioconde, che la sua sembianza

vinceva li altri e l'ultimo solere.

E come, per sentir più dilettanza

bene operando, l'uom di giorno in giorno

s'accorge che la sua virtute avanza,

sì m'accors'io che 'l mio girare intorno

col cielo insieme avea cresciuto l'arco,

veggendo quel miracol più addorno.

E qual è 'l trasmutare in picciol varco

di tempo in bianca donna, quando 'l volto

suo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,

per lo candor de la temprata stella

sesta, che dentro a sé m'avea ricolto.

Io vidi in quella giovial facella

lo sfavillar de l'amor che lì era,

segnare a li occhi miei nostra favella.

E come augelli surti di rivera,

quasi congratulando a lor pasture,

fanno di sé or tonda or altra schiera,

sì dentro ai lumi sante creature

volitando cantavano, e faciensi

or D, or I, or L in sue figure.

Prima, cantando, a sua nota moviensi;

poi, diventando l'un di questi segni,

un poco s'arrestavano e taciensi.

O diva Pegasea che li 'ngegni

fai gloriosi e rendili longevi,

ed essi teco le cittadi e ' regni,

illustrami di te, sì ch'io rilevi

le lor figure com'io l'ho concette:

paia tua possa in questi versi brevi!

Mostrarsi dunque in cinque volte sette

vocali e consonanti; e io notai

le parti sì, come mi parver dette.

'DILIGITE IUSTITIAM', primai

fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;

'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai.

Poscia ne l'emme del vocabol quinto

rimasero ordinate; sì che Giove

pareva argento lì d'oro distinto.

E vidi scendere altre luci dove

era il colmo de l'emme, e lì quetarsi

cantando, credo, il ben ch'a sé le move.

Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi

surgono innumerabili faville,

onde li stolti sogliono agurarsi,

resurger parver quindi più di mille

luci e salir, qual assai e qual poco,

sì come 'l sol che l'accende sortille;

e quietata ciascuna in suo loco,

la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi

rappresentare a quel distinto foco.

Quei che dipinge lì, non ha chi 'l guidi;

ma esso guida, e da lui si rammenta

quella virtù ch'è forma per li nidi.

L'altra beatitudo, che contenta

pareva prima d'ingigliarsi a l'emme,

con poco moto seguitò la 'mprenta.

O dolce stella, quali e quante gemme

mi dimostraro che nostra giustizia

effetto sia del ciel che tu ingemme!

Per ch'io prego la mente in che s'inizia

tuo moto e tua virtute, che rimiri

ond'esce il fummo che 'l tuo raggio vizia;

sì ch'un'altra fiata omai s'adiri

del comperare e vender dentro al templo

che si murò di segni e di martìri.

O milizia del ciel cu' io contemplo,

adora per color che sono in terra

tutti sviati dietro al malo essemplo!

Già si solea con le spade far guerra;

ma or si fa togliendo or qui or quivi

lo pan che 'l pio Padre a nessun serra.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,

pensa che Pietro e Paulo, che moriro

per la vigna che guasti, ancor son vivi.

Ben puoi tu dire: "I' ho fermo 'l disiro

sì a colui che volle viver solo

e che per salti fu tratto al martiro,

ch'io non conosco il pescator né Polo".

 

Canto XIX

Parea dinanzi a me con l'ali aperte

la bella image che nel dolce frui

liete facevan l'anime conserte;

parea ciascuna rubinetto in cui

raggio di sole ardesse sì acceso,

che ne' miei occhi rifrangesse lui.

E quel che mi convien ritrar testeso,

non portò voce mai, né scrisse incostro,

né fu per fantasia già mai compreso;

ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro,

e sonar ne la voce e "io" e "mio",

quand'era nel concetto e 'noi' e 'nostro'.

E cominciò: "Per esser giusto e pio

son io qui essaltato a quella gloria

che non si lascia vincere a disio;

e in terra lasciai la mia memoria

sì fatta, che le genti lì malvage

commendan lei, ma non seguon la storia".

Così un sol calor di molte brage

si fa sentir, come di molti amori

usciva solo un suon di quella image.

Ond'io appresso: "O perpetui fiori

de l'etterna letizia, che pur uno

parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno

che lungamente m'ha tenuto in fame,

non trovandoli in terra cibo alcuno.

Ben so io che, se 'n cielo altro reame

la divina giustizia fa suo specchio,

che 'l vostro non l'apprende con velame.

Sapete come attento io m'apparecchio

ad ascoltar; sapete qual è quello

dubbio che m'è digiun cotanto vecchio".

Quasi falcone ch'esce del cappello,

move la testa e con l'ali si plaude,

voglia mostrando e faccendosi bello,

vid'io farsi quel segno, che di laude

de la divina grazia era contesto,

con canti quai si sa chi là sù gaude.

Poi cominciò: "Colui che volse il sesto

a lo stremo del mondo, e dentro ad esso

distinse tanto occulto e manifesto,

non poté suo valor sì fare impresso

in tutto l'universo, che 'l suo verbo

non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che 'l primo superbo,

che fu la somma d'ogni creatura,

per non aspettar lume, cadde acerbo;

e quinci appar ch'ogni minor natura

è corto recettacolo a quel bene

che non ha fine e sé con sé misura.

Dunque vostra veduta, che convene

esser alcun de' raggi de la mente

di che tutte le cose son ripiene,

non pò da sua natura esser possente

tanto, che suo principio discerna

molto di là da quel che l'è parvente.

Però ne la giustizia sempiterna

la vista che riceve il vostro mondo,

com'occhio per lo mare, entro s'interna;

che, ben che da la proda veggia il fondo,

in pelago nol vede; e nondimeno

èli, ma cela lui l'esser profondo.

Lume non è, se non vien dal sereno

che non si turba mai; anzi è tenebra

od ombra de la carne o suo veleno.

Assai t'è mo aperta la latebra

che t'ascondeva la giustizia viva,

di che facei question cotanto crebra;

ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva

de l'Indo, e quivi non è chi ragioni

di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni

sono, quanto ragione umana vede,

sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede:

ov'è questa giustizia che 'l condanna?

ov'è la colpa sua, se ei non crede?"

Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna,

per giudicar di lungi mille miglia

con la veduta corta d'una spanna?

Certo a colui che meco s'assottiglia,

se la Scrittura sovra voi non fosse,

da dubitar sarebbe a maraviglia.

Oh terreni animali! oh menti grosse!

La prima volontà, ch'è da sé buona,

da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse.

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:

nullo creato bene a sé la tira,

ma essa, radiando, lui cagiona".

Quale sovresso il nido si rigira

poi c'ha pasciuti la cicogna i figli,

e come quel ch'è pasto la rimira;

cotal si fece, e sì levai i cigli,

la benedetta imagine, che l'ali

movea sospinte da tanti consigli.

Roteando cantava, e dicea: "Quali

son le mie note a te, che non le 'ntendi,

tal è il giudicio etterno a voi mortali".

Poi si quetaro quei lucenti incendi

de lo Spirito Santo ancor nel segno

che fé i Romani al mondo reverendi,

esso ricominciò: "A questo regno

non salì mai chi non credette 'n Cristo,

né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.

Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!",

che saranno in giudicio assai men prope

a lui, che tal che non conosce Cristo;

e tai Cristian dannerà l'Etiòpe,

quando si partiranno i due collegi,

l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe.

Che poran dir li Perse a' vostri regi,

come vedranno quel volume aperto

nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?

Lì si vedrà, tra l'opere d'Alberto,

quella che tosto moverà la penna,

per che 'l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna

induce, falseggiando la moneta,

quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch'asseta,

che fa lo Scotto e l'Inghilese folle,

sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e 'l viver molle

di quel di Spagna e di quel di Boemme,

che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme

segnata con un i la sua bontate,

quando 'l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l'avarizia e la viltate

di quei che guarda l'isola del foco,

ove Anchise finì la lunga etate;

e a dare ad intender quanto è poco,

la sua scrittura fian lettere mozze,

che noteranno molto in parvo loco.

E parranno a ciascun l'opere sozze

del barba e del fratel, che tanto egregia

nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia

lì si conosceranno, e quel di Rascia

che male ha visto il conio di Vinegia.

Oh beata Ungheria, se non si lascia

più malmenare! e beata Navarra,

se s'armasse del monte che la fascia!

E creder de' ciascun che già, per arra

di questo, Niccosia e Famagosta

per la lor bestia si lamenti e garra,

che dal fianco de l'altre non si scosta".

 

 Canto XX

Quando colui che tutto 'l mondo alluma

de l'emisperio nostro sì discende,

che 'l giorno d'ogni parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s'accende,

subitamente si rifà parvente

per molte luci, in che una risplende;

e questo atto del ciel mi venne a mente,

come 'l segno del mondo e de' suoi duci

nel benedetto rostro fu tacente;

però che tutte quelle vive luci,

vie più lucendo, cominciaron canti

da mia memoria labili e caduci.

O dolce amor che di riso t'ammanti,

quanto parevi ardente in que' flailli,

ch'avieno spirto sol di pensier santi!

Poscia che i cari e lucidi lapilli

ond'io vidi ingemmato il sesto lume

puoser silenzio a li angelici squilli,

udir mi parve un mormorar di fiume

che scende chiaro giù di pietra in pietra,

mostrando l'ubertà del suo cacume.

E come suono al collo de la cetra

prende sua forma, e sì com'al pertugio

de la sampogna vento che penètra,

così, rimosso d'aspettare indugio,

quel mormorar de l'aguglia salissi

su per lo collo, come fosse bugio.

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi

per lo suo becco in forma di parole,

quali aspettava il core ov'io le scrissi.

"La parte in me che vede e pate il sole

ne l'aguglie mortali", incominciommi,

"or fisamente riguardar si vole,

perché d'i fuochi ond'io figura fommi,

quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,

e' di tutti lor gradi son li sommi.

Colui che luce in mezzo per pupilla,

fu il cantor de lo Spirito Santo,

che l'arca traslatò di villa in villa:

ora conosce il merto del suo canto,

in quanto effetto fu del suo consiglio,

per lo remunerar ch'è altrettanto.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,

colui che più al becco mi s'accosta,

la vedovella consolò del figlio:

ora conosce quanto caro costa

non seguir Cristo, per l'esperienza

di questa dolce vita e de l'opposta.

E quel che segue in la circunferenza

di che ragiono, per l'arco superno,

morte indugiò per vera penitenza:

ora conosce che 'l giudicio etterno

non si trasmuta, quando degno preco

fa crastino là giù de l'odierno.

L'altro che segue, con le leggi e meco,

sotto buona intenzion che fé mal frutto,

per cedere al pastor si fece greco:

ora conosce come il mal dedutto

dal suo bene operar non li è nocivo,

avvegna che sia 'l mondo indi distrutto.

E quel che vedi ne l'arco declivo,

Guiglielmo fu, cui quella terra plora

che piagne Carlo e Federigo vivo:

ora conosce come s'innamora

lo ciel del giusto rege, e al sembiante

del suo fulgore il fa vedere ancora.

Chi crederebbe giù nel mondo errante,

che Rifeo Troiano in questo tondo

fosse la quinta de le luci sante?

Ora conosce assai di quel che 'l mondo

veder non può de la divina grazia,

ben che sua vista non discerna il fondo".

Quale allodetta che 'n aere si spazia

prima cantando, e poi tace contenta

de l'ultima dolcezza che la sazia,

tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta

de l'etterno piacere, al cui disio

ciascuna cosa qual ell'è diventa.

E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio

lì quasi vetro a lo color ch'el veste,

tempo aspettar tacendo non patio,

ma de la bocca, "Che cose son queste?",

mi pinse con la forza del suo peso:

per ch'io di coruscar vidi gran feste.

Poi appresso, con l'occhio più acceso,

lo benedetto segno mi rispuose

per non tenermi in ammirar sospeso:

"Io veggio che tu credi queste cose

perch'io le dico, ma non vedi come;

sì che, se son credute, sono ascose.

Fai come quei che la cosa per nome

apprende ben, ma la sua quiditate

veder non può se altri non la prome.

Regnum celorum violenza pate

da caldo amore e da viva speranza,

che vince la divina volontate:

non a guisa che l'omo a l'om sobranza,

ma vince lei perché vuole esser vinta,

e, vinta, vince con sua beninanza.

La prima vita del ciglio e la quinta

ti fa maravigliar, perché ne vedi

la region de li angeli dipinta.

D'i corpi suoi non uscir, come credi,

Gentili, ma Cristiani, in ferma fede

quel d'i passuri e quel d'i passi piedi.

Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riede

già mai a buon voler, tornò a l'ossa;

e ciò di viva spene fu mercede:

di viva spene, che mise la possa

ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,

sì che potesse sua voglia esser mossa.

L'anima gloriosa onde si parla,

tornata ne la carne, in che fu poco,

credette in lui che potea aiutarla;

e credendo s'accese in tanto foco

di vero amor, ch'a la morte seconda

fu degna di venire a questo gioco.

L'altra, per grazia che da sì profonda

fontana stilla, che mai creatura

non pinse l'occhio infino a la prima onda,

tutto suo amor là giù pose a drittura:

per che, di grazia in grazia, Dio li aperse

l'occhio a la nostra redenzion futura;

ond'ei credette in quella, e non sofferse

da indi il puzzo più del paganesmo;

e riprendiene le genti perverse.

Quelle tre donne li fur per battesmo

che tu vedesti da la destra rota,

dinanzi al battezzar più d'un millesmo.

O predestinazion, quanto remota

è la radice tua da quelli aspetti

che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti

a giudicar; ché noi, che Dio vedemo,

non conosciamo ancor tutti li eletti;

ed ènne dolce così fatto scemo,

perché il ben nostro in questo ben s'affina,

che quel che vole Iddio, e noi volemo".

Così da quella imagine divina,

per farmi chiara la mia corta vista,

data mi fu soave medicina.

E come a buon cantor buon citarista

fa seguitar lo guizzo de la corda,

in che più di piacer lo canto acquista,

sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda

ch'io vidi le due luci benedette,

pur come batter d'occhi si concorda,

con le parole mover le fiammette.

 

Canto XXI 

Già eran li occhi miei rifissi al volto

de la mia donna, e l'animo con essi,

e da ogni altro intento s'era tolto.

E quella non ridea; ma "S'io ridessi",

mi cominciò, "tu ti faresti quale

fu Semelè quando di cener fessi;

ché la bellezza mia, che per le scale

de l'etterno palazzo più s'accende,

com'hai veduto, quanto più si sale,

se non si temperasse, tanto splende,

che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,

sarebbe fronda che trono scoscende.

Noi sem levati al settimo splendore,

che sotto 'l petto del Leone ardente

raggia mo misto giù del suo valore.

Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,

e fa di quelli specchi a la figura

che 'n questo specchio ti sarà parvente".

Qual savesse qual era la pastura

del viso mio ne l'aspetto beato

quand'io mi trasmutai ad altra cura,

conoscerebbe quanto m'era a grato

ubidire a la mia celeste scorta,

contrapesando l'un con l'altro lato.

Dentro al cristallo che 'l vocabol porta,

cerchiando il mondo, del suo caro duce

sotto cui giacque ogni malizia morta,

di color d'oro in che raggio traluce

vid'io uno scaleo eretto in suso

tanto, che nol seguiva la mia luce.

Vidi anche per li gradi scender giuso

tanti splendor, ch'io pensai ch'ogni lume

che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,

le pole insieme, al cominciar del giorno,

si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,

altre rivolgon sé onde son mosse,

e altre roteando fan soggiorno;

tal modo parve me che quivi fosse

in quello sfavillar che 'nsieme venne,

sì come in certo grado si percosse.

E quel che presso più ci si ritenne,

si fé sì chiaro, ch'io dicea pensando:

'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne.

Ma quella ond'io aspetto il come e 'l quando

del dire e del tacer, si sta; ond'io,

contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'.

Per ch'ella, che vedea il tacer mio

nel veder di colui che tutto vede,

mi disse: "Solvi il tuo caldo disio".

E io incominciai: "La mia mercede

non mi fa degno de la tua risposta;

ma per colei che 'l chieder mi concede,

vita beata che ti stai nascosta

dentro a la tua letizia, fammi nota

la cagion che sì presso mi t'ha posta;

e di' perché si tace in questa rota

la dolce sinfonia di paradiso,

che giù per l'altre suona sì divota".

"Tu hai l'udir mortal sì come il viso",

rispuose a me; "onde qui non si canta

per quel che Beatrice non ha riso.

Giù per li gradi de la scala santa

discesi tanto sol per farti festa

col dire e con la luce che mi ammanta;

né più amor mi fece esser più presta;

ché più e tanto amor quinci sù ferve,

sì come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma l'alta carità, che ci fa serve

pronte al consiglio che 'l mondo governa,

sorteggia qui sì come tu osserve".

"Io veggio ben", diss'io, "sacra lucerna,

come libero amore in questa corte

basta a seguir la provedenza etterna;

ma questo è quel ch'a cerner mi par forte,

perché predestinata fosti sola

a questo officio tra le tue consorte".

Né venni prima a l'ultima parola,

che del suo mezzo fece il lume centro,

girando sé come veloce mola;

poi rispuose l'amor che v'era dentro:

"Luce divina sopra me s'appunta,

penetrando per questa in ch'io m'inventro,

la cui virtù, col mio veder congiunta,

mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio

la somma essenza de la quale è munta.

Quinci vien l'allegrezza ond'io fiammeggio;

per ch'a la vista mia, quant'ella è chiara,

la chiarità de la fiamma pareggio.

Ma quell'alma nel ciel che più si schiara,

quel serafin che 'n Dio più l'occhio ha fisso,

a la dimanda tua non satisfara,

però che sì s'innoltra ne lo abisso

de l'etterno statuto quel che chiedi,

che da ogni creata vista è scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,

questo rapporta, sì che non presumma

a tanto segno più mover li piedi.

La mente, che qui luce, in terra fumma;

onde riguarda come può là giùe

quel che non pote perché 'l ciel l'assumma".

Sì mi prescrisser le parole sue,

ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi

a dimandarla umilmente chi fue.

"Tra ' due liti d'Italia surgon sassi,

e non molto distanti a la tua patria,

tanto che ' troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,

di sotto al quale è consecrato un ermo,

che suole esser disposto a sola latria".

Così ricominciommi il terzo sermo;

e poi, continuando, disse: "Quivi

al servigio di Dio mi fe' sì fermo,

che pur con cibi di liquor d'ulivi

lievemente passava caldi e geli,

contento ne' pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli

fertilemente; e ora è fatto vano,

sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu' io Pietro Damiano,

e Pietro Peccator fu' ne la casa

di Nostra Donna in sul lito adriano.

Poca vita mortal m'era rimasa,

quando fui chiesto e tratto a quel cappello,

che pur di male in peggio si travasa.

Venne Cefàs e venne il gran vasello

de lo Spirito Santo, magri e scalzi,

prendendo il cibo da qualunque ostello.

Or voglion quinci e quindi chi rincalzi

li moderni pastori e chi li meni,

tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.

Cuopron d'i manti loro i palafreni,

sì che due bestie van sott'una pelle:

oh pazienza che tanto sostieni!".

A questa voce vid'io più fiammelle

di grado in grado scendere e girarsi,

e ogni giro le facea più belle.

Dintorno a questa vennero e fermarsi,

e fero un grido di sì alto suono,

che non potrebbe qui assomigliarsi;

né io lo 'ntesi, sì mi vinse il tuono.

 

Canto XXII

Oppresso di stupore, a la mia guida

mi volsi, come parvol che ricorre

sempre colà dove più si confida;

e quella, come madre che soccorre

sùbito al figlio palido e anelo

con la sua voce, che 'l suol ben disporre,

mi disse: "Non sai tu che tu se' in cielo?

e non sai tu che 'l cielo è tutto santo,

e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

Come t'avrebbe trasmutato il canto,

e io ridendo, mo pensar lo puoi,

poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto;

nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi,

già ti sarebbe nota la vendetta

che tu vedrai innanzi che tu muoi.

La spada di qua sù non taglia in fretta

né tardo, ma' ch'al parer di colui

che disiando o temendo l'aspetta.

Ma rivolgiti omai inverso altrui;

ch'assai illustri spiriti vedrai,

se com'io dico l'aspetto redui".

Come a lei piacque, li occhi ritornai,

e vidi cento sperule che 'nsieme

più s'abbellivan con mutui rai.

Io stava come quei che 'n sé repreme

la punta del disio, e non s'attenta

di domandar, sì del troppo si teme;

e la maggiore e la più luculenta

di quelle margherite innanzi fessi,

per far di sé la mia voglia contenta.

Poi dentro a lei udi': "Se tu vedessi

com'io la carità che tra noi arde,

li tuoi concetti sarebbero espressi.

Ma perché tu, aspettando, non tarde

a l'alto fine, io ti farò risposta

pur al pensier, da che sì ti riguarde.

Quel monte a cui Cassino è ne la costa

fu frequentato già in su la cima

da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima

lo nome di colui che 'n terra addusse

la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,

ch'io ritrassi le ville circunstanti

da l'empio cólto che 'l mondo sedusse.

Questi altri fuochi tutti contemplanti

uomini fuoro, accesi di quel caldo

che fa nascere i fiori e ' frutti santi.

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,

qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo".

E io a lui: "L'affetto che dimostri

meco parlando, e la buona sembianza

ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri,

così m'ha dilatata mia fidanza,

come 'l sol fa la rosa quando aperta

tanto divien quant'ell'ha di possanza.

Però ti priego, e tu, padre, m'accerta

s'io posso prender tanta grazia, ch'io

ti veggia con imagine scoverta".

Ond'elli: "Frate, il tuo alto disio

s'adempierà in su l'ultima spera,

ove s'adempion tutti li altri e 'l mio.

Ivi è perfetta, matura e intera

ciascuna disianza; in quella sola

è ogni parte là ove sempr'era,

perché non è in loco e non s'impola;

e nostra scala infino ad essa varca,

onde così dal viso ti s'invola.

Infin là sù la vide il patriarca

Iacobbe porger la superna parte,

quando li apparve d'angeli sì carca.

Ma, per salirla, mo nessun diparte

da terra i piedi, e la regola mia

rimasa è per danno de le carte.

Le mura che solieno esser badia

fatte sono spelonche, e le cocolle

sacca son piene di farina ria.

Ma grave usura tanto non si tolle

contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto

che fa il cor de' monaci sì folle;

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto

è de la gente che per Dio dimanda;

non di parenti né d'altro più brutto.

La carne d'i mortali è tanto blanda,

che giù non basta buon cominciamento

dal nascer de la quercia al far la ghianda.

Pier cominciò sanz'oro e sanz'argento,

e io con orazione e con digiuno,

e Francesco umilmente il suo convento;

e se guardi 'l principio di ciascuno,

poscia riguardi là dov'è trascorso,

tu vederai del bianco fatto bruno.

Veramente Iordan vòlto retrorso

più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse,

mirabile a veder che qui 'l soccorso".

Così mi disse, e indi si raccolse

al suo collegio, e 'l collegio si strinse;

poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse.

La dolce donna dietro a lor mi pinse

con un sol cenno su per quella scala,

sì sua virtù la mia natura vinse;

né mai qua giù dove si monta e cala

naturalmente, fu sì ratto moto

ch'agguagliar si potesse a la mia ala.

S'io torni mai, lettore, a quel divoto

triunfo per lo quale io piango spesso

le mie peccata e 'l petto mi percuoto,

tu non avresti in tanto tratto e messo

nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno

che segue il Tauro e fui dentro da esso.

O gloriose stelle, o lume pregno

di gran virtù, dal quale io riconosco

tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s'ascondeva vosco

quelli ch'è padre d'ogni mortal vita,

quand'io senti' di prima l'aere tosco;

e poi, quando mi fu grazia largita

d'entrar ne l'alta rota che vi gira,

la vostra region mi fu sortita.

A voi divotamente ora sospira

l'anima mia, per acquistar virtute

al passo forte che a sé la tira.

"Tu se' sì presso a l'ultima salute",

cominciò Beatrice, "che tu dei

aver le luci tue chiare e acute;

e però, prima che tu più t'inlei,

rimira in giù, e vedi quanto mondo

sotto li piedi già esser ti fei;

sì che 'l tuo cor, quantunque può, giocondo

s'appresenti a la turba triunfante

che lieta vien per questo etera tondo".

Col viso ritornai per tutte quante

le sette spere, e vidi questo globo

tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;

e quel consiglio per migliore approbo

che l'ha per meno; e chi ad altro pensa

chiamar si puote veramente probo.

Vidi la figlia di Latona incensa

sanza quell'ombra che mi fu cagione

per che già la credetti rara e densa.

L'aspetto del tuo nato, Iperione,

quivi sostenni, e vidi com'si move

circa e vicino a lui Maia e Dione.

Quindi m'apparve il temperar di Giove

tra 'l padre e 'l figlio: e quindi mi fu chiaro

il variar che fanno di lor dove;

e tutti e sette mi si dimostraro

quanto son grandi e quanto son veloci

e come sono in distante riparo.

L'aiuola che ci fa tanto feroci,

volgendom'io con li etterni Gemelli,

tutta m'apparve da' colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

 

Canto XXIII

Come l'augello, intra l'amate fronde,

posato al nido de' suoi dolci nati

la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disiati

e per trovar lo cibo onde li pasca,

in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,

e con ardente affetto il sole aspetta,

fiso guardando pur che l'alba nasca;

così la donna mia stava eretta

e attenta, rivolta inver' la plaga

sotto la quale il sol mostra men fretta:

sì che, veggendola io sospesa e vaga,

fecimi qual è quei che disiando

altro vorria, e sperando s'appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,

del mio attender, dico, e del vedere

lo ciel venir più e più rischiarando;

e Beatrice disse: "Ecco le schiere

del triunfo di Cristo e tutto 'l frutto

ricolto del girar di queste spere!".

Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto,

e li occhi avea di letizia sì pieni,

che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne' plenilunii sereni

Trivia ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid'i' sopra migliaia di lucerne

un sol che tutte quante l'accendea,

come fa 'l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea

la lucente sustanza tanto chiara

nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Beatrice, dolce guida e cara!

Ella mi disse: "Quel che ti sobranza

è virtù da cui nulla si ripara.

Quivi è la sapienza e la possanza

ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra,

onde fu già sì lunga disianza".

Come foco di nube si diserra

per dilatarsi sì che non vi cape,

e fuor di sua natura in giù s'atterra,

la mente mia così, tra quelle dape

fatta più grande, di sé stessa uscìo,

e che si fesse rimembrar non sape.

"Apri li occhi e riguarda qual son io;

tu hai vedute cose, che possente

se' fatto a sostener lo riso mio".

Io era come quei che si risente

di visione oblita e che s'ingegna

indarno di ridurlasi a la mente,

quand'io udi' questa proferta, degna

di tanto grato, che mai non si stingue

del libro che 'l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue

che Polimnia con le suore fero

del latte lor dolcissimo più pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero

non si verria, cantando il santo riso

e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,

convien saltar lo sacrato poema,

come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema

e l'omero mortal che se ne carca,

nol biasmerebbe se sott'esso trema:

non è pareggio da picciola barca

quel che fendendo va l'ardita prora,

né da nocchier ch'a sé medesmo parca.

"Perché la faccia mia sì t'innamora,

che tu non ti rivolgi al bel giardino

che sotto i raggi di Cristo s'infiora?

Quivi è la rosa in che 'l verbo divino

carne si fece; quivi son li gigli

al cui odor si prese il buon cammino".

Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli

tutto era pronto, ancora mi rendei

a la battaglia de' debili cigli.

Come a raggio di sol che puro mei

per fratta nube, già prato di fiori

vider, coverti d'ombra, li occhi miei;

vid'io così più turbe di splendori,

folgorate di sù da raggi ardenti,

sanza veder principio di folgóri.

O benigna vertù che sì li 'mprenti,

sù t'essaltasti, per largirmi loco

a li occhi lì che non t'eran possenti.

Il nome del bel fior ch'io sempre invoco

e mane e sera, tutto mi ristrinse

l'animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse

il quale e il quanto de la viva stella

che là sù vince come qua giù vinse,

per entro il cielo scese una facella,

formata in cerchio a guisa di corona,

e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona

qua giù e più a sé l'anima tira,

parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira

onde si coronava il bel zaffiro

del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.

"Io sono amore angelico, che giro

l'alta letizia che spira del ventre

che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre

che seguirai tuo figlio, e farai dia

più la spera suprema perché lì entre".

Così la circulata melodia

si sigillava, e tutti li altri lumi

facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi

del mondo, che più ferve e più s'avviva

ne l'alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l'interna riva

tanto distante, che la sua parvenza,

là dov'io era, ancor non appariva:

però non ebber li occhi miei potenza

di seguitar la coronata fiamma

che si levò appresso sua semenza.

E come fantolin che 'nver' la mamma

tende le braccia, poi che 'l latte prese,

per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma;

ciascun di quei candori in sù si stese

con la sua cima, sì che l'alto affetto

ch'elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,

'Regina celi' cantando sì dolce,

che mai da me non si partì 'l diletto.

Oh quanta è l'ubertà che si soffolce

in quelle arche ricchissime che fuoro

a seminar qua giù buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro

che s'acquistò piangendo ne lo essilio

di Babillòn, ove si lasciò l'oro.

Quivi triunfa, sotto l'alto Filio

di Dio e di Maria, di sua vittoria,

e con l'antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.

 

Canto XXIV

"O sodalizio eletto a la gran cena

del benedetto Agnello, il qual vi ciba

sì, che la vostra voglia è sempre piena,

se per grazia di Dio questi preliba

di quel che cade de la vostra mensa,

prima che morte tempo li prescriba,

ponete mente a l'affezione immensa

e roratelo alquanto: voi bevete

sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa".

Così Beatrice; e quelle anime liete

si fero spere sopra fissi poli,

fiammando, a volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d'oriuoli

si giran sì, che 'l primo a chi pon mente

quieto pare, e l'ultimo che voli;

così quelle carole, differente-

mente danzando, de la sua ricchezza

mi facieno stimar, veloci e lente.

Di quella ch'io notai di più carezza

vid'io uscire un foco sì felice,

che nullo vi lasciò di più chiarezza;

e tre fiate intorno di Beatrice

si volse con un canto tanto divo,

che la mia fantasia nol mi ridice.

Però salta la penna e non lo scrivo:

ché l'imagine nostra a cotai pieghe,

non che 'l parlare, è troppo color vivo.

"O santa suora mia che sì ne prieghe

divota, per lo tuo ardente affetto

da quella bella spera mi disleghe".

Poscia fermato, il foco benedetto

a la mia donna dirizzò lo spiro,

che favellò così com'i' ho detto.

Ed ella: "O luce etterna del gran viro

a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,

ch'ei portò giù, di questo gaudio miro,

tenta costui di punti lievi e gravi,

come ti piace, intorno de la fede,

per la qual tu su per lo mare andavi.

S'elli ama bene e bene spera e crede,

non t'è occulto, perché 'l viso hai quivi

dov'ogni cosa dipinta si vede;

ma perché questo regno ha fatto civi

per la verace fede, a gloriarla,

di lei parlare è ben ch'a lui arrivi".

Sì come il baccialier s'arma e non parla

fin che 'l maestro la question propone,

per approvarla, non per terminarla,

così m'armava io d'ogni ragione

mentre ch'ella dicea, per esser presto

a tal querente e a tal professione.

"Di', buon Cristiano, fatti manifesto:

fede che è?". Ond'io levai la fronte

in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte

sembianze femmi perch'io spandessi

l'acqua di fuor del mio interno fonte.

"La Grazia che mi dà ch'io mi confessi",

comincia' io, "da l'alto primipilo,

faccia li miei concetti bene espressi".

E seguitai: "Come 'l verace stilo

ne scrisse, padre, del tuo caro frate

che mise teco Roma nel buon filo,

fede è sustanza di cose sperate

e argomento de le non parventi;

e questa pare a me sua quiditate".

Allora udi': "Dirittamente senti,

se bene intendi perché la ripuose

tra le sustanze, e poi tra li argomenti".

E io appresso: "Le profonde cose

che mi largiscon qui la lor parvenza,

a li occhi di là giù son sì ascose,

che l'esser loro v'è in sola credenza,

sopra la qual si fonda l'alta spene;

e però di sustanza prende intenza.

E da questa credenza ci convene

silogizzar, sanz'avere altra vista:

però intenza d'argomento tene".

Allora udi': "Se quantunque s'acquista

giù per dottrina, fosse così 'nteso,

non lì avria loco ingegno di sofista".

Così spirò di quello amore acceso;

indi soggiunse: "Assai bene è trascorsa

d'esta moneta già la lega e 'l peso;

ma dimmi se tu l'hai ne la tua borsa".

Ond'io: "Sì ho, sì lucida e sì tonda,

che nel suo conio nulla mi s'inforsa".

Appresso uscì de la luce profonda

che lì splendeva: "Questa cara gioia

sopra la quale ogni virtù si fonda,

onde ti venne?". E io: "La larga ploia

de lo Spirito Santo, ch'è diffusa

in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia,

è silogismo che la m'ha conchiusa

acutamente sì, che 'nverso d'ella

ogni dimostrazion mi pare ottusa".

Io udi' poi: "L'antica e la novella

proposizion che così ti conchiude,

perché l'hai tu per divina favella?".

E io: "La prova che 'l ver mi dischiude,

son l'opere seguite, a che natura

non scalda ferro mai né batte incude".

Risposto fummi: "Di', chi t'assicura

che quell'opere fosser? Quel medesmo

che vuol provarsi, non altri, il ti giura".

"Se 'l mondo si rivolse al cristianesmo",

diss'io, "sanza miracoli, quest'uno

è tal, che li altri non sono il centesmo:

ché tu intrasti povero e digiuno

in campo, a seminar la buona pianta

che fu già vite e ora è fatta pruno".

Finito questo, l'alta corte santa

risonò per le spere un 'Dio laudamo'

ne la melode che là sù si canta.

E quel baron che sì di ramo in ramo,

essaminando, già tratto m'avea,

che a l'ultime fronde appressavamo,

ricominciò: "La Grazia, che donnea

con la tua mente, la bocca t'aperse

infino a qui come aprir si dovea,

sì ch'io approvo ciò che fuori emerse;

ma or conviene espremer quel che credi,

e onde a la credenza tua s'offerse".

"O santo padre, e spirito che vedi

ciò che credesti sì, che tu vincesti

ver' lo sepulcro più giovani piedi",

comincia' io, "tu vuo' ch'io manifesti

la forma qui del pronto creder mio,

e anche la cagion di lui chiedesti.

E io rispondo: Io credo in uno Dio

solo ed etterno, che tutto 'l ciel move,

non moto, con amore e con disio;

e a tal creder non ho io pur prove

fisice e metafisice, ma dalmi

anche la verità che quinci piove

per Moisè, per profeti e per salmi,

per l'Evangelio e per voi che scriveste

poi che l'ardente Spirto vi fé almi;

e credo in tre persone etterne, e queste

credo una essenza sì una e sì trina,

che soffera congiunto 'sono' ed 'este'.

De la profonda condizion divina

ch'io tocco mo, la mente mi sigilla

più volte l'evangelica dottrina.

Quest'è 'l principio, quest'è la favilla

che si dilata in fiamma poi vivace,

e come stella in cielo in me scintilla".

Come 'l segnor ch'ascolta quel che i piace,

da indi abbraccia il servo, gratulando

per la novella, tosto ch'el si tace;

così, benedicendomi cantando,

tre volte cinse me, sì com'io tacqui,

l'appostolico lume al cui comando

io avea detto: sì nel dir li piacqui!

 Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 10/07/05 17.04