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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Rime

MICHELANGELO BUONARROTI IL VECCHIO

79-156

 

79

Felice spirto, che con zelo ardente,

vecchio alla morte, in vita il mio cor tieni,

e fra mill'altri tuo diletti e beni

me sol saluti fra più nobil gente;

come mi fusti agli occhi, or alla mente,

per l'altru' fiate a consolar mi vieni,

onde la speme il duol par che raffreni,

che non men che 'l disio l'anima sente.

Dunche, trovando in te chi per me parla

grazia di te per me fra tante cure,

tal grazia ne ringrazia chi ti scrive.

Che sconcia e grande usur saria a farla,

donandoti turpissime pitture

per riaver persone belle e vive.

80

I' mi credetti, il primo giorno ch'io

mira' tante bellezze uniche e sole,

fermar gli occhi com'aquila nel sole

nella minor di tante ch'i' desio.

Po' conosciut'ho il fallo e l'erro mio:

ché chi senz'ale un angel seguir vole,

il seme a' sassi, al vento le parole

indarno isparge, e l'intelletto a Dio.

Dunche, s'appresso il cor non mi sopporta

l'infinita beltà che gli occhi abbaglia,

né di lontan par m'assicuri o fidi,

che fie di me? qual guida o qual scorta [-1]

fie che con teco ma' mi giovi o vaglia,

s'appresso m'ardi e nel partir m'uccidi?

81

Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia

e priega e forza ch'i' vi segua e ami;

ché quel che non è voi non è 'l mie bene.

Amor, che sprezza ogni altra maraviglia,

per mie salute vuol ch'i' cerchi e brami

voi, sole, solo; e così l'alma tiene

d'ogni alta spene e d'ogni valor priva;

e vuol ch'i' arda e viva

non sol di voi, ma chi di voi somiglia

degli occhi e delle ciglia alcuna parte.

E chi da voi si parte,

occhi, mie vita, non ha luce poi;

ché 'l ciel non è dove non siate voi.

82

Non posso altra figura immaginarmi

o di nud'ombra o di terrestre spoglia,

col più alto pensier, tal che mie voglia

contra la tuo beltà di quella s'armi.

Ché da te mosso, tanto scender parmi,

c'Amor d'ogni valor mi priva e spoglia,

ond'a pensar di minuir mie doglia,

duplicando, la morte viene a darmi.

Però non val che più sproni mie fuga,

doppiando 'l corso alla beltà nemica,

ché 'l men dal più veloce non si scosta.

Amor con le sue man gli occhi m'asciuga,

promettendomi cara ogni fatica;

ché vile esser non può chi tanto costa.

83

Veggio nel tuo bel viso, signor mio,

quel che narrar mal puossi in questa vita:

l'anima, della carne ancor vestita,

con esso è già più volte ascesa a Dio.

E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio,

di quel che sente, altrui segna e addita,

non è l'intensa voglia men gradita,

l'amor, la fede e l'onesto desio.

A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,

s'assembra ogni beltà che qua si vede

più c'altra cosa alle persone accorte;

né altro saggio abbiàn né altri frutti

del cielo in terra; e chi v'ama con fede

trascende a Dio e fa dolce la morte.

84

Sì come nella penna e nell'inchiostro

è l'alto e 'l basso e 'l mediocre stile,

e ne' marmi l'immagin ricca e vile,

secondo che 'l sa trar l'ingegno nostro;

così, signor mie car, nel petto vostro,

quante l'orgoglio è forse ogni atto umile;

ma io sol quel c'a me propio è e simile

ne traggo, come fuor nel viso mostro.

Chi semina sospir, lacrime e doglie,

(l'umor dal ciel terreste, schietto e solo,

a vari semi vario si converte),

però pianto e dolor ne miete e coglie

chi mira alta beltà con sì gran duolo,

ne ritra' doglie e pene acerbe e certe.

85

Com'io ebbi la vostra, signor mio,

cercand'andai fra tutti e' cardinali

e diss'a tre da vostra part' addio.

Al Medico maggior de' nostri mali

mostrai la detta, onde ne rise tanto

che 'l naso fe' dua parti dell'occhiali.

Il servito da voi pregiat' e santo

costà e qua, sì come voi scrivete,

n'ebbe piacer, che ne ris'altro tanto.

A quel che tien le cose più secrete

del Medico minor non l'ho ancor visto;

farebbes'anche a lui, se fusse prete.

Ecci molt'altri che rinegon Cristo

che voi non siate qua; né dà lor noia

ché chi non crede si tien manco tristo.

Di voi a tutti caverò la foia

di questa vostra; e chi non si contenta

affogar possa per le man del boia.

La Carne che nel sal si purg' e stenta

che saria buon per carbonat' ancora

di voi più che di sé par si rammenta.

Il nostro Buonarroto, che v'adora,

visto la vostra, se ben veggio, parmi

c'al ciel si lievi mille volte ogn'ora:

e dice che la vita de' sua marmi

non basta a far il vostro nom'eterno,

come lui fanno i divin vostri carmi.

Ai qual non nuoce né state né verno,

dal temp' esenti e da morte crudele,

che fama di virtù non ha in governo.

E come vostro amico e mio fedele

disse: - Ai dipinti, visti i versi belli,

s'appiccon voti e s'accendon candele.

Dunque i' son pur nel numero di quelli,

da un goffo pittor senza valore

cavato a' pennell' e alberelli.

Il Bernia ringraziate per mio amore,

che fra tanti lui sol conosc' il vero

di me; ché chi mi stim' è 'n grand'errore.

Ma la sua disciplin' el lum' intero

mi può ben dar, e gran miracol fia,

a far un uom dipint' un uom da vero. -

Così mi disse; e io per cortesia

vel raccomando quanto so e posso,

che fia l'apportator di questa mia.

Mentre la scrivo a vers'a verso, rosso

diveng'assai, pensando a cui la mando,

send' il mio non professo, goffo e grosso.

Pur nondimen così mi raccomando

anch'io a voi, e altro non accade;

d'ogni tempo son vostro e d'ogni quando.

A voi nel numer delle cose rade

tutto mi v'offerisco, e non pensate

ch'i' manchi, se 'l cappuccio non mi cade.

Così vi dico e giuro, e certo siate,

ch'i' non farei per me quel che per voi:

e non m'abbiat'a schifo come frate.

Comandatemi, e fate poi da voi.

86

Ancor che 'l cor già mi premesse tanto,

per mie scampo credendo il gran dolore

n'uscissi con le lacrime e col pianto,

fortuna al fonte di cotale umore

le radice e le vene ingrassa e 'mpingua

per morte, e non per pena o duol minore,

col tuo partire; onde convien destingua

dal figlio prima e tu morto dipoi,

del quale or parlo, pianto, penna e lingua.

L'un m'era frate, e tu padre di noi;

l'amore a quello, a te l'obrigo strigne:

non so qual pena più mi stringa o nòi.

La memoria 'l fratel pur mi dipigne,

e te sculpisce vivo in mezzo il core

che 'l core e 'l volto più m'affligge e tigne.

Pur mi quieta che il debito, c'all'ore

pagò 'l mio frate acerbo, e tu maturo;

ché manco duole altrui chi vecchio muore.

Tanto all'increscitor men aspro e duro

esser dié 'l caso quant'è più necesse,

là dove 'l ver dal senso è più sicuro.

Ma chi è quel che morto non piangesse

suo caro padre, c'ha veder non mai

quel che vedea infinite volte o spesse?

Nostri intensi dolori e nostri guai

son come più e men ciascun gli sente:

quant'in me posson tu, Signor, tel sai.

E se ben l'alma alla ragion consente,

tien tanto in collo, che vie più abbondo

po' doppo quella in esser più dolente.

E se 'l pensier, nel quale i' mi profondo

non fussi che 'l ben morto in ciel si ridi

del timor della morte in questo mondo,

crescere' 'l duol; ma ' dolorosi stridi

temprati son d'una credenza ferma

che 'l ben vissuto a morte me' s'annidi.

Nostro intelletto dalla carne inferma

è tanto oppresso, che 'l morir più spiace

quanto più 'l falso persuaso afferma.

Novanta volte el sol suo chiara face

prim'ha nell'oceàn bagnata e molle,

che tu sie giunto alla divina pace.

Or che nostra miseria el ciel ti tolle,

increscati di me, che morto vivo,

come tuo mezzo qui nascer mi volle.

Tu se' del morir morto e fatto divo,

né tem'or più cangiar vita né voglia,

che quasi senza invidia non lo scrivo.

Fortuna e 'l tempo dentro a vostra soglia

non tenta trapassar, per cui s'adduce

fra no' dubbia letizia e certa doglia.

Nube non è che scuri vostra luce,

l'ore distinte a voi non fanno forza,

caso o necessità non vi conduce.

Vostro splendor per notte non s'ammorza,

né cresce ma' per giorno, benché chiaro,

sie quand'el sol fra no' il caldo rinforza.

Nel tuo morire el mie morire imparo,

padre mie caro, e nel pensier ti veggio

dove 'l mondo passar ne fa di raro.

Non è, com'alcun crede, morte il peggio

a chi l'ultimo dì trascende al primo,

per grazia, etterno appresso al divin seggio

dove, Die grazia, ti prosumo e stimo

e spero di veder, se 'l freddo core

mie ragion tragge dal terrestre limo.

E se tra 1' padre e 'l figlio ottimo amore

cresce nel ciel, crescendo ogni virtute,

. . . . . . . . . . .

87

Vorrei voler, Signor, quel ch'io non voglio:

tra 'l foco e 'l cor di ghiaccia un vel s'asconde

che 'l foco ammorza, onde non corrisponde

la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.

I' t'amo con la lingua, e poi mi doglio

c'amor non giunge al cor; né so ben onde

apra l'uscio alla grazia che s'infonde

nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.

Squarcia 'l vel tu, Signor, rompi quel muro

che con la suo durezza ne ritarda

il sol della tuo luce, al mondo spenta!

Manda 'l preditto lume a noi venturo,

alla tuo bella sposa, acciò ch'io arda

il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.

88

Sento d'un foco un freddo aspetto acceso

che lontan m'arde e sé con seco agghiaccia;

pruovo una forza in due leggiadre braccia

che muove senza moto ogni altro peso.

Unico spirto e da me solo inteso,

che non ha morte e morte altrui procaccia,

veggio e truovo chi, sciolto, 'l cor m'allaccia,

e da chi giova sol mi sento offeso.

Com'esser può, signor, che d'un bel volto

ne porti 'l mio così contrari effetti,

se mal può chi non gli ha donar altrui?

Onde al mio viver lieto, che m'ha tolto,

fa forse come 'l sol, se nol permetti,

che scalda 'l mondo e non è caldo lui.

89

Veggio co' be' vostr'occhi un dolce lume

che co' mie ciechi già veder non posso;

porto co' vostri piedi un pondo addosso,

che de' mie zoppi non è già costume.

Volo con le vostr'ale senza piume;

col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;

dal vostro arbitrio son pallido e rosso,

freddo al sol, caldo alle più fredde brume.

Nel voler vostro è sol la voglia mia,

i miei pensier nel vostro cor si fanno,

nel vostro fiato son le mie parole.

Come luna da sé sol par ch'io sia,

ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno

se non quel tanto che n'accende il sole.

90

I' mi son caro assai più ch'i' non soglio;

poi ch'i' t'ebbi nel cor più di me vaglio,

come pietra c'aggiuntovi l'intaglio

è di più pregio che 'l suo primo scoglio.

O come scritta o pinta carta o foglio

più si riguarda d'ogni straccio o taglio,

tal di me fo, da po' ch'i' fu' berzaglio

segnato dal tuo viso, e non mi doglio.

Sicur con tale stampa in ogni loco

vo, come quel c'ha incanti o arme seco

c'ogni periglio gli fan venir meno.

I' vaglio contr'a l'acqua e contr'al foco,

col segno tuo rallumino ogni cieco,

e col mie sputo sano ogni veleno.

91

Perc'all'estremo ardore

che toglie e rende poi

il chiuder e l'aprir degli occhi tuoi

duri più la mie vita,

fatti son calamita

di me, de l'alma e d'ogni mie valore;

tal c'anciderm' Amore,

forse perch'è pur cieco

indugia, triema e teme.

C'a passarmi nel core

sendo nel tuo con teco,

pungere' prima le tuo parte streme

e perché meco insieme

non mora, non m'ancide. O gran martire,

c'una doglia mortal, senza morire,

raddoppia quel languire

del qual, s'i' fussi meco, sare' fora.

Deh rendim' a me stesso, acciò ch'i' mora.

92

Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni

ognor con maggior guerra

a rendere alla terra

le membra afflitte, stanche e pellegrine,

non ha però 'ncor fine

chi l'alma attrista e me fa così lieto.

Né par che men perdoni

a chi 'l cor m'apre e serra,

nell'ore più vicine

e più dubiose d'altro viver quieto;

ché l'error consueto,

com più m'attempo, ognor più si fa forte.

O dura mia più c'altra crudel sorte!

tardi orama' puo' tormi tanti affanni;

c'un cor che arde e arso è già molt'anni

torna, se ben l'ammorza la ragione,

non più già cor, ma cenere e carbone.

93

Spargendo il senso il troppo ardor cocente

fuor del tuo bello, in alcun altro volto,

men forza ha, signor, molto

qual per più rami alpestro e fier torrente.

Il cor, che del più ardente

foco più vive, mal s'accorda allora

co' rari pianti e men caldi sospiri.

L'alma all'error presente

gode c'un di lor mora

per gire al ciel, là dove par c'aspiri.

La ragione i martiri

fra lor comparte; e fra più salde tempre

s'accordan tutt'a quattro amarti sempre.

94

D'altrui pietoso e sol di sé spietato

nasce un vil bruto, che con pena e doglia

l'altrui man veste e la suo scorza spoglia

e sol per morte si può dir ben nato.

Così volesse al mie signor mie fato

vestir suo viva di mie morta spoglia,

che, come serpe al sasso si discoglia,

pur per morte potria cangiar mie stato.

O fussi sol la mie l'irsuta pelle

che, del suo pel contesta, fa tal gonna

che con ventura stringe sì bel seno,

ch'i' l'are' pure il giorno; o le pianelle

che fanno a quel di lor basa e colonna

ch'i' pur ne porterei duo nevi almeno.

95

Rendete agli occhi mei, o fonte o fiume,

l'onde della non vostra e salda vena,

che più v'innalza e cresce, e con più lena

che non è 'l vostro natural costume.

E tu, folt'air, che 'l celeste lume

tempri a' trist'occhi, de' sospir mie piena,

rendigli al cor mie lasso e rasserena

tua scura faccia al mie visivo acume.

Renda la terra i passi alle mie piante,

c'ancor l'erba germugli che gli è tolta,

e 'l suono eco, già sorda a' mie lamenti;

gli sguardi agli occhi mie tuo luce sante,

ch'i' possa altra bellezza un'altra volta

amar, po' che di me non ti contenti.

95

Sì come secco legno in foco ardente

arder poss'io, s'i' non t'amo di core,

e l'alma perder, se null'altro sente.

E se d'altra beltà spirto d'amore

fuor de' tu' occhi è che m'infiammi o scaldi,

tolti sien quegli a chi sanz'essi muore.

S'io non t'amo e ador, ch'e' mie più baldi

pensier sien con la speme tanto tristi

quanto nel tuo amor son fermi e saldi.

97

Al cor di zolfo, a la carne di stoppa,

a l'ossa che di secco legno sièno;

a l'alma senza guida e senza freno

al desir pronto, a la vaghezza troppa;

a la cieca ragion debile e zoppa

al vischio, a' lacci di che 'l mondo è pieno;

non è gran maraviglia, in un baleno

arder nel primo foco che s'intoppa.

A la bell'arte che, se dal ciel seco

ciascun la porta, vince la natura,

quantunche sé ben prema in ogni loco;

s'i' nacqui a quella né sordo né cieco,

proporzionato a chi 'l cor m'arde e fura,

colpa è di chi m'ha destinato al foco.

98

A che più debb'i' omai l'intensa voglia

sfogar con pianti o con parole meste,

se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,

tard' o per tempo alcun mai non ne spoglia?

A che 'l cor lass' a più languir m'invoglia,

s'altri pur dee morir? Dunche per queste

luci l'ore del fin fian men moleste;

c'ogni altro ben val men c'ogni mia doglia.

Però se 'l colpo ch'io ne rub' e 'nvolo

schifar non posso, almen, s'è destinato,

chi entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?

Se vint' e preso i' debb'esser beato,

maraviglia non è se nudo e solo

resto prigion d'un cavalier armato.

99

Ben mi dove' con sì felice sorte,

mentre che Febo il poggio tutto ardea,

levar da terra, allor quand'io potea,

con le suo penne, e far dolce la morte.

Or m'è sparito; e se 'l fuggir men forte

de' giorni lieti invan mi promettea,

ragione è ben c'all'alma ingrata e rea

pietà le mani e 'l ciel chiugga le porte.

Le penne mi furn'ale e 'l poggio scale,

Febo lucerna a' piè; né m'era allora

men salute il morir che maraviglia.

Morendo or senza, al ciel l'alma non sale,

né di lor la memoria il cor ristora:

ché tardi e doppo il danno, chi consiglia?

100

Ben fu, temprando il ciel tuo vivo raggio,

solo a du' occhi, a me di pietà vòto,

allor che con veloce etterno moto

a noi dette la luce, a te 'l viaggio.

Felice uccello, che con tal vantaggio

da noi, t'è Febo e 'l suo bel volto noto,

e più c'al gran veder t'è ancora arroto

volare al poggio, ond'io rovino e caggio.

101

Perché Febo non torce e non distende

d'intorn' a questo globo freddo e molle

le braccia sua lucenti, el vulgo volle

notte chiamar quel sol che non comprende.

E tant'è debol, che s'alcun accende

un picciol torchio, in quella parte tolle

la vita dalla notte, e tant'è folle

che l'esca col fucil la squarcia e fende.

E s'egli è pur che qualche cosa sia.

cert'è figlia del sol e della terra;

ché l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.

Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra,

vedova, scura, in tanta gelosia,

c'una lucciola sol gli può far guerra.

102

O notte, o dolce tempo, benché nero,

con pace ogn' opra sempr' al fin assalta;

ben vede e ben intende chi t'esalta,

e chi t'onor' ha l'intelletto intero.

Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;

ché l'umid' ombra ogni quiet' appalta,

e dall'infima parte alla più alta

in sogno spesso porti, ov'ire spero.

O ombra del morir, per cui si ferma

ogni miseria a l'alma, al cor nemica,

ultimo delli afflitti e buon rimedio;

tu rendi sana nostra carn' inferma,

rasciughi i pianti e posi ogni fatica,

e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.

103

Ogni van chiuso, ogni coperto loco,

quantunche ogni materia circumscrive,

serba la notte, quando il giorno vive,

contro al solar suo luminoso gioco.

E s'ella è vinta pur da fiamma o foco,

da lei dal sol son discacciate e prive

con più vil cosa ancor sue specie dive,

tal c'ogni verme assai ne rompe o poco.

Quel che resta scoperto al sol, che ferve

per mille vari semi e mille piante,

il fier bifolco con l'aratro assale;

ma l'ombra sol a piantar l'uomo serve.

Dunche, le notti più ch'e' dì son sante,

quanto l'uom più d'ogni altro frutto vale.

104

Colui che fece, e non di cosa alcuna,

il tempo, che non era anzi a nessuno,

ne fe' d'un due e diè 'l sol alto all'uno,

all'altro assai più presso diè la luna.

Onde 'l caso, la sorte e la fortuna

in un momento nacquer di ciascuno;

e a me consegnaro il tempo bruno,

come a simil nel parto e nella cuna.

E come quel che contrafà se stesso,

quando è ben notte, più buio esser suole,

ond'io di far ben mal m'affliggo e lagno.

Pur mi consola assai l'esser concesso

far giorno chiar mia oscura notte al sole

che a voi fu dato al nascer per compagno.

105

Non vider gli occhi miei cosa mortale

allor che ne' bei vostri intera pace

trovai, ma dentro, ov'ogni mal dispiace,

chi d'amor l'alma a sé simil m'assale;

e se creata a Dio non fusse equale,

altro che 'l bel di fuor, c'agli occhi piace,

più non vorria; ma perch'è sì fallace,

trascende nella forma universale.

Io dico c'a chi vive quel che muore

quetar non può disir; né par s'aspetti

l'eterno al tempo, ove altri cangia il pelo.

Voglia sfrenata el senso è, non amore,

che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti

gli amici qui, ma più per morte in cielo.

106

Per ritornar là donde venne fora,

l'immortal forma al tuo carcer terreno

venne com'angel di pietà sì pieno,

che sana ogn'intelletto e 'l mondo onora.

Questo sol m'arde e questo m'innamora,

non pur di fuora il tuo volto sereno:

c'amor non già di cosa che vien meno

tien ferma speme, in cui virtù dimora.

Né altro avvien di cose altere e nuove

in cui si preme la natura, e 'l cielo

è c' a' lor parti largo s'apparecchia;

né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove

più che 'n alcun leggiadro e mortal velo;

e quel sol amo perch'in lui si specchia.

107

Gli occhi mie vaghi delle cose belle

e l'alma insieme della suo salute

non hanno altra virtute

c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.

Dalle più alte stelle

discende uno splendore

che 'l desir tira a quelle,

e qui si chiama amore.

Né altro ha il gentil core

che l'innamori e arda, e che 'l consigli,

c'un volto che negli occhi lor somigli.

108

Indarno spera, come 'l vulgo dice,

chi fa quel che non de' grazia o mercede.

Non fu', com'io credetti, in vo' felice,

privandomi di me per troppa fede,

né spero com'al sol nuova fenice

ritornar più; ché 'l tempo nol concede.

Pur godo il mie gran danno sol perch'io

son più mie vostro, che s'i' fussi mio.

109

Non sempre a tutti è sì pregiato e caro

quel che 'l senso contenta,

c'un sol non sia che 'l senta,

se ben par dolce, pessimo e amaro.

Il buon gusto è sì raro

c'al vulgo errante cede

in vista, allor che dentro di sé gode.

Cosl, perdendo, imparo

quel che di fuor non vede

chi l'alma ha trista, e ' suo sospir non ode.

El mondo è cieco e di suo gradi o lode

più giova a chi più scarso esser ne vuole,

come sferza che 'nsegna e parte duole.

110

Io dico a voi c'al mondo avete dato

l'anima e 'l corpo e lo spirto 'nsieme:

in questa cassa oscura è 'l vostro lato.

111

S'egli è, donna, che puoi

come cosa mortal, benché sia diva

di beltà, c'ancor viva

e mangi e dorma e parli qui fra noi,

a non seguirti poi,

cessato il dubbio, tuo grazia e mercede,

qual pena a tal peccato degna fora?

Ché alcun ne' pensier suoi,

co' l'occhio che non vede,

per virtù propia tardi s'innamora.

Disegna in me di fuora,

com'io fo in pietra od in candido foglio,

che nulla ha dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.

112

Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo

qual più sicuro è, che non sia men forte

che 'l pianger e 'l pregar? e non m'aita.

Amore e crudeltà m'han posto il campo:

l'un s'arma di pietà, l'altro di morte;

questa n'ancide, e l'altra tien in vita.

Così l'alma impedita

del mio morir, che sol poria giovarne,

più volte per andarne

s'è mossa là dov'esser sempre spera,

dov'è beltà sol fuor di donna altiera;

ma l'imagine vera,

della qual vivo, allor risorge al core,

perché da morte non sia vinto amore.

113

Esser non può già ma' che gli occhi santi

prendin de' mie, com'io di lor, diletto,

rendendo al divo aspetto,

per dolci risi, amari e tristi pianti.

O fallace speranza degli amanti !

Com'esser può dissimile e dispari

l'infinita beltà, 'l superchio lume

da ogni mie costume,

che meco ardendo, non ardin del pari?

Fra duo volti diversi e sì contrari

s'adira e parte da l'un zoppo Amore;

né può far forza che di me gl'incresca,

quand'in un gentil core

entra di foco, e d'acqua par che n'esca.

114

Ben vinci ogni durezza

cogli occhi tuo, com'ogni luce ancora;

ché, s'alcun d'allegrezza avvien che mora,

allor sarebbe l'ora

che gran pietà comanda a gran bellezza.

E se nel foco avvezza

non fusse l'alma, già morto sarei

alle promesse de' tuo primi sguardi,

ove non fur ma' tardi

gl'ingordi mie nimici, anz'occhi mei;

né doler mi potrei

di questo non poter, che non è teco.

Bellezza e grazia equalmente infinita,

dove più porgi aita,

men puoi non tor la vita,

né puoi non far chiunche tu miri cieco.

115

Lezi, vezzi, carezze, or, feste e perle,

chi potria ma' vederle

cogli atti suo divin l'uman lavoro,

ove l'argento e l'oro

da le' riceve o duplica suo luce?

Ogni gemma più luce

dagli occhi suo che da propia virtute.

116

Non mi posso tener né voglio, Amore,

crescendo al tuo furore,

ch'i' nol te dica e giuri:

quante più inaspri e 'nduri,

a più virtù l'alma consigli e sproni;

e se talor perdoni

a la mie morte, agli angosciosi pianti,

com'a colui che muore,

dentro mi sento il core

mancar, mancando i mie tormenti tanti.

Occhi lucenti e santi,

mie poca grazia m'è ben dolce e cara,

c'assai acquista chi perdendo impara.

117

S'egli è che 'l buon desio

porti dal mondo a Dio

alcuna cosa bella,

sol la mie donna è quella,

a chi ha gli occhi fatti com'ho io.

Ogni altra cosa oblio

e sol di tant'ho cura.

Non è gran maraviglia,

s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;

né propio valor mio,

se l'alma per natura

s'appoggia a chi somiglia

ne gli occhi gli occhi, ond'ella scende fore.

Se sente il primo amore

come suo fin, per quel qua questa onora:

c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.

118

Ancor che 'l cor già molte volte sia

d'amore acceso e da troppi anni spento,

l'ultimo mie tormento

sarie mortal senza la morte mia.

Onde l'alma desia

de' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,

l'ultimo, primo in più tranquilla corte.

Altro refugio o via

mie vita non iscampa

dal suo morir, c'un'aspra e crudel morte;

né contr'a morte è forte

altro che morte, sì c'ogn'altra aita

è doppia morte a chi per morte ha vita.

119

Dal primo pianto all'ultimo sospiro,

al qual son già vicino,

chi contrasse già mai sì fier destino

com'io da sì lucente e fera stella?

Non dico iniqua o fella,

che 'l me' saria di fore,

s'aver disdegno ne troncasse amore;

ma più, se più la miro,

promette al mio martiro

dolce pietà, con dispietato core.

O desiato ardore!

ogni uom vil sol potria vincer con teco,

ond'io, s'io non fui cieco,

ne ringrazio le prime e l'ultime ore

ch'io la vidi; e l'errore

vincami; e d'ogni tempo sia con meco,

se sol forza e virtù perde con seco.

120

Ben tempo saria omai

ritrarsi dal martire,

ché l'età col desir non ben s'accorda;

ma l'alma, cieca e sorda,

Amor, come tu sai,

del tempo e del morire

che, contro a morte ancor, me la ricorda;

e se l'arco e la corda

avvien che tronchi o spezzi

in mille e mille pezzi,

prega te sol non manchi un de' suoi guai:

ché mai non muor chi non guarisce mai.

121

Come non puoi non esser cosa bella,

esser non puoi che pietosa non sia;

sendo po' tutta mia,

non puo' poter non mi distrugga e stempre.

Così durando sempre

mie pietà pari a tua beltà qui molto,

la fin del tuo bel volto

in un tempo con ella

fie del mie ardente core.

Ma poi che 'l spirto sciolto

ritorna alla suo stella,

a fruir quel signore

ch'e' corpi a chiunche muore

eterni rende o per quiete o per lutto;

priego 'l mie, benché brutto,

com'è qui teco, il voglia in paradiso:

c'un cor pietoso val quant'un bel viso.

122

Se 'l foco al tutto nuoce,

e me arde e non cuoce,

non è mia molta né sua men virtute,

ch'io sol trovi salute

qual salamandra, là dove altri muore.

Né so chi in pace a tal martir m'ha volto:

da te medesma il volto,

da me medesmo il core

fatto non fu, né sciolto

da noi fia mai il mio amore;

più alto è quel signore

che ne' tu' occhi la mia vita ha posta.

S'io t'amo, e non ti costa,

perdona a me, come io a tanta noia,

che fuor di chi m'uccide vuol ch'i' muoia.

123

Quante più par che 'l mie mal maggior senta,

se col viso vel mostro,

più par s'aggiunga al vostro

bellezza, tal che 'l duol dolce diventa.

Ben fa chi mi tormenta,

se parte vi fa bella

della mie pena ria:

se 'l mie mal vi contenta,

mie cruda e fera stella,

che farie dunche con la morte mia?

Ma s'è pur ver che sia

vostra beltà dall'aspro mie martire,

e quel manchi al morire,

morend'io, morrà vostra leggiadria.

Però fate ch'i' stia

col mie duol vivo, per men vostro danno;

e se più bella al mie mal maggior siete,

l'alma n'ha ben più quiete:

c'un gran piacer sopporta un grande affanno.

124

Questa mie donna è sì pronta e ardita,

c'allor che la m'ancide ogni mie bene

cogli occhi mi promette, e parte tiene

il crudel ferro dentro a la ferita.

E così morte e vita,

contrarie, insieme in un picciol momento

dentro a l'anima sento;

ma la grazia il tormento

da me discaccia per più lunga pruova:

c'assai più nuoce il mal che 'l ben non giova.

125

Tanto di sé promette

donna pietosa e bella,

c'ancor mirando quella

sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.

Ma perc'ognor si mette

morte invidiosa e fella

fra ' mie dolenti e ' suo pietosi sguardi,

solo convien ch'i' ardi

quel picciol tempo che 'l suo volto oblio.

Ma poi che 'l pensier rio

pur la ritorna al consueto loco,

dal suo fier ghiaccio è spento il dolce foco.

126

Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,

che 'n alcun altro torni

a' corti e brevi giorni,

per vivere e morire un'altra volta,

la donna mie, di molta

bellezza agli occhi miei,

fie allor com'or nel suo tornar sì cruda?

Se mie ragion s'ascolta

attender la dovrei

di grazia piena e di durezza nuda.

Credo, s'avvien che chiuda

gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,

pietà del mie morir, se morte pruova.

127

Non pur la morte, ma 'l timor di quella

da donna iniqua e bella,

c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;

e se talor m'avvampa

più che l'usato il foco in ch'io son corso,

non trovo altro soccorso

che l'immagin sua ferma in mezzo il core:

ché dove è morte non s'appressa Amore.

128

Se 'l timor della morte

chi 'l fugge e scaccia sempre

lasciar là lo potessi onde ei si muove,

Amor crudele e forte

con più tenaci tempre

d'un cor gentil faria spietate pruove.

Ma perché l'alma altrove

per morte e grazia al fin gioire spera,

chi non può non morir gli è 'l timor caro

al qual ogni altro cede.

Né contro all'alte e nuove

bellezze in donna altera

ha forza altro riparo

che schivi suo disdegno o suo mercede.

Io giuro a chi nol crede,

che da costei, che del mio pianger ride,

sol mi difende e scampa chi m'uccide.

129

Da maggior luce e da più chiara stella

la notte il ciel le sue da lunge accende:

te sol presso a te rende

ognor più bella ogni cosa men bella.

Qual cor più questa o quella

a pietà muove o sprona,

c'ognor chi arde almen non s'agghiacc'egli?

Chi, senza aver, ti dona

vaga e gentil persona

e 'l volto e gli occhi e ' biondi e be' capegli.

Dunche, contr'a te quegli

ben fuggi e me con essi,

se 'l bello infra ' non begli

beltà cresce a se stessi.

Donna, ma s' tu rendessi

quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha tolto,

sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto.

130

Non è senza periglio

il tuo volto divino

dell'alma a chi è vicino

com'io a morte, che la sento ognora;

ond'io m'armo e consiglio

per far da quel difesa anzi ch'i' mora.

Ma tuo mercede, ancora

che 'l mie fin sie da presso,

non mi rende a me stesso;

né danno alcun da tal pietà mi scioglie:

ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.

131

Sotto duo belle ciglia

le forze Amor ripiglia

nella stagion che sprezza l'arco e l'ale.

Gli occhi mie, ghiotti d'ogni maraviglia

c'a questa s'assomiglia,

di lor fan pruova a più d'un fero strale.

E parte pur m'assale,

appresso al dolce, un pensier aspro e forte

di vergogna e di morte;

né perde Amor per maggior tema o danni:

c'un'or non vince l'uso di molt'anni.

132

Mentre che 'l mie passato m'è presente,

sì come ognor mi viene,

o mondo falso, allor conosco bene

l'errore e 'l danno dell'umana gente:

quel cor, c'alfin consente

a' tuo lusinghi e a' tuo van diletti,

procaccia all'alma dolorosi guai.

Ben lo sa chi lo sente,

come spesso prometti

altrui la pace e 'l ben che tu non hai

né debbi aver già mai.

Dunche ha men grazia chi più qua soggiorna:

ché chi men vive più lieve al ciel torna.

133

Condotto da molt'anni all'ultim'ore,

tardi conosco, o mondo, i tuo diletti:

la pace che non hai altrui prometti

e quel riposo c'anzi al nascer muore.

La vergogna e 'l timore

degli anni, c'or prescrive

il ciel, non mi rinnuova

che 'l vecchio e dolce errore,

nel qual chi troppo vive

l'anima 'ncide e nulla al corpo giova.

Il dico e so per pruova

di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte

ch'ebbe al suo parto più presso la morte.

134

- Beati voi che su nel ciel godete

le lacrime che 'l mondo non ristora,

favvi amor forza ancora,

o pur per morte liberi ne siete?

- La nostra etterna quiete,

fuor d'ogni tempo, è priva

d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.

- Dunche a mal pro' ch'i' viva

convien, come vedete,

per amare e servire in dolor tanti.

Se 'l cielo è degli amanti

amico, e 'l mondo ingrato,

amando, a che son nato?

A viver molto? E questo mi spaventa

ché 'l poco è troppo a chi ben serve e stenta.

135

Mentre c'al tempo la mie vita fugge,

amor più mi distrugge,

né mi perdona un'ora,

com'i' credetti già dopo molt'anni.

L'alma, che trema e rugge,

com'uom c'a torto mora,

di me si duol, de' sua etterni danni.

Fra 'l timore e gl'inganni

d'amore e morte, allor tal dubbio sento,

ch'i' cerco in un momento

del me' di loro e di poi il peggio piglio;

sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.

136

L'alma, che sparge e versa

di fuor l'acque di drento,

il fa sol perché spento

non sie da loro il foco in ch'è conversa.

Ogni altra aita persa

saria, se 'l pianger sempre

mi resurge al tuo foco, vecchio e tardi.

Mie dura sorte e mie fortuna avversa

non ha sì dure tempre,

che non m'affligghin men, dove più m'ardi;

tal ch'e' tuo accesi sguardi,

di fuor piangendo, dentro circumscrivo,

e di quel c'altri muor sol godo e vivo.

137

Se per gioir pur brami affanni e pianti,

più crudo, Amor, m'è più caro ogni strale,

che fra la morte e 'l male

non dona tempo alcun, né brieve spazio:

tal c'a 'ncider gli amanti

i pianti perdi, e 'l nostro è meno strazio.

Ond'io sol ti ringrazio

della mie morte e non delle mie doglie,

c'ogni mal sana chi la vita toglie.

138

Porgo umilmente all'aspro giogo il collo

il volto lieto a la fortuna ria,

e alla donna mia

nemica il cor di fede e foco pieno;

né dal martir mi crollo,

anz'ogni or temo non venga meno.

Ché se 'l volto sereno

cibo e vita mi fa d'un gran martire,

qual crudel doglia mi può far morire?

139

In più leggiadra e men pietosa spoglia

altr'anima non tiene

che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;

tal c'alla ingrata voglia

al don di tuo beltà perpetue pene

più si convien c'al mie soffrire 'l cielo.

I' nol dico e nol celo

s'i' bramo o no come 'l tuo 'l mie peccato,

ché, se non vivo, morto ove te sia,

o, te pietosa, che dove beato

mi fa 'l martir, si' etterna pace mia.

Se dolce mi saria

l'inferno teco, in ciel dunche che fora?

Beato a doppio allora

sare' a godere i' sol nel divin coro

quel Dio che 'n cielo e quel che 'n terra adoro.

140

Se l'alma al fin ritorna

nella suo dolce e desiata spoglia,

o danni o salvi il ciel, come si crede,

ne l'inferno men doglia,

se tuo beltà l'adorna,

fie, parte c'altri ti contempla e vede.

S'al cielo ascende e riede,

com'io seco desio

e con tal cura e con sì caldo affetto,

fie men fruire Dio,

s'ogni altro piacer cede

come di qua, al tuo divo e dolce aspetto.

Che me' d'amarti aspetto,

se più giova men doglia a chi è dannato,

che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.

141

Perc'all'alta mie speme è breve e corta,

donna, tuo fé, se con san occhio il veggio,

goderò per non peggio

quante di fuor con gli occhi ne prometti;

ché dove è pietà morta,

non è che gran bellezza non diletti.

E se contrari effetti

agli occhi di mercé dentro a te sento,

la certezza non tento,

ma prego, ove 'l gioire è men che 'ntero

sie dolce il dubbio a chi nuocer può 'l vero.

142

Credo, perc'ancor forse

non sia la fiamma spenta

nel freddo tempo dell'età men verde,

l'arco subito torse

Amor, che si rammenta

che 'n gentil cor ma' suo colpo non perde;

e la stagion rinverde

per un bel volto; e peggio è al sezzo strale

mie ricaduta che 'l mio primo male.

143

Quant'ognor fugge il giorno che mi resta

del viver corto e poco

tanto più serra il foco

in picciol tempo a mie più danno e strazio:

c'aita il ciel non presta

contr'al vecchio uso in così breve spazio.

Pur poi che non se' sazio

del foco circumscritto,

in cui pietra non serva suo natura

non c'un cor, ti ringrazio,

Amor, se 'l manco invitto

in chiuso foco alcun tempo non dura.

Mie peggio è mie ventura,

perché la vita all'arme che tu porti

cara non m'è, s'almen perdoni a' morti.

144

Passo inanzi a me stesso

con alto e buon concetto,

e 'l tempo gli prometto

c'aver non deggio. O pensier vano e stolto!

Ché con la morte appresso

perdo 'l presente, e l'avvenir m'è tolto;

e d'un leggiadro volto

ardo e spero sanar, che morto viva

negli anni ove la vita non arriva.

145

Se costei gode e tu solo, Amor, vivi

de' nostri pianti, e s'io, come te, soglio

di lacrime e cordoglio

e d'un ghiaccio nutrir la vita mia;

dunche, di vita privi

saremo da mercé di donna pia.

Meglio il peggio saria:

contrari cibi han sì contrari effetti

c'a lei il godere, a noi torrien la vita;

tal che 'nsieme prometti

più morte, là dove più porgi aita.

A l'alma sbigottita

viver molto più val con dura sorte

che grazia c'abbi a sé presso la morte.

146

Gli sguardi che tu strazi

a me tutti gli togli;

né furto è già quel che del tuo non doni;

ma se 'l vulgo ne sazi

e ' bruti, e me ne spogli,

omicidio è, c'a morte ognor mi sproni.

Amor, perché perdoni

tuo somma cortesia

sie di beltà qui tolta

a chi gusta e desia,

e data a gente stolta?

Deh, falla un'altra volta

pietosa dentro e sì brutta di fuori,

c'a me dispiaccia, e di me s'innamori.

147

- Deh dimmi, Amor, se l'alma di costei

fusse pietosa com'ha bell' il volto,

s'alcun saria sì stolto

ch'a sé non si togliessi e dessi a lei?

E io, che più potrei

servirla, amarla, se mi fuss'amica,

che, sendomi nemica,

l'amo più c'allor far non doverrei?

- Io dico che fra voi, potenti dei,

convien c'ogni riverso si sopporti.

Poi che sarete morti,

di mille 'ngiurie e torti,

amando te com'or di lei tu ardi,

far ne potrai giustamente vendetta.

Ahimè, lasso chi pur tropp'aspetta

ch'i' gionga a' suoi conforti tanto tardi!

Ancor, se ben riguardi,

un generoso, alter e nobil core

perdon' e porta a chi l'offend' amore.

148

Con più certa salute

men grazia, donna, mi terrie ancor vivo;

dall'uno e l'altro rivo

degli occhi il petto sarie manco molle.

Doppia mercé mie picciola virtute

di tanto vince che l'adombra e tolle;

né saggio alcun ma' volle,

se non sé innalza e sprona,

di quel gioir ch'esser non può capace.

Il troppo è vano e folle;

ché modesta persona

d'umil fortuna ha più tranquilla pace.

Quel c'a vo' lice, a me, donna, dispiace:

chi si dà altrui, c'altrui non si prometta,

d'un superchio piacer morte n'aspetta.

149

Non posso non mancar d'ingegno e d'arte

a chi mi to' la vita

con tal superchia aita,

che d'assai men mercé più se ne prende.

D'allor l'alma mie parte

com'occhio offeso da chi troppo splende,

e sopra me trascende

a l'impossibil mie; per farmi pari

al minor don di donna alta e serena,

seco non m'alza; e qui convien ch'impari

che quel ch'i' posso ingrato a lei mi mena.

Questa, di grazie piena,

n'abonda e 'nfiamma altrui d'un certo foco,

che 'l troppo con men caldo arde che 'l poco.

150

Non men gran grazia, donna, che gran doglia

ancide alcun, che 'l furto a morte mena,

privo di speme e ghiacciato ogni vena,

se vien subito scampo che 'l discioglia.

Simil se tuo mercé, più che ma' soglia,

nella miseria mie d'affanni piena,

con superchia pietà mi rasserena,

par, più che 'l pianger, la vita mi toglia.

Così n'avvien di novell'aspra o dolce:

ne' lor contrari è morte in un momento,

onde s'allarga o troppo stringe 'l core.

Tal tuo beltà, c'Amore e 'l ciel qui folce,

se mi vuol vivo affreni il gran contento,

c'al don superchio debil virtù muore.

151

Non ha l'ottimo artista alcun concetto

c'un marmo solo in sé non circonscriva

col suo superchio, e solo a quello arriva

la man che ubbidisce all'intelletto.

Il mal ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,

in te, donna leggiadra, altera e diva,

tal si nasconde; e perch'io più non viva,

contraria ho l'arte al disiato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate

o durezza o fortuna o gran disdegno,

del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate

porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno

non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

152

Sì come per levar, donna, si pone

in pietra alpestra e dura

una viva figura,

che là più cresce u' più la pietra scema;

tal alcun'opre buone,

per l'alma che pur trema,

cela il superchio della propria carne

co' l'inculta sua cruda e dura scorza.

Tu pur dalle mie streme

parti puo' sol levarne,

ch'in me non è di me voler né forza.

153

Non pur d'argento o d'oro

vinto dal foco esser po' piena aspetta,

vota d'opra prefetta,

la forma, che sol fratta il tragge fora;

tal io, col foco ancora

d'amor dentro ristoro

il desir voto di beltà infinita,

di coste' ch'i' adoro,

anima e cor della mie fragil vita.

Alta donna e gradita

in me discende per sì brevi spazi,

c'a trarla fuor convien mi rompa e strazi.

154

Tanto sopra me stesso

mi fai, donna, salire,

che non ch'i' 'l possa dire,

nol so pensar, perch'io non son più desso.

Dunche, perché più spesso,

se l'alie tuo mi presti,

non m'alzo e volo al tuo leggiadro viso,

e che con teco resti,

se dal ciel n'è concesso

ascender col mortale in paradiso?

Se non ch'i' sia diviso

dall'alma per tuo grazia, e che quest'una

fugga teco suo morte, è mie fortuna.

155

Le grazie tua e la fortuna mia

hanno, donna, sì vari

gli effetti, perch'i' 'mpari

in fra 'l dolce e l'amar qual mezzo sia.

Mentre benigna e pia

dentro, e di fuor ti mostri

quante se' bella al mie 'rdente desire,

la fortun' aspra e ria,

nemica a' piacer nostri,

con mille oltraggi offende 'l mie gioire;

se per avverso po' di tal martire,

si piega alle mie voglie,

tuo pietà mi si toglie.

Fra 'l riso e 'l pianto, en sì contrari stremi,

mezzo non è c'una gran doglia scemi.

156

A l'alta tuo lucente diadema

per la strada erta e lunga,

non è, donna, chi giunga,

s'umiltà non v'aggiungi e cortesia:

il montar cresce, e 'l mie valore scema,

e la lena mi manca a mezza via.

Che tuo beltà pur sia

superna, al cor par che diletto renda,

che d'ogni rara altezza è ghiotto e vago:

po' per gioir della tuo leggiadria

bramo pur che discenda

là dov'aggiungo. E 'n tal pensier m'appago,

se 'l tuo sdegno presago,

per basso amare e alto odiar tuo stato

a te stessa perdona il mie peccato.

  

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.35.51