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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Rappresentazione

Michelangelo Buonarroti il Giovane

NOTA AL TESTO

1. Il "Velo"

Lo spunto da cui Michelangelo trae l'argomento della sua Rappresentazione è la leggenda agiografica del primo miracolo compiuto dalla santa catanese che, durante la persecuzione di Decio (l'anno secondo la tradizione è il 251 d.C.), viene martirizzata per ordine del prefetto romano Quinziano. La ricca fanciulla catanese, o palermitana (su questo punto si hanno tradizioni discordanti in quanto entrambe le città ne rivendicano i natali), viene chiesta in moglie dal prefetto, invaghitosi della sua bellezza e attirato dai suoi beni; ma la fanciulla, votatasi a Cristo, gli oppone il suo rifiuto. L'uomo la manda per trenta giorni in casa di Afrodisia (l'amore profano e pagano) una donna di dubbia fama che vive con le sue nove figlie (simbolo delle arti pagane: sono infatti nove come le muse). Ma Afrodisia non riesce a corrompere la giovane, che viene quindi torturata - subisce il taglio delle mammelle - e chiusa in prigione. Durante la notte un vecchio, identificato dagli agiografi in san Pietro, le dà nuove mammelle e spalanca la prigione; ma Agata, con gran stupore dei carcerieri, non fugge. Ancora di più su di lei si accaniscono gli aguzzini, sospettandola di stregoneria; il suo destino è morire su cocci sotto i quali vengono posti carboni ardenti. Alla sua morte un terremoto sconvolge la città; la popolazione attribuisce il fenomeno all'ingiusta condanna emessa da Quinziano. La folla minacciosa si dirige verso il palazzo, provocando la fuga del prefetto. Questi, cavalcando verso le terre di Agata per prenderne possesso (ai cristiani potevano essere confiscati i beni), viene morso dai suoi cavalli (i giustizieri infernali) e, gettato in un fiume, annega senza che il suo cadavere venga più ritrovato. Intanto, sulla tomba nella quale il popolo ha adagiato la martire, compare un giovane bellissimo che vi pone una lapide, con l'iscrizione: Mentem Sanctam Spontaneum Honorem Deo et Patriae Liberationem. Un anno esatto dopo questi eventi una terribile eruzione dell'Etna minaccia la città. I pagani stessi, in processione, si recano alla tomba di Agata, ne prelevano il velo e si dirigono verso la lava che, improvvisamente, arresta il suo corso, mentre il drappo si muta da bianco in rosso.

Al di là di piccole discordanze sembra che la leggenda abbia mantenuto una tradizione piuttosto univoca. Le fonti più antiche sono tre versioni degli Acta martyrum, una in latino e due in greco. Una versione della storia del martirio fa parte di quelle presenti nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine. Ne esistono poi versioni toscane in leggendari del XIII secolo, ma anche versioni seicentesche, successive alla composizione del Velo, senza contare la versione poetica di Benedetto Dell'Uva (Le vergini prudenti, Firenze, Sermartelli, 1582) e la quattrocentesca rappresentazione fiorentina sul martirio della santa.

Non sappiamo a quale fonte si sia ispirato Michelangelo, gli elementi che utilizza sono comuni a tutta la tradizione. Egli sostiene l'origine palermitana di Agata, e dovremmo dedurne che tale opinione fosse condivisa dal convento di via San Gallo. Il Buonarroti, comunque, deve aver avuto sottomano una versione latina della leggenda (forse una traduzione dal greco), o un testo volgare che riportava però brani in latino. Tra gli appunti contenuti in AB 78 - un gruppo di carte sparse che seguono le quattro redazioni del Velo - troviamo, infatti, alla c. 274, una storia di sant'Agata, che potrebbe essere un riassunto, o una traduzione, con la trascrizione di alcuni passi in latino. La grafia, trattandosi di semplici appunti, è tutt'altro che chiara, e la carta è piuttosto annerita, ma da quello che è possibile decifrare si ricava che questa versione rispetta la tradizione maggiormente accreditata, pur con alcuni elementi eccentrici, o meno comuni: le figlie di Afrodisia sono solo cinque, e prima di esserle affidata Agata si reca a Palermo, sua città natale (e questo dato ci riporta alla redazione greca degli Atti). In una nota a c. 275 troviamo inoltre la notizia di un'altra fonte utilizzata dal Buonarroti. Egli intende fare dei due giovani protagonisti i discendenti di illustri stirpi catanesi storicamente attestate, quindi utilizza un testo di cui cita il titolo, ma del quale non conosciamo altro: Della monarchia e Tirrannide de Siciliani fino a che i Romani li dominano.

La leggenda sul martirio di sant'Agata, tuttavia, costituisce il solo antefatto nella vicenda messa in scena da Michelangelo, vicenda che costruisce un contesto intorno all'evento miracoloso avvenuto dopo la morte della santa. Corinta, una giovane segretamente cristiana, e promessa sposa del pagano Filandro, per sottrarsi alle nozze con un uomo che non condivide la sua fede, fugge con un'amica verso la casa di una zia, anch'essa cristiana. L'innamorato parte alla sua ricerca. L'eruzione dell'Etna distrugge le campagne catanesi e i due vengono creduti morti. Ma Agata appare ai giovani e li salva dalle fiamme. Insieme torneranno in città dove pie donne, portando in processione il velo di sant'Agata, hanno fermato la lava e provocato una conversione generale al cristianesimo. I due, lieti e devoti, possono finalmente unirsi in matrimonio.

Per quanto riguarda la destinazione dell'opera, dalla prima delle quattro redazioni, una bozza che chiameremo A, sappiamo che nel novembre 1614 una prima stesura dell'opera era già ultimata: sul verso dell'ultima carta leggiamo: "il fine laus deo 10 nouembre 1614". Due successive redazioni, C e D, presentano un prologo detto da "un Angiolo" che ai vv. 25-26 dichiara: "Per nuova libertà sovrano esempio / Vedrete voi d'Agata ancille [...]". Infine la redazione C riporta, in margine alla licenza, l'indicazione: "Donzella / col semicoro [...] / faccia la licenza / e sarà ben che / sia la / Cappona". Da questi tre elementi ricaviamo un terminus post quem per la datazione dell'opera: il 1614; quindi l'ipotesi di una destinazione conventuale dell'opera, giacché le ancille d'Agata si possono plausibilmente identificare con le suore del monastero fiorentino di Sant'Agata, allora situato in via San Gallo (nell'attuale ubicazione dell'ospedale militare); ed infine il dato di una fanciulla di casa Capponi, indicata per recitare la licenza. Dalle lettere dell'Archivio Buonarroti e dai libri di conti del Monastero è stato possibile trovare un legame tra il Buonarroti e il convento: all'interno di esso vivevano Suor Deodata, Suor Vittoria e Suor Caterin Angela Buonarroti, nipoti di Michelangelo; inoltre dal 1618 una Lucrezia Capponi paga al convento la retta per il vitto. Trovano così conferma le ipotesi di partenza: il Velo, composto tra il 1614 e il 1618 circa, era destinato ad una rappresentazione conventuale a gloria della santa catanese protettrice dagli incendi.

2. I Testimoni.

Il Velo è contenuto, in quattro redazioni manoscritte (di cui tre autografe), nel volume 78 dell'Archivio Buonarroti, conservato presso la Casa Buonarroti di Firenze.

Il volume ha una coperta in cartoncino e cuoio (che reca sul dorso in lettere d'oro il titolo) ed è costituito da 378 carte (la numerazione, come in tutti i materiali dell'Archivio riguardanti Michelangelo il Giovane, tiene conto anche delle "cartucce", come le definiva l'autore stesso, incollate su parti di testo destinate ad essere eliminate o sostituite). Dopo tre carte bianche di guardia una prima carta (non autografa) funge da indice; ne possiamo quindi ricavare un'idea di quanto contenuto nel tomo. Vi leggiamo infatti: 1° sbozzo e compilazione, 2a compilazione, Copia a buono della seconda compilazione (d'altra mano). In realtà gli "sbozzi" autografi sono due: segue quindi una copia a buono autografa del secondo sbozzo, infine una copia a buono d'altra mano. Abbiamo dunque quattro redazioni del Velo: una redazione A (primo sbozzo autografo), una redazione B (secondo sbozzo autografo), una copia a buono autografa C, una copia a buono d'altra (ignota) mano, che indicheremo con D.

La redazione A è costituita da 59 carte di cui la prima reca, sul recto, quel che sembra un grosso numero 80 (con l'otto scritto in orizzontale); la seconda è interamente bianca. La numerazione delle carte è tripla: una ad inchiostro (sporadica, numera infatti solo alcune carte), che conteggia le carte dalla seconda carta bianca, un'altra a lapis (che credo successiva perché maggiormente interessata alla conservazione fisica del testo), che parte dalla prima carta con testo autografo; infine la terza, che parte dall'inizio del primo atto. Sull'ultima carta di A (57/58) troviamo la nostra prima data di riferimento: Il fine laus Deo 10 novembre 1614. Il testo è disposto con interlinee ampie, è ricco di note e aggiunte a margine. L'opera presenta già una divisione in atti e scene. Mancano nella maggior parte dei casi i cori, ma spesso troviamo a margine annotazioni in proposito (argomenti che i cori affronteranno, punti in cui andranno inseriti gli interventi corali etc.). Vi sono scene chiaramente destinate ad essere eliminate: lo si ricava sia dagli appunti a margine, sia dai segni (linee verticali a margine, barre trasversali sul testo, contorni). Altre appaiono invece da sviluppare, e anche la direzione degli sviluppi è deducibile dagli appunti di redazione. La scrittura è chiaramente sbrigativa e in alcuni casi persino non decifrabile, soprattutto per quanto riguarda note e parti di testo da espungere, rese illeggibili da barre usate come cancellature. Le singole parole da correggere vengono barrate, o sottolineate, e riscritte a margine o nell'interlinea superiore (o inferiore) alla parola stessa. In alcuni casi il termine non viene cancellato, ma in interlinea ne troviamo comunque una variante. Non ci sono in questa prima redazione, trattandosi di una prima bozza di lavoro, "cartucce" che integrino il testo.

L'uso degli accenti e delle maiuscole è tutt'altro che regolare, così come non è costante la forma di alcune parole (verbo avere con o senza h, uso di j ). L'interpunzione non sembra soddisfacente, soprattutto per quanto riguarda i punti interrogativi che a volte, molto evidentemente, mancano. Sistematico appare l'uso della virgola che precede la congiunzione (soprattutto nel caso di due o più aggettivi che si susseguono) e le relative anche non incidentali.

Per quanto riguarda i contenuti delle note, l'elemento più importante che ne ricaviamo è la volontà di preservare il "buon costume" dell'opera: a questo scopo i personaggi dei due fidanzati dovranno essere modificati per divenire meno passionali (tagliata l'idea di Filandro di rapire Corinta, tagliata la confessione di Corinta a Argilla del suo appassionato amore per Filandro) e meno 'comici' (le modifiche smorzano nell'opera il tono da commedia presente in alcune scene che introducono situazioni che la commedia aveva definitivamente fatte proprie: la confessione dell'amore segreto, i piani per conquistare l'amore negato etc.).

La redazione B è più ampia di A e sicuramente successiva, in quanto ne accoglie sistematicamente le modifiche, integra il testo aggiunto a margine, ne rispetta le indicazioni circa gli interventi del coro. Le singole parole, o parti di verso, che in A erano sostituite a margine o in interlinea, vengono corrette; anche quando la lezione di A non era cancellata B tende ad accogliere l'ultima variante. Questa redazione è costituita dalle carte numerate 59/1 (c. 59 del manoscritto e prima della redazione B) - 133/132/75 (la numerazione è in questo caso doppia in quanto la prima non ha tenuto conto della "cartuccia" numerata 71/13 [che è sulla 70/12] e ha segnato come c. 71 la carta intera seguente). Dunque 72 carte a fronte delle 57 precedenti, ma non tutte intere ("cartucce" le 65, 66, 71, 75, 76, 77, 84, 103 bis). La grafia è chiaramente meno approssimativa; anche qui abbondano note, aggiunte, correzioni, persino in proporzione maggiore rispetto alla redazione precedente. L'interpunzione rimane incompleta, ma in molti casi la virgola che precedeva le relative viene eliminata. Questa volta Michelangelo inserisce l'elenco degli "interlocutori" (alcuni personaggi hanno un nome diverso rispetto ad A) e il prologo, che, seguendo un topos tragico, è recitato dall'ombra del Preside romano Quinziano, tormentato negli inferi dalla sua colpa. In esso, a differenza di quanto accadrà in C (v. 26) non troviamo alcun riferimento al pubblico della rappresentazione. Modificato appare l'ordine di successione delle scene, in parte secondo quanto annotato in A.

La redazione C è costituita dalle carte 134/134/1-210/213/80 (anche in questo caso le numerazioni discordano a causa delle "cartucce"). Essa accoglie nella maggior parte dei casi le modifiche, i tagli, le sostituzioni apportati a B (secondo il solito criterio), ma allo stesso tempo le ulteriori varianti rivelano l'instancabile lavoro di revisione, di pulitura, di ampliamento o riduzione compiuto dal Buonarroti. A volte dopo aver copiato un brano da B, Michelangelo apporta delle ulteriori correzioni, quindi ricopre i versi tormentati con una "cartuccia" su cui riporta la copia a buono o una differente versione. Il Buonarroti premette questa volta un argomento, seguito dall'elenco dei personaggi della rappresentazione; quindi un nuovo prologo recitato da un angelo. La grafia appare decisamente più curata; le didascalie che indicano le scene e gli interlocutori sono precise. Ogni atto è concluso da un coro; a margine, fatta eccezione per l'ultima carta, non troviamo più appunti di lavoro.

Dopo C nel volume 78 troviamo una carta ripiegata (un brano di una omelia latina strappata da un altro testo), una carta con su incollato un frammento con alcuni versi, quindi l'ultima copia a buono, D (cc. 211/216-272/59, un apografo di cui non si è identificata la mano), che tuttavia risulta non essere la redazione definitiva. Infatti, confrontando D con C, scopriamo che molte delle modifiche apportate al testo-base di C non compaiono in D (vedi ad esempio la scena in cui Flavio reca a Filandro la notizia dell'eruzione); l'apografo dunque dev'essere stato redatto prima che il Buonarroti riprendesse, ancora una volta, il lavoro su C per portare il testo a un'ulteriore fase redazionale che potremmo siglare C1. Notiamo infine, ma credo sia una differenza trascurabile, l'uso diverso delle maiuscole in D (maiuscole per i termini astratti, per i nomi comuni di persona, e in altri casi [Porta, Palazzo] in cui C usa le minuscole).

A D seguono ancora tre carte bianche, quindi le cc. 276/268/1-378/335/105 (in questo caso la discrepanza tra le due numerazioni è dovuta al fatto che la seconda non tiene conto delle carte bianche che separano le redazioni, oltre che di alcune "cartucce") contenenti abbozzi di scene, appunti vari, come quelli sulla storia della Sicilia o quelli sulla leggenda di sant'Agata. Troviamo infine un grande foglio ripiegato, sul quale c'è un disegno che sembra lo schema per la disposizione in scena di una serie di personaggi; ma non sono certo quelli del Velo, trattandosi di divinità pagane con corredo di nuvole: potrebbero forse appartenere agli intermedi (di cui non abbiamo tracce).

2. Criteri di trascrizione.

Il lavoro incontentabile del Buonarroti sulle quattro redazioni del Velo rende difficile la scelta del testo da editare. In questa sede ci limitiamo a trascrivere quello che appare il risultato ultimo del lavoro di Michelangelo, la redazione finale di C, quella che abbiamo chiamato C1.

L'uso grafico viene generalmente rispettato, con le seguenti eccezioni: la u con valore consonantico è stata sostituita con la v; la q di quore è stata mutata in c; la scrizione etimologica ti- seguita da vocale è stata resa con zi-; la j (sempre finale) è stata tradotta in i. Inoltre si sciolgono le più comuni abbreviazioni (per, quale, questo etc.); si regolarizzano maiuscole, accenti e punteggiatura secondo l'uso moderno; si utilizzano le parentesi aguzze per le integrazioni e le parentesi quadre per le espunzioni.

Per quel che riguarda la metrica si sono considerati versi rotti fra due battute tutti quelli che non rientrano nel canone della triade endecasillabo-settenario-quinario, nonché tutti i versi tronchi, mai attestati incontrovertibilmente come versi autonomi nel contesto, a eccezione del coro finale (l'unico effettivamente cantato e perciò reso in corsivo), costruito in forma di ode/canzonetta, che l'uso di versi tronchi ammette senza dubbio.

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.34.44