De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

Giovan Battista Guarini

IL PASTOR FIDO

Atto Primo

 [SCENA PRIMA] [SCENA SECONDA] [SCENA TERZA]

[SCENA QUARTA] [SCENA QUINTA]

 

AT.1, SC.1

SILVIO Ite, voi che chiudeste

l'orribil fèra, a dar l'usato segno

de la futura caccia; ite svegliando

gli occhi col corno e con la voce i còri.

Se fu mai ne l'Arcadia

pastor, di Cintia e de' suoi studi amico,

cui stimolasse il generoso petto

cura o gloria di selve,

oggi il mostri, e me segua

là dove in picciol giro,

ma largo campo al valor nostro, è chiuso

quel terribil cinghiale,

quel mostro di natura e de le selve,

quel sì vasto e sì fèro

e per le piaghe altrui

sì noto abitator de l'Erimanto,

strage de le campagne

e terror dei bifolchi. Ite voi dunque,

e non sol precorrete,

ma provocate ancora

col rauco suon la sonnacchiosa Aurora.

Noi, Linco, andiam a venerar gli dèi.

Con più sicura scorta

seguirem poi la destinata caccia.

Chi ben comincia, ha la metà de l'opra,

né si comincia ben se non dal cielo.

LINCO Lodo ben, Silvio, il venerar gli dèi,

ma il dar noia a coloro,

che son ministri degli dèi, non lodo.

Tutti dormono ancora

i custodi del tempio, i quai non hanno

più tempestivo o lucido orizzonte

de la cima del monte.

SILVIO A te, che forse non se' desto ancora,

par ch'ogni cosa addormentata sia.

LINCO O Silvio, Silvio! a che ti die' natura

ne' più begli anni tuoi

fior di beltà sì delicato e vago,

se tu se' tanto a calpestarlo intento?

Ché s'avess'io cotesta tua sì bella

e sì fiorita guancia,

"Addio, selve!" direi;

e seguendo altre fère

e la vita passando in festa e 'n gioco,

farei la state a l'ombra e 'l verno al foco.

SILVIO Così fatti consigli

non mi desti mai più: come se' ora

tanto da te diverso?

LINCO Altri tempi, altre cure.

Così certo farei, se Silvio fussi.

SILVIO Ed io, se fussi Linco.

Ma, perché Silvio sono,

oprar da Silvio e non da Linco i' voglio.

LINCO O garzon folle, a che cercar lontana

e perigliosa fèra,

se l'hai via più d'ogni altra

e vicina e domestica e sicura?

SILVIO Parli tu daddovero o pur vaneggi?

LINCO Vaneggi tu, non io.

SILVIO Ed è così vicina?

LINCO Quanto tu di te stesso.

SILVIO In qual selva s'annida?

LINCO La selva se' tu, Silvio,

e la fèra crudel, che vi s'annida,

è la tua feritate.

SILVIO Come ben m'avvisai che vaneggiavi!

LINCO Una ninfa sì bella e sì gentile,

ma che dissi una ninfa? anzi una dea,

più fresca e più vezzosa

di mattutina rosa,

e più molle e più candida del cigno,

per cui non è sì degno

pastor oggi tra noi che non sospiri,

e non sospiri in vano,

a te solo dagli uomini e dal cielo

destinata si serba;

ed oggi tu, senza sospiri e pianti,

o troppo indegnamente

garzon avventuroso! aver la puoi

ne le tue braccia, e tu la fuggi, Silvio?

e tu la sprezzi? e non dirò che 'l core

abbi di fèra, anzi di ferro il petto?

SILVIO Se 'l non aver amore è crudeltate,

crudeltate è virtute, e non mi pento

ch'ella sia nel mio cor, ma me ne pregio,

poi che solo con questa ho vinto Amore,

fèra di lei maggiore.

LINCO E come vinto l'hai

se nol provasti mai?

SILVIO Nol provando l'ho vinto. LINCO Oh! s'una sola

volta il provassi, o Silvio,

se sapessi una volta

qual è grazia e ventura

l'esser amato, il possedere amando

un riamante core,

so ben io che diresti!

"Dolce vita amorosa,

perché sì tardi nel mio cor venisti?"

Lascia, lascia le selve,

folle garzon; lascia le fère, ed ama.

SILVIO Linco, di' pur, se sai:

mille ninfe darei per una fèra

che da Melampo mio cacciata fosse.

Godasi queste gioie

chi n'ha di me più gusto; io non le sento.

LINCO E che sentirai tu, s'amor non senti,

sola cagion di ciò che sente il mondo?

Ma credimi, fanciullo:

a tempo il sentirai,

che tempo non avrai.

Vuol una volta Amor ne' còri nostri

mostrar quant'egli vale.

Credi a me pur, che 'l provo:

non è pena maggiore

che 'n vecchie membra il pizzicor d'amore,

ché mal si può sanar quel che s'offende,

quanto più di sanarlo altri procura.

Se 'l giovinetto core Amor ti pugne,

Amor anco te l'ugne:

se col duol il tormenta,

con la speme il consola;

e s'un tempo l'ancide, alfine il sana.

Ma s'e' ti giugne in quella fredda etade,

ove il proprio difetto

più che la colpa altrui spesso si piagne,

allora insopportabili e mortali

son le sue piaghe, allor le pene acerbe;

allora, se pietà tu cerchi, male

se non la trovi; e, se la trovi, peggio.

Deh! non ti procacciar prima del tempo

i difetti del tempo;

ché, se t'assale a la canuta etade

amoroso talento,

avrai doppio tormento,

e di quel che, potendo, non volesti,

e di quel che, volendo, non potrai.

Lascia, lascia le selve,

folle garzon; lascia le fère, ed ama.

SILVIO Come vita non sia

se non quella che nutre

amorosa insanabile follia!

LINCO Dimmi: se 'n questa sì ridente e vaga

stagion che 'nfiora e rinnovella il mondo,

vedessi, in vece di fiorite piagge,

di verdi prati e di vestite selve,

starsi il pino e l'abete e il faggio e l'orno

senza l'usata lor frondosa chioma,

senz'erbe i prati e senza fiori i poggi,

non diresti tu, Silvio: "Il mondo langue,

la natura vien meno?". Or quell'orrore

e quella maraviglia, che devresti

di novità sì mostruosa avere,

abbila di te stesso. Il ciel n'ha dato

vita agli anni conforme, ed a l'etate

somiglianti costumi; e, come Amore

in canuti pensier si disconvene,

così la gioventù d'amor nemica

contrasta al ciel e la natura offende.

Mira d'intorno, Silvio:

quanto il mondo ha di vago e di gentile,

opra è d'Amore. Amante è il cielo, amante

la terra, amante il mare.

Quella, che là su miri innanzi a l'alba

così leggiadra stella,

ama d'amor anch'ella e del suo figlio

sente le fiamme, ed essa, che 'nnamora,

innamorata splende.

E questa è forse l'ora

che le furtive sue dolcezze e 'l seno

del caro amante lassa.

Vedila pur come sfavilla e ride.

Amano per le selve

le mostruose fère; aman per l'onde

i veloci delfini e l'orche gravi.

Quell'augellin, che canta

sì dolcemente e lascivetto vola

or da l'abete al faggio

ed or dal faggio al mirto,

s'avesse umano spirto,

direbbe: "Ardo d'amore, ardo d'amore".

Ma ben arde nel core

e parla in sua favella,

sì che l'intende il suo dolce desio.

Ed odi a punto, Silvio,

il suo dolce desio

che gli risponde: "Ardo d'amore anch'io".

Mugge in mandra l'armento, e que' muggiti

sono amorosi inviti.

Rugge il leone al bosco,

né quel ruggito è d'ira:

così d'amor sospira.

Alfine, ama ogni cosa,

se non tu, Silvio; e sarà Silvio solo

in cielo, in terra, in mare

anima senza amore?

Deh! lascia omai le selve,

folle garzon; lascia le fère, ed ama.

SILVIO A te dunque commessa

fu la mia verde età, perché d'amori

e di pensieri effeminati e molli

tu l'avessi a nudrir? né ti sovviene

chi se' tu, chi son io?

LINCO Uomo sono, e mi pregio

d'esser umano; e teco, che se' uomo,

o che più tosto esser dovresti, parlo

di cosa umana; e, se di cotal nome

forse ti sdegni, guarda

che nel disumanarti

non divenghi una fèra, anzi che un dio.

SILVIO Né sì famoso mai né mai sì forte

stato sarebbe il domator de' mostri,

dal cui gran fonte il sangue mio deriva,

s'e' non avesse pria domato Amore.

LINCO Vedi, cieco fanciul, come vaneggi!

Dove saresti tu, dimmi, s'amante

stato non fosse il tuo famoso Alcide?

Anzi, se guerre vinse e mostri ancise,

gran parte Amor ve n'ebbe. Ancor non sai

che, per piacer ad Onfale, non pure

volle cangiar in femminili spoglie

del feroce leon l'ispido tergo,

ma, de la clava noderosa in vece,

trattare il fuso e la conocchia imbelle?

Così de le fatiche e degli affanni

prendea ristoro, e nel bel sen di lei,

quasi in porto d'Amor, solea ritrarsi,

ché sono i suoi sospir dolci respiri

de le passate noie e quasi acuti

stimoli al cor ne le future imprese.

E come il rozzo ed intrattabil ferro,

temprato con più tenero metallo,

affina sì, che sempre e più resiste

e per uso più nobile s'adopra;

così vigor indomito e feroce,

che nel proprio furor spesso si rompe,

se con le sue dolcezze Amor il tempra,

diviene a l'opra generoso e forte.

Se d'esser dunque imitator tu brami

d'Ercole invitto e suo degno nipote,

poi che lasciar non vuoi le selve, almeno

segui le selve e non lasciar Amore,

un amor sì legittimo e sì degno,

com'è quel d'Amarilli. Che se fuggi

Dorinda, i' te ne scuso, anzi pur lodo,

ch'a te, vago d'onore, aver non lice

di furtivo desio l'animo caldo,

per non far torto a la tua cara sposa.

SILVIO Che di' tu, Linco? ancor non è mia sposa.

LINCO Da lei dunque la fede

non ricevesti tu solennemente?

Guarda, garzon superbo,

non irritar gli dèi.

SILVIO L'umana libertate è don del cielo,

che non fa forza a chi riceve forza.

LINCO Anzi, se tu l'ascolti e ben l'intendi,

a questo il ciel ti chiama,

il ciel ch'a le tue nozze

tante grazie promette e tanti onori.

SILVIO Altro pensiero appunto

i sommi dèi non hanno! appunto questa

l'almo riposo lor cura molesta!

Linco, né questo amor né quel mi piace.

Cacciator, non amante, al mondo nacqui.

Tu, che seguisti Amor, torna al riposo.

LINCO Tu derivi dal cielo,

crudo garzon? Né di celeste seme

ti cred'io, né d'umano;

e, se pur se' d'umano, io giurerei

che tu fussi più tosto

col velen di Tisifone e d'Aletto

che col piacer di Venere concetto.

AT.1, SC.2

MIRT. Cruda Amarilli, che col nome ancora,

d'amar, ahi lasso! amaramente insegni;

Amarilli, del candido ligustro

più candida e più bella,

ma de l'àspido sordo

e più sorda e più fèra e più fugace;

poi che col dir t'offendo,

i' mi morrò tacendo;

ma grideran per me le piagge e i monti

e questa selva, a cui

sì spesso il tuo bel nome

di risonare insegno.

Per me piagnendo i fonti

e mormorando i venti,

diranno i miei lamenti;

parlerà nel mio volto

la pietate e 'l dolore;

e, se fia muta ogn'altra cosa, al fine

parlerà il mio morire,

e ti dirà la Morte il mio martìre.

ERG. Mirtillo, Amor fu sempre un fier tormento,

ma più, quanto è più chiuso;

però ch'egli dal freno,

ond'è legata un'amorosa lingua,

forza prende e s'avanza;

e più fiero è prigion, che non è sciolto.

Già non dovevi tu sì lungamente

celarmi la cagion de la tua fiamma,

se la fiamma celar non mi potevi.

Quante volte l'ho detto: "Arde Mirtillo,

ma in chiuso foco e' si consuma e tace".

MIRT. Offesi me per non offender lei,

cortese Ergasto, e sarei muto ancora;

ma la necessità m'ha fatto ardito.

Odo una voce mormorar d'intorno,

che per l'orecchie mi ferisce il core,

de le vicine nozze d'Amarilli.

Ma chi ne parla, ogni altra cosa tace,

ed io più innanzi ricercar non oso,

sì per non dar altrui di me sospetto,

come per non trovar quel che pavento.

So ben, Ergasto, e non m'inganna Amore,

ch'a la mia bassa e povera fortuna

sperar non lice in alcun tempo mai

che ninfa sì leggiadra e sì gentile,

e di sangue e di spirto e di sembiante

veramante divina, a me sia sposa.

Ben conosco il tenor de la mia stella;

nacqui solo a le fiamme, e 'l mio destino

d'arder mi feo, non di gioirne, degno.

Ma, poi ch'era ne' fati ch'io dovessi

amar la morte e non la vita mia,

vorrei morir almen, sì che la morte

da lei, che n'è cagion, gradita fosse,

né si sdegnasse a l'ultimo sospiro

di mostrarmi i begli occhi e dirmi: "Muori!".

Vorrei, prima che passi a far beato

de le sue nozze altrui, ch'ella m'udisse

almen sola una volta. Or, se tu m'ami

ed hai di me pietate, in ciò t'adopra,

cortesissimo Ergasto, in ciò m'aita.

ERG. Giusto desio d'amante e di chi muore

lieve mercé, ma faticosa impresa.

Misera lei, se risapesse il padre,

ch'ella a prieghi furtivi avesse mai

inchinate l'orecchie, o pur ne fosse

al sacerdote suocero accusata!

Per questo forse ella ti fugge, e forse

t'ama, ancor che nol mostri, ché la donna

nel desiar è ben di noi più frale,

ma nel celar il suo desio più scaltra.

E, se fosse pur ver ch'ella t'amasse,

che potrebbe altro far se non fuggirti?

Chi non può dar aita, indarno ascolta,

e fugge con pietà chi non s'arresta

senz'altrui pena; ed è sano consiglio

tosto lasciar quel che tener non puoi.

MIRT. Oh, se ciò fosse vero, o s'io 'l credessi,

care mie pene e fortunati affanni!

Ma, se ti guardi il ciel, cortese Ergasto,

non mi tacer qual è il pastor tra noi

felice tanto e de le stelle amico.

ERG. Non conosci tu Silvio, unico figlio

di Montan, sacerdote di Diana,

sì famoso pastore oggi e sì ricco?

quel garzon sì leggiadro? Quegli è desso.

MIRT. Fortunato fanciul, che 'l tuo destino

trovi maturo in così acerba etate!

Né te l'invidio, no; ma piango il mio.

ERG. E veramente invidiar nol dèi,

ché degno è di pietà più che d'invidia.

MIRT. E perché di pietà? ERG. Perché non l'ama.

MIRT. Ed è vivo? ed ha core? e non è cieco?

Benché, se dritto miro,

a lei per altro core

non restò fiamma più, quando nel mio

spirò da que' begli occhi

tutte le fiamme sue, tutti gli amori.

Ma perché dar sì preziosa gioia

a chi non la conosce? a chi la sprezza?

ERG. Perché promette a queste nozze il cielo

la salute d'Arcadia. Non sai dunque

che qui si paga ogn'anno a la gran dea

de l'innocente sangue d'una ninfa

tributo miserabile e mortale?

MIRT. Unqua più non l'udii: e ciò m'è nuovo,

ché nuovo ancora abitator qui sono

e, come vuol Amore e 'l mio destino,

quasi pur sempre abitator de' boschi.

Ma qual peccato il meritò sì grave?

Come tant'ira un cor celeste accoglie?

ERG. Ti narrerò de le miserie nostre

tutta da capo la dolente istoria,

che trar porria da queste dure querci

pianto e pietà, non che dai petti umani.

In quella età che 'l sacerdozio santo

e la cura del tempio ancor non era

a sacerdote giovane contesa,

un nobile pastor chiamato Aminta,

sacerdote in quel tempo, amò Lucrina,

ninfa leggiadra a maraviglia e bella,

ma senza fede a maraviglia e vana.

Gradì costei gran tempo, o 'l mostrò forse

con simulati e perfidi sembianti,

del giovane amoroso il puro affetto

e di false speranze anco nudrillo,

misero! mentre alcun rival non ebbe.

Ma, non sì tosto (or vedi instabil donna!)

rustico pastorel l'ebbe guatata,

che i primi sguardi non sostenne, i primi

sospiri, e tutta al nuovo amor si diede,

prima che gelosia sentisse Aminta.

Misero Aminta, che da lei fu poscia

e sprezzato e fuggito sì, ch'udirlo

né vederlo mai più l'empia non volle.

Se piagnesse il meschin, se sospirasse,

pensal tu, che per prova intendi amore.

MIRT. Oimè, questo è 'l dolor ch'ogn'altro avanza.

ERG. Ma, poi che dietro al cor perduto, ebbe anco

i sospiri perduti e le querele,

vòlto, pregando, a la gran dea: "Se mai"

disse "con puro cor, Cintia, se mai

con innocente man fiamma t'accesi,

vendica tu la mia, sotto la fede

di bella ninfa e perfida tradita".

Udì del fido amante e del suo caro

sacerdote Diana i prieghi e 'l pianto,

tal che, ne la pietà l'ira spirando,

fe' lo sdegno più fiero; ond'ella prese

l'arco possente e saettò nel seno

de la misera Arcadia non veduti

strali ed inevitabili di morte.

Perìan senza pietà, senza soccorso

d'ogni sesso le genti e d'ogni etate;

vani erano i rimedi, il fuggir tardo;

inutil l'arte, e, prima che l'infermo,

spesso ne l'opra il medico cadea.

Restò solo una speme, in tanti mali,

del soccorso del cielo e s'ebbe tosto

al più vicino oracolo ricorso,

da cui venne risposta assai ben chiara,

ma sopramodo orribile e funesta:

"Che Cintia era sdegnata e che placarla

si sarebbe potuto, se Lucrina,

perfida ninfa, o vero altri per lei

di nostra gente, a la gran dea si fosse

per man d'Aminta in sacrificio offerta".

La qual, poi ch'ebbe indarno pianto e 'ndarno

dal suo nuovo amator soccorso atteso,

fu con pompa solenne al sacro altare

vittima lagrimevole condotta,

dove, a que' piè che la seguîro in vano

già tanto, ai piè de l'amator tradito

le tremanti ginocchia alfin piegando,

dal giovane crudel morte attendea.

Strinse intrepido Aminta il sacro ferro

e parea ben che da l'accesa labbia

spirasse ira e vendetta. Indi, a lei vòlto,

disse con un sospir, nunzio di morte:

"Da la miseria tua, Lucrina, mira

qual amante seguisti e qual lasciasti,

miral da questo colpo". E, così detto,

ferì se stesso e nel sen proprio immerse

tutto 'l ferro, ed esangue in braccio a lei,

vittima e sacerdote in un, cadeo.

A sì fèro spettacolo e sì nuovo

instupidì la misera donzella

tra viva e morta, e non ben certa ancora

d'esser dal ferro o dal dolor trafitta.

Ma, come prima ebbe la voce e 'l senso,

disse piagnendo: "O fido, o forte Aminta,

o troppo tardi conosciuto amante,

che m'hai data, morendo, e vita e morte,

se fu colpa il lasciarti, ecco l'ammendo

con l'unir teco eternamente l'alma".

E, questo detto, il ferro stesso, ancora

del caro sangue tiepido e vermiglio,

tratto dal morto e tardi amato petto,

il suo petto trafisse e sopra Aminta,

che morto ancor non era e sentì forse

quel colpo, in braccio si lasciò cadere.

Tal fine ebber gli amanti; a tal miseria

troppo amor e perfidia ambidue trasse.

MIRT. O misero pastor, ma fortunato,

ch'ebbe sì largo e sì famoso campo

di mostrar la sua fede e di far viva

pietà ne l'altrui cor con la sua morte!

Ma che seguì de la cadente turba?

trovò fine il suo mal? placossi Cintia?

ERG. L'ira s'intiepidì, ma non s'estinse,

ché, dopo l'anno, in quel medesmo tempo,

con ricaduta più spietata e fiera

incrudelì lo sdegno, onde, di nuovo

per consiglio a l'oracolo tornando,

si riportò de la primiera assai

più dura e lagrimevole risposta:

"Che si sacrasse allora e poscia ogn'anno

vergine o donna a la sdegnata dea,

che 'l terzo lustro empiesse ed oltre al quarto

non s'avanzasse; e così d'una il sangue

l'ira spegnesse apparecchiata a molti".

Impose ancora a l'infelice sesso

una molto severa e, se ben miri

la sua natura, inosservabil legge,

legge scritta col sangue: "Che qualunque

donna o donzella abbia la fé d'amore,

come che sia, contaminata o rotta,

s'altri per lei non muore, a morte sia

irremissibilmente condannata".

A questa, dunque, sì tremenda e grave

nostra calamità spera il buon padre

di trovar fin con le bramate nozze.

Però che dopo alquanto tempo, essendo

ricercato l'oracolo qual fine

prescritto avesse a' nostri danni il cielo;

ciò ne predisse in cotai voci appunto:

"Non avrà prima fin quel che v'offende,

che duo semi del ciel congiunga Amore;

e di donna infedel l'antico errore

l'alta pietà d'un pastor fido ammende".

Or ne l'Arcadia tutta altri rampolli

di celesti radici oggi non sono,

che Silvio ed Amarillide, ché l'una

vien del seme di Pan, l'altro d'Alcide;

né per nostra sciagura in altro tempo

s'incontraron già mai femmina e maschio,

com'or, de le due schiatte; e però quinci

di sperar bene ha gran ragion Montano.

E, benché tutto quel che ci promette

la risposta fatale, ancor non segua,

pur questo è 'l fondamento. Il resto poi

ha negli abissi suoi nascosto il Fato,

e sarà parto un dì di queste nozze.

MIRT. Oh sfortunato e misero Mirtillo!

tanti fieri nemici,

tant'armi e tanta guerra

contra un cor moribondo?

Non bastava Amor solo,

se non s'armava a le mie pene il Fato?

ERG. Mirtillo, il crudo Amore

si pasce ben, ma non si sazia mai,

di lagrime e dolore.

Andiamo. I' ti prometto

di porre ogni mio ingegno

perché la bella ninfa oggi t'ascolti;

tu dàtti pace intanto.

Non son, come a te pare,

questi sospiri ardenti

refrigerio del core;

ma son più tosto impetuosi venti

che spiran ne l'incendio e 'l fan maggiore

con turbini d'Amore,

ch'apportan sempre ai miserelli amanti

foschi nembi di duol, piogge di pianti.

AT.1, SC.3

COR. Chi vide mai, chi mai udì più strana

e più folle e più fèra e più importuna

passione amorosa? amore e odio

con sì mirabil tempre in un cor misti,

che l'un per l'altro, e non so ben dir come,

e si strugge e s'avanza e nasce e muore.

S'i' miro a le bellezze di Mirtillo,

dal piè leggiadro al grazioso volto,

il vago portamento, il bel sembiante,

gli atti, i costumi e le parole e 'l guardo;

m'assale Amor con sì possente foco,

ch'i' ardo tutta, e par ch'ogn'altro affetto

da questo sol sia superato e vinto.

Ma, se poi penso a l'ostinato amore

ch'ei porta ad altra donna, e che per lei

di me non cura, e sprezza, il vo' pur dire,

la mia famosa e da mill'alme e mille

inchinata beltà, bramata grazia,

l'odio così, così l'abborro e schivo,

ch'impossibil mi par ch'unqua per lui

mi s'accendesse al cor fiamma amorosa.

Talor meco ragiono: "Oh, s'i' potessi

gioir del mio dolcissimo Mirtillo,

sì che fosse mio tutto, e ch'altra mai

nol potesse godere, oh più d'ogn'altra,

beata e felicissima Corisca!".

Ed in quel punto in me sorge un talento

verso di lui sì dolce e sì gentile,

che di seguirlo e di pregarlo ancora

e di scoprirgli il cor prendo consiglio.

Che più? Così mi stimola il desio,

che, se potessi, allor l'adorerei.

Da l'altra parte, i' mi risento e dico:

"Un ritroso? uno schifo? un che non degna?

un che può d'altra donna essere amante?

un ch'ardisce mirarmi e non m'adora?

e dal mio volto si difende in guisa

che per amor non more? Ed io, che lui

devrei veder come molti altri i' veggio,

supplice e lagrimoso ai piedi miei;

supplice e lagrimosa a' piedi suoi

sosterrò di cadere? Ah, non fia mai!".

Ed in questo pensier tant'ira accoglio

contra di lui, contra di me che volsi

a seguirlo il pensier, gli occhi a mirarlo,

che 'l nome di Mirtillo e l'amor mio

odio più che la morte, e lui vorrei

vedere il più dolente, il più infelice

pastor che viva; e, se potessi, allora

con le mie proprie man l'anciderei.

Così sdegno e desire, odio ed amore

mi fanno guerra, ed io, che stata sono

sempre fin qui di mille cor la fiamma,

di mill'alme il tormento, ardo e languisco,

e provo nel mio mal le pene altrui;

io che tant'anni in cittadina schiera

di vezzosi, leggiadri e degni amanti

fui sempre insuperabile, schernendo

tante speranze lor, tanti desiri,

or da rustico amor, da vile amante,

da rozzo pastorel son presa e vinta.

Oh più d'ogn'altra misera Corisca,

che sarebbe di te, se sprovveduta

ti trovassi or d'amante? che faresti

per mitigar quest'amorosa rabbia?

Impari a le mie spese oggi ogni donna

a far conserva e cumulo d'amanti.

S'altro ben non avessi, altro trastullo

che l'amor di Mirtillo, non sarei

ben fornita di vago? Oh mille volte

malconsigliata donna, che si lascia

ridurre in povertà d'un solo amore!

Sì sciocca mai non sarà già Corisca.

Che fede? che costanza? imaginate

favole de' gelosi e nomi vani

per ingannar le semplici fanciulle.

La fede in cor di donna, se pur fede

in donna alcuna, ch'io nol so, si trova,

non è bontà, non è virtù, ma dura

necessità d'Amor, misera legge

di fallita beltà, ch'un sol gradisce,

perché gradita esser non può da molti.

Bella donna e gentil, sollecitata

da numeroso stuol di degni amanti,

se d'un solo è contenta e gli altri sprezza,

o non è donna o, s'è pur donna, è sciocca.

Che val beltà non vista? o, se pur vista,

non vagheggiata? e, se pur vagheggiata,

vagheggiata da un solo? E quanto sono

più frequenti gli amanti e di più pregi,

tanto ella d'esser gloriosa e rara

pegno nel mondo ha più sicuro certo.

La gloria e lo splendor di bella donna

è l'aver molti amanti. Così fanno

ne le cittadi ancor le donne accorte,

e 'l fan più le più belle e le più grandi.

Rifiutare un amante, appresso a loro,

è peccato e sciocchezza, e quel, ch'un solo

far non può, molti fanno: altri a servire,

altri a donare, altri ad altr'uso è buono;

e spesso avvien che, nol sapendo, l'uno

scaccia la gelosia che l'altro diede,

o la risveglia in tal che pria non l'ebbe.

Così ne le città vivon le donne

amorose e gentili, ov'io col senno

e con l'esempio già di donna grande

l'arte di ben amar, fanciulla, appresi.

"Corisca" mi dicea "si vuole appunto

far degli amanti quel che delle vesti:

molti averne, un goderne, e cangiar spesso,

ché 'l lungo conversar genera noia,

e la noia disprezzo ed odio alfine.

Né far peggio può donna, che lasciarsi

svogliar l'amante: fa' pur ch'egli parta

fastidito da te, non di te mai".

E così sempre ho fatto. Amo d'averne

gran copia, e li trattengo, ed honne sempre

un per mano, un per occhio; ma di tutti

il migliore e 'l più comodo nel seno;

e, quanto posso più, nel cor nessuno.

Ma, non so come, a questa volta, ahi lassa!

v'è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta

sì, che a forza sospiro, e, quel ch'è peggio,

di me sospiro, e non inganno altrui,

e le membra al riposo e gli occhi al sonno

furando anch'io, so desiar l'aurora,

felicissimo tempo degli amanti

poco tranquilli. Ed ecco, io vo per queste

ombrose selve anch'io cercando l'orme

de l'odiato mio dolce desio.

Ma che farai, Corisca? il pregherai?

No, ché l'odio non vuol, bench'io 'l volessi.

Il fuggirai? né questo Amor consente,

benché far il devrei. Che farò dunque?

Tenterò prima le lusinghe e i prieghi,

e scoprirò l'amor, ma non l'amante;

se ciò non giova, adoprerò l'inganno;

e, se questo non può, farà lo sdegno

vendetta memorabile. Mirtillo,

se non vorrai amor, proverai odio;

ed Amarilli tua farò pentire

d'esser a me rivale, a te sì cara;

e finalmente proverete entrambi

quel che può sdegno in cor di donna amante.

AT.1, SC.4

TIT. Vagliami il ver, Montano: i' so che parlo

a chi di me più intende. Oscuri sempre

sono assai più gli oracoli di quello

ch'altri si crede, e le parole loro

sono come il coltel, che, se tu 'l prendi

in quella parte ove per uso umano

la man s'adatta, a chi l'adopra è buono;

ma chi 'l prende ove fere, è spesso morte.

Ch'Amarillide mia, come argomenti,

sia per alto destin dal cielo eletta

a la salute universal d'Arcadia,

chi più deve bramarlo e caro averlo

di me, che le son padre? Ma, s'i' miro

a quel che n'ha l'oracolo predetto,

mal si confanno a la speranza i segni.

S'unir li deve Amor, come fia questo,

se fugge l'un? com'esser pòn gli stami

d'amoroso ritegno odio e disprezzo?

Mal si contrasta quel ch'ordina il cielo;

e, se pur si contrasta, è chiaro segno

che non l'ordina il cielo, a cui, se pure

piacesse ch'Amarillide consorte

fosse di Silvio tuo, più tosto amante

lui fatto avria che cacciator di fère.

MONT. Non vedi tu com'è fanciullo? ancora

non ha fornito il diciottesim'.

Ben sentirà col tempo anch'egli amore.

TIT. E 'l può sentir di fèra e non di ninfa?

MONT. A giovinetto cor più si conface.

TIT. E non amor, ch'è naturale affetto?

MONT. Ma senza gli anni è natural difetto.

TIT. Sempre e' fiorisce alla stagion più verde.

MONT. Può ben, forse, fiorir, ma senza frutto.

TIT. Col fior, maturo ha sempre il frutto amore.

Qui non venn'io né per garrir, Montano,

né per contender teco, ché né posso

né fare il debbo; ma son padre anch'io

d'unica e cara e, se mi lece dirlo,

meritevole figlia e, con tua pace,

da molti chiesta e desiata ancora.

MONT. Titiro, ancor che queste nozze in cielo

non iscorgesse alto destìn, le scorge

la fede in terra, e 'l violarla fôra

un violar de la gran Cintia il nume

a cui fu data; e tu sai pur quant'ella

è disdegnosa e contra noi sdegnata.

Ma, per quel ch'i' ne sento e quanto puote

mente sacerdotal rapita al cielo

spiar là su di que' consigli eterni,

per man del Fato è questo nodo ordito;

e tutti sortiranno, abbi pur fede,

a suo tempo maturi anco i presagi.

Più ti vo' dir, ché questa notte in sogno

veduto ho cosa onde l'antica speme

più che mai nel mio cor si rinnovella.

TIT. Son i sogni alfin sogni. E che vedesti?

MONT. Io credo ben ch'abbi memoria (e quale

sì stupido è tra noi ch'oggi non l'abbia?)

di quella notte lagrimosa, quando

il tumido Ladon ruppe le sponde,

sì che là dove avean gli augelli il nido,

notâro i pesci, e in un medesmo corso

gli uomini e gli animali

e le mandre e gli armenti

trasse l'onda rapace.

In quella stessa notte

(oh dolente memoria!) il cor perdei,

anzi quel che del core

m'era più caro assai,

bambin tenero in fasce,

unico figlio allora, e da me sempre

e vivo e morto unicamente amato.

Rapillo il fier torrente

prima che noi potessimo, sepolti

nel terror, ne le tenebre e nel sonno,

provar di dargli alcun soccorso a tempo;

né pur la culla stessa, in cui giacea,

trovar potemmo, ed ho creduto sempre

che la culla e 'l bambin, così com'era,

una stessa voragine inghiottisse.

TIT. Che altro si può credere? ben parmi

d'aver inteso ancora, e da te, forse,

di questa tua sciagura, veramente

sciagura memorabile ed acerba;

e puoi ben dir che di duo figli, l'uno

generasti a le selve e l'altro a l'onde.

MONT. Forse nel vivo il ciel pietoso ancora

ristorerà la perdita del morto.

Sperar ben si dé' sempre. Or tu m'ascolta.

Era quell'ora a punto

che, tra la notte e 'l dì, tenebre e lume

col fosco raggio ancor l'alba confonde;

quand'io, pur nel pensiero

di queste nozze avendo

vegghiata una gran parte della notte,

alfin lunga stanchezza

recò negli occhi miei placido sonno,

e con quel sonno vision sì certa,

che di vegghiar dormendo

avrei potuto dire.

Sopra la riva del famoso Alfeo

seder pareami a l'ombra

d'un platano frondoso,

e con l'amo tentar ne l'onda i pesci,

ed uscire in quel punto

di mezzo 'l fiume un vecchio ignudo e grave,

tutto stillante il crin, stillante il mento,

e con ambe le mani

benignamente porgermi un bambino

ignudo e lagrimoso,

dicendo: "Ecco 'l tuo figlio;

guarda che non l'ancidi";

e, questo detto, tuffarsi ne l'onde.

Indi tutto repente

di foschi nembi il ciel turbarsi intorno

e minacciarmi orribile procella,

tal ch'io per la paura

strinsi il bambino al seno,

gridando. "Ah! dunque un'ora

mel dona e mel ritoglie?".

Ed in quel punto parve

che d'ogn'intorno il ciel si serenasse,

e cadesser nel fiume

fulmini inceneriti

ed archi e strali rotti a mille a mille;

indi tremasse il tronco

del platano e n'uscisse,

formato in voce, spirito sottile

che, stridendo, dicesse in sua favella:

"Montano, Arcadia tua sarà ancor bella".

E così m'è rimaso

nel cor, negli occhi e ne la mente impressa

l'imagine gentil di questo sogno,

ch'i' l'ho sempre dinanzi;

e sopra tutto il volto

di quel cortese veglio,

che mi par di vederlo.

Per questo i' men venìa diritto al tempio,

quando tu m'incontrasti,

per quivi far col sacrificio santo

de la mia vision l'augurio certo.

TIT. Son veramente i sogni

de le nostre speranze,

più che de l'avvenir, vane sembianze,

imagini del dì guaste e corrotte

da l'ombra de la notte.

MONT. Non è sempre co' sensi

l'anima addormentata;

anzi tanto è più desta,

quanto men traviata

da le fallaci forme

del senso, allor che dorme.

TIT. Insomma, quel che s'abbia il ciel disposto

de' nostri figli, è troppo incerto a noi;

ma certo è ben che 'l tuo sen fugge e contra

la legge di natura amor non sente;

e che la mia fin qui l'obbligo solo

ha de la data fé, non la mercede.

Né so già dir se senta amor; so bene

ch'a molti il fa sentire,

né possibil mi par ch'ella nol provi,

se 'l fa provar altrui.

Ben mi par di vederla

più de l'usato suo cangiata in vista,

ché ridente e festosa

già tutta esser solea.

Ma l'invaghir donzella

senza nozze a le nozze, è grave offesa.

Come in vago giardin rosa gentile,

che ne le verdi sue tenere spoglie

pur dianzi era rinchiusa

e sotto l'ombra del notturno velo

incolta e sconosciuta

stava posando in sul materno stelo,

al subito apparir del primo raggio

che spunti in oriente,

si desta e si risente

e scopre al sol, che la vagheggia e mira,

il suo vermiglio ed odorato seno,

dov'ape, susurrando,

nei mattutini albori

vola suggendo i rugiadosi umori;

ma, s'allor non si coglie,

sì che del mezzodì senta le fiamme,

cade al cader del sole

sì scolorita in su la siepe ombrosa,

ch'a pena si può dir: "Questa fu rosa!"

così la verginella,

mentre cura materna

la custodisce e chiude,

chiude anch'ella il suo petto

a l'amoroso affetto;

ma, se lascivo sguardo

di cupido amator vien che la miri,

e n'oda ella i sospiri,

gli apre subito il core

e nel tenero sen riceve amore;

e se vergogna il cela

o temenza l'affrena,

la misera, tacendo,

per soverchio desio tutta si strugge.

Così manca beltà, se 'l foco dura,

e, perdendo stagion, perde ventura.

MONT. Titiro, fa' buon core;

non t'avvilir ne le temenze umane,

ché bene inspira il cielo

quel cor che bene spera;

né può giunger là sù fiacca preghiera.

E, s'ognun dé' pregare

ove 'l bisogno sia

e sperar negli dèi,

quanto più ciò conviene

a chi da lor deriva!

Son pure i nostri figli

propagini celesti:

non spegnerà il suo seme

chi fa crescer l'altrui.

Andiam, Titiro, andiamo

unitamente al tempio e sacreremo,

tu il capro a Pane ed io

ad Ercole il torello.

Chi feconda l'armento,

feconderà ben anche

colui che con l'armento

feconda i sacri altari.

Tu va', fido Dameta:

scegli tosto un torello,

di quanti n'abbia la feconda mandra

il più morbido e bello;

e per la via del monte, assai più breve,

fa ch'io l'abbia nel tempio, ov'io t'attendo.

TIT. E da la greggia mia, caro Dameta,

conduci un irco. DAM. I' farò l'uno e l'altro.

TIT. Questo sogno, Montano,

piaccia a l'alta bontà de' sommi dèi

che fortunato sia quanto tu speri.

So ben io, so ben io

quant'esser può del tuo perduto figlio

la rimembranza a te felice augurio.

AT.1, SC.5.

SAT. Come il gelo a le piante, ai fior l'arsura,

la grandine a le spiche, ai semi il verme,

le reti ai cervi ed agli augelli il visco,

così nemico a l'uom fu sempre Amore.

E chi "foco' chiamollo, intese molto

la sua natura perfida e malvagia,

ché, se 'l foco si mira, oh come è vago!

ma, se si tocca, oh come è crudo! Il mondo

non ha di lui più spaventevol mostro.

Come fèra divora e come ferro

pugne e trapassa, e come vento vola;

e dove il piede imperioso ferma,

cede ogni forza, ogni poter dà loco.

Non altramenti Amor: ché, se tu 'l miri

in duo begli occhi, in una treccia bionda,

oh come alletta e piace; oh come pare

che gioia spiri e pace altrui prometta!

Ma, se troppo t'accosti e troppo il tenti,

sì che serper cominci e forza acquisti,

non ha tigre l'Ircania e non ha Libia

leon sì fèro e sì pestifero angue,

che la sua ferità vinca o pareggi.

Crudo più che l'inferno e che la morte,

nemico di pietà, ministro d'ira,

è finalmente Amor privo d'amore.

Ma che parlo di lui? perché l'incolpo?

E` forse egli cagion di ciò che 'l mondo,

amando no, ma vaneggiando, pecca?

O femminil perfidia, a te si rechi

la cagion pur d'ogni amorosa infamia;

da te sola deriva, e non da lui,

quanto ha di crudo e di malvagio Amore,

ché 'n sua natura placido e benigno,

teco ogni sua bontà subito perde.

Tutte le vie di penetrar nel seno

e di passar al cor tosto gli chiudi,

sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido

e tua cura e tua pompa e tuo diletto

la scorza sol d'un miniato volto.

Né già son l'opre tue gradir con fede

la fede di chi t'ama, e con chi t'ama

contender ne l'amare, ed in duo petti

stringer un core e 'n duo voleri un'alma;

ma tinger d'oro un'insensata chioma,

e d'una parte in mille nodi attorta,

infrascarne la fronte; indi con l'altra,

tessuta in rete e 'n quelle frasche involta,

prender il cor di mille incauti amanti.

Oh come è indegna e stomachevol cosa

il vederti talor con un pennello

pinger le guance ed occultar le mende

di natura e del tempo; e veder come

il livido pallor fai parer d'ostro,

le rughe appiani e 'l bruno imbianchi e togli

col difetto il difetto, anzi l'accresci!

Spesso un filo incrocicchi, e l'un de' capi

co' denti afferri, e con la man sinistra

l'altro sostieni, e del corrente nodo

con la destra fai giro, e l'apri e stringi

quasi radente forfice, e l'adatti

su l'inegual lanuginosa fronte;

indi radi ogni piuma e svelli insieme

il malcrescente e temerario pelo

con tal dolor, ch'è penitenza il fallo.

Ma questo è nulla, ancor che tanto: a l'opre

sono i costumi somiglianti e i vezzi.

Qual cosa hai tu, che non sia tutta finta?

S'apri la bocca, menti; e se sospiri,

son mentiti i sospir; se movi gli occhi,

è simulato il guardo. Insomma ogn'atto,

ogni sembiante, e ciò che in te si vede

e ciò che non si vede, o parli o pensi

o vadi o miri o pianga o rida o canti,

tutto è menzogna. E questo ancora è poco.

Ingannar più chi più si fida, e meno

amar chi più n'è degno; odiar la fede

più della morte assai: queste son l'arti

che fan sì crudo e sì perverso Amore.

Dunque d'ogni suo fallo è tua la colpa,

anzi pur ella è sol di chi ti crede.

Dunque la colpa è mia, che ti credei,

malvagia e perfidissima Corisca,

qui per mio danno sol, cred'io, venuta

da le contrade scelerate d'Argo,

ove lussuria fa l'ultima prova.

Ma sì ben figni e sì sagace e scorta

se' nel celar altrui l'opre e i pensieri,

che tra le più pudiche oggi ten vai,

del nome indegno d'onestate altèra.

Oh quanti affanni ho sostenuti, oh quante,

per questa cruda, indignità sofferte!

Ben me ne pento, anzi vergogno. Impara

da le mie pene, o malaccorto amante:

non far idolo un volto, ed a me credi:

donna adorata un nume è de l'inferno.

Di sé tutto presume e del suo volto

sovra te che l'inchini; e, quasi dea,

come cosa mortal ti sdegna e schiva,

ché d'esser tal per suo valor si vanta

qual tu per tua viltà la figni ed orni.

Che tanta servitù? che tanti preghi,

tanti pianti e sospiri? Usin quest'armi

le femmine e i fanciulli: i nostri petti

sien anche ne l'amar virili e forti.

Un tempo anch'io credei che, sospirando

e piangendo e pregando, in cor di donna

si potesse destar fiamma d'amore.

Or me n'avveggio: errai; ché, s'ella il core

ha di duro macigno, indarno tenti

che per lagrima molle o lieve fiato

di sospir che 'l lusinghi, arda o sfaville,

se rigido focil nol batte o sferza.

Lascia, lascia le lagrime e i sospiri,

s'acquisto far de la tua donna vuoi;

e s'ardi pur d'inestinguibil foco,

nel centro del tuo cor quanto più sai

chiudi l'affetto; e poi, secondo il tempo,

fa' quel ch'Amore e la natura insegna.

Però che la modestia è nel sembiante

sol virtù de la donna, e però seco

il trattar con modestia è gran difetto;

ed ella, che sì ben con altrui l'usa,

seco usata, l'ha in odio, e vuol che 'n lei

la miri sì, ma non l'adopri il vago.

Con questa legge naturale e dritta,

se farai per mio senno, amerai sempre.

Me non vedrà né proverà Corisca

mai più tenero amante, anzi più tosto

fiero nemico, e sentirà con armi

non di femmina più, ma d'uom virile,

assalirsi e trafiggersi. Due volte

l'ho presa già questa malvagia, e sempre

m'è, non so come, da le mani uscita;

ma, s'ella giunge anco la terza al varco,

ho ben pensato d'afferrarla in guisa

che non potrà fuggirmi. A punto suole

tra queste selve capitar sovente,

ed io vo pur, come sagace veltro,

fiutandola per tutto. Oh qual vendetta

ne vo' far, se la prendo, e quale strazio!

Ben le farò veder che talor anco

chi fu cieco, apre gli occhi, e che gran tempo

de le perfidie sue non si dà vanto

femmina ingannatrice e senza fede.

CORO Oh nel seno di Giove alta e possente

legge scritta, anzi nata,

la cui soave ed amorosa forza

verso quel ben che, non inteso, sente

ogni cosa creata,

gli animi inchina e la natura sforza!

Né pur la frale scorza,

che 'l senso a pena vede, e nasce e more

al variar de l'ore;

ma i semi occulti e la cagion interna,

ch'è d'eterno valor, move e governa.

E, se gravido è il mondo e tante belle

sue meraviglie forma;

e se per entro a quanto scalda il sole,

a l'ampia luna, a le titanie stelle,

vive spirto che 'nforma

col suo maschio valor l'immensa mole;

s'indi l'umana prole

sorge, e le piante e gli animali han vita;

se la terra è fiorita

o se canuta ha la rugosa fronte,

vien dal tuo vivo e sempiterno fonte.

Né questo pur, ma ciò che vaga spera

versa sopra i mortali,

onde qua giù di ria ventura o lieta

stella s'addita, or mansueta or fèra,

ond'han le vite frali

del nascer l'ora e del morir la meta;

ciò che fa vaga o queta

ne' suoi torbidi affetti umana voglia,

e par che doni e toglia

Fortuna, e 'l mondo vuol ch'a lei s'ascriva:

dall'alto tuo valor tutto deriva.

O detto inevitabile e verace,

se pur è tuo concetto

che dopo tanti affanni un dì riposi

l'arcada terra ed abbia vita e pace;

se quel che n'hai predetto

per bocca degli oracoli famosi,

de' duo fatali sposi,

pur da te viene, e 'n quello eterno abisso

l'hai stabilito e fisso;

e se la voce lor non è bugiarda,

deh! chi l'effetto al voler tuo ritarda?

Ecco, d'amore e di pietà nemico,

garzon aspro e crudele,

che vien dal cielo e pur col ciel contende;

ecco poi chi combatte un cor pudico,

amante invan fedele,

che 'l tuo voler con le sue fiamme offende,

e quanto meno attende

pietà del pianto e del servir mercede,

tant'ha più foco e fede;

ed è pur quella a lui fatal bellezza,

ch'è destinata a chi la fugge e sprezza.

Così dunque in se stessa è pur divisa

quell'eterna possanza?

e così l'un destìn con l'altro giostra?

o, non ben forse ancor doma e conquisa,

folle umana speranza

di porre assedio a la superna chiostra,

rubella al ciel si mostra,

ed arma, quasi nuovi empi giganti,

amanti e non amanti?

Qui si può tanto? e di stellato regno

trionferan duo ciechi, Amore e Sdegno?

Ma tu che stai sovra le stelle e 'l Fato,

e con saver divino

indi ne reggi, alto Motor del cielo,

mira, ti prego il nostro dubbio stato;

accorda col destino

Amor e Sdegno, e con paterno zelo

tempra la fiamma e 'l gelo:

chi dé' goder, non fugga e non disami;

chi dé' fuggir, non ami.

Deh! fa' che l'empia e cieca voglia altrui

la promessa pietà non tolga a nui.

Ma chi sa? forse quella,

che pare inevitabile sciagura,

sarà lieta ventura.

Oh quanto poco umana mente sale,

ché non s'affisa al sol vista mortale!

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.26.17