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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Canti

di: Giacomo Leopardi

XXI -  A SILVIA

XXII -   LE RICORDANZE

XXIII -   CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

XXIV -   LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

XXV -   IL SABATO DEL VILLAGGIO

XXVI -   IL PENSIERO DOMINANTE

 

 XXI

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

XXII

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea

Tornare ancor per uso a contemplarvi

Sul paterno giardino scintillanti,

E ragionar con voi dalle finestre

Di questo albergo ove abitai fanciullo,

E delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole

Creommi nel pensier l'aspetto vostro

E delle luci a voi compagne! allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,

Delle sere io solea passar gran parte

Mirando il cielo, ed ascoltando il canto

Della rana rimota alla campagna!

E la lucciola errava appo le siepi

E in su l'aiuole, susurrando al vento

I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto

Sonavan voci alterne, e le tranquille

Opre de' servi. E che pensieri immensi,

Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,

Che di qua scopro, e che varcare un giorno

Io mi pensava, arcani mondi, arcana

Felicità fingendo al viver mio!

Ignaro del mio fato, e quante volte

Questa mia vita dolorosa e nuda

Volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l'età verde

Sarei dannato a consumare in questo

Natio borgo selvaggio, intra una gente

Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

Argomento di riso e di trastullo,

Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,

Per invidia non già, che non mi tiene

Maggior di sé, ma perché tale estima

Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori

A persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza

Tra lo stuol de' malevoli divengo:

Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola

Il caro tempo giovanil; più caro

Che la fama e l'allor, più che la pura

Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo

Senza un diletto, inutilmente, in questo

Soggiorno disumano, intra gli affanni,

O dell'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell'ora

Dalla torre del borgo. Era conforto

Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,

Quando fanciullo, nella buia stanza,

Per assidui terrori io vigilava,

Sospirando il mattin. Qui non è cosa

Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro

Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé; ma con dolor sottentra

Il pensier del presente, un van desio

Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

Quella loggia colà, volta agli estremi

Raggi del dì; queste dipinte mura,

Quei figurati armenti, e il Sol che nasce

Su romita campagna, agli ozi miei

Porser mille diletti allor che al fianco

M'era, parlando, il mio possente errore

Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,

Al chiaror delle nevi, intorno a queste

Ampie finestre sibilando il vento,

Rimbombaro i sollazzi e le festose

Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno

Mistero delle cose a noi si mostra

Pien di dolcezza; indelibata, intera

Il garzoncel, come inesperto amante,

La sua vita ingannevole vagheggia,

E celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni

Della mia prima età! sempre, parlando,

Ritorno a voi; che per andar di tempo,

Per variar d'affetti e di pensieri,

Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,

Son la gloria e l'onor; diletti e beni

Mero desio; non ha la vita un frutto,

Inutile miseria. E sebben vòti

Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro

Il mio stato mortal, poco mi toglie

La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

A voi ripenso, o mie speranze antiche,

Ed a quel caro immaginar mio primo;

Indi riguardo il viver mio sì vile

E sì dolente, e che la morte è quello

Che di cotanta speme oggi m'avanza;

Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto

Consolarmi non so del mio destino.

E quando pur questa invocata morte

Sarammi allato, e sarà giunto il fine

Della sventura mia; quando la terra

Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo

Fuggirà l'avvenir; di voi per certo

Risovverrammi; e quell'imago ancora

Sospirar mi farà, farammi acerbo

L'esser vissuto indarno, e la dolcezza

Del dì fatal tempererà d'affanno.

E già nel primo giovanil tumulto

Di contenti, d'angosce e di desio,

Morte chiamai più volte, e lungamente

Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell'acque

La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco

Malor, condotto della vita in forse,

Piansi la bella giovanezza, e il fiore

De' miei poveri dì, che sì per tempo

Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso

Sul conscio letto, dolorosamente

Alla fioca lucerna poetando,

Lamentai co' silenzi e con la notte

Il fuggitivo spirto, ed a me stesso

In sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,

O primo entrar di giovinezza, o giorni

Vezzosi, inenarrabili, allor quando

Al rapito mortal primieramente

Sorridon le donzelle; a gara intorno

Ogni cosa sorride; invidia tace,

Non desta ancora ovver benigna; e quasi

(Inusitata maraviglia!) il mondo

La destra soccorrevole gli porge,

Scusa gli errori suoi, festeggia il novo

Suo venir nella vita, ed inchinando

Mostra che per signor l'accolga e chiami?

Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo

Son dileguati. E qual mortale ignaro

Di sventura esser può, se a lui già scorsa

Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,

Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo

Questi luoghi parlar? caduta forse

Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,

Che qui sola di te la ricordanza

Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede

Questa Terra natal: quella finestra,

Ond'eri usata favellarmi, ed onde

Mesto riluce delle stelle il raggio,

È deserta. Ove sei, che più non odo

La tua voce sonar, siccome un giorno,

Quando soleva ogni lontano accento

Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto

Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi

Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri

Il passar per la terra oggi è sortito,

E l'abitar questi odorati colli.

Ma rapida passasti; e come un sogno

Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte

La gioia ti splendea, splendea negli occhi

Quel confidente immaginar, quel lume

Di gioventù, quando spegneali il fato,

E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna

L'antico amor. Se a feste anco talvolta,

Se a radunanze io movo, infra me stesso

Dico: o Nerina, a radunanze, a feste

Tu non ti acconci più, tu più non movi.

Se torna maggio, e ramoscelli e suoni

Van gli amanti recando alle fanciulle,

Dico: Nerina mia, per te non torna

Primavera giammai, non torna amore.

Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,

Dico: Nerina or più non gode; i campi,

L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno

Sospiro mio: passasti: e fia compagna

D'ogni mio vago immaginar, di tutti

I miei teneri sensi, i tristi e cari

Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore;

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E` lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

XXIV

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina,

Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno

Rompe là da ponente, alla montagna;

Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

Risorge il romorio

Torna il lavoro usato.

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l'uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

Della novella piova;

E l'erbaiuol rinnova

Di sentiero in sentiero

Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride

Per li poggi e le ville. Apre i balconi,

Apre terrazzi e logge la famiglia:

E, dalla via corrente, odi lontano

Tintinnio di sonagli; il carro stride

Del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.

Sì dolce, sì gradita

Quand'è, com'or, la vita?

Quando con tanto amore

L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all'opre? o cosa nova imprende?

Quando de' mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d'affanno;

Gioia vana, ch'è frutto

Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte

Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento,

Fredde, tacite, smorte,

Sudàr le genti e palpitàr, vedendo

Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,

Son questi i doni tuoi,

Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

È diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto

Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana

Prole cara agli eterni! assai felice

Se respirar ti lice

D'alcun dolor: beata

Se te d'ogni dolor morte risana.

XXV

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in mano

Un mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno;

E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava,

Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei

Ch'ebbe compagni dell'età più bella.

Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre

Giù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta.

I fanciulli gridando

Su la piazzuola in frotta,

E qua e là saltando,

Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,

Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l'altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s'affretta, e s'adopra

Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

È come un giorno d'allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

XXVI

IL PENSIERO DOMINANTE

Dolcissimo, possente

Dominator di mia profonda mente;

Terribile, ma caro

Dono del ciel; consorte

Ai lùgubri miei giorni,

Pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Di tua natura arcana

Chi non favella? il suo poter fra noi

Chi non sentì? Pur sempre

Che in dir gli effetti suoi

Le umane lingue il sentir proprio sprona,

Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.

Come solinga è fatta

La mente mia d'allora

Che tu quivi prendesti a far dimora!

Ratto d'intorno intorno al par del lampo

Gli altri pensieri miei

Tutti si dileguàr. Siccome torre

In solitario campo,

Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Che divenute son, fuor di te solo,

Tutte l'opre terrene,

Tutta intera la vita al guardo mio!

Che intollerabil noia

Gli ozi, i commerci usati,

E di vano piacer la vana spene,

Allato a quella gioia,

Gioia celeste che da te mi viene!

Come da' nudi sassi

Dello scabro Apennino

A un campo verde che lontan sorrida

Volge gli occhi bramoso il pellegrino;

Tal io dal secco ed aspro

Mondano conversar vogliosamente,

Quasi in lieto giardino, a te ritorno,

E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

Quasi incredibil parmi

Che la vita infelice e il mondo sciocco

Già per gran tempo assai

Senza te sopportai;

Quasi intender non posso

Come d'altri desiri,

Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.

Giammai d'allor che in pria

Questa vita che sia per prova intesi,

Timor di morte non mi strinse il petto.

Oggi mi pare un gioco

Quella che il mondo inetto,

Talor lodando, ognora abborre e trema,

Necessitade estrema;

E se periglio appar, con un sorriso

Le sue minacce a contemplar m'affiso.

Sempre i codardi, e l'alme

Ingenerose, abbiette

Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

Subito i sensi miei;

Move l'alma ogni esempio

Dell'umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

Che di vote speranze si nutrica,

Vaga di ciance, e di virtù nemica;

Stolta, che l'util chiede,

E inutile la vita

Quindi più sempre divenir non vede;

Maggior mi sento. A scherno

Ho gli umani giudizi; e il vario volgo

A' bei pensieri infesto,

E degno tuo disprezzator, calpesto.

A quello onde tu movi,

Quale affetto non cede?

Anzi qual altro affetto

Se non quell'uno intra i mortali ha sede?

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

Studio d'onor, di regno,

Che sono altro che voglie

Al paragon di lui? Solo un affetto

Vive tra noi: quest'uno,

Prepotente signore,

Dieder l'eterne leggi all'uman core.

Pregio non ha, non ha ragion la vita

Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;

Sola discolpa al fato,

Che noi mortali in terra

Pose a tanto patir senz'altro frutto;

Solo per cui talvolta,

Non alla gente stolta, al cor non vile

La vita della morte è più gentile.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,

Provar gli umani affanni,

E sostener molt'anni

Questa vita mortal, fu non indegno;

Ed ancor tornerei,

Così qual son de' nostri mali esperto,

Verso un tal segno a incominciare il corso:

Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,

Giammai finor sì stanco

Per lo mortal deserto

Non venni a te, che queste nostre pene

Vincer non mi paresse un tanto bene.

Che mondo mai, che nova

Immensità, che paradiso è quello

Là dove spesso il tuo stupendo incanto

Parmi innalzar! dov'io,

Sott'altra luce che l'usata errando,

Il mio terreno stato

E tutto quanto il ver pongo in obblio!

Tali son, credo, i sogni

Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno

In molta parte onde s'abbella il vero

Sei tu, dolce pensiero;

Sogno e palese error. Ma di natura,

Infra i leggiadri errori,

Divina sei; perché sì viva e forte,

Che incontro al ver tenacemente dura,

E spesso al ver s'adegua,

Né si dilegua pria, che in grembo a morte.

E tu per certo, o mio pensier, tu solo

Vitale ai giorni miei,

Cagion diletta d'infiniti affanni,

Meco sarai per morte a un tempo spento:

Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento

Che in perpetuo signor dato mi sei.

Altri gentili inganni

Soleami il vero aspetto

Più sempre infievolir. Quanto più torno

A riveder colei

Della qual teco ragionando io vivo,

Cresce quel gran diletto,

Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.

Angelica beltade!

Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,

Quasi una finta imago

Il tuo volto imitar. Tu sola fonte

D'ogni altra leggiadria,

Sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria,

Di qual mia seria cura ultimo obbietto

Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei

La tua sovrana imago

Quante volte mancò? Bella qual sogno,

Angelica sembianza,

Nella terrena stanza,

Nell'alte vie dell'universo intero,

Che chiedo io mai, che spero

Altro che gli occhi tuoi veder più vago?

Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.31