Capitolo 7 |
|
Tra i molti scrittori contemporanei all'avvenimento,
scegliamo il solo che non sia oscuro, e che non n'abbia parlato a seconda affatto della
credenza comune, Giuseppe Ripamonti, già tante volte citato. E ci par che possa essere un
esempio curioso della tirannia che un'opinion dominante esercita spesso sulla parola di
quelli di cui non ha potuto assoggettar la mente. Non solo non nega espressamente la
reità di quegl'infelici (né, fino al Verri, ci fu chi lo facesse in uno scritto
destinato al pubblico); ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare;
giacché, parlando del primo interrogatorio del Piazza, chiama "malizia" la sua,
e "avvedutezza" quella de' giudici; dice che, "con le molte contradizioni,
palesava il delitto nell'atto che voleva negarlo"; del Mora dice parimenti, che,
"fin che poté reggere alla tortura, negava, al solito di tutti i rei, e che
finalmente raccontò la cosa com'era: exposuit omnia cum fide". E nello stesso
tempo, cerca di fare intendere il contrario, accennando, timidamente e di fuga, qualche
dubbio sulle circostanze più importanti; dirigendo, con una parola, la riflession del
lettore al punto giusto; mettendo in bocca a qualche imputato parole più atte a dimostrar
la sua innocenza, di quelle che aveva sapute trovar lui medesimo; mostrando finalmente
quella compassione che non si prova se non per gl'innocenti. Parlando della caldaia
trovata in casa del Mora, dice: "fece principalmente grand'impressione una cosa forse
innocente e accidentale, del resto schifosa, e che poteva parer qualcosa di quello che si
cercava". Parlando del primo confronto, dice che il Mora "invocava la giustizia
di Dio contro una frode, contro una maligna invenzione, contro un'insidia nella quale si
poteva far cadere qualunque innocente". Lo chiama "sventurato padre di famiglia,
che, senza saperlo, portava su quell'infausto capo l'infamia e la rovina sua e de'
suoi". Tutte le riflessioni che abbiamo esposte poco fa, e quelle di più che si
posson fare, sulla contradizion manifesta tra l'assoluzion del Padilla, e la condanna
degli altri, il Ripamonti le accenna con un vocabolo: "gli untori furon puniti ciò
non ostante: unctores puniti tamen". Quanto non dice quell'avverbio, o
congiunzione che sia! E aggiunge: "la città sarebbe rimasta inorridita di quella
mostruosità di supplizi, se tutto non fosse parso meno del delitto". |
Ma il luogo dove fa intender più chiaramente il suo
sentimento, è dove protesta di non volerlo dire. Dopo aver raccontato vari casi di
persone cadute in sospetto d'untori, senza che ne seguissero processi, "mi
trovo", dice, "a un passo difficile e pericoloso, a dover dichiarare se, oltre
quelli così a torto presi per untori, io creda che ci siano stati untori davvero... Né
la difficoltà nasce dall'incertezza della cosa, ma dal non essermi lasciata la libertà
di far quello che pur si pretende da ogni scrittore, cioè ch'esprima i suoi veri
sentimenti. Ché se io dicessi che non ci furono untori, che senza ragione si va a
immaginar malizia degli uomini in ciò che fu punizion di Dio, si griderebbe subito che la
storia è empia, che l'autore non rispetta un giudizio solenne. Tanto l'opinion contraria
è radicata nelle menti, e la plebe credula al solito, e la nobiltà superba son pronti a
difenderla, come quello che possano aver di più caro e di più sacro. Mettersi in guerra
con tanti, sarebbe un'impresa dura e inutile; e per ciò, senza negare, né affermare, né
pender più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni
altrui(76)." Chi domandasse se non sarebbe stata cosa più ragionevole, come più
facile, il non parlarne affatto, sappia che il Ripamonti era istoriografo della città;
cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può essere comandato e proibito di
scriver la storia. |
Un altro istoriografo, ma in un campo più vasto,
Batista Nani, veneziano, che in questo caso non poteva esser condotto da nessun riguardo a
dire il falso, fu condotto a crederlo dall'autorità d'un'iscrizione e d'un monumento.
"Se ben veramente", dice, "l'immaginazione de' popoli, alterata dallo
spavento, molte cose si figurava, ad ogni modo il delitto fu scoperto e punito, stando
ancora in Milano l'iscrizioni e le memorie degli edifici abbattuti, dove que' mostri si
congregavano.(77)" Chi, non conoscendo altro di quello scrittore, prendesse questo
ragionamento per misura del suo giudizio, s'ingannerebbe di molto. In varie ambascerie
importanti, e in varie cariche domestiche, aveva avuto campo di conoscer gli uomini e le
cose; e dà prova nella sua storia d'esserci non volgarmente riuscito. Ma i giudizi
criminali, e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia propriamente
della storia; sicché, non c'è da maravigliarsi che, occorrendo al Nani di parlare
incidentemente di quel fatto, non ci guardasse tanto per la minuta. Se alcuno gli avesse
citata un'altra colonna, e un'altra iscrizione di Milano, come prova d'una sconfitta
ricevuta da' veneziani (sconfitta tanto vera, quanto il delitto di que' mostri), certo il
Nani si sarebbe messo a ridere. |
Fa più maraviglia e più dispiacere il trovar lo
stesso argomento e gli stessi improperi, in uno scritto d'un uomo molto più celebre, e
con gran ragione. Il Muratori, nel "Trattato del governo della peste", dopo
avere accennato diverse storie di quel genere, "ma nessun caso", dice, "è
più rinomato di quel di Milano, ove nel contagio del 1630, furono prese parecchie
persone, che confessarono un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne
esiste tuttavia (e l'ho veduta anch'io) la funesta memoria nella Colonna infame posta
ov'era la casa di quegli inumani carnefici. Il perché grande attenzion ci vuole affinché
non si rinnovassero più simili esecrande scene." E quello che, non toglie il
dispiacere, ma lo muta, è il veder che la persuasione del Muratori non era così risoluta
come queste sue parole. Ché, venendo poi a discorrere (e si vede che è ciò che gli
preme davvero) de' mali orribili che posson nascere dal figurarsi e dal credere tali cose
senza fondamento, dice: "si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di
tormenti a cavar loro di bocca la confession di delitti ch'eglino forse non avranno mai
commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra i pubblici patiboli". Non
par egli che voglia alludere ai nostri disgraziati? E quello che lo fa creder di più, è
che attacca subito con quelle parole che abbiam già citate nello scritto antecedente, e
che, per esser poche, trascriviam qui di nuovo: "Ho trovato gente savia in Milano,
che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il
fatto di quegli unti velenosi, i quali si dissero sparsi per quella città, e fecero tanto
strepito nella peste del 1630(78) ." Non si può, dico, fare a meno di non sospettare
che il Muratori credesse piuttosto sciocche favole quelle che chiama "esecrande
scene", e (ciò che è più grave) innocenti assassinati quelli che chiama
"inumani carnefici". Sarebbe uno di que' casi tristi e non rari, in cui uomini
tutt'altro che inclinati a mentire, volendo levar la forza a qualche errore pernicioso, e
temendo di far peggio col combatterlo di fronte, hanno creduto bene di dir prima la bugia,
per poter poi insinuare la verità. |
Dopo il Muratori, troviamo uno scrittore più rinomato
di lui come storico, e (ciò che in un fatto di questa sorte parrebbe dover rendere il suo
giudizio più degno d'osservazione di qualunque altro) storico giureconsulto, e, come dice
di sé medesimo, "più giureconsulto che politico(79) ", Pietro Giannone. Noi
però non riferiremo questo giudizio, perché è troppo poco che l'abbiam riferito: è
quello del Nani che il lettore ha veduto poco fa, e che il Giannone ha copiato, parola per
parola, citando questa volta il suo autore appiè di pagina(80). |
Dico: questa volta; perché il copiarlo che ha fatto
senza citarlo, è cosa degna d'esser notata, se, come credo, non lo fu ancoral(81)i . Il
racconto, per esempio, della sollevazione della Catalogna, e della rivoluzione del
Portogallo, nel 1640 è, nella storia del Giannone, trascritto da quella del Nani, per
più di sette pagine in 4°, con pochissime omissioni, o aggiunte, o variazioni, la più
considerabile delle quali è d'aver diviso in capitoli e in capoversi un testo che nello
scritto originale andava tutto di seguito(82). Ma chi mai s'immaginerebbe che l'avvocato
napoletano, dovendo raccontare altre sollevazioni, non di Barcellona, né di Lisbona, ma
quella di Palermo, del 1647, e quella di Napoli, contemporanea e più celebre, per la
singolarità e per l'importanza degli avvenimenti, e per Masaniello, non trovasse da far
meglio, né da far più che di prendere, non i materiali, ma la cosa bell'e fatta,
dall'opera del cavaliere e procurator di san Marco? Chi l'anderebbe a pensare soprattutto
dopo aver lette le parole con le quali il Giannone entra in quel racconto? e son queste:
"Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più autori:
alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura: altri con troppo
sottili minuzie distraendo i leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere
cagioni, i disegni, il proseguimento, ed il fine: noi per ciò, seguendo gli scrittori
più serj e prudenti, gli ridurremo alla lor giusta e natural positura." Eppure
ognuno può vedere, facendo il confronto, come, subito dopo queste sue parole, il Giannone
metta mano a quelle del Nani(83) , frammischiandoci ogni tanto, e specialmente sul
principio, qualcheduna delle sue, facendo qua e là qualche cambiamento, alle volte per
necessità, e nella stessa maniera che uno, il qual compri biancheria usata, leva il segno
dell'antico padrone, e ci mette il suo. Così, dove il veneziano dice: "in quel
regno", il napoletano sostituisce: "in questo regno"; dove il contemporaneo
dice che vi "restano le fazioni quasi che intiere", il postero, che vi
"restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni". È vero che, oltre queste
piccole aggiunte o variazioni, si trovano anche in quel lunghissimo squarcio, come pezzi
messi a rimendo, alcuni brani più estesi, che non son del Nani. Ma, cosa veramente da non
credersi, son presi da un altro quasi tutti, e quasi parola per parola: è roba di
Domenico Parrino(84) , scrittore (alla rovescia di molt'altri) oscuro, ma letto molto, e
fors'anche più di quello che sperava lui medesimo, se, in Italia e fuori, è letta quanto
lodata la "Storia civile del regno di Napoli", che porta il nome di Pietro
Giannone. Ché, senza allontanarci da que' due periodi di storia de' quali s'è fatto qui
menzione, se, dopo le sollevazioni catalana e portoghese, il Giannone, trascrive dal Nani
la caduta del favorito Olivares, trascrive poi dal Parrino il richiamo del duca di Medina
vicerè di Napoli, che ne fu la conseguenza, e i ritrovati di questo per cedere il più
tardi che fosse possibile il posto al successore Enriquez de Cabrera. Dal Parrino
ugualmente, in gran parte, il governo di questo; e poi dall'uno e dall'altro, a
intarsiatura, il governo del duca d'Arcos, per tutto quel tempo che precedette le
sollevazioni di Palermo e di Napoli, e come abbiam detto, il progresso e la fine di
queste, sotto il governo di D. Giovanni d'Austria, e del conte d'Oñatte. Poi dal Parrino
solo, sempre a lunghi pezzi, o a pezzettini frequenti, la spedizione di quel vicerè
contro Piombino e Portolongone; poi il tentativo del duca di Guisa contro Napoli; poi la
peste del 1656. Poi dal Nani la pace de' Pirenei, e dal Parrino una piccola appendice dove
sono accennati gli effetti di essa nel regno di Napoli(85). |
Voltaire, parlando, nel "Secolo di Luigi
XIV", de' tribunali istituiti da quel re, in Metz e in Brisac, dopo la pace di
Nimega, per decidere delle sue proprie pretensioni sopra territori di stati vicini,
nomina, in una nota, il Giannone con gran lode, com'era da aspettarsi, ma per fargli una
critica. Ecco la traduzione di quella nota: "Giannone, così celebre per la sua utile
storia di Napoli, dice che questi tribunali erano stabiliti a Tournay. Sbaglia
frequentemente negli affari che non son del suo paese. Dice, per esempio, che, a Nimega,
Luigi XIV fece la pace con la Svezia; e in vece questa era sua alleata(86) ." Ma,
lasciando da parte la lode, la critica, in questo caso, non è dovuta al Giannone, il
quale, come in tant'altri casi, non fece nemmen la fatica di sbagliare. È vero che nel
libro dell'uomo "così celebre", si leggono queste parole: "Seguì poscia
la pace fra la Francia, la Svezia, l'Imperio e l'Imperadore" (nelle quali, del
rimanente, non saprei se non ci sia ambiguità piuttosto che errore); e quest'altre:
"Aprirono poscia", i francesi, "due tribunali, l'uno in Tournay, e l'altro
in Metz; ed arrogandosi una giurisdizione non mai udita nel mondo sopra i principi lor
vicini, fecero non solamente aggiudicare alla Francia, con titolo di dipendenze, tutto il
paese che saltò loro in capriccio ne' confini della Fiandra e dell'Imperio, ma se ne
posero per via di fatto in possessione, costringendo gli abitanti a riconoscere il re
Cristianissimo per sovrano, prescrivendo termini, ed esercitando tutti quegli atti di
signoria che sono soliti i principi di praticare co' sudditi." Ma son parole di quel
povero ignorato Parrino(87) , e non già stralciate da quel suo pezzo di storia, ma
portate via insieme con esso: ché spesso il Giannone, in vece di star lì a cogliere un
frutto qua e uno là, leva l'albero addirittura, e lo trapianta nel suo giardino. Tutta,
si può dire, la relazion della pace di Nimega è presa dal Parrino; come in gran parte, e
con molte omissioni, ma con poche aggiunte, il viceregno in Napoli del marchese de los
Veles, nel tempo del quale quella pace fu conclusa, e col quale il Parrino chiude la sua
opera, e il Giannone il penultimo libro della sua. E probabilmente (stavo per dir di
certo), chi si divertisse a farne il confronto intero, per tutto il periodo antecedente
della dominazione spagnola in Napoli, con la quale comincia il lavoro del Parrino,
troverebbe per tutto, quello che noi abbiam trovato in varie parti, e, se non m'inganno,
senza veder mai citato il nome di quel tanto saccheggiato scrittore(88) . Così dal Sarpi,
senza citarlo punto, prende il Giannone molti brani, e tutta l'orditura d'una sua
digressione; come mi fu fatto osservare da una dotta e gentile persona. E chi sa quali
altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca; ma quel
tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e
l'ordine de' fatti, non dico i giudizi, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i
capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un
fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro
il coraggio; ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un
grand'uomo. E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci
faccia perdonare dal benigno lettore una digressione(89) , lunga, per dir la verità, in
una parte accessoria d'un piccolo scritto. |
Chi non conosce il frammento del Parini sulla colonna
infame? Ma chi non si maraviglierebbe di non vederne fatta menzione in questo luogo? |
Ecco dunque i pochi versi di quel frammento ne' quali
il celebre poeta fa pur troppo eco alla moltitudine e all'iscrizione: |
|
Quando, tra vili case e in mezzo a poche |
Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi. |
Quivi romita una colonna sorge |
In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo, |
Ov'uom mai non penetra, però ch'indi |
Genio propizio all'insubre cittade |
Ognun rimove, alto gridando: lungi, |
O buoni cittadin, lungi, che il suolo |
Miserabile infame non v'infetti. |
|
Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e
l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un
argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di
profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre
un'impressione, o forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini
nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva
nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare:
solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo. |
Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento
quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che
richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti,
una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue
"Osservazioni", scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre
sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli "Scrittori classici italiani
d'economia politica". E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle
"Notizie" premesse all'opere suddette. "Si credette", dice, "che
l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia." Effetto
comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che
concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che
non aveva fatti. Ora un tale spirito non troverebbe l'occasione d'estendersi tanto nel
passato, giacché, in quasi tutto il continente d'Europa, i corpi son di data recente,
meno pochi, meno uno soprattutto, il quale, non essendo stato istituito dagli uomini, non
può essere né abolito, né surrogato. Oltre di ciò, questo spirito è combattuto e
indebolito più che mai dallo spirito d'individualità: l'io si crede troppo ricco per
accattar dal noi. E in questa parte, è un rimedio; Dio ci liberi di dire: in tutto. |
A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a
un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in
cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una
circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore era
presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian
dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver
tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta. |
|
|
|
(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere, Tacit.
Ann. I, 39. |
(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI. |
(3) Staututa criminalia; Rubrica generalis de forma
citiationis in criminalibus; De tormentis, seu quaestionibus. |
(4) Cod. Lib. IX; Tit. XLI, De quaestionibus, 1. 8. |
(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII. |
(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando
la prova del delitto o dell'innocenza nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente,
ma necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua confessione. Francesco
Casoni (De tormentis, cap, I, 3) e Antonio Gomez (Variarum resolutionum etc., tom. 3, cap.
13, de tortura reorum cap. 4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non era in
uso nel regno d'Aragona. Giovanni Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da
Ottone Taber (Tractat. de tortura, et indiicis delictorum, cap. 2, 18) attesta il medesimo
della Svezia; né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel vergognoso
flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso. |
(7) Verri, Oss. § VIII. - Farin. Praxis et Theor.
criminalis, Quaest. XXXVIII, 56. |
(8) Fran. a Bruno, De indiciis et tortura, part. II,
quaest. II, 7. |
(9) Guid. de Suza, De Tormentis, 1. - Cod. IX, tit. 4,
De custodia reorum; 1. |
(10) Baldi, ad lib. IX Cod. tit XIV, De emendatione
servorum, 3. |
(11) Par. de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas
officialis, 5. |
(12) J. Clari, Sementiarum receptarum, Lib V, § fin.
Quaest. LXIV, 36. |
(13) Gomez, Variar. resol. t. 3, c. 13, De tortura
reorum, 5. |
(14) Oss. § XIII. |
(15) Hipp. de Marsiliis, ad Tit. Dig. de quaestionibus;
leg. In criminibus, 29. |
(16) Praxis, etc. Quaest. XXXVIII, 54. |
(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita;
86. |
(18) Quaest. XXXVIII, 38. |
(19) Oss. § VIII. |
(20) Sent. rec. lib. V, quaest, LXIV, 12. Venet. 1640;
ex typ. Barietana, p. 537. |
(21) Ven. apud Hier. Polum, 1580, f. 172 - Ibid. apud
P. Ugolinum, 1595. f. 180. |
(22) Verri, loc. cit. - Clar, loc. cit. 13. |
(23) Ibid., Quaest. XXXI, 9. |
(24) Bartol. ad Dig. lib. XLVIII, tit. XVIII, I. 22. |
(25) Et generaliter omne quod non determinatur a iure,
relinquitur arbitrio iudicantis. De tormentis, 30. |
(26) Et deo lex super indiciis gravat coscientias
iudicum. De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18. |
(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit. de indiciis
ante torturam, 32. |
(28) Ibid. Quaest. XXXVII, 193 ad 200. |
(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap. I,
10. |
(30) Oss. § VIII. |
(31) Ibid. |
(32) Paradis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et
advertendum est; Judex debet esse subtilis in investiganda maleficii veritate. |
(33) Ad Clart. Sentent. recept. Quaest. LXIV, 24, add.
80, 81. |
(34) Istoria civile, etc., lib. 28, cap. ult. |
(35) Praxis et Theoricae criminalis, Quaest. LII, 11,
13, 14. |
(36) Ibid. Quaest. XXXVII, 2, 3, 4. |
(37) P. Follerii, Pract. Crim., Cap. Quod suffocavit,
52. |
(38) Quando crimen est gravius, tanto praesumptiones
debent esse vehementiores; quia ubi majus periculum, ibi cautius est agendum. - Abbatis
Panormitani, Commentarium in libros decretalium, De praesumptionibus, Cap. XIV, 3. |
(39) Clar. Sent. Rec. lib. V § 1, 9. |
(40) Hipp. Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53. - Farin.
Quaest. XXXVII, 79. |
(41) Clar. Ib. Lib. V, § fin. Quaest. LXIV, 9. |
(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus, repeti
in quaestionem potest. Dig. lib. XLVIII, tit. 18, 1, 18. |
(43) Numquid potest repeti quaestio? Videtur quod sic;
ut Dig. eo. 1. Repeti. Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis.
Odofredi, ad Cod. lib. IX, tit. 41, 1. 18. |
(44) Cyni Pistoriensis, super Cod. lib. IX, tit. 41, l.
de tormetis, 8. |
(45) Bart. ad Dig. loc. cit. |
(46) V. Farinac. Quest. XXXVIII, 72, et seq. |
(47) Oss. § III. |
(48) Tractat. var.; tit. De tortura, 44. |
(49) V. Farinac. Quest. LXXXI, 277. |
(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De
Senatoribus. |
(51) Op. cit. tit. De confessis per torturam, II. |
(52) De peste, etc. pag. 84. |
(53) Oss. § IV. |
(54) Quaest. XLIII, 192. V. Summarium. |
(55) Tractat. var., tit. De oppositionibus contra
testes; 21. |
(56) Et si consanguinei erant, pag. 87. |
(57) Oss. § IV |
(58) Dig. Lib. XXII, tit. V, De testibus; I, 21, 2. |
(59) V. Farinacci, Quaest. XLIII, 134, 135. |
(60) Op. cit. Quaest. XXI, 13. |
(61) Op. cit. De indiciis et considerationibus ante
torturam; 152. |
(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato.
L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse
ancora la principale. |
(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al
toscano madiè, "particella usata dagli antichi, alla provenzale", dice la
Crusca. Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento,
entrate per abuso nel discorso ordinario. Ma in questo caso il Nome non sarebbe stato
nominati in vano. |
(64) Quaest. XLIII, 172-174. |
(65) Farinacci, Quaest. XLIII; 185, 186. |
(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del
Pompei. |
(67) Q. Curtii, VI, II. |
(68) Farinacci, Quaest. L. 31; LXXXI; 40; LII, 150,
152. |
(69) Res est (quaestio) fragilis et periculosa, et quae
veritatem fallat. Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormentua
contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut
quovis mentiri quam pati tormenta velint. Dig. , Lib. XLVIII, tit. XVIII, 1, I, 23. |
(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766. |
(71) Farinacci, Quaest. XXXVII, 110. |
(72) Oss. § IV. |
(73) quorum capita... fingenti inter dolores gemitusque
occurrere. Liv. XXIV, 5. |
(74) Oss. § V, in fine. |
(75) Caro, trad. dell'Eneide, lib. VII. |
(76) pag. 107, 108. |
(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib. VIII,
Venezia, Lovisa, 1720, pag. 473. |
(78) Lib. I, cap X. |
(79) Istoria civile, etc. Introduzione. |
(80) Istoria civile, lib. XXXVI, cap 2. |
(81) Il Fabroni (Vitae Itoalorum, etc., Petrus
Jannonius), cita come scrittori dai quali il Giannone "ha preso i passi interi,
invece di ricorrere ai documenti originali, e senza confessarlo schiettamente, il
Costanzo, il Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio". Ma par difficile
che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo,
del quale, se "al principio risponde il fine e il mezzo", deve aver intarsiata
mezza, a dir poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir
qualcosa or ora. |
(82) Giannone. Ist. Civ. lib. XXXVI, cap V, e il primo
capoverso del VI - Nani, Hist. Ven. parte I, lib. XI, pag 651-661 dell'edizione citata. |
(83) Giannone, lib. XXXVII, cap. II, III e IV. - Nani,
parte II, lib IV, pag. 146-157. |
(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré
del regno di Napoli, etc. Napoli, 1692, tom. 2°; Duca d'Arcos. Il testo del Nani corre,
con pochissimi e minuti cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone,
l'ultimo de' quali termina con le parole: "si richiedevano, e per supplire altrove, e
per difendere il regno, grandissime provvisioni". E lì entra il Parrino con le
parole: "Il viceré duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del
denaro", e via via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa
il seguente. Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un bel pezzo, poi
alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino. E c'è fino de' periodi, messi
insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro. Eccone un esempio: "Così in
un momento s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò che apporto
maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e
dagli odj passarono immantinente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza
distinzione d'amici, o d'inimici (Parrino, tom. II, pag. 425): fuorché alcuni pochi, i
quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri restituiti
a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete
presente (Nani, parte II, lib. IV, pag 157 dell'ediz. cit.)". Giannone, lib. XXXVII,
cap IV, secondo capoverso. |
(85) V. Giannone, lib. XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto
il lib. XXXVII, che ha sette capitoli; e il preambolo del lib. seg. - Nani, parte I, lib
XII, pag. 738; parte II, lib. III; IV; VIII - Parrino, t. II, pag. 296 e seg., t. III, pag
I e seg. |
(86) Siecle de Louis XIV; chap. XVII, Paix de Wyswick,
not. c. |
(87) Giannone, lib. XXXIX, cap. ultimo, pag. 461 e 463
del t. IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723. - Parrino, t. III, pag. 553 e 567. |
(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in qualche
edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma il lettore che non sa altro, deve
immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo. |
(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc. dell'Uffizio
dell'inquisizione; Opere varie, Helmstat (Venezia) t. I, pag 340. - Giannone, Ist. Civ.
lib. XV, cap. ultimo. |
|