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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

Giovan Battista Guarini

IL PASTOR FIDO

Atto Terzo

 [SCENA PRIMA] [SCENA SECONDA] [SCENA TERZA]

[SCENA QUARTA] [SCENA QUINTA][SCENA SESTA]

[SCENA SETTIMA] [SCENA OTTAVA] [SCENA NONA]

 

AT.3, SC.1

MIRT. O primavera, gioventù de l'anno,

bella madre di fiori,

d'erbe novelle e di novelli amori,

tu torni ben, ma teco

non tornano i sereni

e fortunati dì de le mie gioie;

tu torni ben, tu torni,

ma teco altro non torna

che del perduto mio caro tesoro

la rimembranza misera e dolente.

Tu quella se', tu quella

ch'eri pur dianzi sì vezzosa e bella;

ma non son io già quel ch'un tempo fui

sì caro agli occhi altrui.

O dolcezze amarissime d'Amore,

quanto è più duro perdervi, che mai

non v'aver o provate o possedute!

Come saria l'amar felice stato,

se 'l già goduto ben non si perdesse;

o, quando egli si perde,

ogni memoria ancora

del dileguato ben si dileguasse!

Ma, se le mie speranze oggi non sono,

com'è l'usato lor, di fragil vetro,

o se maggior del vero

non fa la speme il desiar soverchio,

qui pur vedrò colei

ch'è 'l sol degli occhi miei;

e, s'altri non m'inganna,

qui pur vedrolla al suon de' miei sospiri

fermar il piè fugace.

Qui pur da le dolcezze

di quel bel volto avrà soave cibo

nel suo lungo digiun l'avida vista;

qui pur vedrò quell'empia

girar inverso me le luci altère,

se non dolci, almen fère,

e, se non carche d'amorosa gioia,

sì crude almen, ch'i' moia.

Oh lungamente sospirato invano

avventuroso dì, se, dopo tanti

foschi giorni di pianti,

tu mi concedi, Amor, di veder oggi

ne' begli occhi di lei

girar sereno il sol degli occhi miei!

Ma qui mandommi Ergasto, ove mi disse

ch'esser doveano insieme

Corisca e la bellissima Amarilli

per fare il gioco "de la cieca'; e pure

qui non veggio altra cieca

che la mia cieca voglia,

che va con l'altrui scorta

cercando la sua luce, e non la trova.

O pur frapposto a le dolcezze mie

un qualche amaro intoppo

non abbia il mio destino invido e crudo?

Questa lunga dimora

di paura e d'affanno il cor m'ingombra,

ch'un secolo agli amanti

per ogn'ora che tardi, ogni momento,

quell'aspettato ben che fa contento.

Ma chi sa? troppo tardi

son fors'io giunto, e qui m'avrà Corisca,

fors'anco, indarno lungamente atteso.

Fui pur anco sollecito a partirmi.

Oimè! se questo è vero, i' vo' morire.

AT.3, SC.2

AMAR. Ecco la cieca. MIRT. Eccola a punto. Ahi, vista!

AMAR. Or che si tarda? MIRT. Ahi, voce m'ha punto

e sanato in un punto!

AMAR. Ove sète? che fate? e tu, Lisetta,

che sì bramavi il gioco "de la cieca',

che badi? e tu, Corisca, ove se' ita?

MIRT. Or sì che si può dire

ch'Amor è cieco ed ha bendati gli occhi.

AMAR. Ascoltatemi voi,

che 'l sentier mi scorgete e quinci e quindi

mi tenete per man: come fien giunte

l'altre nostre compagne,

guidatemi lontan da queste piante,

ov'è maggior il vano, e quivi sola

lasciandomi nel mezzo,

ite con l'altre in schiera e tutte insieme

fatemi cerchio, e s'incominci il gioco.

MIRT. Ma che sarà di me? fin qui non veggio

qual mi possa venir da questo gioco

comodità che 'l mio desire adempia;

né so veder Corisca,

ch'è la mia tramontana. Il ciel m'aiti.

AMAR. Alfin sète venute. E che pensaste

di non far altro che bendarmi gli occhi?

Pazzerelle che sète! Or cominciamo.

CORO Cieco, Amor, non ti cred'io,

ma fai cieco il desio

di chi ti crede;

ché, s'hai pur poca vista, hai minor fede.

Cieco o no, mi tenti invano;

e per girti lontano

ecco m'allargo;

che, così cieco, ancor vedi più d'Argo.

Così cieco m'annodasti

e cieco m'ingannasti;

or che vo sciolto,

se ti credessi più, sarei ben stolto.

Fuggi e scherza pur, se sai;

già non fara' tu mai

che 'n te mi fidi,

perché non sai scherzar se non ancidi.

AMAR. Ma voi giocate troppo largo e troppo

vi guardate da rischio:

fuggir bisogna, sì, ma ferir prima.

Toccatemi, accostatevi, ché sempre

non ve n'andrete sciolte.

MIRT. O sommi dèi, che miro? o dove sono?

in cielo o in terra? O cieli,

i vostri eterni giri

han sì dolce armonia? le vostre stelle

han sì leggiadri aspetti?

CORO Ma tu pur, perfido cieco,

mi chiami a scherzar teco;

ed ecco scherzo

e col piè fuggo e con la man ti sferzo.

E corro e ti percoto,

e tu t'aggiri a vòto.

Ti pungo ad ora ad ora:

né tu mi prendi ancora,

o cieco Amore,

perché libero ho il core.

AMAR. In buona fé, Licori,

ch'i' mi pensai d'averti presa, e trovo

d'aver presa una pianta.

Sento ben che tu ridi.

MIRT. Deh, foss'io quella pianta!

Or non vegg'io Corisca

tra quelle fratte ascosa? E` dessa certo;

e non so che m'accenna,

che non intendo, e pur m'accenna ancora.

CORO Sciolto cor fa piè fugace.

O lusinghier fallace,

ancor m'alletti

a' tuo' vezzi mentiti, a' tuo' diletti?

E pur di nuovo i' riedo,

e giro e fuggo e fiedo

e torno; e non mi prendi

e sempre invan m'attendi,

o cieco Amore,

perché libero ho il core.

AMAR. Oh! fusti svelta, maladetta pianta,

che pur anco ti prendo,

quantunque un'altra al brancolar mi sembri!

Forse ch'i' non credei

d'averti franca a questa volta, Elisa?

MIRT. E pur anco non cessa

d'accennarmi Corisca, e sì sdegnosa,

che sembra minacciar. Vorrebbe forse

che mi mischiassi anch'io tra quelle ninfe?

AMAR. Dunque giocar debb'io

tutt'oggi con le piante?

COR. Bisogna pur che mal mio grado i' parli

ed esca de la buca.

Prendila, dappochissimo: che badi?

ch'ella ti corra in braccio?

o làsciati almen prendere. Su, dammi

cotesto dardo, e valle incontra, sciocco!

MIRT. Oh come mal s'accorda

l'animo col desio!

Sì poco ardisce il cor che tanto brama!

AMAR. Per questa volta ancor tornisi al gioco,

ché son già stanca e, per mia fé, voi sète

troppo indiscrete a farmi correr tanto.

CORO Mira nume trionfante,

a cui dà il mondo amante

empio tributo!

Eccol oggi deriso, eccol battuto.

Sì come ai rai del sole

cieca nottola suole,

c'ha mille augei d'intorno

che le fan guerra e scorno,

ed ella picchia

col becco invano e s'erge e si rannicchia;

così se' tu beffato,

Amore, in ogni lato:

chi 'l tergo e chi le gote

ti stimola e percote;

e poco vale

perché stendi gli artigli o batti l'ale.

Gioco dolce ha pania amara;

e ben l'impara

augel che vi s'invesca.

Non sa fuggir Amor, chi seco tresca.

AT.3, SC.3

AMAR. Affé t'ho colta, Aglauro!

Tu vuoi fuggir? t'abbraccerò sì stretta...

COR. (Certamente, se contra

non gliel avessi a l'improvviso spinto

con sì grand'urto, i' faticava in vano

per far ch'egli vi gisse.)

AMAR. Tu non parli: se' dessa o non se' dessa?

COR. (Qui ripongo il suo dardo, e nel cespuglio

torno per osservar ciò che ne segue.)

AMAR. Or ti conosco, sì: tu se' Corisca

che se' sì grande e senza chioma. A punto

altra che te non volev'io, per darti

de le pugna a mio senno.

Or te' questo e quest'altro,

e quest'anco e poi questo. Ancor non parli?

Ma, se tu mi legasti, anco mi sciogli,

e fa' tosto, cor mio,

ch'i' vo' poi darti il più soave bacio,

ch'avessi mai. Che tardi?

par che la man ti tremi. Se' sì stanca?

Mettici i denti, se non puoi con l'ugna.

Oh quanto se' melensa!

Ma lascia far a me, ché da me stessa

mi leverò d'impaccio.

Or ve' con quanti nodi

mi legasti tu stretta!

Se può toccar a te l'esser la cieca...

Son pur, ecco, sbendata. Oimè! che veggio?

Lasciami, traditor! Oimè! son morta!

MIRT. Sta' cheta, anima mia! AMAR. Lasciami, dico,

lasciami! Così dunque

si fa forza a le ninfe? Aglauro, Elisa!

ah, perfide! ove sète?

Lasciami, traditore! MIRT. Ecco ti lascio.

AMAR. Quest'è un inganno di Corisca. Or togli

quel che n'hai guadagnato. MIRT. Dove fuggi, crudele?

Mira almen la mia morte. Ecco, mi passo

con questo dardo il petto.

AMAR. Oimè! che fai? MIRT. Quel che forse ti pesa

ch'altri faccia per te, ninfa crudele.

AMAR. Oimè, son quasi morta!

MIRT. E se quest'opra a la tua man si deve,

ecco 'l ferro, ecco 'l petto.

AMAR. Ben il meriteresti. E chi t'ha dato

cotanto ardir, presontuoso? MIRT. Amore.

AMAR. Amor non è cagion d'atto villano.

MIRT. Dunque in me credi amore,

poi che discreto fui, ché se prendesti

tu prima me, son io tanto men degno

d'esser da te di villania notato,

quanto, con sì vezzosa

comodità d'esser ardito e quando

potei le leggi usar teco d'Amore,

fui però sì discreto,

che quasi mi scordai d'esser amante.

AMAR. Non mi rimproverar quel che fei cieca.

MIRT. Ah, che tanto più cieco

son io di te, quanto più sono amante!

AMAR. Preghi e lusinghe, e non insidie e furti,

usa il discreto amante.

MIRT. Come selvaggia fèra,

cacciata da la fame,

esce dal bosco e 'l peregrino assale,

tal io, ché sol de' tuo' begli occhi i' vivo.

Poi che l'amato cibo

o tua fierezza o mio destìn mi nega,

sa, famelico amante,

uscendo oggi de' boschi ov'io soffersi

digiun misero e lungo,

quello scampo tentai per mia salute,

che mi dettò necessità d'amore,

non incolpar già me, ninfa crudele;

te sola pur incolpa,

ché, se co' preghi sol, come dicesti,

s'ama discretamente, e con lusinghe,

e ciò da me non aspettasti mai,

tu sola, tu m'hai tolto,

con la durezza tua, con la tua fuga,

l'esser discreto amante.

AMAR. Assai discreto amante esser potevi,

lasciando di seguir chi ti fuggiva.

Pur sai che 'nvan mi segui.

Che vòi da me? MIRT. Ch'una sola fiata

degni almen d'ascoltarmi, anzi ch'io moia.

AMAR. Buon per te che la grazia,

prima che l'abbi chiesta, hai ricevuta.

Vattene dunque. MIRT. Ah! ninfa,

quel che t'ho detto, a pena

è una minuta stilla

de l'infinito mar del pianto mio.

Deh! se non per pietate,

almen per tuo diletto ascolta, cruda,

di chi si vuol morir gli ultimi accenti.

AMAR. Per levar te d'errore a me d'impaccio,

son contenta d'udirti;

ma ve'! con queste leggi:

di' poco, e tosto parti, e più non torna.

MIRT. In troppo picciol fascio,

crudelissima ninfa,

stringer tu mi comandi

quell'immenso desio, che, se con altro,

misurar si potesse

che con pensiero umano,

a pena il capirìa ciò che capire

puote in pensiero umano.

Ch'i' t'ami, e t'ami più de la mia vita,

se tu nol sai, crudele,

chiedilo a queste selve,

che tel diranno, e tel diran con esse

le fère loro e i duri sterpi e i sassi

di questi alpestri monti,

ch'i' ho sì spesse volte

inteneriti al suon de' miei lamenti.

Ma che bisogna far cotanta fede

de l'amor mio, dov'è bellezza tanta?

Mira quante vaghezze ha 'l ciel sereno,

quante la terra, e tutte

raccogli in picciol giro; indi vedrai

l'alta necessità de l'arder mio.

E come l'acqua scende e 'l foco sale

per sua natura, e l'aria

vaga e posa la terra e 'l ciel s'aggira,

così naturalmente a te s'inchina,

come a suo bene, il mio pensiero, e corre

a le bellezze amate

con ogni affetto suo l'anima mia.

E chi di traviarla

dal caro oggetto suo forse pensasse,

prima torcer porrìa

da l'usato cammino e cielo e terra

ed acqua ed aria e foco,

e tutto trar da le sue sedi il mondo.

Ma, perché mi comandi

ch'io dica poco, ah cruda!

poco dirò, s'io dirò sol ch'io moro;

e men farò morendo,

s'io miro a quel che del mio strazio brami.

Ma farò quello, aimè! che sol m'avanza,

miseramente amando.

Ma, poi che sarò morto, anima cruda,

avrai tu almen pietà de le mie pene?

Deh! bella e cara e sì soave un tempo

cagion del viver mio, mentre a Dio piacque,

volgi una volta, volgi

quelle stelle amorose,

come le vidi mai, così tranquille

e piene di pietà, prima ch'i' moia,

ché 'l morir mi sia dolce.

E dritto è ben che, se mi fûro un tempo

dolci segni di vita, or sien di morte

que' begli occhi amorosi;

e quel soave sguardo,

che mi scorse ad amare,

mi scorga anco a morire;

e chi fu l'alba mia,

del mio cadente dì l'espero or sia.

Ma tu, più che mai dura,

favilla di pietà non senti ancora;

anzi t'inaspri più, quanto più prego.

Così senza parlar dunque m'ascolti?

A chi parlo, infelice? a un muto marmo?

S'altro non mi vuoi dir, dimmi almen: "Mori!"

e morir mi vedrai.

Questa è ben, empio Amor, miseria estrema,

che sì rigida ninfa

e del mio fin sì vaga,

perché grazia di lei

non sia la morte mia, morte mi neghi,

né mi risponda, e l'armi

d'una sola sdegnosa e cruda voce

sdegni di proferire

al mio morir. AMAR. Se dianzi t'avess'io

promesso di risponderti, sì come

d'ascoltar ti promisi,

qualche giusta cagion di lamentarti

del mio silenzio avresti.

Tu mi chiami crudele, immaginando

che da la ferità rimproverata

agevole ti sia forse il ritrarmi

al suo contrario affetto;

né sai tu che l'orecchie

così non mi lusinga il suon di quelle

da me sì poco meritate e molto

meno gradite lodi,

che mi dài di beltà, come mi giova

il sentirmi chiamar da te crudele.

L'esser cruda ad ogn'altro,

già nol nego, è peccato;

a l'amante, è virtute;

ed è vera onestate

quella che 'n bella donna

chiami tu feritate.

Ma sia, come tu vuoi, peccato e biasmo

l'esser cruda a l'amante: or quando mai

ti fu cruda Amarilli?

Forse allor che giustizia

stato sarebbe il non usar pietate?

E pur teco l'usai

tanto, ch'a dura morte i' ti sottrassi.

I' dico allor che tu, fra nobil coro

di vergini pudiche,

libidinoso amante,

sotto abito mentito di donzella

ti mescolasti e, i puri scherzi altrui

contaminando, ardisti

mischiar tra finti ed innocenti baci

baci impuri e lascivi,

che la memoria ancor se ne vergogna.

Ma sallo il ciel, ch'allor non ti conobbi,

e che poi, conosciuto,

sdegno n'ebbi, e serbai

da le lascivie tue l'animo intatto;

né lasciai che corresse

l'amoroso veneno al cor pudico,

ch'alfin non violasti

se non la sommità di queste labbra.

"Bocca baciata a forza,

se 'l bacio sputa, ogni vergogna ammorza'.

Ma dimmi tu: qual frutto avresti allora

dal temerario tuo furto raccolto,

se t'avess'io scoperto a quelle ninfe?

Non fu sull'Ebro mai

sì fieramente lacerato e morto

da le donne di Tracia il tracio Orfeo,

come stato da loro

saresti tu, se non ti dava aita

la pietà di colei che cruda or chiami.

Ma non è cruda già quanto bisogna,

ché, se cotanto ardisci

quanto ti son crudele,

ché faresti tu poi,

se pietosa ti fussi?

Quella sana pietà che dar potei,

quella t'ho dato. In altro modo è vano

che tu la chiedi o speri,

ché pietate amorosa

mal si dà per colei

che per sé non la trova,

poi che l'ha data altrui.

Ama l'onestà mia, s'amante sei;

ama la mia salute, ama la vita.

Troppo lunge se' tu da quel che brami.

Il proibisce il ciel, la terra il guarda

e 'l vendica la morte;

ma più d'ogn'altro e con più saldo scudo

l'onestate il difende,

ché sdegna alma bennata

più fido guardatore

aver del proprio onore. Or datti pace

dunque, Mirtillo, e guerra

non far a me. Fuggi lontano e vivi,

se saggio se': ch'abbandonar la vita

per soverchio dolore,

non è atto o pensiero

di magnanimo core;

ed è vera virtute

il sapersi astener da quel che piace,

se quel che piace, offende.

MIRT. Non è in man di chi perde

l'anima, il non morire.

AMAR. Chi s'arma di virtù, vince ogni affetto.

MIRT. Virtù non vince ove trionfa Amore.

AMAR. Chi non può quel che vuol, quel che può voglia.

MIRT. Necessità d'amor legge non have.

AMAR. La lontananza ogni gran piaga salda.

MIRT. Quel che nel cor si porta, invan si fugge.

AMAR. Scaccerà vecchio amor novo desio.

MIRT. Sì, s'un'altra alma e un altro core avessi.

AMAR. Consuma il tempo finalmente amore.

MIRT. Ma prima il crudo amor l'alma consuma.

AMAR. Così, dunque, il tuo mal non ha rimedio?

MIRT. Non ha rimedio alcun, se non la morte.

AMAR. La morte? Or tu m'ascolta e fa' che legge

ti sian queste parole. Ancor ch'i' sappia

che 'l morir degli amanti è più tosto uso

d'innamorata lingua che desio

d'animo in ciò deliberato e fermo,

pur se talento mai

e sì strano e sì folle a te venisse,

sappi che la tua morte

non men de la mia fama

che de la vita tua morte sarebbe.

Vivi dunque, se m'ami;

vattene, e da qui innanzi avrò per chiaro

segno che tu sii saggio,

se con ogni tuo ingegno

ti guarderai di capitarmi innanti.

MIRT. Oh sentenza crudele!

Come viver poss'io

senza la vita? o come

dar fin senza la morte al mio tormento?

AMAR. Orsù! Mirtillo, è tempo

che tu ten vada; e troppo lungamente

hai dimorato ancora.

Pàrtiti; e ti consola,

ch'infinita è la schiera

degli infelici amanti.

Vive ben altri in pianti

sì come tu, Mirtillo. Ogni ferita

ha seco il suo dolore,

né se' tu solo a lagrimar d'amore.

MIRT. Misero infra gli amanti

già solo non son io; ma son ben solo

miserabile esempio

e de' vivi e de' morti, non potendo

né viver né morire.

AMAR. Orsù! pàrtiti omai.

MIRT. Ah! dolente partita!

ah, fin de la mia vita!

da te parto e non moro? E pur i' provo

la pena de la morte

e sento nel partire

un vivace morire,

che dà vita al dolore

per far che moia immortalmente il core.

AT.3, SC.4

AMAR. O Mirtillo, Mirtillo, anima mia,

se vedessi qui dentro

come sta il cor di questa

che chiami crudelissima Amarilli,

so ben che tu di lei

quella pietà, che da lei chiedi, avresti.

Oh anime in amor troppo infelici!

che giova a te, cor mio, l'esser amato?

che giova a me l'aver sì caro amante?

Perché, crudo destino,

ne disunisci tu, s'Amor ne strigne?

e tu, perché ne strigni,

se ne parte il destin, perfido Amore?

Oh fortunate voi, fère selvagge,

a cui l'alma natura

non die' legge in amar se non d'amore!

Legge umana inumana,

che dài per pena de l'amar la morte!

Se 'l peccar è sì dolce

e 'l non peccar sì necessario, oh troppo

imperfetta natura

che repugni a la legge!

oh! troppo dura legge

che la natura offendi!

Ma che? poco ama altrui chi 'l morir teme.

Piacesse pur al ciel, Mirtillo mio,

che sol pena al peccar fusse la morte!

Santissima Onestà, che sola sei

d'alma bennata inviolabil nume,

quest'amorosa voglia,

che svenata ho col ferro

del tuo santo rigor, qual innocente

vittima a te consacro.

E tu, Mirtillo, anima mia, perdona

a chi t'è cruda sol dove pietosa

esser non può; perdona a questa, solo

nei detti e nel sembiante

rigida tua nemica, ma nel core

pietosissima amante;

e, se pur hai desio di vendicarti,

deh! qual vendetta aver puoi tu maggiore

del tuo proprio dolore?

Che se tu se' 'l cor mio,

come se' pur mal grado

del cielo e della terra,

qualor piagni e sospiri,

quelle lagrime tue sono il mio sangue,

que' sospiri il mio spirto e quelle pene

e quel dolor, che senti,

son miei, non tuoi, tormenti.

AT.3, SC.5

COR. Non t'asconder già più, sorella mia.

AMAR. (Meschina me, son discoperta!) COR. Il tutto

ho troppo ben inteso. Or non m'apposi?

non ti diss'io ch'amavi? Or ne son certa.

E da me tu ti guardi? a me l'ascondi?

a me che t'amo sì? Non t'arrossire,

non t'arrossir, ché questo è mal comune.

AMAR. Io son vinta, Corisca, e tel confesso.

COR. Or che negar nol puoi, tu mel confessi.

AMAR. E ben m'avveggio, ahi, lassa!

che troppo angusto vaso è debil core

a traboccante amore.

COR. O cruda al tuo Mirtillo,

e più cruda a te stessa!

AMAR. Non è fierezza quella

che nasce da pietate.

COR. Aconito e cicuta

nascer da salutifera radice

non si vide già mai.

Che differenza fai

da crudeltà ch'offende,

a pietà che non giova?

AMAR. Oimè, Corisca! COR. Il sospirar, sorella,

è debolezza e vanità di core,

e proprio è de le femmine da poche.

AMAR. Non sarei più crudele,

se 'n lui nudrissi amor senza speranza?

Il fuggirlo è pur segno

ch'i' ho compassione

del suo male e del mio.

COR. Perché senza speranza?

AMAR. Non sai tu che promessa a Silvio sono?

Non sai tu che la legge

condanna a morte ogni donzella ch'aggia

violata la fede?

COR. O semplicetta! ed altro non t'arresta?

Qual è tra noi più antica,

la legge di Diana o pur d'Amore?

Questa ne' nostri petti

nasce, Amarilli, e con l'età s'avanza;

né s'apprende o s'insegna,

ma negli umani cuori,

senza maestro, la natura stessa

di propria man l'imprime;

e dov'ella comanda,

ubbidisce anco il ciel, non che la terra.

AMAR. E pur, se questa legge

mi togliesse la vita,

quella d'Amor non mi darebbe aita.

COR. Tu se' troppo guardinga. Se cotali

fusser tutte le donne

e cotali rispetti avesser tutte,

buon tempo, addio! Soggette a questa pena

stimo le poche pratiche, Amarilli;

per quelle, che son sagge,

non è fatta la legge.

Se tutte le colpevoli uccidesse,

credimi, senza donne

resterebbe il paese; e, se le sciocche

v'inciampano, è ben dritto

che 'l rubar sia vietato

a chi leggiadramente

non sa celare il furto,

ch'altro alfin l'onestate

non è che un'arte di parere onesta.

Creda ognun a suo modo: io così credo.

AMAR. Queste son vanità, Corisca mia.

Gran senno è lasciar tosto

quel che non può tenersi.

COR. E chi tel vieta, sciocca?

Troppo breve è la vita

da trapassarla con un solo amore;

troppo gli uomini avari,

o sia difetto o pur fierezza loro,

ci son de le lor grazie.

E sai? tanto siam care,

tanto gradite altrui, quanto siam fresche.

Levaci la beltà, la giovinezza;

come alberghi di pecchie

restiamo, senza favi e senza mèle,

negletti aridi tronchi.

Lascia gracchiar agli uomini, Amarilli,

però ch'essi non sanno

né sentono i disagi de le donne,

e troppo differente

da la condizion de l'uomo è quella

de la misera donna.

Quanto più invecchia, l'uomo

diventa più perfetto,

e, se perde bellezza, acquista senno.

Ma in noi con la beltate

e con la gioventù, da cui sì spesso

il viril senno e la possanza è vinta,

manca ogni nostro ben; né si può dire

né pensar la più sozza

cosa né la più vil di donna vecchia.

Or, prima che tu giunga

a questa nostra universal miseria,

conosci i pregi tuoi.

Se t'è la vita destra,

non l'usar a sinistra.

Che varrebbe al leone

la sua ferocità, se non l'usasse?

Che gioverebbe a l'uomo,

l'ingegno suo, se non l'usasse a tempo?

Così noi la bellezza,

ch'è virtù nostra, così propria come

la forza del leone

e l'ingegno de l'uomo,

usiam mentre l'abbiamo.

Godiam, sorella mia,

godiam, ché 'l tempo vola e posson gli anni

ben ristorar i danni

de la passata lor fredda vecchiezza;

ma, s'in noi giovinezza

una volta si perde,

mai più non si rinverde.

Ed a canuto e livido sembiante

può ben tornar amor, ma non amante.

AMAR. Tu, come credo, in questa guisa parli

per tentarmi, Corisca,

più tosto che per dir quel che ne senti.

E però sii pur certa

che, se tu non mi mostri agevol modo,

e sopra tutto onesto,

di fuggir queste nozze,

ho fatto irrevocabile pensiero

di più tosto morir che macchiar mai

l'onestà mia, Corisca.

COR. (Non ho veduto mai la più ostinata

femmina di costei.)

Poi che questo conchiudi, eccomi pronta.

Dimmi un poco, Amarilli:

credi tu forse che 'l tuo Silvio sia

tanto di fede amico

quanto tu d'onestate?

AMAR. Tu mi farai ben ridere: di fede

amico Silvio? e come,

s'è nemico d'amore?

COR. Silvio d'amor nemico? O semplicetta!

tu nol conosci. E' sa far e tacere,

ti so dir io. Quest'anime sì schife, eh?

non ti fidar di loro.

Non è furto d'amor tanto sicuro

né di tanta finezza,

quanto quel che s'asconde

sotto il vel d'onestate.

Ama dunque il tuo Silvio,

ma non già te, sorella.

AMAR. E quale è questa dea,

ché certo esser non può donna mortale,

che l'ha d'amore acceso?

COR. Né dea né anco ninfa. AMAR. Oh che mi narri!

COR. Conosci tu la mia Lisetta? AMAR. Quale

Lisetta tua? la pecoraia? COR. Quella.

AMAR. Di' tu vero, Corisca? COR. Questa è dessa,

questa è l'anima sua.

AMAR. Or vedi se lo schifo

s'è d'un leggiadro amor ben provveduto!

COR. E sai come ne spasima e ne muore?

Ogni giorno s'infinge

d'ire a la caccia...

AMAR. Ogni mattina a punto

sento su l'alba il maladetto corno.

COR.>... e sul fitto meriggio,

mentre che gli altri sono

più fervidi ne l'opra, ed egli allotta

da' compagni s'invola e vien soletto

per via non trita al mio giardino, ov'ella

tra le fessure d'una siepe ombrosa,

che 'l giardin chiude, i suoi sospiri ardenti,

i suoi prieghi amorosi ascolta, e poi,

a me gli narra e ride. Or odi quello

che pensato ho di fare, anzi ho già fatto,

per tuo servigio. Io credo ben che sappi

che la medesma legge, che comanda

a la donna il servar fede al suo sposo,

ha comandato ancor che, ritrovando

ella il suo sposo in atto di perfidia,

possa, mal grado de' parenti suoi,

negar d'essergli sposa, e d'altro amante

onestamente provvedersi. AMAR. Questo

so molto bene, ed anco alcuno esempio

veduto n'ho: Leucippe a Ligurino,

Egle a Licota, ed a Turingo Armilla,

trovati senza fé, la data fede

ricoveraron tutte. COR. Or tu m'ascolta.

Lisetta mia, così da me avvertita,

ha col fanciullo amante e poco cauto

d'esser in quello speco oggi con lei

ordine dato, ond'egli è 'l più contento

garzon che viva, e sol n'attende l'ora.

Quivi vo' che tu 'l colga. I' sarò teco

per testimon del tutto, ché senz'esso

vana sarebbe l'opra, e così sciolta

sarai senza periglio, e con tuo onore

e con onor del padre tuo, da questo

sì noioso legame. AMAR. Oh quanto bene

hai pensato, Corisca! Or che ci resta?

COR. Quel ch'ora intenderai. Tu bene osserva

le mie parole. A mezzo de lo speco,

ch'è di forma assai lunga e poco larga,

su la man dritta, è nel cavato sasso

una, non so ben dir se fatta sia

o per natura o per industria umana,

picciola cavernetta, d'ogni intorno

tutta vestita d'edera tenace,

a cui dà lume un picciolo pertugio

che d'alto s'apre, assai grato ricetto

ed a' furti d'amor comodo molto.

Or tu, gli amanti prevenendo, quivi

fa' che t'ascondi e 'l venir loro attendi.

Invierò la mia Lisetta intanto;

poi, le vestigia di lontan seguendo

di Silvio, come pria sceso ne l'antro

vedrollo, entrando anch'io subitamente,

il prenderò perché non fugga, e 'nsieme

farò (ché così seco ho divisato)

con Lisetta grandissimi rumori,

a' quali tosto accorrerai tu ancora

e, secondo il costume, esequirai

contra Silvio la legge; e poi n'andremo

ambedue con Lisetta al sacerdote,

e così il marital nodo sciorrai.

AMAR. Dinanzi al padre suo? COR. Che 'mporta questo?

Pensi tu che Montano il suo privato

comodo debbia al publico antiporre?

ed al sacro il profano? AMAR. Or dunque, gli occhi

chiudendo, fedelissima mia scorta,

a te regger mi lascio.

COR. Ma non tardar; entra, ben mio. AMAR. Vo' prima

girmene al tempio a venerar gli dèi,

ché fortunato fin non può sortire,

se non la scorge il ciel, mortale impresa.

COR. Ogni loco, Amarilli, è degno tempio

di ben devoto core.

Perderai troppo tempo.

AMAR. Non si può perder tempo

nel far preghi a coloro

che comandano al tempo.

COR. Vanne dunque, e vien' tosto.

Or, s'io non erro, a buon camin son vòlta.

Mi turba sol questa tardanza. Pure

potrebbe anco giovarmi. Or mi bisogna

tesser novello inganno. A Coridone

amante mio creder farò che seco

trovar mi voglia; e nel medesim'antro

dopo Amarilli il manderò, là dove

farò venir per più segreta strada

di Diana i ministri a prender lei,

la qual, come colpevole, a morire

sarà senz'alcun dubbio condennata.

Spenta la mia rivale, alcun contrasto

non avrò più per ispugnar Mirtillo,

che per lei m'è crudele. Eccol a punto.

Oh come a tempo! I' vo' tentarlo alquanto,

mentre Amarilli mi dà tempo. Amore,

vien' ne la lingua mia tutto e nel volto.

AT.3, SC.6

MIRT. Udite, lagrimosi

spirti d'Averno, udite

nova sorte di pena e di tormento;

mirate crudo affetto

in sembiante pietoso:

la mia donna, crudel più de l'inferno,

perch'una sola morte

non può far sazia la sua fiera voglia

(e la mia vita è quasi

una perpetua morte),

mi comanda ch'i' viva,

perché la vita mia

di mille morti il dì ricetto sia.

COR. (M'infingerò di non l'aver veduto).

Sento una voce querula e dolente

sonar d'intorno, e non so dir di cui.

Oh! se' tu, il mio Mirtillo?

MIRT. Così foss'io nud'ombra e poca polve!

COR. E ben, come ti senti

da poi che lungamente ragionasti

con l'amata tua donna?

MIRT. Come assetato infermo

che bramò lungamente

il vietato licor, se mai vi giunge,

meschin! beve la morte,

e spegne anzi la vita che la sete;

tal io, gran tempo infermo

e d'amorosa sete arso e consunto,

in duo bramati fonti,

che stillan ghiaccio da l'alpestre vena

d'un indurato core,

ho bevuto il veleno;

e spento il viver mio

più tosto che 'l desio.

COR. Tanto è possente amore

quanto dai nostri cor forza riceve,

caro Mirtillo; e, come l'orsa suole

con la lingua dar forma

a l'informe suo parto,

che per sé fôra inutilmente nato,

così l'amante al semplice desire,

che nel suo nascimento

era infermo ed informe,

dando forma e vigore,

ne fa nascere amore.

Il qual prima, nascendo,

è delicato e tenero bambino,

e, mentre è tale in noi, sempre è soave;

ma, se troppo s'avanza

divien aspro e crudele,

ch'alfin, Mirtillo, un invecchiato affetto

si fa pena e difetto.

Che, s'in un sol pensiero

l'anima, immaginando, si condensa

e troppo in lui s'affisa,

l'amor, ch'esser dovrebbe

pura gioia e dolcezza,

si fa malinconia

e, quel ch'è peggio, alfin morte o pazzia.

Però saggio è quel core

che spesso cangia amore.

MIRT. Prima che mai cangiar voglia o pensiero,

cangerò vita in morte,

però che la bellissima Amarilli,

così com'è crudel, com'è spietata,

sola è la vita mia,

né può già sostener corporea salma

più d'un cor, più d'un'alma.

COR. O misero pastore,

come sai mal usare

per lo suo dritto amore!

Amar chi m'odia e seguir chi mi fugge? Eh!

i' mi morrei ben prima.

MIRT. Come l'oro nel foco,

così la fede nel dolor s'affina,

Corisca mia, né può senza fierezza

dimostrar sua possanza

amorosa invincibile costanza.

Questo solo mi resta,

fra tanti affanni miei, dolce conforto.

Arda pur sempre o mora

o languisca il cor mio,

a lui fien lievi pene

per sì bella cagion pianti e sospiri,

strazio, pene, tormenti, esilio e morte,

pur che prima la vita,

che questa fé, si scioglia,

ch'assai peggio di morte è il cangiar voglia.

COR. Oh bella impresa! Oh valoroso amante,

come ostinata fèra,

come insensato scoglio,

rigido e pertinace!

Non è la maggior peste

né 'l più fero e mortifero veleno

a un'anima amorosa, de la fede.

Infelice quel core

che si lascia ingannar da questa vana

fantasima d'errore e de' più cari

amorosi diletti

turbatrice importuna!

Dimmi, povero amante:

con cotesta tua folle

virtù de la costanza,

che cosa ami in colei che ti disprezza?

Ami tu la bellezza,

che non è tua? la gioia che non hai?

la pietà che sospiri?

la mercé che non speri?

Altro non ami alfin, se dritto miri,

che 'l tuo mal, che 'l tuo duol, che la tua morte.

E se' sì forsennato,

ch'amar vuoi sempre, e non esser amato?

Deh! risorgi, Mirtillo;

riconosci te stesso.

Forse ti mancheran gli amori? forse

non troverai chi ti gradisca e pregi?

MIRT. M'è più dolce il penar per Amarilli,

che il gioir di mill'altre;

e se gioir di lei

mi vieta il mio destino, oggi si moia

per me pure ogni gioia.

Viver io fortunato

per altra donna mai, per altro amore?

né, volendo, il potrei

né, potendo, il vorrei.

E, s'esser può che 'n alcun tempo mai

ciò voglia il mio volere

o possa il mio potere,

prego il cielo ed Amor che tolto pria

ogni voler, ogni poter mi sia.

COR. Oh core ammaliato!

Per una cruda, dunque,

tanto sprezzi te stesso?

MIRT. Chi non spera pietà, non teme affanno,

Corisca mia. COR. Non t'ingannar, Mirtillo,

ché forse da dovero

non credi ancor ch'ella non t'ami e ch'ella

da dovero ti sprezzi.

Se tu sapessi quello

che sovente di te meco ragiona!

MIRT. Tutti questi pur sono

amorosi trofei da la mia fede.

Trionferò con questa

del cielo e de la terra,

de la sua cruda voglia,

de le mie pene e de la dura sorte,

di fortuna, del mondo e de la morte.

COR. (Che farebbe costui quando sapesse

d'esser da lei sì grandemente amato?)

Oh qual compassione

t'ho io, Mirtillo, di cotesta tua

misera frenesia!

Dimmi: amasti tu mai

altra donna che questa?

MIRT. Primo amor del cor mio

fu la bella Amarilli,

e la bella Amarilli

sarà l'ultimo ancora.

COR. Dunque, per quel ch'i' veggia,

non provasti tu mai

se non crudele Amor, se non sdegnoso.

Deh, s'una volta sola

il provassi soave

e cortese e gentile!

Provalo un poco, provalo; e vedrai

com'è dolce il gioire

per gratissima donna che t'adori

quanto fai tu la tua

crudele ed amarissima Amarilli;

com'è soave cosa

tanto goder quanto ami,

tanto aver quanto brami;

sentir che la tua donna

ai tuoi caldi sospiri,

caldamente sospiri,

e dica poi: "Ben mio,

quanto son, quanto miri,

tutto è tuo. S'io son bella,

a te solo son bella; a te s'adorna

questo viso, quest'oro e questo seno;

in questo petto mio

alberghi tu, caro mio cor, non io".

Ma questo è un picciol rivo

rispetto a l'ampio mar de le dolcezze

che fa gustar Amore;

ma non le sa ben dir chi non le prova.

MIRT. Oh mille volte fortunato e mille

chi nasce in tale stella!

COR. Ascoltami, Mirtillo

(quasi m'uscì di bocca: "anima mia'),

una ninfa gentile,

fra quante o spieghi al vento o 'n treccia annodi

chioma d'oro leggiadra,

degna de l'amor tuo

come se' tu del suo,

onor di queste selve,

amor di tutti i cori;

dai più degni pastori

invan sollecitata, invan seguìta,

te solo adora ed ama

più de la vita sua, più del suo core.

Se saggio se', Mirtillo,

tu non la sprezzerai.

Come l'ombra del corpo,

così questa fia sempre

de l'orme tue seguace;

al tuo detto, al tuo cenno

ubbidiente ancella, a tutte l'ore

de la notte e del dì teco l'avrai.

Deh! non lasciar, Mirtillo,

questa rara ventura.

Non è piacere al mondo

più soave di quel che non ti costa

né sospiri né pianto

né periglio né tempo.

Un comodo diletto,

una dolcezza a le tue voglie pronta,

a l'appetito tuo sempre, al tuo gusto

apparecchiata, oimè! non è tesoro

che la possa pagar. Mirtillo, lascia,

lascia di piè fugace

la disperata traccia,

e chi ti cerca, abbraccia.

Né di speranze vane

ti pascerò, Mirtillo:

a te sta comandare.

Non è molto lontan chi ti desia.

Se vuoi ora, ora sia.

MIRT. Non è il mio cor soggetto

d'amoroso diletto.

COR. Proval sola una volta,

e poi torna al tuo solito tormento,

perché sappi almen dire

com'è fatto gioire.

MIRT. Corrotto gusto ogni dolcezza aborre.

COR. Fàllo almen per dar vita

a chi del sol de' tuo' begli occhi vive.

Crudel! tu sai pur anco

che cosa è povertate

e l'andar mendicando. Ah! se tu brami

per te stesso pietate,

non la negare altrui.

MIRT. Che pietà posso dare,

non la potendo avere?

Insomma io son fermato

di serbar fin ch'io viva

fede a colei ch'adoro, o cruda o pia

ch'ella sia stata e sia.

COR. Oh veramente cieco ed infelice,

oh stupido Mirtillo!

A chi serbi tu fede?

Non volea già contaminarti e pena

giugner a la tua pena;

ma troppo se' tradito,

ed io, che t'amo, sofferir nol posso.

Credi tu ch'Amarilli

ti sia cruda per zelo

o di religione o d'onestate?

Folle se' ben se 'l credi.

Occupata è la stanza,

misero! ed a te tocca

pianger quand'altri ride.

Tu non parli? se' muto?

MIRT. Sta la mia vita in forse

tra 'l viver e 'l morire,

mentre sta in dubbio il core

se ciò creda o non creda;

però son io così stupido e muto.

COR. Dunque tu non mel credi?

MIRT. S'io tel credessi, certo

mi vedresti morire; e, s'egli è vero,

i' vo' morire or ora.

COR. Vivi, meschino, vivi;

sèrbati a la vendetta.

MIRT. Ma non tel credo e so che non è vero.

COR. Ancor non credi, e pur cercando vai

ch'io dica quel che d'ascoltar ti duole.

Vedi tu là quell'antro?

quello è fido custode

de la fé, de l'onor de la tua donna.

Quivi di te si ride,

quivi con le tue pene

si condiscon le gioie

del fortunato tuo lieto rivale.

Quivi, per dirti in somma,

molto sovente suole

la tua fida Amarilli

a rozzo pastorel recarsi in braccio.

Or va', piagni e sospira; or serva fede:

tu n'hai cotal mercede.

MIRT. Oimè! Corisca, dunque

il ver mi narri e pur convien che il creda?

COR. Quanto più vai cercando,

tanto peggio udirai

e peggio troverai.

MIRT. E l'hai veduto tu, Corisca? ahi lasso!

COR. Non pur l'ho vedut'io,

ma tu ancor il potrai

per te stesso vedere, ed oggi a punto,

ch'oggi l'ordine è dato, e questa è l'ora.

Talché, se tu t'ascondi

tra qualcuna di queste

fratte vicine, la vedrai tu stesso

scender ne l'antro ed indi a poco il vago.

MIRT. Sì tosto ho da morir? COR. Vedila a punto,

che per la via del tempio

vien pian piano scendendo.

La vedi tu, Mirtillo?

e non ti par che mova

furtivo il piè, com'ha furtivo il core?

Or qui l'attendi, e ne vedrai l'effetto.

Ci rivedrem da poi.

MIRT. Già ch'io son sì vicino

a chiarirmi del vero,

sospenderò con la credenza mia

e la vita e la morte.

AT.3, SC.7

AMAR. Non cominci mortale alcuna impresa

senza scorta divina. Assai confusa

e con incerto cor quinci partimmi

per gire al tempio, onde, mercé del cielo,

e ben disposta e consolata i' torno,

ch'a le preghiere mie pure e devote

m'è paruto sentir moversi dentro

un animoso spirito celeste

e rincorarmi e quasi dir: "Che temi?

Va' sicura, Amarilli". E così voglio

sicuramente andar, ché 'l ciel mi guida.

Bella madre d'Amore,

favorisci colei

che 'l tuo soccorso attende.

Donna del terzo giro,

se mai provasti di tuo figlio il foco,

abbi del mio pietate.

Scorgi, cortese dea,

con piè veloce e scaltro

il pastorello a cui la fede ho data.

E tu, cara spelonca,

sì chiusamente nel tuo sen ricevi

questa serva d'Amor, ch'in te fornire

possa ogni suo desire.

Ma che tardi, Amarilli?

Qui non è chi mi vegga o chi m'ascolti.

Entra sicuramente.

O Mirtillo, Mirtillo,

se di trovarmi qui sognar potessi!

AT.3, SC.8

MIRT. Ah pur troppo son desto e troppo miro!

Così nato senz'occhi

foss'io piuttosto, o più tosto non nato!

A che, fero destìn, serbarmi in vita

per condurmi a vedere

spettacolo sì crudo e sì dolente?

O più d'ogni infernale

anima tormentata,

tormentato Mirtillo,

non stare in dubbio, no; la tua credenza

non sospender già più; tu l'hai veduta

con gli occhi proprio, e con gli orecchi udita.

La tua donna è d'altrui,

non per legge del mondo,

che la toglie ad ogni altro;

ma per legge d'Amore,

che la toglie a te solo.

O crudele Amarilli,

dunque non ti bastava

di dar a questo misero la morte,

s'anco non lo schernivi

con quella insidiosa ed incostante

bocca, che le dolcezze di Mirtillo

gradì pur una volta?

Or l'odiato nome,

che forse ti sovvenne

per tuo rimordimento,

non hai voluto a parte

de le dolcezze tue, de le tue gioie,

e 'l vomitasti fuore,

ninfa crudel, per non l'aver nel core.

Ma che tardi, Mirtillo?

Colei che ti dà vita,

a te l'ha tolta e l'ha donata altrui;

e tu vivi, meschino? e tu non mori?

Mori, Mirtillo, mori

al tormento, al dolore,

com'al tuo ben, com'al gioir se' morto.

Mori, morto Mirtillo:

hai finita la vita,

finisci anco il tormento.

Esci, misero amante,

di questa dura ed angosciosa morte,

che per maggior tuo mal ti tiene in vita.

Ma che? debb'io morir senza vendetta?

Farò prima morir chi mi dà morte.

Tanto in me si sospenda

il desio di morire,

che giustamente abbia la vita tolta

a chi m'ha tolto ingiustamente il core.

Ceda il dolore a la vendetta, ceda

la pietate a lo sdegno

e la morte a la vita,

finch'abbia con la vita

vendicato la morte.

Non beva questo ferro

del suo signor l'invendicato sangue,

e questa man non sia

ministra di pietate

che non sia prima d'ira.

Ben ti farò sentire,

chiunque se' che del mio ben gioisci,

nel precipizio mio la tua ruina.

M'appiatterò qui dentro

nel medesmo cespuglio, e, come prima

a la caverna avvicinar vedrollo,

improvviso assalendolo, nel fianco

il ferirò con questo acuto dardo.

Ma non sarà viltà ferir altrui

nascosamente? Sì. Sfidalo adunque

a singolar contesa, ove virtute

del tuo giusto dolor possa far fede.

No, che potrebbon di leggieri in questo

loco, a tutti sì noto e sì frequente,

accorrere i pastori ed impedirci,

e ricercar ancor, che peggio fôra,

la cagion che mi move: e s'io la nego,

malvagio, e s'io la fingo, senza fede

ne sarò riputato, e s'io la scopro,

d'eterna infamia rimarrà macchiato

de la mia donna il nome, in cui, ben ch'io

non ami quel che veggio, almen quell'amo

che sempre volli e vorrò fin ch'i' viva

e che sperai e che veder devrei.

Moia dunque l'adultero malvagio,

ch'a lei l'onore, a me la vita invola!

Ma, se l'uccido qui, non sarà il sangue

chiaro indizio del fatto? E che tem'io

la pena del morir, se morir bramo?

a l'omicidio, alfin fatto palese,

scoprirà la cagione; onde cadrai

nel medesmo periglio de l'infamia

che può venirne a questa ingrata. Or entra

ne la spelonca e qui l'assali. E` buono,

questo mi piace. Entrerò cheto cheto,

sì ch'ella non mi senta. E credo bene

che ne la più segreta e chiusa parte,

come accennò di far ne' detti suoi,

si sarà ricovrata, ond'io non voglio

penetrar molto a dentro. Una fessura

fatta nel sasso e di frondosi rami

tutta coperta, a man sinistra a punto

si trova a piè de l'alta scesa: quivi

più che si può tacitamente entrando,

il tempo attenderò di dar effetto

a quel che bramo. Il mio nemico morto

a la nemica mia porterò innanzi;

così d'ambiduo lor farò vendetta;

indi trapasserò col ferro stesso

a me medesmo il petto, e tre saranno

gli estinti, duo dal ferro, una dal duolo.

Vedrà questa crudele

de l'amante gradito

non men che del tradito

tragedia miserabile e funesta;

e sarà questo speco,

ch'esser dovea de le sue gioie albergo,

de l'un e l'altro amante,

e, quel che più desio,

de le vergogne sue tomba e sepolcro.

Ma voi, orme già tanto invan seguìte,

così fido sentiero

voi mi segnate? a così caro albergo

voi mi scorgete? e pur v'inchino e seguo.

O Corisca, Corisca,

or sì m'hai detto il vero, or sì ti credo.

AT.3, SC.9

SAT. Costui crede a Corisca? e segue l'orme

di lei ne la spelonca d'Ericina?

Stupido è ben chi non intende il resto.

Ma certo e' ti bisogna aver gran pegno

de la sua fede in man, se tu le credi,

e stretta lei con più tenaci nodi

che non ebb'io quando nel crin la presi.

Ma nodi più possenti in lei dei doni

certo avuto non hai. Questa malvagia,

nemica d'onestate, oggi a costui

s'è venduta al suo solito, e qui dentro

si paga il prezzo del mercato infame.

Ma forse costà giù ti mandò il cielo

per tuo castigo e per vendetta mia.

Da le parole di costui si scorge

ch'egli non crede invano, e le vestigia,

che vedute ha di lei, son chiari indizi

ch'ella è già ne lo speco. Or fa' un bel colpo:

chiudi il foro dell'antro con quel grave

e soprastante sasso, acciò che quinci

sia lor negata di fuggir l'uscita.

Poi vanne, e 'l sacerdote e' suoi ministri

per la strada del colle a pochi nota

conduci, e fàlla prendere, e, secondo

la legge e' i suoi misfatti, alfin morire.

E so ben io che data a Coridone

ha la fé maritale, il qual si tace

perché teme di me, che minacciato

l'ho molte volte. Oggi farò ben io

ch'egli di due vendicherà l'oltraggio.

Non vo' perder più tempo. Un sodo tronco

schianterò da quest'elce... a punto questo

fia buono..., ond'io potrò più prontamente

smover il sasso. Oh com'è grave! oh come

è ben affisso! Qui bisogna il tronco

spinger di forza e penetrar sì dentro,

che questa mole alquanto si divella.

Il consiglio fu buono. Anco si faccia

il medesmo di qua. Come s'appoggia

tenacemente! E` più dura l'impresa

di quel che mi pensava. Ancor non posso

svellerlo, né per urto anco piegarlo.

Forse il mondo è qui dentro? o pur mi manca

il solito vigor? Stelle perverse,

che machinate? il moverò mal grado.

Maladetta Corisca e, quasi dissi,

quante femmine ha il mondo! O Pan Liceo,

o Pan che tutto se', che tutto puoi,

moviti a' prieghi miei:

fosti amante ancor tu di cor protervo.

Vendica ne la perfida Corisca

i tuoi scherniti amori.

Così virtù del tuo gran nume il movo,

così in virtù del tuo gran nume e' cade.

La mala volpe è ne la tana chiusa;

or le si darà il foco, ov'io vorrei

veder quante son femmine malvage

in un incendio solo arse e distrutte.

CORO Come se' grande, Amore,

di natura miracolo e del mondo!

qual cor sì rozzo o qual sì fiera gente

il tuo valor non sente?

ma qual sì scaltro ingegno e sì profondo

il tuo valor intende?

Chi sa gli ardori che 'l tuo foco accende,

importuni e lascivi,

dirà: "Spirto mortal, tu regni e vivi

ne la corporea salma".

Ma chi sa poi come a virtù l'amante

si desti e come soglia

farsi al suo foco, ogni sfrenata voglia

subito spenta, pallido e tremante,

dirà: "Spirto immortale, hai tu ne l'alma

il tuo solo e santissimo ricetto".

Raro mostro e mirabile, d'umano

e di divino aspetto;

di veder cieco e di saver insano;

di senso e d'intelletto,

di ragion e desio confuso affetto!

e tale, hai tu l'impero

de la terra e del ciel ch'a te soggiace.

Ma (dirol con tua pace)

miracolo più altèro

ha di te il mondo e più stupendo assai,

però che quanto fai

di maraviglia e di stupor tra noi,

tutto in virtù di bella donna puoi.

O donna, o don del cielo,

anzi pur di Colui

che 'l tuo leggiadro velo

fe', d'ambo creator, più bel di lui,

qual cosa non hai tu del ciel più bella?

Ne la sua vasta fronte,

mostruoso ciclope, un occhio ei gira,

non di luce a chi 'l mira,

ma d'alta cecità cagione e fonte.

Se sospira o favella,

com'irato leon rugge e spaventa;

e non più ciel, ma campo

di tempestosa ed orrida procella,

col fiero lampeggiar folgori avventa.

Tu col soave lampo

e con la vista angelica amorosa

di duo soli visibili e sereni,

l'anima tempestosa

di chi ti mira, acqueti e rassereni.

E suono e moto e lume

e valor e bellezza e leggiadria

fan sì dolce armonia nel tuo bel viso,

che 'l cielo invan presume

(se 'l cielo è pur men bel del paradiso)

di pareggiarsi a te, cosa divina.

E ben ha gran ragione

quell'altèro animale

ch'"uomo' s'appella ed a cui pur s'inchina

ogni cosa mortale,

se, mirando di te l'alta cagione,

t'inchina e cede; e, s'ei trionfa e regna,

non è perché di scettro o di vittoria

sii tu di lui men degna,

ma per maggior tua gloria,

ché quanto il vinto è di più pregio, tanto

più glorioso è di chi vince il vanto.

Ma che la tua beltate

vinca con l'uomo ancor l'umanitate,

oggi ne fa Mirtillo a chi nol crede

maravigliosa fede.

E mancava ben questo al tuo valore,

donna, di far senza speranza amore.

 

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Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.28.03