De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

STORIA D'ITALIA

Di: Francesco Guicciardini

 

Libro Primo

Capitoli 11-19

Lib.1, cap.11

L'esercito di Carlo VIII. Perfezione delle artiglierie francesi. Altre ragioni che rendevano formidabile l'esercito francese. Diversità fra le milizie italiane e l'esercito di Carlo.

Ma a Carlo era andato subito in Asti Lodovico Sforza e Beatrice sua moglie, con grandissima pompa e onoratissima compagnia di molte donne nobili e di forma eccellente del ducato di Milano, e insieme Ercole duca di Ferrara: dove trattandosi delle cose comuni, fu deliberato che il piú presto che si poteva si movesse l'esercito. E acciocché questo piú sollecitamente si facesse, Lodovico, che non mediocremente temeva che sopravenendo i tempi aspri non si fermassino per quella vernata nelle terre del ducato di Milano, prestò di nuovo danari al re, il quale n'aveva necessità non mediocre: e nondimeno, scoprendosegli quel male che i nostri chiamano vaiuolo, soggiornò in Asti circa a uno mese, distribuito l'esercito in quella città e nelle terre circostanti. Il numero del quale, per quel che io ritraggo, nella diversità di molti, per piú vero, fu, oltre ai dugento gentiluomini della guardia del re, computati i svizzeri i quali prima col baglí di Digiuno erano andati a Genova, e quella gente che sotto Obigní militava in Romagna, uomini d'arme mille secento, de' quali ciascuno ha secondo l'uso franzese due arcieri, in modo che sei cavalli sotto ogni lancia (questo nome hanno i loro uomini d'arme) si comprendono; seimila fanti svizzeri; seimila fanti del regno suo, de' quali la metà erano della provincia di Guascogna, dotata meglio, secondo il giudicio de' franzesi, di fanti atti alla guerra che alcuna altra parte di Francia: e per unirsi con questo esercito erano state condotte per mare a Genova quantità grande di artiglierie da battere le muraglie e da usare in campagna, ma di tale sorte che giammai aveva veduto Italia le simiglianti.

Questa peste, trovata molti anni innanzi in Germania, fu condotta la prima volta in Italia da' viniziani, nella guerra che circa l'anno della salute mille trecent'ottanta ebbono i genovesi con loro; nella quale i viniziani, vinti nel mare e afflitti per la perdita di Chioggia, ricevevano qualunque condizione avesse voluta il vincitore se a tanto preclara occasione non fusse mancato moderato consiglio. Il nome delle maggiori era bombarde, le quali, sparsa dipoi questa invenzione per tutta Italia, si adoperavano nelle oppugnazioni delle terre; alcune di ferro alcune di bronzo, ma grossissime in modo che per la macchina grande e per la imperizia degli uomini e attitudine mala degli instrumenti, tardissimamente e con grandissima difficoltà si conducevano, piantavansi alle terre co' medesimi impedimenti, e piantate, era dall'uno colpo all'altro tanto intervallo che con piccolissimo frutto, a comparazione di quello che seguitò da poi, molto tempo consumavano; donde i difensori de' luoghi oppugnati avevano spazio di potere oziosamente fare di dentro ripari e fortificazioni: e nondimeno, per la violenza del salnitro col quale si fa la polvere, datogli il fuoco, volavano con sí orribile tuono e impeto stupendo per l'aria le palle, che questo instrumento faceva, eziandio innanzi che avesse maggiore perfezione, ridicoli tutti gli instrumenti i quali nella oppugnazione delle terre avevano, con tanta fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi. Ma i franzesi, fabricando pezzi molto piú espediti né d'altro che di bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione piú grosse e di peso gravissimo s'usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d'uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall'un colpo all'altro piccolissimo intervallo di tempo, sí spesso e con impeto sí veemente percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva: usando ancora questo piú tosto diabolico che umano instrumento non meno alla campagna che a combattere le terre, e co' medesimi cannoni e con altri pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e celerità.

Facevano tali artiglierie molto formidabile a tutta Italia l'esercito di Carlo; formidabile, oltre a questo, non per il numero ma per il valore de' soldati. Perché essendo le genti d'arme quasi tutte di sudditi del re, e non di plebe ma di gentiluomini, i quali non meramente ad arbitrio de' capitani si mettevano o rimovevano, e pagate non da loro ma da i ministri regi aveano le compagnie non solo i numeri interi ma la gente fiorita e bene in ordine di cavalli e d'armi, non essendo per la povertà impotenti a provedersene, e facendo ciascuno a gara di servire meglio, cosí per lo istinto dell'onore, il quale nutrisce ne' petti degli uomini l'essere nati nobilmente, come perché dell'opere valorose potevano sperare premi, e fuora della milizia e nella milizia, ordinata in modo che per piú gradi si saliva insino al capitanato. I medesimi stimoli avevano i capitani, quasi tutti baroni e signori o almanco di sangue molto nobile, e quasi tutti sudditi del regno di Francia; i quali, terminata la quantità della sua compagnia, perché, secondo il costume di quel reame, a niuno si dava condotta piú di cento lancie, non avevano altro intento che meritare laude appresso al suo re, donde non aveano luogo tra loro né la instabilità di mutare padrone, o per ambizione o per avarizia, né le concorrenze con gli altri capitani per avanzargli con maggiore condotta. Cose tutte contrarie nella milizia italiana, dove molti degli uomini d'arme, o contadini o plebei, e sudditi a altro principe, e in tutto dipendenti dai capitani co' quali convenivano dello stipendio, e in arbitrio de' quali era mettergli e pagargli, non aveano, né per natura né per accidente, stimolo estraordinario al bene servire; e i capitani, rarissime volte sudditi di chi gli conduceva e che spesso aveano interessi e fini diversi, pieni tra loro di emulazione e di odii, né avendo prefisso termine alle condotte e interamente padroni delle compagnie, né tenevano il numero de' soldati che erano loro pagati, né contenti delle condizioni, oneste mettevano in ogni occasione ingorde taglie a’ padroni; e instabili al medesimo servigio passavano spesso a nuovi stipendi, sforzandogli qualche volta l'ambizione o l'avarizia o altri interessi a essere non solo instabili ma infedeli. Né si vedeva minore diversità tra i fanti italiani e quegli che erano con Carlo: perché gl'italiani non combattevano in squadrone fermo e ordinato ma sparsi per la campagna, ritirandosi il piú delle volte a i vantaggi degli argini e de' fossi; ma i svizzeri, nazione bellicosissima, e la quale con lunga milizia e con molte preclarissime vittorie aveva rinnovata la fama antica della ferocia, si presentavano a combattere con schiere squadre, ordinate e distinte a certo numero per fila, né uscendo mai della sua ordinanza si opponevano agli inimici a modo di un muro, stabili e quasi invitti, dove combattessino in luogo largo da potere distendere il loro squadrone: e con la medesima disciplina e ordinanza, benché non con la medesima virtú, combattevano i fanti franzesi e guasconi.

Lib.1, cap.12

I Colonnesi, occupata la rocca di Ostia, si dichiarano apertamente per il re di Francia. Scarsa fortuna dell'esercito aragonese in Romagna.

Ma mentre che 'l re impedito dalla infermità si stava in Asti, nacque nel paese di Roma nuovo tumulto; perché i Colonnesi, i quali, benché Alfonso avesse accettate tutte le dimande immoderate che avevano fatte, si erano, subito che Obigní fu entrato con le genti franzesi in Romagna, deposta la simulazione, dichiarati soldati del re di Francia, occuporno la rocca d'Ostia, per trattato tenuto da alcuni fanti spagnuoli che v'erano a guardia. Costrinse questo caso il pontefice a querelarsi della ingiuria franzese con tutti i príncipi cristiani, e specialmente co' re di Spagna e col senato viniziano, al quale, benché invano, domandò aiuto, per l'obligo della confederazione contratta l'anno precedente insieme; e voltatosi con animo costante alle provisioni della guerra, citati Prospero e Fabrizio, a' quali fece poi spianare le case che avevano in Roma, e unite le genti sue e parte di quelle d'Alfonso sotto Verginio, in sul fiume del Teverone appresso a Tivoli, le mandò in sulle terre de' Colonnesi, i quali non avevano altre genti che dugento uomini d'arme e mille fanti. Ma dubitando poi il pontefice che l'armata franzese, la quale era fama dovere andare da Genova al soccorso d'Ostia, non avesse ricetto a Nettunno, porto de' Colonnesi, Alfonso, raccolte a Terracina tutte le genti che il pontefice ed egli avevano in quelle parti, vi pose il campo, sperando di espugnarlo agevolmente; ma difendendolo i Colonnesi francamente, e essendo passata senza opposizione nelle terre loro la compagnia di Cammillo Vitelli da Città di Castello e de' fratelli, soldati di nuovo dal re di Francia, il pontefice richiamò a Roma parte delle sue genti che erano in Romagna con Ferdinando.

Le cose del quale non continuavano di procedere con quella prosperità la quale pareva che si fusse dimostrata da principio. Perché arrivato a Villafranca tra Furlí e Faenza, e di quivi prendendo il cammino per la strada maestra verso Imola, l'esercito inimico, che era alloggiato appresso a Villafranca, essendo inferiore di forze, si ritirò tra la selva di Lugo e Colombara presso al fossato del Genivolo, alloggiamento per natura molto forte, luogo d'Ercole da Esti, del dominio del quale aveva le vettovaglie; onde tolta a Ferdinando, per la fortezza del sito, la facoltà d'assaltargli senza gravissimo pericolo, partito da Imola, andò ad alloggiare a Toscanella appresso a Castel San Piero nel territorio bolognese; perché desiderando di combattere, cercava, con la dimostrazione di andare verso Bologna, mettere gli inimici, per non gli lasciare libero l'andare innanzi, in necessità di condursi in alloggiamenti non tanto forti: ma essi dopo qualche dí, approssimatisi a Imola, si fermorono in sul fiume del Santerno tra Lugo e Santa Agata, avendo alle spalle il fiume del Po, e in alloggiamento molto fortificato. Alloggiò Ferdinando, il dí seguente, vicino a loro a sei miglia, in sul fiume medesimo appresso a Mordano e Bubano, e l'altro dí con l'esercito ordinato in battaglia si presentò vicino a uno miglio; ma poi che per spazio di qualche ora gli ebbe aspettati indarno nella pianura, comodissima per la sua larghezza a combattere, essendo di manifesto pericolo l'assaltargli a quello alloggiamento, andò ad alloggiare a Barbiano villa di Cotignuola, non piú verso la montagna, come insino ad allora aveva fatto, ma per fianco agli inimici; avendo sempre il medesimo intento di costrignergli, se avesse potuto, a uscire degli alloggiamenti cosí forti. Era paruto che insino a questo dí le cose del duca di Calavria fussino procedute con maggiore riputazione, perché e gli inimici avevano apertamente ricusato il combattere, difendendosi piú con la fortezza degli alloggiamenti che con la virtú dell'armi, e in qualche riscontro fatto tra i cavalli leggieri erano piú tosto gli aragonesi rimasti superiori; ma essendo poi continuamente augumentato l'esercito franzese e sforzesco, per il sopravenire delle genti che da principio erano restate indietro, cominciò a variarsi lo stato della guerra. Perché il duca, raffrenato l'ardore suo dai consigli de' capitani che gli erano appresso, per non si commettere se non con vantaggio alla fortuna, si ritirò a Santa Agata, terra del duca di Ferrara; dove, essendo diminuito di fanti e in mezzo delle terre ferraresi, e partita già quella parte delle genti d'arme della Chiesa la quale aveva rivocata il pontefice, attendeva a fortificarsi; ma soprasedutovi pochi dí, avuta notizia aspettarsi di nuovo nel campo degl'inimici dugento lancie e mille fanti svizzeri mandati dal re di Francia subito che e' fu arrivato in Asti, si ritirò nella cerca di Faenza, luogo tralle mura di quella città e uno fosso, il quale lontano circa uno miglio della terra e circondandola tutta rende quel sito molto forte; per la ritirata del quale gli inimici venneno nell'alloggiamento, abbandonato da lui, di Santa Agata. Dimostrossi certamente animoso l'uno esercito e l'altro quando vedde l'inimico inferiore, ma quando le cose erano quasi pareggiate, ciascuno fuggiva il tentare la fortuna; perché (quel che rarissime volte accade che uno medesimo consiglio piaccia a due eserciti inimici) pareva a' franzesi e agli sforzeschi ottenere l'intento per il quale si erano mossi di Lombardia se impedivano che gli aragonesi non passassino piú innanzi, e il re Alfonso, riputando acquisto non piccolo che i progressi degli inimici insino alla vernata si ritardassino, aveva commesso espressamente al figliolo e ordinato a Gianiacopo da Triulzi e al conte di Pitigliano che non mettessino senza grande occasione in potestà della fortuna il regno di Napoli, che era perduto se quell'esercito si perdeva.

Lib.1, cap.13

Visita di Carlo VIII a Giovan Galeazzo Sforza infermo nel castello di Pavia. Notizia a Carlo giunto a Piacenza della morte di Giovan Galeazzo. Lodovico Sforza assume i titoli e le insegne del ducato di Milano. Sospetti e voci intorno alla morte di Giovan Galeazzo. Il re di Francia dopo nuove incertezze delibera di continuare l'impresa.

Ma non bastavano questi rimedi alla sua salute, perché Carlo, non ritenendo l'impeto suo né la stagione del tempo né alcun'altra difficoltà, subito che ebbe recuperata la sanità, mosse l'esercito. Giaceva nel castello di Pavia, oppresso di gravissima infermità, Giovan Galeazzo duca di Milano suo fratello cugino (erano il re e egli nati di due sorelle figliuole di [Lodovico secondo] duca di Savoia); il quale il re, passando per quella città e alloggiato nel medesimo castello, andò benignissimamente a visitare. Le parole furono generali per la presenza di Lodovico, dimostrando molestia del suo male, e confortandolo a attendere con buona speranza alla recuperazione della salute; ma l'affetto dell'animo non fu senza grande compassione cosí del re come di tutti coloro che erano con lui, tenendo ciascuno per certo la vita dello infelice giovane dovere, per le insidie del zio, essere brevissima. E si accrebbe molto piú per la presenza di Isabella sua moglie; la quale, ansia non solo della salute del marito e di uno piccolo figliuolo che aveva di lui, ma mestissima oltre a questo per il pericolo del padre e degli altri suoi, si gittò molto miserabilmente, nel cospetto di tutti, a' piedi del re, raccomandandogli con infinite lacrime il padre e la casa sua di Aragona: alla quale il re, benché mosso dall'età e dalla forma dimostrasse averne compassione, nondimeno, non si potendo per cagione cosí leggiera fermare un movimento sí grande, rispose che essendo condotta la impresa tanto innanzi era necessitato a continuarla.

Da Pavia andò il re a Piacenza, dove essendosi fermato sopravenne la morte di Giovan Galeazzo, per la quale Lodovico che l'avea seguíto ritornò con grandissima celerità a Milano. Dove da' principali del consiglio ducale, subornati da lui, fu proposto che, per la grandezza di quello stato e per i tempi difficili i quali in Italia si preparavano, sarebbe cosa molto perniciosa che il figliuolo di Giovan Galeazzo di età d'anni cinque succedesse al padre, ma essere necessario avere uno duca che fusse grande di prudenza e d'autorità; e però doversi, dispensando, per la salute publica e per la necessità, alla disposizione della legge, come permettono le leggi medesime, costrignere Lodovico a consentire che in sé si trasferisse per beneficio universale la degnità del ducato, peso gravissimo in tempi tali: col quale colore, cedendo l'onestà all'ambizione, benché simulasse fare qualche resistenza, assunse la mattina seguente i titoli e le insegne del ducato di Milano; protestato prima segretamente riceverle come appartenenti a sé per l'investitura del re de' romani.

Fu publicato da molti la morte di Giovan Galeazzo essere proceduta da coito immoderato, nondimeno si credette universalmente per tutta Italia che e' fusse morto non per infermità naturale né per incontinenza, ma di veleno; e Teodoro da Pavia, uno de' medici regi, il quale era presente quando Carlo lo visitò, affermò averne veduto segni manifestissimi. Né fu alcuno che dubitasse che se era stato veleno non gli fusse stato dato per opera del zio, come quello che, non contento di essere con assoluta autorità governatore del ducato di Milano e avido, secondo l'appetito comune degli uomini grandi, di farsi piú illustre co' titoli e con gli onori, e molto piú per giudicare che alla sicurtà sua e alla successione de' figliuoli fusse necessaria la morte del principe legittimo, avesse voluto trasferire e stabilire in sé la potestà e il nome ducale; dalla quale cupidità fusse a cosí scelerata opera stata sforzata la sua natura, mansueta per l'ordinario e aborrente dal sangue. E fu creduto quasi da tutti questa essere stata sua intenzione insino quando cominciò a trattare che i franzesi passassino in Italia, parendogli opportunissima occasione di metterla a effetto in tempo nel quale, per essere il re di Francia con tanto esercito in quello stato, avesse a mancare a ciascuno l'animo di risentirsi di tanta sceleratezza. Credettono altri questo essere stato nuovo pensiero, nato per timore che 'l re, come sono subiti i consigli de' franzesi, non procedesse precipitosamente a liberare Giovan Galeazzo da tanta soggezione, movendolo o il parentado e la compassione della età o il parergli piú sicuro per sé che quello stato fusse nella potestà del cugino che di Lodovico; la fede del quale non mancavano persone grandi appresso a lui che continuamente si sforzassino fargli sospetta. Ma l'avere Lodovico procurata l'anno precedente l'investitura, e fatto poco innanzi alla morte del nipote espedirne sollecitamente i privilegi imperiali, arguisce piú presto deliberazione premeditata e in tutto volontaria che subita e quasi spinta dal pericolo presente.

Soprastette alcuni dí Carlo in Piacenza non senza inclinazione di ritornarsene di là da' monti, perché la carestia de' danari e il non si scoprire per Italia cosa alcuna nuova in suo favore lo rendevano dubbio del successo; e non meno il sospetto conceputo del nuovo duca, del quale era fama, che se bene quando partí da lui gli avesse promesso di ritornare, che piú non ritornerebbe. Né è fuora del verisimile che, essendo quasi incognita appresso agli oltramontani la sceleratezza di usare contro agli uomini i veleni, frequente in molte parti d'Italia, Carlo e tutta la corte, oltre al sospettare della fede, avesse in orrore il nome suo; anzi si riputasse gravemente ingiuriato che Lodovico, per potere fare senza pericolo una opera cosí abominevole, avesse la sua venuta in Italia procurata. Deliberossi pure finalmente l'andare innanzi, come continuamente sollecitava Lodovico, promettendo di ritornare al re fra pochi giorni; perché e il soprasedere del re in Lombardia, né meno il ritornarsene precipitosamente in Francia, era del tutto contrario alla sua intenzione.

Lib.1, cap.14

Incitamenti di Lorenzo e di Giovanni de' Medici a Carlo VIII perché s'accosti a Firenze. Aumenta lo sdegno di Carlo contro Piero de' Medici. L'esercito francese passa l'Appennino. Gli svizzeri di Carlo prendono Fivizzano compiendo stragi. Le fortezze di Serezana e di Serezanello. Malumore in Firenze contro Piero de' Medici. Questi consegna fortezze de' fiorentini a Carlo. L'esercito aragonese si ritira dalla Romagna e la flotta dal porto di Livorno.

Al re, il dí medesimo che si mosse da Piacenza, venneno Lorenzo e Giovanni de' Medici; i quali, fuggiti occultamente delle loro ville, facevano instanza che 'l re si accostasse a Firenze, promettendo molto della volontà del popolo fiorentino inverso la casa di Francia, e non meno dell'odio contro a Piero de' Medici. Contro al quale era, per nuove cagioni, augumentato non poco lo sdegno del re: perché avendo mandato da Asti uno imbasciadore a Firenze a proporre molte offerte se gli consentivano il passo e in futuro si astenevano dall'aiutare Alfonso, e in caso perseverassino nella prima deliberazione, molte minaccie; e avendogli, per fare maggiore terrore, commesso che se subito non si determinavano si partisse; gli era stato, cercando scusa del differire, risposto che, per essere i cittadini principali del governo, come in quella stagione è costume de' fiorentini, alle loro ville, non potevano dargli risposta certa cosí subito, ma che per uno imbasciadore proprio farebbono presto intendere al re la mente loro.

Non era mai stato nel consiglio reale messo in disputazione che fusse piú tosto da dirizzarsi con l'esercito per il cammino il quale, per la Toscana e per il territorio di Roma, conduce diritto a Napoli che per quello che, per la Romagna e per la Marca, passato il fiume del Tronto, entra nell'Abruzzi; non perché non confidassino di cacciare le genti aragonesi, le quali con difficoltà resistevano a Obigní, ma perché pareva cosa indegna della grandezza di tanto re e della gloria delle armi sue, essendosi il pontefice e i fiorentini dichiarati contro a lui, dare causa agli uomini di pensare che egli sfuggisse quel cammino perché si diffidasse di sforzargli; e perché si stimava pericoloso il fare la guerra nel reame di Napoli lasciandosi alle spalle inimica la Toscana e lo stato ecclesiastico: e si deliberò di passare l'Apennino piú tosto per la montagna di Parma, come Lodovico Sforza, desideroso di insignorirsi di Pisa, aveva insino in Asti consigliato, che per il cammino diritto di Bologna. Però l'antiguardia, della quale era capitano Giliberto monsignore di Mompensieri della famiglia di Borbone, del sangue de' re di Francia, seguitandola il re col resto dell'esercito, passò a Pontriemoli, terra appartenente al ducato di Milano, posta al piè dello Apennino in sul fiume della Magra; il quale fiume divide il paese di Genova, chiamato anticamente Liguria, dalla Toscana. Da Pontriemoli entrò Mompensieri nel paese della Lunigiana, della quale una parte ubbidiva a' fiorentini, alcune castella erano de' genovesi, il resto de' marchesi Malespini; i quali, sotto la protezione chi del duca di Milano chi de' fiorentini chi de' genovesi, i loro piccoli stati mantenevano. Unironsi seco in quegli confini i svizzeri che erano stati alla difesa di Genova, e l'artiglierie venute per mare a Genova e dipoi alla Spezie; e accostatosi a Fivizano, castello de' fiorentini, dove gli condusse Gabriello Malaspina marchese di Fosdinuovo loro raccomandato, lo presono per forza e saccheggiorno, ammazzando tutti i soldati forestieri che vi erano dentro e molti degli abitatori: cosa nuova e di spavento grandissimo a Italia, già lungo tempo assuefatta a vedere guerre piú presto belle di pompa e di apparati, e quasi simili a spettacoli, che pericolose e sanguinose.

Facevano i fiorentini la resistenza principale in Serezana, piccola città stata da loro molto fortificata; ma non l'avevano proveduta contro a inimico cosí potente come sarebbe stato necessario, perché non v'avevano messo capitano di guerra d'autorità né molti soldati, e quegli già ripieni di viltà per la fama sola dello approssimarsi l'esercito franzese: e nondimeno non si riputava di facile espugnazione, massimamente la fortezza; e molto piú Serezanello, rocca molto munita, edificata in sul monte sopra Serezana. Né poteva dimorare l'esercito in questi luoghi molti dí, perché quel paese sterile e stretto, rinchiuso tra 'l mare e il monte, non bastava a nutrire tanta moltitudine; né potendo venirvi vettovaglie se non di luoghi lontani, non potevano essere a tempo al bisogno presente. Da che parea che le cose del re potessino facilmente ridursi in non piccole angustie; perché, se bene non gli potesse essere vietato che, lasciatasi indietro la terra o la fortezza di Serezana e Serezanello, assaltasse Pisa, o per il contado di Lucca, la quale città per mezzo del duca di Milano aveva occultamente deliberato di riceverlo, entrasse in altra parte del dominio fiorentino, nondimeno malvolentieri si riduceva a questa deliberazione, parendogli che se non espugnava la prima terra che se gli era opposta, si diminuisse tanto della sua riputazione che tutti gli altri piglierebbono facilmente animo a fare il medesimo. Ma era destinato che, o per beneficio della fortuna o per ordinazione di altra piú alta potestà (se però queste scuse meritano le imprudenze e le colpe degli uomini), a tale impedimento sopravenisse rimedio subito: imperocché in Piero de' Medici non fu né maggiore animo né maggiore costanza nelle avversità che fusse stata o moderazione o prudenza nelle prosperità.

Era continuamente moltiplicato il dispiacere che la città di Firenze aveva da principio ricevuto dall'opposizione che si faceva al re, non tanto per essere stati di nuovo sbandeggiati i mercatanti fiorentini di tutto il reame di Francia quanto per il timore della potenza de' franzesi, cresciuto eccessivamente come si intese l'esercito avere cominciato a passare l'Apennino, e dipoi la crudeltà usata nella occupazione di Fivizano. E però da ciascuno era palesemente detestata la temerità di Piero de' Medici, che senza necessità, e credendo piú a se medesimo e al consiglio di ministri temerari e arroganti ne' tempi della pace, inutili ne' tempi pericolosi, che a' cittadini amici paterni, da' quali era stato saviamente consigliato, avesse con tanta inconsiderazione provocato l'armi d'un re di Francia, potentissimo e aiutato dal duca di Milano; essendo massime egli imperito delle cose della guerra, e Pisa, città d'animo inimico, non fortificata e poco proveduta di soldati e di munizioni, e cosí tutto il resto del dominio fiorentino mal preparato a difendersi da tanto impeto, né si dimostrando degli aragonesi, per i quali erano esposti a tanto pericolo, altro che 'l duca di Calavria, impegnato con le sue genti in Romagna per la opposizione solo di una piccola parte dell'esercito franzese; e perciò la patria loro, abbandonata da ognuno, restare in odio smisurato e in preda manifesta di chi aveva con tanta instanza cercato di non avere necessità di nuocere loro. Questa disposizione, già quasi di tutta la città, era accesa da molti cittadini nobili a' quali sommamente dispiaceva il governo presente, e che una famiglia sola s'avesse arrogato la potestà di tutta la republica; e questi, augumentando il timore di coloro che da se stessi temevano e dando ardire a coloro che cose nuove desideravano, avevano in modo sollevato gli animi del popolo che già cominciava molto a temersi che la città facesse tumultuazione; incitando ancora piú gli uomini la superbia e il procedere immoderato di Piero, discostatosi in molte cose dai costumi civili e dalla mansuetudine de' suoi maggiori: donde quasi insino da puerizia era stato sempre odioso all'universalità de' cittadini, e in modo che è certissimo che il padre Lorenzo, contemplando la sua natura, si era spesso lamentato con gli amici piú intimi che l'imprudenza e arroganza del figliuolo partorirebbe la ruina della sua casa. Spaventato adunque Piero dal pericolo il quale prima aveva temerariamente disprezzato, mancandogli i sussidi promessi dal pontefice e da Alfonso, occupati per la perdita d'Ostia, per l'oppugnazione di Nettunno e per il timore dell'armata franzese, si risolvé precipitosamente d'andare a cercare dagl'inimici quella salute la quale piú non sperava dagli amici; seguitando, come pareva a lui, l'esempio del padre, il quale, essendo l'anno mille quattrocento settantanove, per la guerra fatta a' fiorentini da Sisto pontefice e da Ferdinando re di Napoli, ridotto in gravissimo pericolo, andato a Napoli a Ferdinando, ne riportò a Firenze la pace publica e la sicurtà privata. Ma è senza dubbio molto pericoloso il governarsi con gli esempli se non concorrono, non solo in generale ma in tutti i particolari, le medesime ragioni, se le cose non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v'ha la parte sua la medesima fortuna. Con questa determinazione partito da Firenze, ebbe, innanzi che arrivasse al re, avviso che i cavalli di Pagolo Orsino e trecento fanti mandati da' fiorentini per entrare in Serezana erano stati rotti da alcuni cavalli de' franzesi corsi di qua dalla Magra, e restati la maggiore parte o morti o prigioni. Aspettò a Pietrasanta il salvocondotto regio, dove andorno per condurlo sicuro il vescovo di San Malò e alcun'altri signori della corte; dai quali accompagnato entrò in Serezana il dí medesimo che il re col resto dell'esercito si uní con l'antiguardia, la quale accampata a Serezanello batteva quella rocca, ma non con tale progresso che avessino speranza di espugnarla. Introdotto innanzi al re, e da lui raccolto benignamente piú con la fronte che con l'animo, mitigò non poco della sua indegnazione col consentire a tutte le sue dimande, che furono alte e immoderate: che le fortezze di Pietrasanta e di Serezana e Serezanello, terre che da quella parte erano come chiave del dominio fiorentino, e le fortezze di Pisa e del porto di Livorno, membri importantissimi del loro stato, si deponessino in mano del re; il quale per uno scritto di mano propria s'obligasse a restituirle come prima avesse acquistato il regno di Napoli: procurasse Piero che i fiorentini gli prestassino dugentomila ducati, e gli ricevesse il re in confederazione e sotto la sua protezione: delle quali cose, promesse con semplici parole, si differisse a espedirne le scritture in Firenze, per la quale città il re intendeva di passare. Ma non si differí già la consegnazione delle fortezze, perché Piero gli fece subito consegnare quelle di Serezana, di Pietrasanta e di Serezanello, e pochi dí poi fu per ordine suo fatto il medesimo di quelle di Pisa e di Livorno; maravigliandosi grandemente tutti i franzesi che Piero cosí facilmente avesse consentito a cose di tanta importanza, perché il re senza dubbio arebbe convenuto con molto minori condizioni. Né pare in questo luogo da pretermettere quel che argutamente rispose a Piero de' Medici Lodovico Sforza, che arrivò il dí seguente all'esercito: perché scusandosi Piero che, essendo andatogli incontro per onorarlo, l'avere Lodovico fallito la strada era stato cagione che la sua andata fusse stata vana, rispose molto prontamente: - Vero è che uno di noi ha fallito la strada, ma sarete forse voi stato quello. - Quasi rimproverandogli che per non avere prestata fede a' consigli suoi fusse caduto in tante difficoltà e pericoli. Benché i successi seguenti dimostrorno avere fallito il cammino diritto ciascuno di loro, ma con maggiore infamia e infelicità di colui il quale, collocato in maggiore grandezza, faceva professione di essere con la prudenza sua la guida di tutti gli altri.

La deliberazione di Piero non solo assicurò il re delle cose della Toscana ma gli rimosse del tutto gli ostacoli della Romagna, dove già declinavano molto gli aragonesi. Perché (come è difficile a chi appena difende se stesso dagli imminenti pericoli provedere nel tempo medesimo a' pericoli degli altri), mentre che Ferdinando sta sicuro nel forte alloggiamento della cerca di Faenza, gli inimici ritornati nel contado d'Imola, poiché con parte dell'esercito ebbono assaltato il castello di Bubano, ma invano, perché per il piccolo circuito bastava poca gente a difenderlo, e per la bassezza del luogo il paese era inondato dall'acque, preseno per forza il castello di Mordano, con tutto che assai forte e proveduto copiosamente di soldati per difenderlo; ma fu tale l'impeto dell'artiglierie, tale la ferocia dell'assalto de' franzesi che, benché nel passare i fossi pieni di acqua non pochi d'essi v'annegassino, quegli di dentro non potettono resistere: contro a' quali talmente in ogni età, in ogni sesso, incrudelirono che empierono tutta la Romagna di grandissimo terrore. Per il quale caso Caterina Sforza disperata d'avere soccorso s'accordò, per fuggire il pericolo presente, co' franzesi, promettendo all'esercito loro ogni comodità degli stati sottoposti al figliuolo. Donde Ferdinando, insospettito della volontà de' faventini e parendogli pericoloso lo stare in mezzo d'Imola e di Furlí, tanto piú essendogli già nota l'andata di Piero de' Medici a Serezana, si ritirò alle mura di Cesena, dimostrando tanto timore che per non passare appresso a Furlí condusse l'esercito per i poggi, via piú lunga e difficile, accanto a Castrocaro castello de' fiorentini; e pochi dí poi, come ebbe inteso l'accordo fatto da Piero de' Medici, per il quale partirono da lui le genti de' fiorentini, si dirizzò al cammino di Roma. E nel tempo medesimo don Federigo, partito del porto di Livorno, si ritirò con l'armata verso il regno di Napoli; dove cominciavano a essere necessarie ad Alfonso per la difesa propria quelle armi le quali aveva mandate con tanta speranza ad assaltare gli stati d'altri, procedendo non meno infelicemente in quelle parti le cose sue. Perché, non gli succedendo la oppugnazione tentata di Nettunno avea ridotto l'esercito a Terracina, e l'armata franzese, della quale erano capitani il principe di Salerno e monsignore di Serenon, si era scoperta sopra Ostia: benché, publicando di non volere offendere lo stato della Chiesa, non poneva gente in terra né faceva segno alcuno di inimicizia col pontefice, con tutto che 'l re avesse pochi dí innanzi recusato di udire Francesco Piccoluomini cardinale di Siena mandatogli legato da lui.

Lib.1, cap.15

Piú vivo sdegno de' fiorentini contro Piero de' Medici per i patti conclusi col re di Francia. Lodovico Sforza ottiene l'investitura di Genova. Si impedisce a Piero de' Medici di entrare nel palazzo della signoria. Tumulto del popolo e fuga di Piero da Firenze. La precedente potenza della casa de' Medici in Firenze. I pisani si rivendicano in libertà col consenso di Carlo VIII. Contrari consigli del cardinale di San Piero in Vincoli ai pisani.

Ma pervenuta a Firenze la notizia delle convenzioni fatte da Piero de' Medici, con tanta diminuzione del dominio loro e con sí grave e ignominiosa ferita della republica, si concitò in tutta la città ardentissima indegnazione; commovendogli oltre a tanta perdita l'avere Piero, con esempio nuovo né mai usato da' suoi maggiori, alienato, senza consiglio de' cittadini, senza decreto de' magistrati, una parte tanto notabile del dominio fiorentino: perciò e le querele erano acerbissime contro a lui e per tutto si udivano voci di cittadini che stimolavano l'un l'altro a recuperare la libertà; non avendo ardire quegli che con la volontà aderivano a Piero di opporsi, né con le parole né con le forze, a tanta inclinazione. Ma non avendo facoltà di difendere Pisa e Livorno, se bene non si confidassino di rimuovere il re dalla volontà d'avere quelle fortezze, nondimeno, per separare i consigli della republica da' consigli di Piero, e perché almeno non fusse riconosciuto dal privato quel che al publico apparteneva, gli mandorno subito molti imbasciadori, di quegli che erano malcontenti della grandezza de' Medici; e perciò Piero, conoscendo questo essere principio di mutazione dello stato, per provedere alle cose sue innanzi nascesse maggiore disordine, si partí dal re, sotto colore di andare a dare perfezione a quello gli aveva promesso. Nel quale tempo e Carlo partí da Serezana per andare a Pisa, e Lodovico Sforza, ottenuto, con pagare certa quantità di danari, che la investitura di Genova, conceduta dal re pochi anni innanzi a Giovan Galeazzo per lui e per i discendenti, si trasferisse in sé e ne' discendenti suoi, se ne ritornò a Milano; ma con l'animo turbato contro a Carlo, per avere negato di lasciare a guardia sua, secondo diceva essergli stato promesso, Pietrasanta e Serezana: le quali terre, per farsi scala alla ardentissima cupidità che aveva di Pisa, domandava, come tolte ingiustamente, pochissimi anni innanzi, da' fiorentini a' genovesi.

Ritornato Piero de' Medici a Firenze trovò la maggiore parte de' magistrati alienata da lui e sospesi gli animi degli amici di piú momento, perché contro al consiglio loro aveva tutte le cose imprudentemente governate; e il popolo in tanta sollevazione che volendo egli il dí seguente, che fu il dí nono di novembre, entrare nel palagio nel quale risedeva la signoria, magistrato sommo della republica, gli fu proibito da alcuni magistrati che armati guardavano la porta, de' quali fu il principale Jacopo de' Nerli, giovane nobile e ricco. Il che divulgato per la città, il popolo subito tumultuosamente pigliò l'armi concitato con maggiore impeto perché Paolo Orsini co' suoi uomini d'arme, chiamato da Piero, s'approssimava: donde egli, che già alle sue case ritornato era, perduto d'animo e di consiglio, e inteso che la signoria l'aveva dichiarato rebelle, si fuggí con grandissima celerità di Firenze, seguitandolo Giovanni cardinale della Chiesa romana e Giuliano suoi fratelli, a' quali similmente furono imposte le pene ordinate contro a i rebelli; e se ne andò a Bologna. Ove Giovanni Bentivogli, desiderando in altrui quel vigore di animo il quale non rappresentò poi nelle sue avversità, mordacemente nel primo congresso lo riprese che, in pregiudicio non solo proprio ma non meno per rispetto dell'esempio di tutti quegli che opprimevano la libertà delle loro patrie, avesse cosí vilmente e senza la morte di uno uomo solo abbandonata tanta grandezza. In questo modo, per la temerità di uno giovane, cadde per allora la famiglia de' Medici di quella potenza la quale, sotto nome e con dimostrazioni quasi civili, aveva, sessanta anni continui, ottenuta in Firenze: cominciata in Cosimo suo bisavolo, cittadino di singolare prudenza e di ricchezze inestimabili e però celebratissimo per tutte le parti della Europa, e molto piú perché con ammirabile magnificenza e con animo veramente regio, avendo piú rispetto alla eternità del nome suo che alla comodità de' discendenti, spese piú di quattrocentomila ducati in fabriche di chiese di monasteri e d'altri superbissimi edifici, non solo nella patria ma in molte parti del mondo; del quale Lorenzo nipote, grande di ingegno e di eccellente consiglio, né di generosità dell'animo minore dell'avolo, e nel governo della republica di piú assoluta autorità, benché inferiore assai di ricchezze e di vita molto piú breve, fu in grande estimazione per tutta Italia e appresso a molti príncipi forestieri, la quale dopo la morte si convertí in memoria molto chiara, parendo che insieme con la sua vita la concordia e la felicità d'Italia fussino mancate.

Ma il dí medesimo nel quale si mutò lo stato di Firenze, essendo Carlo nella città di Pisa, i pisani ricorsono a lui popolarmente a domandare la libertà, querelandosi gravemente delle ingiurie le quali dicevano ricevere da' fiorentini; e affermandogli alcuni de' suoi, che erano presenti, essere domanda giusta perché i fiorentini gli dominavano acerbamente, il re, non considerando quello che importasse questa richiesta e che era contraria alle cose trattate in Serezana, rispose subito essere contento: alla quale risposta il popolo pisano, pigliate l'armi e gittate per terra de' luoghi publici le insegne de' fiorentini, si vendicò cupidissimamente in libertà. E nondimeno il re, contrario a se medesimo né sapendo che cose si concedesse, volle che vi restassino gli ufficiali de' fiorentini a esercitare la solita giurisdizione; e da altra parte lasciò la cittadella vecchia in mano de' pisani, ritenendo per sé la nuova che era di importanza molto maggiore. Potette apparire in questi accidenti di Pisa e di Firenze quel che è confermato per proverbio comune, che gli uomini, quando si approssimano i loro infortuni, pérdono principalmente la prudenza, con la quale arebbono potuto impedire le cose destinate: perché e i fiorentini sospettosissimi in ogni tempo della fede de' pisani, aspettando una guerra di tanto pericolo, non chiamorono a Firenze i cittadini principali di Pisa, come per assicurarsene solevano fare, di numero grande, in ogni leggiero accidente; né Piero de' Medici, appropinquandosi tante difficoltà, armò di fanti forestieri la piazza e il palagio publico, come in sospetti molto minori si era fatto molte altre volte: le quali provisioni arebbono fatto impedimento grande a queste mutazioni. Ma in quanto alle cose di Pisa, è manifesto che a' pisani, inimicissimi per natura del nome fiorentino, dette animo principalmente a questo moto l'autorità di Lodovico Sforza, il quale aveva tenuto prima pratiche occulte a questo effetto con alcuni cittadini pisani sbanditi per delitti privati; e il dí medesimo Galeazzo da San Severino, il quale da lui era stato lasciato appresso al re, concitò il popolo a questa tumultuazione, mediante la quale Lodovico si persuadeva il dominio di Pisa avergli presto a pervenire, non sapendo tale cosa dovere, dopo non molto tempo, essere cagione di tutte le sue miserie. Ma è medesimamente manifesto che, comunicando la notte dinanzi alcuni pisani quel che avevano nell'animo di fare al cardinale di San Piero in Vincola, egli, il quale insino a quel dí non era forse mai stato autore di quieti consigli, gli confortò con gravi parole che considerassino non solamente la superficie e i princi*pi delle cose ma piú intrinsecamente quel che potessino in processo di tempo partorire. Essere desiderabile e preziosa cosa la libertà, e tale che meriti di sottomettersi a ogni pericolo quando, almeno in qualche parte, s'ha speranza verisimile di sostentarla. Ma Pisa, città spogliata di popolo e di ricchezze, non avere facoltà di difendersi dalla potenza de' fiorentini; e essere fallace consiglio il promettersi che l'autorità del re di Francia avesse a conservargli; perché quando bene non potessino piú in lui i danari de' fiorentini, come verisimilmente potrebbono, atteso massime le cose trattate a Serezana, non avere sempre i franzesi a stare in Italia, perché per gli esempli de' tempi passati si poteva facilmente giudicare il futuro; e essere grande imprudenza l'obligarsi a un pericolo perpetuo sotto fondamenti non perpetui, e per speranze incertissime pigliare con inimici tanto piú potenti la guerra certa, nella quale non si potevano promettere gli aiuti d'altri perché dependevano dall'altrui volontà e, quel che era piú, da accidenti molto vari; e quando bene gli ottenessino, non per questo fuggirebbono ma sarebbono piú gravi le calamità della guerra, vessandogli nel tempo medesimo i soldati degli inimici e aggravandogli i soldati degli amici, tanto piú acerbe a tollerare quanto conoscerebbono non combattere per la libertà propria ma per l'imperio alieno, permutando servitú a servitú; perché niuno principe vorrebbe implicarsi, se non per dominargli, ne' travagli e nelle spese d'una guerra, la quale, per le ricchezze e per la vicinità de' fiorentini, che mentre che avessino spirito non cesserebbono mai di molestargli, sostenere se non con grandissime difficoltà non si potrebbe.

Lib.1, cap.16

Carlo VIII in marcia verso Firenze si ferma a Signa con intenzioni ostili. Precauzioni de' fiorentini e nascosti preparativi di difesa. Entrata di Carlo in Firenze. Eccessive esigenze di Carlo ed eccitazione degli animi de' fiorentini. Piero de' Medici, invitato da Carlo, si consiglia co' veneziani che lo confortano a non muoversi da Venezia. Sdegnose parole di Pier Capponi a Carlo e patti conclusi fra questo e i fiorentini.

Fermossi dipoi Carlo a Signa, luogo propinquo a Firenze a sette miglia, per aspettare, innanzi che entrasse in quella città, che alquanto fusse cessato il tumulto del popolo fiorentino, il quale non aveva deposte l'armi prese il dí che era stato cacciato Piero de' Medici; e per dare tempo a Obigní, il quale, per entrare con maggiore spavento in Firenze, aveva mandato a chiamare, con ordine che lasciasse l'artiglierie a Castrocaro e licenziasse dagli stipendi suoi i cinquecento uomini d'arme italiani che erano seco in Romagna e insieme le genti d'arme del duca di Milano, in modo che de' soldati sforzeschi non lo seguitò altri che 'l conte di Gaiazzo con trecento cavalli leggieri: e per molti indizi si comprendeva essere il pensiero del re di indurre i fiorentini col terrore delle armi a cedergli il dominio assoluto della città; né egli sapeva dissimularlo con gli imbasciadori medesimi i quali piú volte andorno a Signa per risolvere seco il modo dello entrare in Firenze, e per dare perfezione alla concordia che si trattava. Non è dubbio che 'l re, per l'opposizione che gli era stata fatta, aveva contro al nome fiorentino grandissimo sdegno e odio conceputo; e ancora che e' fusse manifesto non essere proceduta dalla volontà della republica, e che la città se ne fusse seco diligentissimamente giustificata nondimeno non ne restava con l'animo purgato; indotto, come si crede, da molti de' suoi, i quali giudicavano non dovere pretermettersi l'opportunità di insignorirsene, o mossi da avarizia non volevano perdere l'occasione di saccheggiare sí ricca città: e era vociferazione per tutto l'esercito che per l'esempio degli altri si dovesse abbruciare, poiché primi in Italia di opporsi alla potenza di Francia presunto avevano. Né mancava tra i principali del suo consiglio chi alla restituzione di Piero de' Medici lo confortasse, e specialmente Filippo monsignore di Brescia, fratello del duca di Savoia, indotto da amicizie private e da promesse; in modo che, o prevalendo la persuasione di questi, benché il vescovo di San Malò consigliasse il contrario, o sperando con questo terrore fare inclinare piú i fiorentini alla sua volontà, o per avere occasione di prendere piú facilmente in sul fatto quello partito che piú gli piacesse, scrisse una lettera a Piero e gli fece scrivere da Filippo monsignore, confortandolo ad accostarsi a Firenze, perché per l'amicizia stata tra i padri loro e per il buono animo dimostratogli da lui nella consegnazione delle fortezze, era deliberato di reintegrarlo nella pristina autorità. Le quali lettere non lo trovorono, come il re aveva creduto, in Bologna, perché Piero, mosso dalla asprezza delle parole di Giovanni Bentivogli e dubitando non essere perseguitato dal duca di Milano e forse dal re di Francia, era per sua infelicità andato a Vinegia; dove gli furno mandate dal cardinale suo fratello, il quale era restato a Bologna.

In Firenze si dubitava molto della mente del re, ma non vedendo con quali forze o con quale speranza gli potessino resistere, avevano eletto per manco pericoloso il riceverlo nella città, sperando pure d'avere in qualche modo a placarlo; e nondimeno, per essere proveduti a ogni caso, avevano ordinato che molti cittadini si empiessino le case occultamente d'uomini del dominio fiorentino, e che i condottieri i quali militavano agli stipendi della republica entrassino, dissimulando la cagione, con molti de' loro soldati in Firenze, e che ciascuno nella città e ne' luoghi circostanti stesse attento per pigliare l'armi al suono della campana maggiore del publico palagio. Entrò dipoi il re con l'esercito, con grandissima pompa e apparato, fatto con sommo studio e magnificenza cosí dalla sua corte come dalla città; e entrò, in segno di vittoria, armato egli e il suo cavallo, con la lancia in sulla coscia: dove si ristrinse subito la pratica dell'accordo, ma con molte difficoltà. Perché, oltre al favore immoderato prestato da alcuni de' suoi a Piero de' Medici e le dimande intollerabili che si faceano di danari, Carlo scopertamente il dominio di Firenze dimandava, allegando che, per esservi entrato in quel modo armato, l'aveva, secondo gli ordini militari del regno di Francia, legittimamente guadagnato; dalla quale domanda benché finalmente si partisse, voleva nondimeno lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba lunga, (cosí chiamano in Francia i dottori e le persone togate), con tale autorità che, secondo gli instituti franzesi, arebbe potuto pretendere essersegli attribuita in perpetuo non piccola giurisdizione; e pel contrario i fiorentini erano ostinatissimi a conservare intera, non ostante qualunque pericolo, la propria libertà: donde, trattando insieme con opinioni tanto diverse, si accendevano continuamente gli animi di ciascuna delle parti. E nondimeno niuno era pronto a terminare le differenze con l'armi, perché il popolo di Firenze, dato per lunga consuetudine alle mercatanzie e non agli esercizi militari, temeva grandemente, avendo intra le proprie mura uno potentissimo re con tanto esercito, pieno di nazioni incognite e feroci; e a' franzesi faceva molto timore l'essere il popolo grandissimo e l'avere dimostrato, in quegli dí che fu mutato il governo, segni maggiori d'audacia che prima non sarebbe stato creduto, e la fama publica che, al suono della campana grossa, quantità d'uomini innumerabile di tutto il paese circostante concorresse. Nella quale comune paura levandosi spesso romori vani, ciascuna delle parti per sua sicurtà tumultuosamente pigliava l'armi, ma niuna assaltava l'altra o provocava.

Riuscí vano al re il fondamento di Piero de' Medici, perché Piero, sospeso tra la speranza datagli e il timore di non essere dato in preda agli avversari, domandò sopra le lettere del re consiglio al senato viniziano. Niuna cosa è certamente piú necessaria nelle deliberazioni ardue, niuna da altra parte piú pericolosa, che 'l domandare consiglio; né è dubbio che manco è necessario agli uomini prudenti il consiglio che agli imprudenti; e nondimeno, che molto piú utilità riportano i savi del consigliarsi. Perché chi è quello di prudenza tanto perfetta che consideri sempre e conosca ogni cosa da se stesso? e nelle ragioni contrarie discerna sempre la migliore parte? Ma che certezza ha chi domanda il consiglio d'essere fedelmente consigliato? Perché chi dà il consiglio, se non è molto fedele o affezionato a chi 'l domanda, non solo mosso da notabile interesse ma per ogni suo piccolo comodo, per ogni leggiera sodisfazione, dirizza spesso il consiglio a quel fine che piú gli torna a proposito o di che piú si compiace; e essendo questi fini il piú delle volte incogniti a chi cerca d'essere consigliato, non s'accorge, se non è prudente, della infedeltà del consiglio. Cosí intervenne a Piero de' Medici, perché i viniziani, giudicando che l'andata sua faciliterebbe a Carlo il ridurre le cose di Firenze a' suoi disegni, il che per lo interesse proprio sarebbe stato loro molestissimo, e però consigliando piú tosto se medesimi che Piero, efficacissimamente lo confortorno a non si mettere in potestà del re, il quale da lui si teneva ingiuriato; e per dargli maggiore cagione di seguitare il consiglio loro gli offersono d'abbracciare le cose sue e di prestargli, quando il tempo lo comportasse, ogni favore a rimetterlo nella patria: né contenti di questo, per assicurarsi che allora di Vinegia non si partisse, gli posono, se è stato vero quel che poi si divulgò, segretissime guardie.

Ma in questo mezzo erano in Firenze da ogni parte esacerbati gli animi e quasi trascorsi a manifesta contenzione, non volendo il re dall'ultime sue domande declinare, né i fiorentini a somma di danari intollerabile obligarsi, né giurisdizione o preminenza alcuna nel loro stato consentirgli. Le quali difficoltà, quasi inesplicabili se non con l'armi, sviluppò la virtú di Piero Capponi, uno di quattro cittadini diputati a trattare col re, uomo di ingegno e d'animo grande, e in Firenze molto stimato per queste qualità, e per essere nato di famiglia onorata e disceso di persone che avevano potuto assai nella republica. Perché essendo un dí egli e i compagni suoi alla presenza del re, e leggendosi da uno secretario regio i capitoli immoderati i quali per ultimo per la parte sua si proponevano, egli con gesti impetuosi, tolta di mano del secretario quella scrittura la stracciò innanzi agli occhi del re, soggiugnendo con voce concitata:

- Poiché si domandano cose sí disoneste, voi sonerete le vostre trombe e noi soneremo le nostre campane. - Volendo espressamente inferire che le differenze si deciderebbono con l'armi; e col medesimo impeto, andandogli dietro i compagni, si partí subito della camera. Certo è che le parole di questo cittadino, noto prima a Carlo e a tutta la corte perché pochi mesi innanzi era stato in Francia imbasciadore de' fiorentini, messono in tutti tale spavento, non credendo massime che tanta audacia fusse in lui senza cagione, che richiamatolo, e lasciate le dimande alle quali si ricusava di consentire, si convennono insieme il re e i fiorentini in questa sentenza: che rimesse tutte le ingiurie precedenti, la città di Firenze fusse amica, confederata e in protezione perpetua della corona di Francia: che in mano del re, per sicurtà sua, rimanessino la città di Pisa, la terra di Livorno, con tutte le loro fortezze: le quali fusse obligato a restituire senza alcuna spesa a fiorentini subito che avesse finito l'impresa del regno di Napoli, intendendosi finita ogni volta che avesse conquistata la città di Napoli o composto le cose con pace o con tregua di due anni o che per qualunque causa la persona sua d'Italia si partisse, e che i castellani giurassino di presente di restituirle ne' casi sopradetti, e in questo mezzo il dominio, la giurisdizione, il governo, l'entrate delle terre fussino de' fiorentini, secondo il solito; e che le cose medesime si facessino di Pietrasanta, di Serezana e di Serezanello, ma che, per pretendere i genovesi d'avere ragione in queste, fusse lecito al re procurare di terminare le differenze loro o per concordia o per giustizia, ma che non l'avendo terminate nel soprascritto tempo, le restituisse a' fiorentini: che 'l re potesse lasciare in Firenze due imbasciadori, senza intervento de' quali, durante la detta impresa, non si trattasse cosa alcuna appartenente a quella; né potessino nel tempo medesimo eleggere senza sua partecipazione capitano generale delle genti loro: restituissinsi subito tutte l'altre terre tolte o ribellatesi da' fiorentini, a' quali fusse lecito recuperarle con l'armi in caso recusassino di ricevergli: donassino al re per sussidio della sua impresa ducati cinquantamila fra quindici dí, quarantamila per tutto marzo e trentamila per tutto giugno prossimi: fusse perdonato a' pisani il delitto della ribellione e gli altri delitti commessi poi: liberassinsi Piero de' Medici e i fratelli dal bando e dalla confiscazione, ma non potesse accostarsi Piero per cento miglia a i confini del dominio fiorentino, il che si faceva per privarlo della facoltà di stare a Roma, né i fratelli per cento miglia alla città di Firenze. Questi furono gli articoli piú importanti della capitolazione tra il re e i fiorentini; la quale, oltre all'essere stipulata legittimamente, fu con grandissima cerimonia publicata nella chiesa maggiore intra gli offici divini; dove il re personalmente, a richiesta del quale fu fatto questo, e i magistrati della città, promessono l'osservanza con giuramento solenne, prestato in sull'altare principale, presente la corte e tutto il popolo fiorentino. E due dí poi partí Carlo di Firenze, dove era dimorato dieci dí, e andò a Siena; la quale città, confederata col re di Napoli e co' fiorentini, aveva seguitato la loro autorità, insino a tanto che l'andata di Piero de' Medici a Serezana gli costrinse a pensare da se stessi alla propria salute.

Lib.1, cap.17

Carlo VIII da Siena, di governo libero ma turbata dalle fazioni, s'incammina verso Roma. Timori del senato veneziano e del duca di Milano per i buoni successi di Carlo. Titubanze del pontefice mentre l'esercito francese s'avvicina a Roma. Sottili accordi fra gli Orsini e il re di Francia. Entrata di Carlo in Roma. Patti e riconciliazione fra il pontefice e Carlo.

La città di Siena, città popolosa e di territorio molto fertile, e la quale otteneva in Toscana, già lungo tempo, il primo luogo di potenza dopo i fiorentini, si governava per se medesima, ma in modo che conosceva piú presto il nome della libertà che gli effetti, perché distratta in molte fazioni o membri di cittadini, chiamati appresso a loro ordini, ubbidiva a quella parte la quale secondo gli accidenti de' tempi e i favori de' potentati forestieri era piú potente che l'altre; e allora vi prevaleva l'ordine del Monte de' nove. In Siena dimorato pochissimi dí, e lasciatavi gente a guardia, perché per essere quella città inclinata insino a' tempi antichi alla divozione dello imperio gli era sospetta, si indirizzò al cammino di Roma; insolente piú l'un dí che l'altro per i successi molto maggiori che non erano giammai state le speranze, e, essendo i tempi benigni e sereni assai piú che non comportava la stagione, deliberato di continuare senza intermissione questa prosperità, terribile non solo agli inimici manifesti ma a quegli o che erano stati congiunti seco o i quali non l'avevano provocato in cosa alcuna. Perché, e il senato viniziano e il duca di Milano, impauriti di tanto successo, dubitando, massime per le fortezze ritenute de' fiorentini e per la guardia lasciata in Siena, che i pensieri suoi non terminassino nello acquisto di Napoli, incominciorno per ovviare al pericolo comune a trattare di fare insieme nuova confederazione; e gli arebbono data piú tosto perfezione se le cose di Roma avessino fatto quella resistenza che fu sperato da molti.

Perché la intenzione del duca di Calavria, col quale s'erano unite presso a Roma le genti del pontefice e Verginio Orsino col resto dell'esercito aragonese, fu di fermarsi a Viterbo per impedire a Carlo il passare piú innanzi; invitandolo oltre a molte cagioni l'opportunità del luogo, circondato dalle terre della Chiesa e propinquo agli stati degli Orsini. Ma tumultuando già tutto 'l paese di Roma, per le scorrerie che i Colonnesi facevano di là dal fiume del Tevere e per gl'impedimenti che per mezzo d'Ostia si davano alle vettovaglie, le quali solevano condursi a Roma per mare, non ebbe ardire di fermarvisi: dubitando oltre a questo della mente del pontefice, perché, insino quando intese la variazione di Piero de' Medici, aveva cominciato a udire le domande franzesi, per le quali andò allora a Roma a parlargli il cardinale Ascanio, essendo andato prima per sicurtà sua il cardinale di Valenza a Marino, terra de' Colonnesi; e benché Ascanio si partisse senza certa risoluzione, perché nel petto d'Alessandro la diffidenza della mente di Carlo e il timore delle sue forze insieme combattevano, nondimeno come Carlo fu partito di Firenze si ritornò di nuovo a' ragionamenti dell'accordo, per i quali il pontefice mandò a lui i vescovi di Concordia e di Terni e maestro Graziano suo confessore, trattando di comporre insieme le cose sue e quelle del re Alfonso. Ma era diversa la intenzione di Carlo, risoluto di non concordare se non col pontefice solo: però mandò a lui.. monsignore della Tramoglia e... di Gannai presidente del parlamento di..., e vi andorno per la medesima cagione il cardinale Ascanio e Prospero Colonna; i quali non prima arrivati che Alessandro, quale si fusse la causa, mutato proposito, messe subito il duca di Calavria con tutto l'esercito in Roma, e fatti ritenere Ascanio e Prospero gli fece custodire nella Mole d'Adriano detta già il Castello di Crescenzio, oggi Castello Sant'Angelo, dimandando loro la restituzione d'Ostia: nel quale tumulto furono dalle genti aragonesi fatti prigioni gli oratori franzesi, ma questi il pontefice fece subito liberare, né molti dí poi fece il medesimo d'Ascanio e di Prospero, costringendogli nondimeno a partirsi da Roma subitamente. Mandò dipoi al re, il quale si era fermato a Nepi, Federigo da San Severino cardinale, cominciando a trattare solamente delle cose proprie; e nondimeno con l'animo molto ambiguo: perché ora di fermarsi alla difesa di Roma deliberava, e però permetteva che Ferdinando e i capitani attendessino ne' luoghi piú deboli a fortificarla; ora parendogli cosa difficile il sostenerla, per essere le vettovaglie marittime da quegli che erano in Ostia interrotte e per il numero infinito di forestieri pieni di varie volontà e per la diversità delle fazioni tra i romani, inclinava a partirsi di Roma, e però aveva voluto che nel collegio ciascuno de' cardinali gli promettesse per scrittura di mano propria di seguitarlo; ora, spaventato dalle difficoltà e da' pericoli imminenti a qualunque di queste deliberazioni, voltava l'animo all'accordo. Nelle quali ambiguità mentre che sta sospeso i franzesi correvano di qua dal Tevere tutto il paese, occupando ora una terra ora un'altra, perché non si trovava piú luogo niuno che resistesse, niuno piú che non cedesse all'impeto loro; seguitando l'esempio degli altri insino a quegli che avevano cagioni grandissime di opporsi, insino a Verginio Orsino, astretto con tanti vincoli di fede d'obligazione e d'onore alla casa d'Aragona, capitano generale dell'esercito regio, gran conestabile del regno di Napoli, congiunto a Alfonso con parentado molto stretto, perché a Gian Giordano suo figliuolo era maritata una figliuola naturale di Ferdinando re morto, e che da loro aveva ricevuto stati nel reame tanti favori. Dimenticatosi di tutte queste cose, né meno dimenticatosi che dagli interessi suoi le calamità aragonesi avevano avuto la prima origine, consentí, con ammirazione de' franzesi non assueti a queste sottili distinzioni de' soldati d'Italia, che restando agli stipendi del re di Napoli la sua persona, i figliuoli convenissino col re di Francia; obligandosi dargli, nello stato teneva nel dominio della Chiesa, ricetto passo e vettovaglie, e dipositare Campagnano e certe altre terre in mano del cardinale Gurgense, che promettesse restituirle subito che l'esercito fusse uscito dal territorio romano: e nel medesimo modo convennono congiuntamente il conte di Pitigliano e gli altri della famiglia Orsina. Il quale accordo come fu fatto, Carlo andò da Nepi a Bracciano, terra principale di Verginio, e a Ostia mandò Luigi monsignore di Ligní e Ivo monsignore di Allegri con cinquecento lancie e con dumila svizzeri, acciocché passando il Tevere e uniti coi Colonnesi che correvano per tutto, si sforzassino d'entrare in Roma; i quali per mezzo de' romani della fazione loro speravano a ogni modo di conseguirlo, con tutto che per i tempi diventati sinistri le difficoltà fussino accresciute. Già Civitavecchia, Corneto e finalmente quasi tutto il territorio di Roma era ridotto alla divozione franzese; già tutta la corte, già tutto il popolo romano, in grandissima sollevazione e terrore, chiamavano ardentemente la concordia: però il pontefice, ridotto in pericolosissimo frangente e vedendo mancare continuamente i fondamenti del difendersi, non si riteneva per altro che per la memoria di essere stato de' primi a incitare il re alle cose di Napoli, e dipoi, senza essergliene stata data cagione alcuna, avere con l'autorità co' consigli e con l'armi fattagli pertinace resistenza; onde meritamente dubitava dovere essere del medesimo valore la fede che e' ricevesse dal re che quella che il re aveva ricevuta da lui. Accresceva il terrore il vedergli appresso con autorità non piccola il cardinale di San Piero in Vincola e molti altri cardinali inimici suoi; per le persuasioni de' quali, per il nome cristianissimo de' re di Francia, per la fama inveterata della religione di quella nazione, e per l'espettazione, che è sempre maggiore, di quegli che sono noti per nome solo, temeva che 'l re non voltasse l'animo a riformare, come già cominciava a divulgarsi, le cose della Chiesa: pensiero a lui sopra modo terribile, che si ricordava con quanta infamia fusse asceso al pontificato, e averlo continuamente amministrato con costumi e con arti non disformi da principio tanto brutto. Alleggerissi questo sospetto per la diligenza e efficaci promesse del re, il quale desiderando sopra ogni cosa accelerare l'andata sua al regno di Napoli, e però non pretermettendo opera alcuna per rimuoversi l'impedimento del pontefice, gli mandò di nuovo imbasciadori il siniscalco di Belcari, il marisciallo di Gies e il medesimo presidente di Gannai: i quali, sforzandosi di persuadergli non essere l'intenzione del re di mescolarsi in quello che apparteneva all'autorità pontificale né domandargli se non quanto fusse necessario alla sicurtà del passare innanzi, feciono instanza che e' consentisse al re l'entrare in Roma; affermando questo essere sommamente desiderato da lui, non perché e' non fusse in sua potestà l'entrarvi con l'armi ma per non essere necessitato di mancare a lui di quella riverenza la quale avevano a' pontefici romani portata sempre i suoi maggiori; e che, subito che il re fusse entrato in Roma, le differenze state tra loro si convertirebbono in sincerissima benivolenza e congiunzione. Dure condizioni parevano al pontefice spogliarsi innanzi a ogni cosa degli aiuti degli amici, e rimettendosi totalmente in potestà dello inimico riceverlo prima in Roma che stabilire seco le cose sue; ma finalmente, giudicando che di tutti i pericoli questo fusse il minore, consentite queste dimande, fece partire di Roma il duca di Calavria col suo esercito, ma ottenuto prima per lui salvocondotto da Carlo perché sicuramente potesse passare per tutto lo stato ecclesiastico. Ma Ferdinando, avendolo magnanimamente rifiutato, uscí di Roma per la porta di San Sebastiano, l'ultimo dí dell'anno mille quattrocento novantaquattro, nell'ora propria che per la porta di Santa Maria del popolo vi entrava con l'esercito franzese il re, armato, con la lancia in sulla coscia, come era entrato in Firenze; e nel tempo medesimo il pontefice, pieno di incredibile timore e ansietà, si era ritirato in Castel Sant'Angelo, non accompagnato da altri cardinali che da Batista Orsino e da Ulivieri Caraffa napoletano. Ma il Vincola, Ascanio, i cardinali Colonnese e Savello e molt'altri non cessavano di fare instanza col re, che rimosso di quella sedia uno pontefice pieno di tanti vizi e abominevole a tutto 'l mondo se ne eleggesse un altro, dimostrandogli non essere meno glorioso al nome suo liberare dalla tirannide d'uno papa scelerato la Chiesa d'Iddio che fusse stato a Pipino e a Carlo magno suoi antecessori liberare i pontefici di santa vita dalle persecuzioni di coloro che ingiustamente gli opprimevano. Ricordavangli questa deliberazione essere non manco necessaria per la sicurtà sua che desiderabile per la gloria: perché, come potrebbe mai confidarsi nelle promesse di Alessandro, uomo per natura pieno di fraude, insaziabile nelle cupidità, sfacciatissimo in tutte le sue azioni e, come aveva dimostrato l'esperienza, di ardentissimo odio contro al nome franzese? né che ora si riconciliava spontaneamente ma sforzato dalla necessità e dal timore? Per i conforti de' quali e perché il pontefice, nelle condizioni che si trattavano, recusava di concedere a Carlo Castel Sant'Angelo per assicurarlo di quello gli promettesse, furono due volte cavate l'artiglierie del palagio di San Marco, nel quale Carlo alloggiava, per piantarle intorno al castello. Ma né il re aveva per sua natura inclinazione a offendere il pontefice, e nel consiglio suo piú intimo potevano quegli i quali Alessandro con doni e con speranze s'aveva fatti benevoli. Però finalmente convennono: che tra 'l pontefice e il re fusse amicizia perpetua e confederazione per la difesa comune: che al re per sua sicurezza si dessino, per tenerle insino all'acquisto del reame di Napoli, le rocche di Civitavecchia, di Terracina e di Spuleto; benché questa non gli fu poi consegnata: non riconoscesse il pontefice offesa o ingiuria alcuna contro a cardinali, né contro a' baroni sudditi della Chiesa, i quali aveano seguitato le parti del re: investisselo il pontefice del regno di Napoli: concedessegli Gemin ottomanno fratello di Baiset, il quale dopo la morte di Maumet padre comune, perseguitato da Baiset (secondo la consuetudine efferata degli ottomanni, i quali stabiliscono la successione nel principato col sangue de' fratelli e di tutti i piú prossimi) e perciò rifuggito a Rodi e di quivi condotto in Francia, era finalmente stato messo in potestà di Innocenzio pontefice; donde Baiset, usando l'avarizia de' vicari di Cristo per instrumento a tenere in pace lo imperio inimico alla fede cristiana, pagava ciascun anno, sotto nome delle spese che si facevano in alimentarlo e custodirlo, ducati quarantamila a' pontefici, acciocché fussino manco pronti a liberarlo o a concederlo a altri príncipi contro a sé. Fece instanza Carlo d'averlo per facilitarsi col mezzo suo l'impresa contro a' turchi, la quale, enfiato da vane adulazioni de' suoi, pensava, vinti che avesse gli aragonesi, di incominciare. E perché gli ultimi quarantamila ducati mandati dal turco erano stati tolti a Sinigaglia dal prefetto di Roma, che il pontefice e la pena e la restituzione di essi gli rimettesse. A queste cose si aggiunse che 'l cardinale di Valenza seguitasse, come legato apostolico, tre mesi, il re, ma in verità per statico delle promesse paterne. Fermata la concordia, il pontefice ritornò al palagio pontificale in Vaticano; e da poi, con la pompa e cerimonie consuete a ricevere i re grandi, ricevé il re nella chiesa di San Piero; il quale, avendogli, secondo il costume antico, genuflesso baciati i piedi e dipoi ammesso a baciargli il volto, intervenne un altro giorno alla messa pontificale, sedendo il primo dopo il primo vescovo cardinale; e secondo il rito antico dette al papa, celebrante la messa, l'acqua alle mani. Delle quali cerimonie il pontefice, perché si conservassino nella memoria de' posteri, fece fare pittura in una loggia del Castello di Santo Angelo. Publicò di piú a instanza sua cardinali il vescovo di San Malò e il vescovo di Umans della casa di Luzimborgo, né omesse dimostrazione alcuna d'essersi seco sinceramente e fedelmente reconciliato.

Lib.1, cap.18

Favore delle popolazioni del reame di Napoli per i francesi. Alfonso d'Aragona abbandona l'autorità di re a favore del figliuolo Ferdinando e fugge a Mazari in Sicilia. Ferocia dei francesi al Monte di San Giovanni.

Dimorò Carlo in Roma circa uno mese, non avendo per ciò cessato di mandare gente a' confini del regno napoletano: nel quale già ogni cosa tumultuava in modo che l'Aquila e quasi tutto l'Abruzzi aveva, prima che 'l re partisse di Roma, alzate le sue bandiere, e Fabrizio Colonna aveva occupato i contadi d'Albi e di Tagliacozzo; né era molto piú quieto il resto del reame. Perché subito che Ferdinando fu partito da Roma cominciorono i frutti dell'odio che i popoli portavano ad Alfonso ad apparire, aggiugnendosi la memoria di molte acerbità usate da Ferdinando suo padre; donde, esclamando con grandissimo ardore delle iniquità de' governi passati e della crudeltà e superbia d'Alfonso, il desiderio della venuta de' franzesi palesemente dimostravano; in modo che le reliquie antiche della fazione angioina, benché congiunte con la memoria e col seguito di tanti baroni stati scacciati e incarcerati in vari tempi da Ferdinando, cosa per sé di somma considerazione e potente instrumento ad alterare, facevano in questo tempo, a comparazione dell'altre cagioni, piccolo momento: tanto senza questi stimoli era concitata e ardente la disposizione di tutto il regno contro ad Alfonso. Il quale, intesa che ebbe la partita del figliuolo da Roma, entrò in tanto terrore che, dimenticatosi della fama e gloria grande la quale con lunga esperienza aveva acquistato in molte guerre d'Italia, e disperato di potere resistere a questa fatale tempesta, deliberò di abbandonare il regno, rinunziando il nome e l'autorità reale a Ferdinando, e avendo forse qualche speranza che rimosso con lui l'odio sí smisurato, e fatto re uno giovane di somma espettazione, il quale non aveva offeso alcuno e quanto a sé era in assai grazia appresso a ciascuno, allenterebbe per avventura ne' sudditi il desiderio de' franzesi: il quale consiglio, se forse anticipato arebbe fatto qualche frutto, differito a tempo che le cose non solo erano in veemente movimento ma già cominciate a precipitare, non bastava piú a fermare tanta rovina. È fama eziandio (se però è lecito tali cose non del tutto disprezzare) che lo spirito di Ferdinando apparí tre volte in diverse notti a Iacopo primo cerusico della corte, e che prima con mansuete parole dipoi con molte minaccie gli impose dicesse ad Alfonso, in suo nome, che non sperasse di potere resistere al re di Francia, perché era destinato che la progenie sua, travagliata da infiniti casi e privata finalmente di sí preclaro regno, si estinguesse. Esserne cagione molte enormità usate da loro, ma sopra tutte quella che, per le persuasioni fattegli da lui quando tornava da Pozzuolo, nella chiesa di San Lionardo in Chiaia appresso a Napoli aveva commessa: né avendo espresso altrimenti i particolari, stimorono gli uomini che Alfonso l'avesse in quel luogo persuaso a fare morire occultamente molti baroni, i quali lungo tempo erano stati incarcerati. Quel che di questo sia la verità, certo è che Alfonso, tormentato dalla coscienza propria, non trovando né dí né notte requie nell'animo, e rappresentandosegli nel sonno l'ombre di quegli signori morti, e il popolo per pigliare supplicio di lui tumultuosamente concitarsi, conferito quel che aveva deliberato solamente con la reina sua matrigna, né voluto, a' prieghi suoi, comunicarlo né col fratello né col figliuolo, né soprastare pure due o tre dí soli per finire l'anno intero del suo regno, si partí con quattro galee sottili cariche di molte robe preziose; dimostrando nel partire tanto spavento che pareva fusse già circondato da' franzesi, e voltandosi paurosamente a ogni strepito come temendo che gli fussino congiurati contro il cielo e gli elementi; e si fuggí a Mazari terra in Sicilia, statagli prima donata da Ferdinando re di Spagna.

Ebbe il re di Francia, all'ora medesima che si partiva di Roma, avviso della sua fuga. Il quale come fu arrivato a Velletri, il cardinale di Valenza fuggí occultamente da lui: della quale cosa benché il padre facesse gravi querele, offerendo d'assicurare il re in qualunque modo volesse, si credette fusse stato per suo comandamento, come quello che voleva fusse in sua facoltà l'osservare o no le convenzioni fatte con lui. Da Velletri andò l'antiguardia a Montefortino, terra posta nella campagna della Chiesa e suddita a Iacopo Conte barone romano; il quale, condotto prima agli stipendi di Carlo, si era di poi, potendo piú in lui l'odio de' Colonnesi che l'onore proprio, condotto con Alfonso: il quale castello battuto dall'artiglierie, benché fortissimo di sito, presono i franzesi in pochissime ore, ammazzando tutti quegli che v'erano dentro eccetto tre suoi figliuoli con alcuni altri che rifuggiti nella fortezza, come veddono dirizzarvisi l'artiglierie, s'arrenderono prigioni. Andò dipoi l'esercito al Monte di San Giovanni, terra del marchese di Pescara, posta in su i confini del regno nella medesima campagna, la quale forte di sito e di munizione non era meno munita di difensori, perché vi erano dentro trecento fanti forestieri e cinquecento degli abitatori dispostissimi a ogni pericolo, in modo si giudicava non si dovesse espugnare se non in ispazio di molti dí. Ma i franzesi avendolo battuto con l'artiglierie poche ore, gli dettono, presente il re che vi era venuto da Veroli, con tanta ferocia la battaglia che, superate tutte le difficoltà, l'espugnorono per forza il dí medesimo: dove, per il furore loro naturale e per indurre con questo esempio gli altri a non ardire di resistere, commessono grandissima uccisione; e dopo avervi esercitato ogn'altra specie di barbara ferità incrudelirono contro agli edifici col fuoco. Il quale modo di guerreggiare, non usato molti secoli in Italia, empié tutto il regno di grandissimo terrore, perché nelle vittorie, in qualunque modo acquistate, l'ultimo dove soleva procedere la crudeltà de' vincitori era spogliare e poi liberare i soldati vinti, saccheggiare le terre prese per forza e fare prigioni gli abitatori perché pagassino le taglie, perdonando sempre alla vita degli uomini i quali non fussino stati ammazzati nello ardore del combattere.

Lib.1, cap.19

Le truppe aragonesi si ritirano a Capua. Gianiacopo da Triulzio, durante l'assenza di Ferdinando, stringe accordi per la resa con Carlo VIII. Parole di Ferdinando ai napoletani. Partenza di Ferdinando da Napoli. Verginio Orsini e il conte di Pitigliano fatti prigioni dai francesi. Entrata di Carlo in Napoli.

Questa fu quanta resistenza e fatica avesse il re di Francia nel conquisto d'un regno sí nobile e sí magnifico, nella difesa del quale non si dimostrò né virtú né animo né consiglio, non cupidità d'onore non potenza non fede. Perché il duca di Calavria, il quale dopo la partita da Roma si era ritirato in su i confini del reame, poiché richiamato a Napoli per la fuga del padre ebbe assunto, con le solennità ma non già con la pompa né con la letizia consuete, l'autorità e il titolo reale, raccolto l'esercito, nel quale erano cinquanta squadre di cavalli e seimila fanti di gente eletta e sotto capitani de' piú stimati d'Italia, si fermò a San Germano per proibire che gli inimici non passassino piú innanzi, invitandolo l'opportunità del luogo, cinto da una parte di montagne alte e aspre, dall'altra di paese paludoso e pieno di acque, e a fronte il fiume del Garigliano (dicevanlo gli antichi Liri), benché in quel luogo non sí grosso che qualche volta non si guadi; donde per la strettezza del passo è detto meritamente San Germano essere una delle chiavi delle porte del regno di Napoli: e mandò similmente gente in sulla montagna vicina, alla guardia del passo di Cancelle. Ma già l'esercito suo, incominciato a impaurire del nome solo de' franzesi, non dimostrava piú vigore alcuno, e i capitani, parte pensando a salvare se medesimi e gli stati propri, come quegli i quali della difesa del regno si diffidavano, parte desiderosi di cose nuove, cominciavano a vacillare non meno di fede che di animo; né si stava senza timore, essendo il reame tutto in grandissima sollevazione, che alle spalle qualche pericoloso disordine non nascesse. Però soprafatto il consiglio dalla viltà, come espugnato il Monte di San Giovanni intesono avvicinarsi il marisciallo di Gies col quale erano trecento lancie e una parte de' fanti, si levorno vituperosamente da San Germano, e con tanto timore che lasciorno abbandonati per il cammino otto pezzi di grossa artiglieria, e si ridussono in Capua: la quale città il nuovo re, confidandosi nell'amore de' capuani verso la casa d'Aragona e nella fortezza del sito, per avere a fronte il fiume Volturno che è quivi molto profondo, sperava difendere; e nel tempo medesimo, non distraendo le sue forze in altri luoghi, tenere Napoli e Gaeta. Seguitavano dietro a lui di mano in mano i franzesi ma sparsi e disordinati, facendosi innanzi piú tosto a uso di cammino che di guerra, andando ciascuno dove gli paresse dietro all'occasione di predare, senza ordine senza bandiere senza comandamento de' capitani, e alloggiando il piú delle volte una parte di loro, alla notte, ne' luoghi donde la mattina erano diloggiati gli aragonesi.

Ma né a Capua si dimostrò maggiore virtú o fortuna. Perché, poi che Ferdinando v'ebbe alloggiato l'esercito, il quale dopo la ritirata da San Germano era molto diminuito di numero, inteso per lettere della reina essere in Napoli nata, per la perdita di San Germano, sollevazione tale che non vi andando lui si susciterebbe qualche tumulto, vi cavalcò con piccola compagnia, per rimediare con la presenza sua a questo pericolo; avendo promesso di ritornare a Capua il dí seguente. Ma Gianiacopo da Triulzi, al quale commesse la cura di quella città, aveva già occultamente chiesto al re di Francia uno araldo per avere facoltà di andare sicuro a lui; il quale come fu arrivato, il Triulzio con alcuni gentiluomini capuani andò a Calvi, dove il dí medesimo era entrato il re, non ostante che per molti altri della terra, disposti a osservare la fede a Ferdinando, con altiere parole contradetto gli fusse. A Calvi subito introdotto innanzi al re, cosí armato come era andato, parlò in nome de' capuani e de' soldati: che vedendo mancate le forze di difendersi a Ferdinando, al quale mentre vi era stata speranza alcuna avevano servito fedelmente, deliberavano di seguitare la fortuna sua quando fussino accettati con oneste condizioni; aggiugnendo che non si diffidava di condurre a lui la persona di Ferdinando, purché volesse riconoscerlo come sarebbe conveniente. Alle quali cose il re rispose con gratissime parole accettando l'offerte de' capuani e de' soldati, e la venuta eziandio di Ferdinando, pure che e' sapesse non avere a ritenere parte alcuna benché minima del reame di Napoli ma a ricevere stati e onori nel regno di Francia. È dubbio quel che inducesse a tanta trasgressione Gianiacopo da Triulzi, capitano valoroso e solito a fare professione d'onore. Affermava egli di essere andato con volontà di Ferdinando per tentare di comporre le cose sue col re di Francia, dalla quale speranza essendo del tutto escluso, e manifesto non si potere piú difendere con l'armi il regno di Napoli, gli era paruto non solo lecito ma laudabile provedere in uno tempo medesimo alla salute de' capuani e de' soldati. Ma altrimenti sentirono gli uomini comunemente, perché si credette averlo mosso il desiderare la vittoria del re di Francia, sperando che occupato il regno di Napoli avesse a volgere l'animo al ducato di Milano; nella quale città essendo egli nato di nobilissima famiglia, né gli parendo avere appresso a Lodovico Sforza, o per il favore immoderato de' Sanseverini o per altro rispetto, luogo pari alle virtú e meriti suoi, si era totalmente alienato da lui: per la quale cagione molti avevano sospettato che prima, in Romagna, avesse confortato Ferdinando a procedere piú cautamente che forse qualche volta non consigliavano l'occasioni.

Ma in Capua, già innanzi al ritorno del Triulzio, ogni cosa aveva fatto mutazione: andato a sacco l'alloggiamento e i cavalli di Ferdinando, le genti d'armi cominciate a disperdersi in vari luoghi, e Verginio e il conte di Pitigliano con le compagnie loro ritiratisi a Nola, città posseduta dal conte per donazione degli Aragonesi, avendo prima mandato a chiedere per sé e per le genti salvocondotto da Carlo. Ritornava al termine promesso Ferdinando, avendo, col dare speranza della difesa di Capua, quietati secondo il tempo gli animi de' napoletani, né sapendo quel che dopo la partita sua fusse accaduto. Era già vicino a due miglia quando, intendendosi il ritorno suo, tutto il popolo per non lo ricevere si levò in arme, mandatigli di consiglio comune incontro alcuni della nobiltà a significargli che non venisse piú innanzi, perché la città, vedendosi abbandonata da lui, andato il Triulzio governatore delle sue genti al re di Francia, saccheggiato da' soldati propri l'alloggiamento suo e i cavalli, partitisi Verginio e il conte di Pitigliano, dissoluto quasi tutto l'esercito, era stata necessitata per la salute propria di cedere al vincitore. Donde Ferdinando, poiché insino con le lacrime ebbe fatta invano instanza di essere ammesso, se ne ritornò a Napoli, certo che tutto 'l regno seguiterebbe l'esempio de' capuani: dal quale mossa la città d'Aversa, posta tra Capua e Napoli, mandò subito imbasciadori a darsi a Carlo. E trattando questo medesimo già manifestamente i napoletani, deliberato l'infelice re di non repugnare all'impeto tanto repentino della fortuna, convocati in sulla piazza del Castelnuovo, abitazione reale, molti gentiluomini e popolari, usò con loro queste parole: - Io posso chiamare in testimonio Dio e tutti quegli a' quali sono stati noti per il passato i concetti miei, che io mai per cagione alcuna tanto desiderai di pervenire alla corona quanto per dimostrare a tutto il mondo gli acerbi governi del padre e dell'avolo mio essermi sommamente dispiaciuti, e per riguadagnare con le buone opere quello amore del quale essi per le loro acerbità si erano privati. Non ha permesso l'infelicità della casa nostra che io possa ricôrre questo frutto molto piú onorato che l'essere re, perché il regnare depende spesso dalla fortuna ma l'essere re che si proponga per unico fine la salute e la felicità de' popoli suoi depende solamente da se medesimo e dalla propria virtú. Sono le cose nostre ridotte in angustissimo luogo, e potremo piú presto lamentarci noi d'avere perduto il reame per la infedeltà e poco valore de' capitani e eserciti nostri che non potranno gloriarsi gl'inimici d'averlo acquistato per propria virtú; e nondimeno non saremmo privi del tutto di speranza se ancora qualche poco di tempo ci sostenessimo, perché e da' re di Spagna e da tutti i príncipi d'Italia si prepara potente soccorso, essendosi aperti gli occhi di coloro i quali non avevano prima considerato lo incendio, il quale abbrucia il reame nostro, dovere, se non vi proveggono, aggiugnere similmente agli stati loro; e almeno a me non mancherebbe l'animo di terminare insieme il regno e la vita con quella gloria che si conviene a uno re giovane, disceso per sí lunga successione di tanti re, e all'espettazione che insino a ora avete tutti avuta di me. Ma perché queste cose non si possono tentare senza mettere la patria comune in gravissimi pericoli, sono piú tosto contento di cedere alla fortuna, di tenere occulta la mia virtú, che per sforzarmi di non perdere il mio regno essere cagione di effetti contrari a quel fine per il quale avevo desiderato di essere re. Consiglio e conforto voi che mandiate a prendere accordo col re di Francia, e perché possiate farlo senza macula dell'onore vostro, v'assolvo liberamente dall'omaggio e dal giuramento che pochi dí sono mi faceste; e vi ricordo che con l'ubbidienza e con la prontezza del riceverlo vi sforziate di mitigare la superbia naturale de' franzesi. Se i costumi barbari vi faranno venire in odio l'imperio loro e desiderare il ritorno mio io sarò in luogo da potere aiutare la vostra volontà, pronto a esporre sempre la propria vita per voi a ogni pericolo; ma se lo imperio loro vi riuscirà benigno, da me non riceverà giammai questa città né questo reame travaglio alcuno. Consolerannosi per il vostro bene le miserie mie, e molto piú mi consolerà se io saprò che in voi resti qualche memoria che io, né primogenito regio né re, non ingiuriai mai persona; che in me non si vidde mai segno alcuno di avarizia, segno alcuno di crudeltà; che a me non hanno nociuto i miei peccati ma quegli de' padri miei; che io sono deliberato di non essere mai cagione che, o per conservare il regno o per recuperarlo, abbia a patire alcuno di questo reame; che piú mi dispiace il perdere la facoltà di emendare i falli del padre e dello avolo che il perdere l'autorità e lo stato reale. Benché esule e spogliato della patria e del regno mio, mi riputerò non al tutto infelice se in voi resterà memoria di queste cose, e una ferma credenza che io sarei stato re piú presto simile ad Alfonso vecchio mio proavo che a Ferdinando e a questo ultimo Alfonso. -

Non potette essere che queste parole non fussino udite con molta compassione, anzi certo è che a molti commossono le lagrime; ma era tanto esoso in tutto il popolo e quasi in tutta la nobiltà il nome de' due ultimi re, tanto il desiderio de' franzesi, che per questo non si fermò in parte alcuna il tumulto, ma subito che esso fu ritirato nel castello, il popolo cominciò a saccheggiare le stalle sue, che erano in sulla piazza: la quale indegnità non potendo egli sopportare, accompagnato da pochi corse fuori con generosità grande a proibirlo; e potette tanto nella città già ribellata la maestà del nome reale che ciascuno, fermato l'impeto, si discostò dalle stalle. Ma ritornato nel castello, e facendo abbruciare e sommergere le navi le quali erano nel porto, poi che altrimenti non poteva privarne gl'inimici, incominciò per qualche segno a sospettare che i fanti tedeschi, che in numero cinquecento stavano alla guardia del castello, pensassino di farlo prigione: però con subito consiglio donò loro le robe che in quello si conservavano. Le quali mentre che attendono a dividere, egli, avendo prima liberati di carcere, eccetto il principe di Rossano e il conte di Popoli, tutti i baroni avanzati alla crudeltà del padre e dell'avolo, uscito del castello per la porta del soccorso, montò in sulle galee sottili che l'aspettavano nel porto, e con lui don Federigo e la reina vecchia, moglie già dell'avolo, con Giovanna sua figliuola; e seguitato da pochissimi de' suoi navigò all'isola d'Ischia, detta dagli antichi Enaria, vicina a Napoli a trenta miglia: replicando spesso con alta voce, mentre che aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il versetto del salmo del profeta che contiene essere vane le vigilie di coloro che custodiscono la città la quale da Dio non è custodita. Ma non se gli rappresentando oramai altro che difficoltà, ebbe a fare in Ischia esperienza della sua virtú, e della ingratitudine e infedeltà che si scuopre contro a coloro i quali sono percossi dalla fortuna; perché non volendo il castellano della rocca riceverlo se non con uno compagno solo, egli come fu dentro se gli gittò addosso con tanto impeto che con la ferocia e con la memoria dell'autorità regia, spaventò in modo gli altri che in potestà sua ridusse subito il castellano e la rocca.

Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto, come a uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de' vincitori, e con tanta viltà che dugento cavalli della compagnia di Ligní andati a Nola, dove con quattrocento uomini d'arme si erano ridotti Verginio e il conte di Pitigliano, gli feceno senza ostacolo alcuno prigioni; perché essi, parte confidandosi nel salvocondotto il quale avevano avviso da i suoi essere stato conceduto dal re, parte menati dal medesimo terrore dal quale erano menati tutti gli altri, senza contrasto s'arrenderono; donde furno condotti prigioni alla rocca di Mondracone, e messe in preda tutte le genti loro.

Avevano in questo mezzo trovato Carlo in Aversa gl'imbasciadori napoletani mandati a dargli quella città. A' quali avendo conceduto con somma liberalità molti privilegi e esenzioni, entrò il dí seguente, che fu il vigesimo primo di febbraio in Napoli, ricevuto con tanto plauso e allegrezza d'ognuno che vanamente si tenterebbe di esprimerlo, concorrendo con esultazione incredibile ogni sesso ogni età ogni condizione ogni qualità ogni fazione d'uomini, come se fusse stato padre e primo fondatore di quella città; né manco degli altri, quegli che, o essi o i maggiori loro, erano stati esaltati o beneficati dalla casa d'Aragona. Con la quale celebrità andato a visitare la chiesa maggiore, fu dipoi, perché Castelnuovo si teneva per gl'inimici, condotto a alloggiare in Castelcapuano, già abitazione antica de' re franzesi: avendo con maraviglioso corso di inaudita felicità, sopra l'esempio ancora di Giulio Cesare, prima vinto che veduto; e con tanta facilità che e' non fusse necessario in questa espedizione né spiegare mai uno padiglione né rompere mai pure una lancia, e fussino tanto superflue molte delle sue provisioni che l'armata marittima, preparata con gravissima spesa, conquassata dalla violenza del mare e traportata nell'isola di Corsica, tardò tanto ad accostarsi a' liti del reame che prima il re era già entrato in Napoli. Cosí per le discordie domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de' nostri príncipi, si alienò, con sommo vituperio e derisione della milizia italiana e con gravissimo pericolo e ignominia di tutti, una preclara e potente parte d'Italia dallo imperio degli italiani allo imperio di gente oltramontana. Perché Ferdinando vecchio, se bene nato in Ispagna, nondimeno, perché insino dalla prima gioventú era stato, o re o figliuolo di re, continuamente in Italia, e perché non aveva principato in altra provincia, e i figliuoli e i nipoti, tutti nati e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati italiani.

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento:18/07/05 01.26