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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Canti

di: Giacomo Leopardi

XXXIV - LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

XXXV -   IMITAZIONE

XXXVI -   SCHERZO

XXXVII -   FRAMMENTO ALCETA

XXXVIII   - FRAMMENTO

XXXIX - FRAMMENTO

XL - FRAMMENTO DAL GRECO DI SIMONIDE

XLI -   FRAMMENTO DELLO STESSO

 

 XXXIV

LA GINESTRA

O IL FIORE DEL DESERTO

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.

Giovanni, III, 19

Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor né fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti. Anco ti vidi

De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

Che cingon la cittade

La qual fu donna de' mortali un tempo,

E del perduto impero

Par che col grave e taciturno aspetto

Faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,

E d'afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

Di ceneri infeconde, e ricoperti

Dell'impietrata lava,

Che sotto i passi al peregrin risona;

Dove s'annida e si contorce al sole

La serpe, e dove al noto

Cavernoso covil torna il coniglio;

Fur liete ville e colti,

E biondeggiàr di spiche, e risonaro

Di muggito d'armenti;

Fur giardini e palagi,

Agli ozi de' potenti

Gradito ospizio; e fur città famose

Che coi torrenti suoi l'altero monte

Dall'ignea bocca fulminando oppresse

Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

Una ruina involve,

Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,

Che il deserto consola. A queste piagge

Venga colui che d'esaltar con lode

Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza

Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme,

Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

Le magnifiche sorti e progressive .

Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,

Del ritornar ti vanti,

E procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

Di cui lor sorte rea padre ti fece,

Vanno adulando, ancora

Ch'a ludibrio talora

T'abbian fra sé. Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,

Mostrato avrò quanto si possa aperto:

Ben ch'io sappia che obblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.

Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio

Guida i pubblici fati.

Così ti spiacque il vero

Dell'aspra sorte e del depresso loco

Che natura ci diè. Per questo il tergo

Vigliaccamente rivolgesti al lume

Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli

Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme

Che sia dell'alma generoso ed alto,

Non chiama sé né stima

Ricco d'or né gagliardo,

E di splendida vita o di valente

Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sé di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma

Parlando, apertamente, e di sue cose

Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto,

Quel che nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto,

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove

Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra

A popoli che un'onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo

Distrugge sì, che avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

Che a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria

L'umana compagnia,

Tutti fra sé confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia

Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita

Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. Ed alle offese

Dell'uomo armar la destra, e laccio porre

Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così qual fora in campo

Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obbliando, acerbe gare

Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando

Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell'universe cose

Scender gli autori, e conversar sovente

Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza

Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,

Cui là nel tardo autunno

Maturità senz'altra forza atterra,

D'un popol di formiche i dolci alberghi,

Cavati in molle gleba

Con gran lavoro, e l'opre

E le ricchezze che adunate a prova

Con lungo affaticar l'assidua gente

Avea provvidamente al tempo estivo,

Schiaccia, diserta e copre

In un punto; così d'alto piombando,

Dall'utero tonante

Scagliata al ciel profondo,

Di ceneri e di pomici e di sassi

Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli

O pel montano fianco

Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d'infocata arena

Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo

Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce

La capra, e città nove

Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello

Son le sepolte, e le prostrate mura

L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Che alla formica: e se più rara in quello

Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

Anni varcàr poi che spariro, oppressi

Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi

Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia

A lui strage ed ai figli ed agli averi

Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante

Aura giacendo tutta notte insonne,

E balzando più volte, esplora il corso

Del temuto bollor, che si riversa

Dall'inesausto grembo

Su l'arenoso dorso, a cui riluce

Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

Del domestico pozzo ode mai l'acqua

Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

Di lor cose rapir posson, fuggendo,

Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo,

Che gli fu dalla fame unico schermo,

Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato

Durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

Dopo l'antica obblivion l'estinta

Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;

E dal deserto foro

Diritto infra le file

Dei mozzi colonnati il peregrino

Lunge contempla il bipartito giogo

E la cresta fumante,

Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte

Case, ove i parti il pipistrello asconde,

Come sinistra face

Che per vòti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per sì lungo cammino

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,

Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Né sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.

XXXV

IMITAZIONE

Lungi dal proprio ramo,

Povera foglia frale,

Dove vai tu? - Dal faggio

Là dov'io nacqui, mi divise il vento.

Esso, tornando, a volo

Dal bosco alla campagna,

Dalla valle mi porta alla montagna.

Seco perpetuamente

Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.

Vo dove ogni altra cosa,

Dove naturalmente

Va la foglia di rosa,

E la foglia d'alloro.

XXXVI

SCHERZO

Quando fanciullo io venni

A pormi con le Muse in disciplina,

L'una di quelle mi pigliò per mano;

E poi tutto quel giorno

La mi condusse intorno

A veder l'officina.

Mostrommi a parte a parte

Gli strumenti dell'arte,

E i servigi diversi

A che ciascun di loro

S'adopra nel lavoro

Delle prose e de' versi.

Io mirava, e chiedea:

Musa, la lima ov'è? Disse la Dea:

La lima è consumata; or facciam senza.

Ed io, ma di rifarla

Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca?

Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

XXXVII

FRAMMENTO

ALCETA

Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno

Di questa notte, che mi torna a mente

In riveder la luna. Io me ne stava

Alla finestra che risponde al prato,

Guardando in alto: ed ecco all'improvviso

Distaccasi la luna; e mi parea

Che quanto nel cader s'approssimava,

Tanto crescesse al guardo; infin che venne

A dar di colpo in mezzo al prato; ed era

Grande quanto una secchia, e di scintille

Vomitava una nebbia, che stridea

Sì forte come quando un carbon vivo

Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

La luna, come ho detto, in mezzo al prato

Si spegneva annerando a poco a poco,

E ne fumavan l'erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia,

Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,

Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

MELISSO

E ben hai che temer, che agevol cosa

Fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA

Chi sa? non veggiam noi spesso di state

Cader le stelle?

MELISSO

Egli ci ha tante stelle,

Che picciol danno è cader l'una o l'altra

Di loro, e mille rimaner. Ma sola

Ha questa luna in ciel, che da nessuno

Cader fu vista mai se non in sogno.

XXXVIII

FRAMMENTO

Io qui vagando al limitare intorno,

Invan la pioggia invoco e la tempesta,

Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggìa nella foresta,

E muggìa tra le nubi il tuono errante,

Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante,

Parte la donna mia: pietà, se trova

Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova

Di sommergermi, o nembi, insino a tanto

Che il sole ad altre terre il dì rinnova.

S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto

Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia

Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

XXXIX

FRAMMENTO

Spento il diurno raggio in occidente,

E queto il fumo delle ville, e queta

De' cani era la voce e della gente;

Quand'ella, volta all'amorosa meta,

Si ritrovò nel mezzo ad una landa

Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.

Spandeva il suo chiaror per ogni banda

La sorella del sole, e fea d'argento

Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.

I ramoscelli ivan cantando al vento,

E in un con l'usignol che sempre piagne

Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.

Limpido il mar da lungi, e le campagne

E le foreste, e tutte ad una ad una

Le cime si scoprian delle montagne.

In queta ombra giacea la valle bruna,

E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna.

Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento che gli odori spande,

Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:

Piacer prendea di quella vista, e il bene

Che il cor le prometteva era più grande.

Come fuggiste, o belle ore serene!

Dilettevol quaggiù null'altro dura,

Né si ferma giammai, se non la spene.

Ecco turbar la notte, e farsi oscura

La sembianza del ciel, ch'era sì bella,

E il piacere in colei farsi paura.

Un nugol torbo, padre di procella,

Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,

Che più non si scopria luna né stella.

Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,

E salir su per l'aria a poco a poco,

E far sovra il suo capo a quella ammanto.

Veniva il poco lume ognor più fioco;

E intanto al bosco si destava il vento,

Al bosco là del dilettoso loco.

E si fea più gagliardo ogni momento,

Tal che a forza era desto e svolazzava

Tra le frondi ogni augel per lo spavento.

E la nube, crescendo, in giù calava

Ver la marina sì, che l'un suo lembo

Toccava i monti, e l'altro il mar toccava.

Già tutto a cieca oscuritade in grembo,

S'incominciava udir fremer la pioggia,

E il suon cresceva all'appressar del nembo.

Dentro le nubi in paurosa foggia

Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;

E n'era il terren tristo, e l'aria roggia.

Discior sentia la misera i ginocchi;

E già muggiva il tuon simile al metro

Di torrente che d'alto in giù trabocchi.

Talvolta ella ristava, e l'aer tetro

Guardava sbigottita, e poi correa,

Sì che i panni e le chiome ivano addietro.

E il duro vento col petto rompea,

Che gocce fredde giù per l'aria nera

In sul volto soffiando le spingea.

E il tuon veniale incontro come fera,

Rugghiando orribilmente e senza posa;

E cresceva la pioggia e la bufera.

E d'ogn'intorno era terribil cosa

Il volar polve e frondi e rami e sassi,

E il suon che immaginar l'alma non osa.

Ella dal lampo affaticati e lassi

Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno,

Già pur tra il nembo accelerando i passi.

Ma nella vista ancor l'era il baleno

Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento

Fermò l'andare, e il cor le venne meno.

E si rivolse indietro. E in quel momento

Si spense il lampo, e tornò buio l'etra,

Ed acchetossi il tuono, e stette il vento.

Taceva il tutto; ed ella era di pietra.

XL

FRAMMENTO DAL GRECO DI SIMONIDE

Ogni mondano evento

È di Giove in poter, di Giove, o figlio,

Che giusta suo talento

Ogni cosa dispone.

Ma di lunga stagione

Nostro cieco pensier s'affanna e cura,

Benché l'umana etate,

Come destina il ciel nostra ventura,

Di giorno in giorno dura.

La bella speme tutti ci nutrica

Di sembianze beate,

Onde ciascuno indarno s'affatica:

Altri l'aurora amica,

Altri l'etade aspetta;

E nullo in terra vive

Cui nell'anno avvenir facili e pii

Con Pluto gli altri iddii

La mente non prometta.

Ecco pria che la speme in porto arrive,

Qual da vecchiezza è giunto

E qual da morbi al bruno Lete addutto;

Questo il rigido Marte, e quello il flutto

Del pelago rapisce; altri consunto

Da negre cure, o tristo nodo al collo

Circondando, sotterra si rifugge.

Così di mille mali

I miseri mortali

Volgo fiero e diverso agita e strugge.

Ma per sentenza mia,

Uom saggio e sciolto dal comune errore,

Patir non sosterria,

Né porrebbe al dolore

Ed al mal proprio suo cotanto amore.

XLI

FRAMMENTO DELLO STESSO

Umana cosa picciol tempo dura,

E certissimo detto

Disse il veglio di Chio,

Conforme ebber natura

Le foglie e l'uman seme.

Ma questa voce in petto

Raccolgon pochi. All'inquieta speme,

Figlia di giovin core,

Tutti prestiam ricetto.

Mentre è vermiglio il fiore

Di nostra etade acerba,

L'alma vota e superba

Cento dolci pensieri educa invano,

Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla

Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano.

Ma stolto è chi non vede

La giovanezza come ha ratte l'ale,

E siccome alla culla

Poco il rogo è lontano.

Tu presso a porre il piede

In sul varco fatale

Della plutonia sede,

Ai presenti diletti

La breve età commetti.

  

 

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Ultimo Aggiornamento: 21/03/99 10.00