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Satire

di. SALVATOR ROSA

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SATIRA PRIMA

LA MUSICA

Abbia il vero, o Priapo, il luogo suo:
se gl<i> asini a te sol son dedicati
3 bisogna dir ch'il mondo d'oggi è tuo.
Crédemi che si son tanto avanzati
i tuoi vassalli, che d'un Serse al pari
6 tu potresti formar squadroni armati.
S'ergano al nome tuo tempii ed altari,
ché ne le corti a i primi onori assunti
9 da un influsso bestial sono i somari;
ché, s'io non erro al calcolar de' punti,
par ch'asinina stella a noi predòmini
10 e 'l Somaro e 'l Castron si sian congiunti.
Il tempo d'Apuleio più non si nomini,
ché s'allora un sol uom sembrava un asino,
15 mill'asini a i miei dì rassembran uomini.
Magino e Tolomeo la causa annàsino
che in domicilio de' moderni Giovi
18 fa che tanti somari oggi s'accàsino.
Italia, il nome che ti diêro i bovi,
or che d'asini sei fatta sentina,
21 necessario sarà che tu rinovi.
È così folta omai quest'asinina
turba, ch'ovunque in te gl<i> occhi rivolgo
24 Arcadia raffiguro e Palestina.
Quando 'l pensiero a contemplargli io volgo,
col gran numero lor fan ch'io trasecolo
27 gl<i> asini del senato e quei del volgo.
Su le cronologie più non ispecolo:
mi forza a dire il paragone e 'l saggio
30 che questo mio di Balaam è il secolo.
Multiplicato è il marchegian linguaggio,
e per dirla in pochissime parole
33 l'anno s'è tutto convertito in maggio;
più che in Leone arde in Somaro il Sole
e, a ciò che meglio inasenisca il mondo,
36 s'apron per tutto del ragliar le scuole.
Quanto gira la terra a tando a tondo
luogo alcuno non v'ha che di schiamazzi
39 e di solfe non sia pieno e fecondo.
E pur si vedon ir peggio che pazzi
i prencipi in cercar questa canaglia,
42 scandolo de le corti e de' palazzi.
Virtute oggi né meno ha tanta paglia
per gettarsi a giacere, e a borsa sciolta
45 spende l'oro de i re turba che raglia;
né si vede altra gente andare in volta
che puttane e castrati innanzi e indietro,
48 e le regge un di lor volta e rivolta;
e tale influsso è sì maligno e tetro
che s'infettò di questa pestilenza
51 il bel cielo di Marco e quel di Pietro:
chiama in Roma più gente alla sua audienza
l'arpa d'una Licisca cantatrice
54 che la campana de la Sapienza.
Ad un musico bello il tutto lice:
di ciò ch'ei fa, che brama ottiene il vanto,
57 ch'un bel volto che canta oggi è felice.
Io non biasimo già l'arte del canto,
ma sì bene i cantori viziosi
60 ch'hanno sporcato a la modestia il manto.
So ben ch'era mestier da virtuosi
la musica una volta, e l'imparavano
63 fra gl<i> uomini più grandi i più famosi;
so che Davide e Socrate cantavano
e che l'arcade, il greco e lo spartano
66 d'ogni altra scienza al par la celebravano,
e Temistocle già, l'eroe sovrano,
fu stimato assai men d'Epaminonda
69 per non saper cantar come il tebano;
so che fu di miracoli feconda
e che sapea ritôr l'anime a Lete
72 ben che fussero quasi in su la sponda;
so che di Creta discacciò Talete
la peste con la musica, e Peone
75 guaría le malatie gravi e secrete;
so ch'Asclepiade con un suo trombone
i sordi medicava, e de' lunatici
78 l'agitante furor sopía Damone;
so ch'Anfione a gli uomini selvatici
con la lira insegnò l'umanità
81 e ch'un altro sanava i mali acquatici;
ma chi m'adita in questa nostra età
un cantor che a Pittagora simíle
84 la gioventù riduca a castità?
È la musica odierna indegna e vile,
perché trattata è sol con arroganza
87 da gente viziosissima e servile:
gente albergo d'obbrobio e d'ignoranza,
sordida turcimanna di lussurie,
90 gente senza rossor, senza creanza.
Di sì fatta genía non son penurie,
sol di becchi e castrati Italia abbonda
93 e i cornuti e i cantor vanno a centurie:
turba di saltinbanchi vagabonda,
fatta vituperosa in su le scene,
96 d'ogni lascivia e disonor feconda;
sol di Sempronie le città son piene,
che con maniere infami e vergognose
99 danno il tracollo agli uomini da bene.
Dove s'udiron mai sì fatte cose?
Dirsi il canto virtude e le puttane
102 il nome milantar di virtuose!
Arrossite al dir mio, donne romane!
Le di voi profanissime ariette
105 han fatto al disonor le strade piane;
le vostre chitarriglie e le spinette
de' postriboli son base e sostegni,
108 aperti ruffianesmi a le brachette.
Io sgrido, io sgrido voi, maestri indegni,
voi che il mondo insegnate a imputtanirsi,
111 senza temer del ciel l'ira e gli sdegni!
Da l'opre vostre ognor miro ammolirsi
anche i più forti, e l'anime relasse
114 languire al sospirar di Filli e Tirsi.
Musica, freggio vil d'anime basse,
salsa de' lupanari, ond'è ch'io strillo,
117 arte sol da puttane e da bardasse!
Questi han trovato il candido lapillo
con cui veggio segnar sin dalle culle
120 felicissimi i dì Taide e Batillo;
questi so' i ciurmator di tue fanciulle,
Roma, che fan cangiar a i dì nostrali
123 le Porzie in Nine e le Lucrezie in Lulle;
questi, o padri, son quei ch'a le vestali
di vostra casa tolgono il primiero
126 preggio de' sacri fiori verginali;
questi son quei ch'insegnano il mestiero
di popolare e d'erudire i chiassi,
129 mascherar da virtude il vituperio.
Agamenone mio, se tu lasciassi
oggi per guardia a la tua moglie un musico,
132 quanti Egisti cred'io che tu trovassi!
Dal peruano suolo al lido prusico
alcun non è ch'abbia avvezzato il cuoio
135 più di costoro a l'ago del cerusico:
da le risa talor quasi mi muoio
in veder divenir questi arroganti
138 calamita del legno e del rasoio;
e non di meno son portati avanti
e favoriti da la sorte instabile
141 per la dolce malía de' suoni e canti.
Solo in un caso un musico è prezzabile,
ché quando intuona a i prencipi la nenia
144 se ne cava un diletto imparegiabile;
ma del restante poi già l'antistenia
sentenza grida ch'ha per impossibile
147 che sia buon uomo e sia cantore Ismenia.
Fanno il mezzano a la concubiscibile
senza temer di Dio gl<i> occhi severi,
150 ché il cielo appresso lor fatto è risibile.
Son lenocinî i canti a gl<i> adulterî
e le vergini prese a quest'inganni
153 si fan bagasce almen co i desiderî:
van sempre uniti e serenate e danni,
perché son giusto il canto e l'onestade
156 il carbonar d'Esopo e 'l nettapanni.
Di Gnesippo oggidì calca le strade
il musico lascivo, e son promossi
159 solo i canti del Nilo e quei di Gade.
Io non dico buggie né paradossi:
corre dietro al cantar l'incontinenza
162 come farfalla al lume e cane a gli ossi.
Chi ha prattica di questi e conoscenza
può dir se de la musica è compagna
165 la gola, l'albagía, l'impertinenza.
Per questa razza nulla si sparagna:
i suditi s'agravano e i vassalli
168 per aprire a i cantor grassa cuccagna;
per costoro non ha spazi o intervalli
una grazia dall'altra, e versa il corno
171 la copia in grembo al fomite de' falli.
Non si terrebbe di corona adorno
se non avesse un re più d'un Iopa
174 che tutto il dì le gorghegiasse attorno,
ed è cotanto imbrodolata Europa
di questa feccia, che a nettarne il guazzo
177 in van Catone adoprería la scopa.
Era l'odio di Roma e lo strapazzo
la musica una volta: or mira il Lazio
180 se dietro a quella è divenuto pazzo!
Quanti Tegelii contarebbe Orazio
in questo secolaccio iniqui e sciocchi,
183 che non han mai di mal l'animo sazio!
E fin dentro a le chiese a questi alocchi
s'oprano i nidi; i profanati tempî
186 scemano in parte il vituperio a i socchi;
e pur è ver che con indegni esempi
diventano bestemmie a i giorni nostri
189 di Dio gl'inni et i salmi in bocca a gli empi.
Che scandalo è il sentir ne' sacri rostri
grugnir il vespro et abaiar la messa,
192 ragliar le gloria, i credo e i paternostri!
Apporta, d'urli e di mugiti impressa,
l'aria agli orecchii altrui tedî e molestie,
195 che udir non puossi una sol voce espressa;
sì che pien di baccano e d'imodestie
il sacrario d'Idio sembra, al vedere,
198 un'arca di Noè fra tante bestie,
si sente per tutto a più potere
(ond'è ch'ogn'uom si scandalizza e tedia)
201 cantar su la ciaccona il miserere,
e con stili da sfarze e da comedia
e gighe e sarabande a la distesa:
204 e pure a un tanto mal non si rimedia.
Chi vide mai più la modestia offesa?
Far da Filli un castron la sera in palco
207 e la matina il sacerdote in chiesa?
So che un sentier pericoloso io calco,
ma in dir la verità costante io sono,
210 né ci voglio adoprar velo né talco.
A l'orecchio d'Idio più grato è il tuono
d'un cor che taccia e si confessi reo
213 che di cento Arioni il canto e 'l suono;
chi vuol cantar segua il salmista ebreo
et imiti Cecilia e non Talia,
216 dietro a l'orme di Giobbe e non d'Orfeo:
penetra sol al ciel quell'armonia
che, in vece d'intonar canto che nòce,
219 piange le colpe sue con Geremia;
il ciel s'adora con portar la croce,
con bontà di costumi e non di mano,
222 purità di coscienza e non di voce.
Vergognosa follia d'un petto insano!
Nel tempo elletto a prepararsi il core
225 si sta nel tempio con le solfe in mano;
quando stillar dovría gli occhi in umore,
l'impazzito cristian gli orecchi intenti
228 tiene all'arte d'un basso o d'un tenore,
e in mezzo a mille armonici istromenti
de' profeti santissimi una Lamia
231 mette in canzona i flebili lamenti.
O del prescíto mondo atroce infamia!
Vie più di Bettelem in prezzo sei
234 per l'autor delle note, isola Samia.
Affermar con certezza io non saprei
se il mondo sia più pien di pittagorici
237 o d'ingordi epuloni o pur d'atèi;
io dico il ver senza color rettorici:
tutti i canti oggimai sono immodesti,
240 e mesolidii e frigii e lidii e dorici.
Musica mia, non so se sì molesti,
come son ora i professori tuoi,
243 eran già quei martelli onde nascesti;
tu senza colpa ne venisti a noi
e s'adesso ten vai piena d'errori
246 è perché capitasti in man de' buoi.
E pure a questi sol si fan gli onori,
questi cercati son (le teste esperte!)
249 e pronti a i cenni lor stanno i tesori;
questi trovan per tutto ampie l'offerte,
gli stipendii, i salarii a man baciata,
252 erarii, scrigni e guardarobbe aperte;
et a questa progenie interessata
si dan le prime carriche e gli offizii,
255 tanto la vanitade oggi è stimata.
E se ben servon di fomento ai vizii,
lor piovon sempre mai, in grembo a i spassi,
258 entrate, pensioni e benefizii;
così, fatti in un tratto e tondi e grassi,
scordati de' natali e del prencipio,
261 fanno da satraponi e da gradassi.
Et un stronzo animato, un vil mancipio,
avvezzo a la portiera et al tinello,
264 starebbe a tu per tu con Mario e Scipio?
Un baron rivestito, un bricconcello
per quattro note ha tal temeritade
267 che vuol col galantuom stare a duello.
Oh quanto si può dir con veritade
che colla pelle del leone ardisce
270 di coprirse oggidì l'asinitade!
E si gonfia e si vanta e insuperbisce,
e per farla cantar si suda e stenta,
273 ma, s'incomincia, poi mai la finisce.
Ciurma che mai si sazia o si contenta,
quanto più se le dà, più se le dona,
276 scellerata divien, peggior diventa:
plebbe ch'altro non pensa e non raggiona
ch'a passar l'ore in crapole e sbadigli,
279 ch'a viver a la peggio, a la briccona.
In questi tempi mutería consigli
l'ape, qual disse al culice una volta
282 ch'insegnar non volea musica a i figli,
poi ch'altro non si stima e non s'ascolta
fuor d'un cantor o un sonator di tasti,
285 e questa razza è sol ben vista e accolta.
Bella legge Cornelia, ove n'andasti,
in quest'età che per castrare i putti
288 tutta Norcia, per Dio, non par che basti?
I Callicoli e i Veri indegni e brutti
son ritornati a fabricar encomii
291 a questi vili e sordidi margutti.
A che serve il compor volumi e tomi
se in tutti i tempi inclinano le stelle
294 de gli Aristoni al canto e de gli Eunomi?
La fola del monton di Frisso e d'Elle
verificata io vo' mostrarvi a dito,
297 se d'oro ogni castron porta la pelle.
Quindi mi disse un corteggian forbito,
ch'in Roma s'era fatto il pel canuto
300 e lograto ci avea più d'un vestito,
che in corte chi vuol esser[e] ben voluto
abbia poco cervello in testa accolto,
303 sia musico o ruffian, ma non barbuto,
di poca bile, ma livor dimolto,
e fugga come il fuoco i personaggi
306 chi non ha più d'un core e più d'un volto.
Son miracoli usati, entro a i palaggi,
che un musico sbarbato co i suoi vezzi
309 cavalcato scavalchi anche i più saggi.
O quanto degni fûro i tuoi disprezzi,
gran Solimano, allor ch'a queste sporche
312 razze facesti gl'istromenti in pezzi!
Tu, su l'armate al fremito dell'orche
avvezzo, là sul faretrato Oronte
315 le sirene mandasti in su le forche.
E Pirro ad un, che con audace fronte
un musico lodò, nulla rispose,
318 ma si volse a lodar Poliperconte.
Et Anafilia già disse e depose
ch'al par di Libia il canto al nostro orecchio
321 manda fère oggidì più mostruose.
Sia benedetto pur quel santo vecchio
che di questi sacrileghi e perversi
324 in chiesa non volea l'empio apparecchio;
e benedetti siano i Medi e i Persi
che i parasiti, i musici e i buffoni
327 non stimârno giammai punto diversi;
benedette le donne de' Ciconi
che fêro al canto d'Orfeo la battuta
330 co i cromatici lor santi bastoni!
Oggi nessun gli scaccia o gli rifiuta,
anzi in casa de' principi e de' reggi
333 questa genía è sol la ben veduta;
e cresciuti così sono i suoi preggi
che per le regge serpe e si distende
336 l'arte di questi pantomimi egregi.
A la musica in corte ognuno attende:
do re mi fa sol la canta chi sale,
339 la sol fa mi re do canta chi scende.
Usa in corte una musica bestiale:
par ch'a fare il soprano ognuno aspiri,
342 ma nel fare il falzetto ognun prevale.
Cantano in lei benissimo i Zopíri,
l'adulatore, il pazzo e lo spione,
345 l'aiutante del letto e de' raggiri;
ma mi par troppo gran contradizione
ch'abbia sorte con lei solo il castrato,
348 s'ha fortuna con lei solo il coglione.
Prencipi, il canto è da voi tanto amato
che non vi vola il sonno al supercilio
351 se da quello non v'è pria lusingato;
la quiete da voi vola in esilio
senza il letto gemmato e senza il coro,
354 di Saul ad esempio e di Carvilio.
Gratis del sonno il placido ristoro
manda natura alor ch'il cielo è fosco,
357 e voi pazzi il comprate a peso d'oro!
Letto più prezioso io non conosco
che farmi di vitalbe una trabacca,
360 coltrice il prato e padiglione il bosco,
e quando il sonno a gli occhi miei s'attacca
un dolce oblio santo Morfeo mi presta
363 che mi tura le luci a ceralacca.
Io non invidio, no, la vostra testa,
che non ha requie mai quand'ella dorme
366 e tutta è sogni poi quand'ella è desta.
Se voi volete un sonno al mio conforme,
vegliate de la notte una gran parte
369 studiando ben di governar le norme;
ma si cerchi da voi l'ufizio e l'arte
che deve usare un prence e giusto e pio
372 ne' libri e non nel gioco in su le carte;
in vece d'un castrato ingordo e rio
tenete un usignol, che nulla chiede
375 e forse i canti suoi son inni a Dio.
Quel popolo che a voi giurò la fede
per le vie seminudo et a migliaia
378 mendicando la vita andar si vede,
e pur gettate l'oro, e non è baia,
dietro ad una bagascia, a un castratino
381 a la cieca, a saccate, a centinaia,
et ad un scalzo misero e meschino,
che casca dal bisogno e da la fame,
384 si niega un miserabile quattrino.
A che votar l'erario in paggi e dame
e spender tanto in guardie a capo d'anno
387 in un branco venal di gente infame?
Non sa temere un giusto offesa o danno,
ch'argomento è il timor d'occulti falli
390 e gran segno è in un re d'esser tiranno.
A che serve il tener fanti e cavalli,
se la guardia maggior ch'abbia un regnante
393 è l'amor de' soggetti e de' vassalli?
A che giova il nutrir squadra volante
di sparvieri e falcon sì grande e varia
396 e buttar via tante monete e tante?
La vostra naturaccia, al ben contraria,
sazia non è di scorticar la terra,
399 che va facendo le rapine in aria?
Deh, quel<l>'alma real ch'in voi si serra
lasci una volta questi abbusi indegni
402 e la memoria lor giacia sotterra;
generosa superbia in voi si sdegni
di servire a gli affetti, e vi ricordi
405 che sète nati a dominare i regni;
le passioni indomite e discordi
sia vostra cura in armonia comporre
408 e far che il senso a la ragion s'accordi:
questa musica in voi si deve accôrre,
e non quell'altra, il di cui preggio è solo
411 accordar cetre e l'animo scomporre.
Testimonio bastante, e non già solo,
il cinico mi sia che già nel foro
414 tutto accusò de' musici lo stuolo.
Non è virtù d'un animo o decoro
trattar chitarre, cimbali e le£ti,
417 né diletto è da re musico coro,
ma ben d'animi molli e dissoluti,
da persone lascive e da impudichi,
420 da spirti di piacer solo imbeuti.
Ma che occorre che tanto io m'affatichi
se di quei detti che il furor m'ispira
423 non mi lascian mentire i tempi antichi?
Parli Antigon per me, che colmo d'ira
ad Alesandro, un dì ch'al canto attese,
426 furibondo di man strappò la lira,
e con voci di sdegno e zelo accese,
fatto volare in mille pezzi il suono,
429 il musico suo re così riprese:
- Queste adunque son l'arti e questi sono
i nobili esercizii ond'io credei
432 al tuo genio crescente angusto il trono?
Sono questi gli studii ond'io potei
argomenti ritrar d'indole altera
435 che di te promettea palme e trofei?
Questo è dunque il sudor d'alma ch'impera?
Questo è dunque il desío che porta impresso
438 una mente magnanima e guerriera?
Alesandro, Alesandro, o da te stesso
troppo diverso e da' princípi tuoi,
441 da qual vana follia ti veggio oppresso?
Così non vassi a debellar gli Eòi,
né son questi i sentieri in cui stampâro
444 orme di gloria i trapassati eroi;
segni d'opere grandi in te mostrâro
le tue virtù, la maestà fanciulla,
447 un raggio di valore illustre e chiaro:
a pena l'esser tuo partì dal nulla
che portò seco in sul natale impresse
450 l'espettazioni a insuperbir la culla.
Tremava il piede infante allor che lesse
in quei vestiggi il genitor deluso
453 una serie immortal d'alte promesse;
de la tenera man l'uffizio e l'uso,
che sol godea del brando, in te scopría
456 un non so che di più ch'umano infuso.
O tradite speranze, o della mia
stolta credulità pensier fallace,
459 ecco del vostro re la monarchia,
ecco l'Ercole vostro, il vostro Aiace,
il vostro Teseo, il presagito Acchille,
462 de l'Asia deplorata ecco la face,
ecco colui che trionfar di mille
regni dovea, e su stranieri liti
465 versar dal crin le generose stille!
Non son tali, Alesandro, i fatti aviti
e non deve un eroe nato a gli scettri
468 star su le corde ammaestrando i diti;
non convengono insieme i brandi e i plettri,
son contrarî tra lor porpora e cetra,
471 né fu il canto giammai degno d'elettri.
Prencipe che desía d'alzarsi all'etra,
in vece di trattar corde nefande,
474 de la tromba di fama il suono impetra.
Questo non è mestier d'anima grande;
chi dietro a fole e vanitadi aggogna
477 non fa cose immortali e memorande.
Rinfacciarti di nuovo a me bisogna
che Filippo tuo padre un dì ti disse
480 che il saper ben cantar è gran vergogna.
Volgi un poco la mente e mira Ulisse,
tu che logrando stai sovra le corde
483 l'ore ch'a i tuoi trionfi il ciel prefisse:
mira quel saggio in suo voler concorde
che s'incera l'orecchio a i canti impuri,
486 per non sentir, de le sirene ingorde.
Allettar ti dovrian sistri e tamburi:
anima che di fama e gloria ha sete
489 così lascia il suo nome a i dì futuri.
Son le musiche corde armi di Lete,
grand'incanto de' vili e de' melensi,
492 e di femineo cor fascino e rete.
Chi torpe nel piacer volar non pensi
a le stelle giammai, ché sempre fûro
495 del bel ciel de la gloria Icari i sensi.
È de l'onore il calle alpestre e duro;
fugge sol dell'età l'ire omicide
498 chi fa de l'opre sue virtù l'Arturo.
Co i fatti eccelsi immortalossi Alcide,
né con la lira mai si fece illustre,
501 ma bensì con la spada il gran Pelide.
Trarrà del nome tuo l'aura palustre
il mondo, tutto a rimirare intento
504 un re mutato in un cantore industre.
Né t'ingombra la mente alto spavento,
né vola ratto ad occultarti il volto
507 travestito a' russori il pentimento?
Cangia, cangia pensier sì vano e stolto,
e non si tardi a discacciare in fretta
510 quest'enorme magia che a te ti ha tolto.
Buono sempre non è quel che diletta,
né il canto è meta mai d'opere eccelse
513 se le menti men forti adesca e alletta;
sol quello è vero re ch'elesse e scelse
la strada de' sudori, e che dall'alma,
516 mentre nascean, le voluttà divelse;
prudenza è il non dar fede a lieta calma
et è follia se credi e se prosumi
519 che sull'ebano tuo spunti la palma.
Ah, che de l'empia Circe i rei costumi
de le menti più tenere e più molli
522 s'ingegnon sol d'adormentare i lumi.
Non siano i tuoi di vigilar satolli,
ché deve aver cent'occhi un re, com'Argo,
525 perché l'idra de' vizii ha cento colli;
né senz'alta caggione i detti io spargo,
perché so che d'un petto, ancor che forte,
528 fu la musica sempre un gran lettargo:
grand'esempio ti sia d'Argo la sorte,
che d'un canto soave a i dolci inganni
531 serrò le luci e ritrovò la morte.
Chi si vuole eternar sudi e s'affanni,
ché un nome non si può tôrre ad Averno
534 senza lottar col vorator degl<i> anni.
De gli interni desî specchio è l'esterno:
chi fatica nel ben non muor se muore,
537 ché virtude è del cor balsamo eterno;
vizio e virtù mai diventò minore
perch'a mostrar che de' giganti è figlia
540 studia la fama a divenir maggiore.
L'usata maestade in te ripiglia
e con la tua prudenza e la fortezza
543 te medesmo componi e te consiglia.
Gli usi che noi prendiamo in giovenezza,
se non vi s'ha riguardo e gran premura,
546 si strascinano ancor ne la vecchiezza;
piaga che non si tratta e non si cura
maraviglia non è che poi marcisca,
549 ché il mutar vecch<i>'usanza è cosa dura.
Quanto gl<i> animi grandi inlanguidisca
questa mentita attossicata gioia,
552 Ettore te lo dica e t'amonisca:
sentilo come sbeffa e come annoia
Pari, che già si procacciò cantando
555 l'amor d'Elèna e la caduta a Troia;
mira Palla colà che sta gettando
gl'istromenti del canto im.mezzo all'onde
558 per mandarlo da sé per sempre in bando.
Ma l'antiche memorie io lascio altronde:
mira in che stima sia chi canta o suona
561 e del Tebro e del Nilo in su le sponde.
La musica non sol come non buona
Alcibiade sprezzò, ma la chiamava
564 cosa indegna di libera persona.
Scaccia, scaccia da te voglia sì prava
e vada l'alma a ripigliar veloce
567 il sentier de l'onor che pria calcava.
Prendi in grado che sia questa mia voce
uno sprone pungente al tuo desio,
570 ché virtù stimolata è più feroce.
Parla teco così l'affetto mio:
che si tralasci omai e si posterghi
573 questo morbo de' sensi e quest'oblio.
Se l'istoria di te vuoi che si verghi
ricordarti tu dèi che non si tratta
576 ne le corde l'acciar, ma ne gli usberghi.
Eterna è Troia, ancor che sia disfatta,
ché per quei che pugnâr là presso Antandro
579 una fama immortal l'ali l'adatta.
Queste molli armonie lascia a Terpandro
e, di sola virtù gli affetti onusti,
582 ad Alesandro omai renda Alesandro. -
Così del canto a i secoli vetusti
Antigono il suo re sgrida e rappella
585 a pensieri più saggi e più robusti.
Dall'Antigono mio, dal re di Pella,
principi del mio tempo, alzate il velo,
588 ché il mistico mio dir con voi favella;
Antigono son io che vi querelo,
e voi siete Alesandri: io vi sgridai,
591 tocca adesso l'emenda al vostro zelo.
Augusto anch'egli si compiacque assai
e del canto e del suon, ma, dagli amici
594 ripreso un dì, non vi tornò più mai.
Col canto non si vincono i nemici,
anzi, ben che ei rassempri un scherzo e un gioco,
597 eventi partorì strani e infelici:
sempre nel suo principio il vizio è poco,
ma vi sovvenga che un incendio imenso
600 d'una breve favilla attrasse il fuoco.
Creder non vuole effeminato il senso
che da questa malía così soave
603 possa poi derivarne un male immenso;
ma se disponga il canto a cose prave
con maggiore evidenza a voi l'accenne
606 del superbo Neron l'esito grave.
Egli a fatica il principato ottenne,
che dopo cena il musico Tereno
609 ogni sera a cantar seco ritenne.
Or chi mai credería che dentro un seno
questo piacer, che così buono appare,
612 dovesse partorir tanto veleno?
A poco a poco ei cominciò a sonare,
e poté tanto in lui questo diletto
615 che si diede alla fin tutto a cantare;
quindi, per farsi un musico perfetto
e cercando di far voce argentina,
618 la notte il piombo si tenea sul petto;
in osservare il c ntero e l'orina,
in vomitorii, pillole e braghieri
621 ebbe a fare impazzar la medicina;
e perché sempre avea volti i pensieri
de la voce a fuggir tutti i pericoli
624 si faceva ogni dì far de' cristieri;
e se dei re non fosse infra gli articoli
che non stian mai senza coglioni a lato,
627 si faceva cavar forse i testicoli.
Lo vide il mondo al fin tanto impazzato,
che passò sul teatro e su la scena
630 dal domestico canto e dal privato;
e credendosi omai d'esser sirena,
poco gli parve aver de le sue glorie
633 Napoli e Roma e tutta Italia piena,
onde a cercar del canto altre vittorie
se n'andò ne la Grecia e quivi affatto
636 finì di svergognar le sue memorie.
S'io volessi narrare ogn'opra, ogn'atto
che solo per cantar costui facea,
639 dell'istesso Neron sarei più matto;
bastimi il dir che quando Roma ardea
cantando ei se ne stava, e in fin morendo
642 disse che il mondo un gran cantor perdea.
Quanto d'infamità, quanto d'orrendo
per la musica fe' questo demonio
645 mostri se 'l canto a gran raggion riprendo:
tutta la vita sua fa testimonio
del gran danno del canto, e chi nol crede
648 in Tacito lo legga et in Svetonio.
Principi, al parlar mio porgete fede:
il tempo di Nerone, a quel ch'io veggio,
651 vuol nel secolo mio trovar l'erede.
Apre ognuno di voi la destra e 'l seggio
per inalzar la musica, e fra tanto
654 il mondo se ne va di male in peggio;
io mai non vidi in tanta stima il canto,
ma gli è ben anco ver che mai non vidi
657 il vizio a i giorni miei grande altrettanto.
Quanti, quanti oggidì ne' nostri lidi
uomini infami se ne stanno in nozze,
660 che del prossimo lor vòtano i nidi!
Quante gentacce scimunite e sozze,
le più indegne di vita, i più vigliacchi,
663 han palazzi, livree, ville e carrozze!
Oh quanti Licaoni, oh quanti Cacchi,
di mano a cui mai la fortuna scappa,
666 con i sudori altrui s'èmpiano i sacchi!
Quanti han velluto addosso e spada e cappa,
e manegian la lancia e fan da primi,
669 che in mano staría lor meglio la zappa!
Quanti radono il suolo e bassi et imi,
cui la sorte troncò de l'ali i nervi,
672 ch'han pensieri magnanimi e sublimi!
Oh quanti in questi secoli protervi
son chiamati signori e son serviti,
675 ch'essi meriterian d'essere i servi!
Quanti con volti palidi e mentiti
sono tutti oratorii e compagnie,
678 che vivon peggio assai de' Sarabiti,
e con laudi, rosarii e letanie,
e con pianti spesissimi e correnti
681 s'apron la strada a le forfantarie!
E con quanto russor miran le genti
sovra l'uscio de' ricchi i saggi e i dotti,
684 e i ricchi mai su l'uscio de' sapienti!
Oh quanti bufaloni, oh quanti arlotti,
ch'appena san parlare e non san leggere,
687 tengon le librarie per parer dotti!
Or questi abusi in vece di correggere,
voi fate cantacchiar la re mi fa
690 e festini e comedie e danze eleggere.
Quanto di voi saría fama e bontà
se quello che spendete in simil fole
693 si desse in sovvenir la povertà!
Tutta ribomba la terrena mole
di musici concenti, e quindi il povero
696 mentre il musico canta in van si duole.
Conosco ben ch'indarno io vi rimprovero
e so che dentro agli animi de' grandi
699 penitenza e russor non ha ricovero:
chi tratta a voglia sua leggi e comandi
sdegna le reprensioni e non permette
702 che l'orecchio adulato al cor le mandi;
ma che se tace un uom, le sue vendette
non però mute ha il ciel; con lingua ardente
705 forse un dì parleran tuoni e saette.
E voi, bestie canore, indegne genti,
più non gracchiate ad assordir le stelle,
708 e chi brama cantar canti altrimenti:
cangiate in villanie le villanelle,
perché un mondaccio d'ogni ben digiuno
711 non s'ha da lusingar con bagattelle.
E se cantar volete, oggi è opportuno
tempo da celebrar funeste esequie
714 e con appii, cipressi e manti a bruno
alla morta virtù cantar la requie.

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Ultimo Aggiornamento: 09/07/05 14.49.18

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