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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Rime

MICHELANGELO BUONARROTI IL VECCHIO

235-302

 

235

Un uomo in una donna, anzi uno dio

per la sua bocca parla,

ond'io per ascoltarla

son fatto tal, che ma' più sarò mio.

I' credo ben, po' ch'io

a me da lei fu' tolto,

fuor di me stesso aver di me pietate;

sì sopra 'l van desio

mi sprona il suo bel volto,

ch'i' veggio morte in ogni altra beltate.

O donna che passate

per acqua e foco l'alme a' lieti giorni,

deh, fate c'a me stesso più non torni.

236

Se ben concetto ha la divina parte

il volto e gli atti d'alcun, po' di quello

doppio valor con breve e vil modello

dà vita a' sassi, e non è forza d'arte.

Né altrimenti in più rustiche carte,

anz'una pronta man prenda 'l pennello,

fra ' dotti ingegni il più accorto e bello

pruova e rivede, e suo storie comparte.

Simil di me model di poca istima

mie parto fu, per cosa alta e prefetta

da voi rinascer po', donna alta e degna.

Se 'l poco accresce, e 'l mie superchio lima

vostra mercé, qual penitenzia aspetta

mie fiero ardor, se mi gastiga e 'nsegna?

237

Molto diletta al gusto intero e sano

l'opra della prim'arte, che n'assembra

i volti e gli atti, e con più vive membra,

di cera o terra o pietra un corp' umano.

Se po' 'l tempo ingiurioso, aspro e villano

la rompe o storce o del tutto dismembra,

la beltà che prim'era si rimembra,

e serba a miglior loco il piacer vano.

238

Non è non degna l'alma che n'attende

etterna vita, in cui si posa e quieta,

per arricchir dell'unica moneta

che 'l ciel ne stampa, e qui natura spende.

239

Com'esser, donna, può quel c'alcun vede

per lunga sperienza, che più dura

l'immagin viva in pietra alpestra e dura

che 'l suo fattor, che gli anni in cener riede?

La causa a l'effetto inclina e cede,

onde dall'arte è vinta la natura.

I' 'l so, che 'l pruovo in la bella scultura,

c'all'opra il tempo e morte non tien fede.

Dunche, posso ambo noi dar lunga vita

in qual sie modo, o di colore o sasso,

di noi sembrando l'uno e l'altro volto;

sì che mill'anni dopo la partita,

quante voi bella fusti e quant'io lasso

si veggia, e com'amarvi i' non fu' stolto.

240

Sol d'una pietra viva

l'arte vuol che qui viva

al par degli anni il volto di costei.

Che dovria il ciel di lei,

sendo mie questa, e quella suo fattura,

non già mortal, ma diva,

non solo agli occhi mei?

E pur si parte e picciol tempo dura.

Dal lato destro è zoppa suo ventura,

s'un sasso resta e pur lei morte affretta.

Chi ne farà vendetta?

241

Negli anni molti e nelle molte pruove,

cercando, il saggio al buon concetto arriva

d'un'immagine viva,

vicino a morte, in pietra alpestra e dura;

c'all'alte cose nuove

tardi si viene, e poco poi si dura.

Similmente natura,

di tempo in tempo, d'uno in altro volto,

s'al sommo, errando, di bellezza è giunta

nel tuo divino, è vecchia, e de' perire:

onde la tema, molto

con la beltà congiunta,

di stranio cibo pasce il gran desire;

né so pensar né dire

qual nuoca o giovi più, visto 'l tuo 'spetto,

o 'l fin dell'universo o 'l gran diletto.

242

S'egli è che 'n dura pietra alcun somigli

talor l'immagin d'ogni altri a se stesso

squalido e smorto spesso

il fo, com'i' son fatto da costei.

E par ch'esempro pigli

ognor da me, ch'i' penso di far lei.

Ben la pietra potrei,

per l'aspra suo durezza,

in ch'io l'esempro, dir c'a lei s'assembra;

del resto non saprei,

mentre mi strugge e sprezza,

altro sculpir che le mie afflitte membra.

Ma se l'arte rimembra

agli anni la beltà per durare ella,

farà me lieto, ond'io le' farò bella.

243

Ognor che l'idol mio si rappresenta

agli occhi del mie cor debile e forte,

fra l'uno e l'altro obbietto entra la morte,

e più 'l discaccia, se più mi spaventa.

L'alma di tale oltraggio esser contenta

più spera che gioir d'ogni altra sorte;

l'invitto Amor, con suo più chiare scorte,

a suo difesa s'arma e s'argomenta:

Morir, dice, si può sol una volta,

né più si nasce; e chi col mie 'mor muore,

che fie po', s'anzi morte in quel soggiorna?

L'acceso amor, donde vien l'alma sciolta,

s'è calamita al suo simile ardore,

com'or purgata in foco, a Dio si torna.

244

Se 'l duol fa pur, com'alcun dice, bello,

privo piangendo d'un bel volto umano,

l'essere infermo è sano,

fa vita e grazia la disgrazia mia:

ché 'l dolce amaro è quello

che, contr'a l'alma, il van pensier desia.

Né può fortuna ria

contr'a chi basso vola,

girando, trionfar d'alta ruina;

ché mie benigna e pia

povertà nuda e sola,

m'è nuova ferza e dolce disciplina:

c'a l'alma pellegrina

è più salute, o per guerra o per gioco,

saper perdere assai che vincer poco.

245

- Se 'l volto di ch'i' parlo, di costei,

no' m'avessi negati gli occhi suoi,

Amor, di me qual poi

pruova faresti di più ardente foco,

s'a non veder me' lei

co' suo begli occhi tu m'ardi e non poco?

- La men parte del gioco

ha chi nulla ne perde,

se nel gioir vaneggia ogni desire:

nel sazio non ha loco

la speme e non rinverde

nel dolce che preschive ogni martire -.

Anzi di lei vo' dire:

s'a quel c'aspiro suo gran copia cede,

l'alto desir non quieta tuo mercede.

246

Te sola del mie mal contenta veggio,

né d'altro ti richieggio amarti tanto;

non è la pace tua senza il mio pianto,

e la mia morte a te non è 'l mie peggio.

Che s'io colmo e pareggio

il cor di doglia alla tua voglia altera,

per fuggir questa vita,

qual dispietata aita

m'ancide e strazia e non vuol poi ch'io pera?

Perché 'l morir è corto

al lungo andar di tua crudeltà fera.

Ma chi patisce a torto

non men pietà che gran iustizia spera.

Così l'alma sincera

serve e sopporta e, quando che sia poi,

spera non quel che puoi:

ché 'l premio del martir non è tra noi.

247

Caro m'è 'l sonno, e più l'esser di sasso,

mentre che 'l danno e la vergogna dura;

non veder, non sentir m'è gran ventura;

però non mi destar, deh, parla basso.

248

Dal ciel discese, e col mortal suo, poi

che visto ebbe l'inferno giusto e 'l pio

ritornò vivo a contemplare Dio,

per dar di tutto il vero lume a noi.

Lucente stella, che co' raggi suoi

fe' chiaro a torto el nido ove nacq'io,

né sare' 'l premio tutto 'l mondo rio;

tu sol, che la creasti, esser quel puoi.

Di Dante dico, che mal conosciute

fur l'opre suo da quel popolo ingrato

che solo a' iusti manca di salute.

Fuss'io pur lui! c'a tal fortuna nato,

per l'aspro esilio suo, co' la virtute,

dare' del mondo il più felice stato.

249

- Per molti, donna, anzi per mille amanti

creata fusti, e d'angelica forma;

or par che 'n ciel si dorma,

s'un sol s'appropia quel ch'è dato a tanti.

Ritorna a' nostri pianti

il sol degli occhi tuo, che par che schivi

chi del suo dono in tal miseria è nato.

- Deh, non turbate i vostri desir santi,

ché chi di me par che vi spogli e privi,

col gran timor non gode il gran peccato;

ché degli amanti è men felice stato

quello, ove 'l gran desir gran copia affrena,

c'una miseria di speranza piena.

250

Quante dirne si de' non si può dire,

ché troppo agli orbi il suo splendor s'accese;

biasmar si può più 'l popol che l'offese,

c'al suo men pregio ogni maggior salire.

Questo discese a' merti del fallire

per l'util nostro, e poi a Dio ascese;

e le porte, che 'l ciel non gli contese,

la patria chiuse al suo giusto desire.

Ingrata, dico, e della suo fortuna

a suo danno nutrice; ond'è ben segno

c'a' più perfetti abonda di più guai.

Fra mille altre ragion sol ha quest'una:

se par non ebbe il suo exilio indegno,

simil uom né maggior non nacque mai.

251

Nel dolce d'una immensa cortesia,

dell'onor, della vita alcuna offesa

s'asconde e cela spesso, e tanto pesa

che fa men cara la salute mia.

Chi gli omer' altru' 'mpenna e po' tra via

a lungo andar la rete occulta ha tesa,

l'ardente carità d'amore accesa

là più l'ammorza ov'arder più desia.

Però, Luigi mio, tenete chiara

la prima grazia, ond'io la vita porto,

che non si turbi per tempesta o vento.

L'isdegno ogni mercé vincere impara,

e s'i' son ben del vero amico accorto,

mille piacer non vaglion un tormento.

252

Perch'è troppo molesta,

ancor che dolce sia,

quella mercé che l'alma legar suole,

mie libertà di questa

vostr'alta cortesia

più che d'un furto si lamenta e duole.

E com'occhio nel sole

disgrega suo virtù ch'esser dovrebbe

di maggior luce, s'a veder ne sprona,

così 'l desir non vuole

zoppa la grazia in me, che da vo' crebbe.

Ché 'l poco al troppo spesso s'abbandona,

né questo a quel perdona:

c'amor vuol sol gli amici, onde son rari

di fortuna e virtù simili e pari.

253

S'i' fussi stato ne' prim'anni accorto

del fuoco, allor di fuor, che m'arde or drento

per men mal, non che spento,

ma privo are' dell'alma il debil core

e del colpo, or ch'è morto;

ma sol n'ha colpa il nostro prim'errore.

Alma infelice, se nelle prim'ore

alcun s'è mal difeso,

nell'ultim' arde e muore

del primo foco acceso:

ché chi non può non esser arso e preso

nell'età verde, c'or c'è lume e specchio,

men foco assai 'l distrugge stanco e vecchio.

254

Donn', a me vecchio e grave,

ov'io torno e rientro

e come a peso il centro,

che fuor di quel riposo alcun non have,

il ciel porge le chiave.

Amor le volge e gira

e apre a' iusti il petto di costei;

le voglie inique e prave

mi vieta, e là mi tira,

già stanco e vil, fra ' rari e semidei.

Grazie vengon da lei

strane e dolce e d'un certo valore,

che per sé vive chiunche per le' muore.

255

Mentre i begli occhi giri,

donna, ver' me da presso,

tanto veggio me stesso

in lor, quante ne' mie te stessa miri.

Dagli anni e da' martiri

qual io son, quegli a me rendono in tutto,

e ' mie lor te più che lucente stella.

Ben par che 'l ciel s'adiri

che 'n sì begli occhi i' mi veggia sì brutto,

e ne' mie brutti ti veggia sì bella;

né men crudele e fella

dentro è ragion, c'al core

per lor mi passi, e quella

de' tuo mi serri fore.

Perché 'l tuo gran valore

d'ogni men grado accresce suo durezza,

c'amor vuol pari stato e giovanezza.

256

S'alcuna parte in donna è che sie bella,

benché l'altre sien brutte,

debb'io amarle tutte

pel gran piacer ch'i' prendo sol di quella?

La parte che s'appella,

mentre il gioir n'attrista,

a la ragion, pur vuole

che l'innocente error si scusi e ami.

Amor, che mi favella

della noiosa vista,

com'irato dir suole

che nel suo regno non s'attenda o chiami.

E 'l ciel pur vuol ch'i' brami

a quel che spiace non sie pietà vana:

ché l'uso agli occhi ogni malfatto sana.

257

Perché sì tardi e perché non più spesso

con ferma fede quell'interno ardore

che mi lieva di terra e porta 'l core

dove per suo virtù non gli è concesso?

Forse c'ogn' intervallo n'è promesso

da l'uno a l'altro tuo messo d'amore,

perc'ogni raro ha più forz'e valore

quant'è più desiato e meno appresso.

La notte è l'intervallo, e 'l dì la luce:

l'una m'agghiaccia 'l cor, l'altro l'infiamma

d'amor, di fede e d'un celeste foco.

258

Quantunche sie che la beltà divina

qui manifesti il tuo bel volto umano,

donna, il piacer lontano

m'è corto sì, che del tuo non mi parto,

c'a l'alma pellegrina

gli è duro ogni altro sentiero erto o arto.

Ond' il tempo comparto:

per gli occhi il giorno e per la notte il core,

senza intervallo alcun c'al cielo aspiri.

Sì 'l destinato parto

mi ferm'al tuo splendore,

c'alzar non lassa i mie ardenti desiri,

s'altro non è che tiri

la mente al ciel per grazia o per mercede:

tardi ama il cor quel che l'occhio non vede.

259

Ben può talor col mie 'rdente desio

salir la speme e non esser fallace,

ché s'ogni nostro affetto al ciel dispiace,

a che fin fatto arebbe il mondo Iddio?

Qual più giusta cagion dell'amart'io

è, che dar gloria a quella eterna pace

onde pende il divin che di te piace,

e c'ogni cor gentil fa casto e pio?

Fallace speme ha sol l'amor che muore

con la beltà, c'ogni momento scema,

ond'è suggetta al variar d'un bel viso.

Dolce è ben quella in un pudico core,

che per cangiar di scorza o d'ora strema

non manca, e qui caparra il paradiso.

260

Non è sempre di colpa aspra e mortale

d'una immensa bellezza un fero ardore,

se poi sì lascia liquefatto il core,

che 'n breve il penetri un divino strale.

Amore isveglia e desta e 'mpenna l'ale,

né l'alto vol preschive al van furore;

qual primo grado c'al suo creatore,

di quel non sazia, l'alma ascende e sale.

L'amor di quel ch'i' parlo in alto aspira;

donna è dissimil troppo; e mal conviensi

arder di quella al cor saggio e verile.

L'un tira al cielo, e l'altro in terra tira;

nell'alma l'un, l'altr'abita ne' sensi,

e l'arco tira a cose basse e vile.

261

Se 'l troppo indugio ha più grazia e ventura

che per tempo al desir pietà non suole,

la mie, negli anni assai, m'affligge e duole,

ché 'l gioir vecchio picciol tempo dura.

Contrario ha 'l ciel, se di no' sente o cura,

arder nel tempo che ghiacciar si vuole,

com'io per donna; onde mie triste e so]e

lacrime peso con l'età matura.

Ma forse, ancor c'al fin del giorno sia,

col sol già quasi oltr'a l'occaso spento,

fra le tenebre folte e 'l freddo rezzo,

s'amor c'infiamma solo a mezza via,

né altrimenti è, s'io vecchio ardo drento,

donna è che del mie fin farà 'l mie mezzo.

262

Amor, se tu se' dio,

non puo' ciò che tu vuoi?

Deh fa' per me, se puoi,

quel ch'i' fare' per te, s'Amor fuss'io.

Sconviensi al gran desio

d'alta beltà la speme,

vie più l'effetto a chi è press'al morire.

Pon nel tuo grado il mio:

dolce gli fie chi 'l preme?

Ché grazia per poc'or doppia 'l martire.

Ben ti voglio ancor dire:

che sarie morte, s'a' miseri è dura,

a chi muor giunto a l'alta suo ventura?

263

La nuova beltà d'una

mi sprona, sfrena e sferza;

né sol passato è terza,

ma nona e vespro, e prossim'è la sera.

Mie parto e mie fortuna,

l'un co' la morte scherza,

né l'altra dar mi può qui pace intera.

I' c'accordato m'era

col capo bianco e co' molt'anni insieme,

già l'arra in man tene' dell'altra vita,

qual ne promette un ben contrito core.

Più perde chi men teme

nell'ultima partita,

fidando sé nel suo propio valore

contr'a l'usato ardore:

s'a la memoria sol resta l'orecchio,

non giova, senza grazia, l'esser vecchio.

264

Come portato ho già più tempo in seno

l'immagin, donna, del tuo volto impressa,

or che morte s'appressa,

con previlegio Amor ne stampi l'alma,

che del carcer terreno

felice sie 'l dipor suo grieve salma.

Per procella o per calma

con tal segno sicura,

sie come croce contro a' suo avversari;

e donde in ciel ti rubò la natura

ritorni, norma agli angeli alti e chiari,

c'a rinnovar s'impari

là sù pel mondo un spirto in carne involto,

che dopo te gli resti il tuo bel volto.

265

Per non s'avere a ripigliar da tanti

quell'insieme beltà che più non era,

in donna alta e sincera

prestata fu sott'un candido velo,

c'a riscuoter da quanti

al mondo son, mal si rimborsa il cielo.

Ora in un breve anelo,

anzi in un punto, Iddio

dal mondo poco accorto

se l'ha ripresa, e tolta agli occhi nostri.

Né metter può in oblio,

benché 'l corpo sie morto,

i suo dolci, leggiadri e sacri inchiostri.

Crudel pietà, qui mostri,

se quanto a questa il ciel prestava a' brutti,

s'or per morte il rivuol, morremo or tutti.

266

Qual meraviglia è, se prossim'al foco

mi strussi e arsi, se or ch'egli è spento

di fuor, m'affligge e mi consuma drento,

e 'n cener mi riduce a poco a poco?

Vedea ardendo sì lucente il loco

onde pendea il mio greve tormento,

che sol la vista mi facea contento,

e morte e strazi m'eran festa e gioco.

Ma po' che del gran foco lo splendore

che m'ardeva e nutriva, il ciel m'invola,

un carbon resto acceso e ricoperto.

E s'altre legne non mi porge amore

che lievin fiamma, una favilla sola

non fie di me, sì 'n cener mi converto.

267

I' sto rinchiuso come la midolla

da la sua scorza, qua pover e solo,

come spirto legato in un'ampolla:

e la mia scura tomba è picciol volo,

dov'è Aragn' e mill'opre e lavoranti,

e fan di lor filando fusaiuolo.

D'intorn'a l'uscio ho mete di giganti,

ché chi mangi'uva o ha presa medicina

non vanno altrove a cacar tutti quanti.

I' ho 'mparato a conoscer l'orina

e la cannella ond'esce, per quei fessi

che 'nanzi dì mi chiamon la mattina.

Gatti, carogne, canterelli o cessi,

chi n'ha per masserizi' o men viaggio

non vien a vicitarmi mai senz'essi

L'anima mia dal corpo ha tal vantaggio,

che se stasat' allentasse l'odore,

seco non la terre' 'l pan e 'l formaggio.

La toss' e 'l freddo il tien sol che non more;

se la non esce per l'uscio di sotto,

per bocca il fiato a pen' uscir può fore.

Dilombato, crepato, infranto e rotto

son già per le fatiche, e l'osteria

è morte, dov'io viv' e mangio a scotto.

La mia allegrezz' è la maninconia,

e 'l mio riposo son questi disagi:

che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.

Chi mi vedess' a la festa de' Magi

sarebbe buono; e più, se la mia casa

vedessi qua fra sì ricchi palagi.

Fiamma d'amor nel cor non m'è rimasa

se 'l maggior caccia sempre il minor duolo,

di penne l'alma ho ben tarpata e rasa.

Io tengo un calabron in un orciuolo,

in un sacco di cuoio ossa e capresti,

tre pilole di pece in un bocciuolo.

Gli occhi di biffa macinati e pesti,

i denti come tasti di stormento

c'al moto lor la voce suoni e resti.

La faccia mia ha forma di spavento;

i panni da cacciar, senz'altro telo,

dal seme senza pioggia i corbi al vento.

Mi cova in un orecchio un ragnatelo,

ne l'altro canta un grillo tutta notte;

né dormo e russ' al catarroso anelo.

Amor, le muse e le fiorite grotte,

mie scombiccheri, a' cemboli, a' cartocci,

agli osti, a' cessi, a' chiassi son condotte.

Che giova voler far tanti bambocci,

se m'han condotto al fin, come colui

che passò 'l mar e poi affogò ne' mocci?

L'arte pregiata, ov'alcun tempo fui

di tant'opinion, mi rec'a questo,

povero, vecchio e servo in forz'altrui,

ch'i' son disfatto, s'i' non muoio presto.

268

Perché l'età ne 'nvola

il desir cieco e sordo,

con la morte m'accordo,

stanco e vicino all'ultima parola.

L'alma che teme e cola

quel che l'occhio non vede,

come da cosa perigliosa e vaga,

dal tuo bel volto, donna, m'allontana.

Amor, c'al ver non cede,

di nuovo il cor m'appaga

di foco e speme; e non già cosa umana

mi par, mi dice, amar...

269

Or d'un fier ghiaccio, or d'un ardente foco,

or d'anni o guai, or di vergogna armato,

l'avvenir nel passato

specchio con trista e dolorosa speme;

e 'l ben, per durar poco,

sento non men che 'l mal m'affligge e preme.

Alla buona, alla rie fortuna insieme,

di me già stanche, ognor chieggio perdono:

e veggio ben che della vita sono

ventura e grazia l'ore brieve e corte,

che la miseria medica la morte.

270

Tu mi da' di quel c'ognor t'avanza

e vuo' da me le cose che non sono.

271

Di te con teco, Amor, molt'anni sono

nutrito ho l'alma e, se non tutto, in parte

il corpo ancora; e con mirabil arte

con la speme il desir m'ha fatto buono. [m'ha']

Or, lasso, alzo il pensier con l'alie e sprono

me stesso in più sicura e nobil parte.

Le tuo promesse indarno delle carte

e del tuo onor, di che piango e ragiono,

. . . . . . . . . . . .

272

Tornami al tempo, allor che lenta e sciolta

al cieco ardor m'era la briglia e 'l freno;

rendimi il volto angelico e sereno

onde fu seco ogni virtù sepolta,

e ' passi spessi e con fatica molta,

che son sì lenti a chi è d'anni pieno;

tornami l'acqua e 'l foco in mezzo 'l seno,

se vuo' di me saziarti un'altra volta.

E s'egli è pur, Amor, che tu sol viva

de' dolci amari pianti de' mortali,

d'un vecchio stanco oma' puo' goder poco;

ché l'alma, quasi giunta a l'altra riva,

fa scudo a' tuo di più pietosi strali:

e d'un legn'arso fa vil pruova il foco.

273

Se sempre è solo e un quel che sol muove

il tutto per altezza e per traverso,

non sempre a no' si mostra per un verso,

ma più e men quante suo grazia piove.

A me d'un modo e d'altri in ogni altrove:

più e men chiaro o più lucente e terso,

secondo l'egritudin, che disperso

ha l'intel]etto a le divine pruove.

Nel cor ch'è più capace più s'appiglia,

se dir si può, 'l suo volto e 'l suo valore;

e di quel fassi sol guida e lucerna.

. . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . .

truova conforme a la suo parte interna.

274

Deh fammiti vedere in ogni loco!

Se da mortal bellezza arder mi sento,

appresso al tuo mi sarà foco ispento,

e io nel tuo sarò, com'ero, in foco.

Signor mie caro, i' te sol chiamo e 'nvoco

contr'a l'inutil mie cieco tormento:

tu sol puo' rinnovarmi fuora e drento

le voglie e 'l senno e 'l valor lento e poco.

Tu desti al tempo, Amor, quest'alma diva

e 'n questa spoglia ancor fragil e stanca

l'incarcerasti, e con fiero destino.

Che poss'io altro che così non viva?

Ogni ben senza te, Signor, mi manca;

il cangiar sorte è sol poter divino.

275

Dagli alti monti e d'una gran ruina,

ascoso e circunscritto d'un gran sasso,

discesi a discoprirmi in questo basso,

contr'a mie voglia, in tal lapedicina.

Quand'el sol nacqui, e da chi il ciel destina,

. . . . . . . . . . . .

276

Passa per gli occhi al core in un momento

qualunche obbietto di beltà lor sia,

e per sì larga e sì capace via

c'a mille non si chiude, non c'a cento,

d'ogni età, d'ogni sesso; ond'io pavento,

carco d'affanni, e più di gelosia;

né fra sì vari volti so qual sia

c'anzi morte mi die 'ntero contento.

S'un ardente desir mortal bellezza

ferma del tutto, non discese insieme

dal ciel con l'alma; è dunche umana voglia.

Ma se pass'oltre, Amor, tuo nome sprezza,

c'altro die cerca; e di quel più non teme

c'a lato vien contr'a sì bassa spoglia.

277

Se con lo stile o coi colori avete

alla natura pareggiato l'arte,

anzi a quella scemato il pregio in parte

che 'l bel di lei più bello a noi rendete,

poi che con dotta man posto vi sete

a più degno lavoro, a vergar carte,

quel che vi manca, a lei di pregio in parte,

nel dar vita ad altrui, tutta togliete.

Che se secolo alcuno omai contese

in far bell'opre, almen cedale, poi

che convien c'al prescritto fine arrive.

Or le memorie altrui, già spente, accese

tornando, fate or che fien quelle e voi

malgrado d'esse, etternalmente vive.

278

Chi non vuol delle foglie

non ci venga di maggio.

279

La forza d'un bel viso a che mi sprona?

C'altro non è c'al mondo mi diletti:

ascender vivo fra gli spirti eletti

per grazia tal, c'ogni altra par men buona.

Se ben col fattor l'opra suo consuona,

che colpa vuol giustizia ch'io n'aspetti,

s'i' amo, anz'ardo, e per divin concetti

onoro e stimo ogni gentil persona?

280

L'alma inquieta e confusa in sé non truova

altra cagion c'alcun grave peccato

mal conosciuto, onde non è celato

all'immensa pietà c'a' miser giova.

I' parlo a te, Signor, c'ogni mie pruova

fuor del tuo sangue non fa l'uom beato:

miserere di me, da ch'io son nato

a la tuo legge; e non fie cosa nuova.

281

Arder sole' nel freddo ghiaccio il foco;

or m'è l'ardente foco un freddo ghiaccio,

disciolto, Amor, quello insolubil laccio,

e morte or m'è, che m'era festa e gioco.

Quel primo amor che ne diè tempo e loco,

nella strema miseria è greve impaccio

a l'alma stanca...

282

Con tanta servitù, con tanto tedio

e con falsi concetti e gran periglio

dell'alma, a sculpir qui cose divine.

283

Non può, Signor mie car, la fresca e verde

età sentir, quant'a l'ultimo passo

si cangia gusto, amor, voglie e pensieri.

Più l'alma acquista ove più 'l mondo perde;

l'arte e la morte non va bene insieme:

che convien più che di me dunche speri?

284

S'a tuo nome ho concetto alcuno immago,

non è senza del par seco la morte,

onde l'arte e l'ingegno si dilegua.

Ma se, quel c'alcun crede, i' pur m'appago

che si ritorni a viver, a tal sorte

ti servirò, s'avvien che l'arte segua.

285

Giunto è già 'l corso della vita mia,

con tempestoso mar, per fragil barca,

al comun porto, ov'a render si varca

conto e ragion d'ogni opra trista e pia.

Onde l'affettuosa fantasia

che l'arte mi fece idol e monarca

conosco or ben com'era d'error carca

e quel c'a mal suo grado ogn'uom desia.

Gli amorosi pensier, già vani e lieti,

che fien or, s'a duo morte m'avvicino?

D'una so 'l certo, e l'altra mi minaccia.

Né pinger né scolpir fie più che quieti

l'anima, volta a quell'amor divino

c'aperse, a prender noi, 'n croce le braccia.

286

Gl'infiniti pensier mie d'error pieni,

negli ultim'anni della vita mia,

ristringer si dovrien 'n un sol che sia

guida agli etterni suo giorni sereni.

Ma che poss'io, Signor, s'a me non vieni

coll'usata ineffabil cortesia?

287

Di giorno in giorno insin da' mie prim'anni,

Signor, soccorso tu mi fusti e guida,

onde l'anima mia ancor si fida

di doppia aita ne' mie doppi affanni.

288

Le favole del mondo m'hanno tolto

il tempo dato a contemplare Iddio,

né sol le grazie suo poste in oblio,

ma con lor, più che senza, a peccar volto.

Quel c'altri saggio, me fa cieco e stolto

e tardi a riconoscer l'error mio;

manca la speme, e pur cresce il desio

che da te sia dal propio amor disciolto.

Ammezzami la strada c'al ciel sale,

Signor mie caro, e a quel mezzo solo

salir m'è di bisogno la tuo 'ita.

Mettimi in odio quante 'l mondo vale

e quante suo bellezze onoro e colo,

c'anzi morte caparri eterna vita.

289

Non è più bassa o vil cosa terrena

che quel che, senza te, mi sento e sono,

onde a l'alto desir chiede perdono

la debile mie propia e stanca lena.

Deh, porgi, Signor mio, quella catena

che seco annoda ogni celeste dono:

la fede, dico, a che mi stringo e sprono;

né, mie colpa, n'ho grazia intiera e piena.

Tanto mi fie maggior, quante più raro

il don de' doni, e maggior fia se, senza,

pace e contento il mondo in sé non have.

Po' che non fusti del tuo sangue avaro,

che sarà di tal don la tuo clemenza

se 'l ciel non s'apre a noi con altra chiave?

290

Scarco d'un'importuna e greve salma,

Signor mie caro, e dal mondo disciolto,

qual fragil legno a te stanco rivolto

da l'orribil procella in dolce calma.

Le spine e ' chiodi e l'una e l'altra palma

col tuo benigno umil pietoso volto

prometton grazia di pentirsi molto,

e speme di salute a la trist'alma.

Non mirin co' iustizia i tuo sant'occhi

il mie passato, e 'l gastigato orecchio;

non tenda a quello il tuo braccio severo.

Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,

e più abondi, quant'i' son più vecchio,

di pronta aita e di perdono intero.

291

Penso e ben so c'alcuna colpa preme,

occulta a me, lo spirto in gran martire;

privo dal senso e dal suo propio ardire

il cor di pace, e 'l desir d'ogni speme.

Ma chi è teco, Amor, che cosa teme

che grazia allenti inanzi al suo partire?

292

Ben sarien dolce le preghiere mie,

se virtù mi prestassi da pregarte:

nel mio fragil terren non è già parte

da frutto buon, che da sé nato sie.

Tu sol se' seme d'opre caste e pie,

che là germuglian, dove ne fa' parte;

nessun propio valor può seguitarte,

se non gli mostri le tuo sante vie.

293

Carico d'anni e di peccati pieno

e col trist'uso radicato e forte,

vicin mi veggio a l'una e l'altra morte,

e parte 'l cor nutrisco di veleno.

Né propie forze ho, c'al bisogno sièno

per cangiar vita, amor, costume o sorte,

senza le tuo divine e chiare scorte,

d'ogni fallace corso guida e freno.

Signor mie car, non basta che m'invogli

c'aspiri al ciel sol perché l'alma sia,

non come prima, di nulla, creata.

Anzi che del mortal la privi e spogli,

prego m'ammezzi l'alta e erta via

e fie più chiara e certa la tornata.

294

Mentre m'attrista e duol, parte m'è caro

ciascun pensier c'a memoria mi riede

il tempo andato, e che ragion mi chiede

de' giorni persi, onde non è riparo.

Caro m'è sol, perc'anzi morte imparo

quant'ogni uman diletto ha corta fede;

tristo m'è, c'a trovar grazi' e mercede

negli ultim'anni a molte colpe è raro.

Ché ben c'alle promesse tua s'attenda,

sperar forse, Signore, è troppo ardire

c'ogni superchio indugio amor perdoni.

Ma pur par nel tuo sangue si comprenda,

se per noi par non ebbe il tuo martire,

senza misura sien tuo cari doni.

295

Di morte certo, ma non già dell'ora,

la vita è breve e poco me n'avanza;

diletta al senso, è non però la stanza

a l'alma, che mi prega pur ch'i' mora.

Il mondo è cieco e 'l tristo esempro ancora

vince e sommerge ogni prefetta usanza;

spent'è la luce e seco ogni baldanza,

trionfa il falso e 'l ver non surge fora.

Deh, quando fie, Signor, quel che s'aspetta

per chi ti crede? c'ogni troppo indugio

tronca la speme e l'alma fa mortale.

Che val che tanto lume altrui prometta,

s'anzi vien morte, e senza alcun refugio

ferma per sempre in che stato altri assale?

296

S'avvien che spesso il gran desir prometta

a' mie tant'anni di molt'anni ancora,

non fa che morte non s'appressi ognora,

e là dove men duol manco s'affretta.

A che più vita per gioir s'aspetta,

se sol nella miseria Iddio s'adora?

Lieta fortuna, e con lunga dimora,

tanto più nuoce quante più diletta.

E se talor, tuo grazia, il cor m'assale,

Signor mie caro, quell'ardente zelo

che l'anima conforta e rassicura,

da che 'l propio valor nulla mi vale,

subito allor sarie da girne al cielo:

ché con più tempo il buon voler men dura.

297

Se lungo spazio del trist'uso e folle

più temp'il suo contrario a purgar chiede,

la morte già vicina nol concede,

né freno il mal voler da quel ch'e' volle.

298

Non fur men lieti che turbati e tristi

che tu patissi, e non già lor, la morte,

gli spirti eletti, onde le chiuse porte

del ciel, di terra a l'uom col sangue apristi.

Lieti, poiché, creato, il redemisti

dal primo error di suo misera sorte;

tristi, a sentir c'a la pena aspra e forte,

servo de' servi in croce divenisti.

Onde e chi fusti, il ciel ne diè tal segno

che scurò gli occhi suoi, la terra aperse,

tremorno i monti e torbide fur l'acque.

Tolse i gran Padri al tenebroso regno,

gli angeli brutti in più doglia sommerse;

godé sol l'uom, c'al battesmo rinacque.

299

Al zucchero, a la mula, a le candele,

aggiuntovi un fiascon di malvagia,

resta sì vinta ogni fortuna mia,

ch'i' rendo le bilance a san Michele.

Troppa bonaccia sgonfia sì le vele,

che senza vento in mar perde la via

la debil mie barca, e par che sia

una festuca in mar rozz'e crudele.

A rispetto a la grazia e al gran dono,

al cib', al poto e a l'andar sovente

c'a ogni mi' bisogno è caro e buono,

Signor mie car, ben vi sare' niente

per merto a darvi tutto quel ch'i' sono:

ché 'l debito pagar non è presente.

300

Per croce e grazia e per diverse pene

son certo, monsignor, trovarci in cielo;

ma prima c'a l'estremo ultimo anelo,

goderci in terra mi parria pur bene.

Se l'aspra via coi monti e co 'l mar tiene

l'un da l'altro lontan, lo spirto e 'l zelo

non cura intoppi o di neve o di gelo,

né l'alia del pensier lacci o catene.

Ond'io con esso son sempre con voi,

e piango e parlo del mio morto Urbino,

che vivo or forse saria costà meco,

com'ebbi già in pensier. Sua morte poi

m'affretta e tira per altro cammino,

dove m'aspetta ad albergar con seco.

301

Di più cose s'attristan gli occhi mei,

e 'l cor di tante quant'al mondo sono;

se 'l tuo di te cortese e caro dono

non fussi, della vita che farei?

Del mie tristo uso e dagli esempli rei,

fra le tenebre folte, dov'i' sono,

spero aita trovar non che perdono,

c'a chi ti mostri, tal prometter dei.

302

Non più per altro da me stesso togli

l'amor, gli affetti perigliosi e vani,

che per fortuna avversa o casi strani,

ond'e' tuo amici dal mondo disciogli,

Signor mie car, tu sol che vesti e spogli,

e col tuo sangue l'alme purghi e sani

da l'infinite colpe e moti umani,

. . . . . . . . . . . .

  

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.20.44