Di Fortuna |
A GIOVAN BATTISTA SODERINI |
Con che rime giammai o con che versi |
canterò io del regno di Fortuna, |
e de' suo' casi prosperi e avversi? |
E come iniuriosa ed importuna, |
secondo iudicata è qui da noi, |
sotto il suo seggio tutto il mondo aduna? |
Temer, Giovan Battista, tu non puoi, |
né debbi in alcun modo aver paura |
d'altre ferite che de' colpi suoi; |
perché questa volubil creatura |
spesso si suole oppor con maggior forza, |
dove più forza vede aver natura. |
Sua natural potenza ogni uomo sforza; |
e 'l regno suo è sempre violento, |
se virtù eccessiva non l'ammorza. |
Ond'io ti priego che tu sia contento |
considerar questi miei versi alquanto, |
se ci sia cosa di te degna drento. |
E la diva crudel rivolga intanto |
ver di me gli occhi sua feroci, e legga |
quel ch'or di lei e del suo regno canto. |
E benché in alto sopra tutti segga, |
comandi e regni impetuosamente, |
chi del suo stato ardisce cantar vegga. |
Questa da molti è detta onnipotente, |
perché qualunche in questa vita viene, |
o tardi o presto la sua forza sente. |
Costei spesso gli buon sotto i piè tiene, |
gl'improbi innalza; e se mai ti promette |
cosa veruna, mai te la mantiene. |
E sottosopra e regni e stati mette |
secondo ch'a lei pare, e' giusti priva |
del bene che agli ingiusti larga dette. |
Questa incostante dea e mobil diva |
gl'indegni spesso sopra un seggio pone, |
dove chi degno n'è, mai non arriva. |
Costei il tempo a suo modo dispone; |
questa ci esalta, questa ci disface, |
senza pietà, senza legge o ragione. |
Né favorire alcun sempre le piace |
per tutt'i tempi, né sempre mai preme |
colui che 'n fondo di sua rota giace. |
Di chi figliuola fussi, o di che seme |
nascessi, non si sa; ben si sa certo |
ch'infino a Giove sua potenzia teme. |
Sopra un palazzo d'ogni parte aperto |
regnar si vede, e a verun non toglie |
l'entrar in quel, ma è l'uscir incerto. |
Tutto il mondo d'intorno vi si accoglie, |
desideroso veder cose nove, |
e pien d'ambizione e pien di voglie. |
Lei si dimora in su la cima, dove |
la vista sua a qualunque uom non niega; |
ma piccol tempo la rivolve e muove. |
E ha duo volti questa antica strega, |
l'un fero e l'altro mite; e mentre volta, |
or non ti vede, or ti minaccia, or prega. |
Qualunque vuole entrar, benigna ascolta; |
ma con chi vuole uscirne poi s'adira, |
e spesso del partir gli ha la via tolta. |
Dentro, con tante ruote vi si gira |
quant'è vario il salire a quelle cose |
dove ciascun che vive pon la mira. |
Sospir, bestemmie e parole iniuriose |
s'odon per tutto usar da quelle genti, |
che dentro al segno suo fortuna ascose; |
e quanto son più ricchi e più potenti, |
tanto in lor più discortesia si vede, |
tanto son del suo ben men conoscenti. |
Perché tutto quel mal ch'in voi procede, |
s'imputa a lei; e s'alcun ben l'uom truova, |
per sua propria virtude averlo crede. |
Tra quella turba variata e nuova |
di que' conservi che quel loco serra, |
Audacia e Gioventù fa miglior pruova. |
Vedevisi il Timor prostrato in terra, |
tanto di dubbii pien, che non fa nulla; |
poi Penitenzia e Invidia li fan guerra. |
Quivi l'Occasion sol si trastulla, |
e va scherzando fra le ruote attorno |
la scapigliata e semplice fanciulla; |
e quelle ruoton sempre notte e giorno, |
perché il ciel vuole (a cui non si contrasta) |
ch'Ozio e Necessità le volti intorno. |
L'una racconcia il mondo, e l'altro il guasta. |
Vedesi d'ogni tempo e ad ogni otta |
quanto val Pazienzia e quanto basta. |
Usura e Fraude si godono in frotta |
potenti e ricchi; e tra queste consorte |
sta Liberalità stracciata e rotta. |
Veggonsi assisi sopra de le porte |
che mai, come s'è detto, son serrate |
senz'occhi e senza orecchi Caso e Sorte. |
Potenzia, onor, ricchezza e sanitate |
stanno per premio; per pena e dolore, |
servitù, infamia, morbo e povertate. |
Fortuna il rabbioso suo furore |
dimostra con quest'ultima famiglia; |
quell'altra porge a chi lei porta amore. |
Colui con miglior sorte si consiglia, |
tra tutti gli altri che in quel loco stanno, |
che ruota al suo voler conforme piglia; |
perché gli umor ch'adoperar ti fanno, |
secondo che convengon con costei, |
son cagion del tuo bene e del tuo danno. |
Non però che fidar ti possa in lei |
né creder d'evitar suo duro morso |
suo' duri colpi impetuosi e rei; |
perché, mentre girato sei dal dorso |
di ruota per allor felice e buona |
la suol cangiar le volte a mezzo il corso; |
e, non potendo tu cangiar persona |
né lasciar l'ordin di che 'l ciel ti dota |
nel mezzo del cammin la t'abbandona. |
Però, se questo si comprende e nota, |
sarebbe un sempre felice e beato, |
che potessi saltar di rota in rota; |
ma perché poter questo ci è negato |
per occulta virtù che ci governa, |
si muta col suo corso il nostro stato. |
Non è nel mondo cosa alcuna eterna: |
Fortuna vuol così, che se n'abbella, |
acciò che 'l suo poter più si discerna. |
Però si vuol lei prender per sua stella |
e quanto a noi è possibile, ogni ora |
accomodarsi al variar di quella. |
Tutto quel regno suo, dentro e di fuora |
istoriato si vede e dipinto |
di que' trionfi de' qua' più s'onora. |
Nel primo loco, colorato e tinto, |
si vede come già sotto l'Egitto |
il mondo stette subiugato e vinto: |
e come lungamente il tenne vitto |
con lunga pace, e come quivi fue |
ciò ch'è di bel ne la natura scritto; |
veggonsi poi gli Assirii ascender sue |
ad alto scettro, quand'ella non volse |
che quel d'Egitto dominassi piue; |
poi, come a' Medi lieta si rivolse; |
da' Medi a' Persi: e de' Greci la chioma |
ornò di quello onor ch'a' Persi tolse. |
Quivi si vede Menfi e Tebe doma, |
Babilon, Troia e Cartagin con quelle, |
Ierusalem, Atene, Sparta e Roma. |
Quivi si mostran quanto furon belle |
alte, ricche, potenti e come al fine |
fortuna a' lor nimici in preda dielle. |
Quivi si veggon l'opre alte e divine |
de l'imperio roman, poi, come tutto |
il mondo infranse con le sue rovine. |
Come un torrente rapido, ch'al tutto |
superbo è fatto, ogni cosa fracassa, |
dovunque aggiugne il suo corso per tutto; |
e questa parte accresce e quella abbassa, |
varia le ripe, varia il letto e 'l fondo |
e fa tremar la terra donde passa; |
così Fortuna, col suo furibondo |
impeto, molte volte or qui or quivi |
va tramutando le cose del mondo. |
Se poi con gli occhi tuoi più oltre arrivi, |
Cesare e Alessandro in una faccia |
vedi fra que' che fur felici vivi. |
Da questo esempio, quanto a costei piaccia, |
quanto grato le sia, si vede scorto, |
chi l'urta, chi la pigne o chi la caccia. |
Pur nondimanco al desiato porto |
l'un non pervenne, e l'altro, di ferite |
pieno, fu a l'ombra del nimico morto. |
Appresso questi son genti infinite, |
che per cadere in terra maggior botto, |
son con costei altissimo salite. |
Con questi iace preso, morto e rotto |
Ciro e Pompeio, poi che ciascheduno |
fu da Fortuna infin al ciel condotto. |
Avresti tu mai visto in loco alcuno |
come una aquila irata si trasporta, |
cacciata da la fame e dal digiuno? |
E come una testudine alto porta |
acciò che 'l colpo del cader la 'nfranga, |
e pasca sé di quella carne morta? |
Così Fortuna, non, ch'ivi rimanga, |
porta uno in alto, ma che, ruinando, |
lei se ne goda e lui cadendo pianga. |
Ancor si vien dopo costor mirando |
come d'infimo stato alto si saglia, |
e come ci si viva variando. |
Dove si vede come la travaglia |
e Tullio e Mario, e li splendidi corni |
più volte di lor gloria or cresce, or taglia. |
Vedesi alfin che tra' passati giorni |
pochi sono e' felici; e que' son morti |
prima che la lor ruota indrieto torni, |
o che voltando al basso ne li porti. |
|
Dell'Ingratitudine |
A GIOVANNI FOLCHI |
|
Giovanni Folchi, il viver mal contento, |
pe 'l dente de l'Invidia che mi morde, |
mi darebbe più doglie e più tormento, |
se non fussi ch'ancor le dolci corde |
d'una mia cetra che suave suona, |
fanno le Muse al mio cantar non sorde; |
non sì ch'i' speri averne altra corona |
non sì ch'io creda che per me s'aggiunga |
una gocciola d'acqua ad Elicona. |
Io so ben quanto quella via sie lunga; |
conosco non aver cotanta lena |
che sopra 'l colle disiato giunga; |
per tutta volta un tal disìo mi mena, |
ch'io credo forse andando posser còrre |
qualche arbuscel di che la piaggia è piena. |
Cantando, adunque, cerco dal cor tOrre |
e frenar quel dolor de' casi avversi, |
che drieto a l'almo mio furioso corre; |
e come del servir gli anni sien persi, |
come infra rena si semini ed acque, |
sarà or la materia de' miei versi. |
Quando a le stelle, quando al ciel dispiacque |
la gloria de' viventi, in lor dispetto |
allor nel mondo Ingratitudo nacque. |
Fu d'Avarizia figlia e di Sospetto: |
nutrita ne le braccia de la Invidia: |
de' principi e de' re vive nel petto. |
Quivi il suo seggio principale annidia; |
di quindi il cor di tutta l'altra gente |
col venen tinge de la sua perfidia; |
onde, per tutto, questo mal si sente, |
perch'ogni cosa de la sua nutrice |
trafigge e morde l'arrabbiato dente. |
E s'alcun prima si chiama felice |
pe 'l ciel benigno e suo' lieti favori, |
non dopo molto tempo si ridice, |
come e' vede il suo sangue e sua sudori |
e che 'l suo viver ben servendo, stanco, |
con Iniuria e calunnia si ristori. |
Tien questa peste (e mai non vengon manco, |
ché dopo l'una poi l'altra rimette |
ne la faretra ch'ell'ha sopra 'l fianco) |
di venen tinte tre crudel saette, |
con le qual punto di ferir non cessa |
questo e quell'altro, ove la mira mette. |
La prima de le tre, che vien da essa, |
fa che l'uom solo il benefizio allega, |
ma senza premiarlo lo confessa; |
e la seconda che di poi si spiega, |
fa del ben ricevuto l'uom si scorda, |
ma sanza iniuriarlo solo il niega; |
l'ultima fa che l'uom mai non ricorda |
né premia il ben, ma che, iusta sua possa |
il suo benefattor laceri e morda. |
Questo colpo trapassa dentro a l'ossa; |
questa terza ferita è più mortale; |
questa saetta vien con maggior possa. |
Mai vien men, mai si spegne questo male; |
mille volte rinasce, s'una more, |
perch'ha suo padre e sua madre immortale; |
e, come io dissi, trionfa nel core |
d'ogni potente, ma più si diletta |
nel cor del popul quando egli è signore. |
Questo è ferito da ogni saetta |
più crudelmente, perché sempre avviene |
che dove men si sa, più si sospetta; |
e le sue genti, d'ogni invidia piene, |
tengon desto il sospetto sempre, ed esso |
gli orecchi a le calunnie aperti tiene. |
Di qui resulta che si vede spesso |
com'un buon cittadino un frutto miete |
contrario al seme che nel campo ha messo. |
Era di pace priva e di quiete |
Italia, allor che 'l punico coltello |
saziata avea la barbarica sete, |
quando già nato nel romano ostello, |
anzi da ciel mandato, un uom divino |
qual mai fu ne mai fie simile a quello; |
questo, ancor giovinetto, in sul Tesino |
suo padre col suo petto ricoperse: |
primo presagio al suo lieto destino; |
e quando Canne tanti Roman perse, |
con un coltello in man, feroce e solo, |
d'abbandonar l'Italia non sofferse. |
Poco di poi, nello Ispanico sòlo, |
volle il senato a far vendetta gisse |
del comun danno e del privato dolo. |
Come in Affrica ancor le insegne misse, |
prima Siface, e di poi d'Anniballe |
e la fortuna e la sua patria afflisse. |
Allor gli diè il gran barbaro le spalle; |
allora il roman sangue vendicò, |
sparso da quel per l'italiche valle. |
Di quivi in Asia col fratello andò, |
dove, per sua prudenza e sua bontà, |
di Asia a Roma il trionfo ne portò. |
E tutte le provincie e le città, |
dovunqu'e' fu, lasciò piene d'esempi |
di pietà, di fortezza e castità. |
Qual lingua fia che tante laudi adempi? |
Quale occhio che contempli tanta luce? |
O felici Roman! felici tempi! |
Da questo invitto e glorioso duce |
fu a ciascun dimostro quella via |
ch'a la più alta gloria l'uom conduce. |
Non mai negli uman cuor fu visto o fia, |
quantunque degni, gloriosi e divi, |
tanto valore e tanta cortesia; |
e tra que' che son morti e che son vivi |
e tra l'antiche e le moderne genti, |
non si truova uom che a Scipione arrivi. |
Non però invidia di mostrargli i denti |
temé de la sua rabbia, e riguardarlo |
con le pupille de' suoi occhi ardenti. |
Costei fece nel populo accusarlo, |
e volle uno infinito benefizio |
con infinita iniuria accompagnarlo. |
Ma poi che vidde questo comun vizio |
armato contro a sé, volse costui |
voluntario lasciar lo 'ngrato ospizio; |
e dette luogo al mal voler d'altrui, |
tosto che vidde com'e' bisognava |
Roma perdesse o libertate o lui. |
Né l'almo suo d'altra vendetta armava; |
solo a la patria sua lasciar non volse |
quell'ossa che d'aver non meritava. |
E così il cerchio di sua vita volse |
fuor del suo patrio nido; e così frutto |
a la sementa sua contrario colse. |
Non fu già sola Roma ingrata al tutto: |
riguarda Atene, dove Ingratitudo |
pose il suo nido più ch'altrove brutto. |
Né valse contro a lei prender lo scudo, |
quando a l'incontro assai legge creolle, |
per reprimer tal vizio atroce e crudo. |
E tanto più fu quella città folle, |
quanto si vidde come con ragione |
conobbe il bene e seguitar nol volle. |
Milziade, Aristide e Focione, |
di Temistocle ancor la dura sorte |
furno del viver suo buon testimone. |
Questi, per l'opre loro egregie e forte, |
furno e' trionfi ch'egli ebbon da quella: |
prigione, esilio, vilipendio e morte. |
Perché nel vulgo le vinte castella, |
il sangue sparso e l'oneste ferite, |
di picciol fallo ogni infamia cancella. |
Ma le triste calunnie e tanto ardite |
contr'a' buon cittadin, tal volta fanno |
tirannico uno ingegno umano e mite. |
Spesso diventa un cittadin tiranno, |
e del viver civil trapassa il segno, |
per non sentir d'Ingratitudo il danno. |
A Cesare occupar fe' questo il regno; |
e quel che Ingratitudo non concesse, |
li dette la iusta ira e 'l iusto sdegno. |
Ma lasciamo ir del popul l'interesse: |
a' principi e moderni mi rivolto, |
dove anco ingrato cor natura messe. |
Acomatto bascià, non dopo molto |
ch'egli ebbe dato il regno a Baiasitte, |
morì col laccio intorno al collo avvolto. |
Ha le parti di Puglia derelitte |
Consalvo, e al suo re sospetto vive |
in premio de le galliche sconfitte. |
Cerca del mondo tutte le sue rive; |
troverai pochi principi esser grati, |
se leggerai quel che di lor si scrive; |
e vedrai come e' mutator di stati |
e donator di regni sempre mai |
son con esilio o morte ristorati. |
Perché, quando uno stato mutar fai, |
dubita chi tu hai principe fatto, |
tu non gli tolga quel che dato gli hai; |
e non ti osserva poi fede né patto, |
perché gli è più potente la paura |
ch'egli ha di te, che l'obligo contratto. |
E tanto tempo questo timor dura, |
quanto pena a veder tua stirpe spenta, |
e di te e de' tuoi la sepoltura. |
Onde che spesso servendo si stenta |
e poi del ben servir se ne riporta |
misera vita e morte violenta. |
Dunque, non sendo Ingratitudo morta |
ciascun fuggir le corti e' stati debbe; |
che non c'è via che guidi l'uom più corta |
a pianger quel che volle, poi che l'ebbe. |
|
Dell'Ambizione |
A LUIGI GUICCIARDINI |
|
Luigi, poi che tu ti maravigli |
di questo caso ch'a Siena è seguìto, |
non mi par che pe 'l verso il mondo pigli; |
e se nuovo ti par quel ch'hai sentito, |
come tu m'hai certificato e scritto, |
pensa un po' meglio a l'umano appetito. |
Perché dal sòl di Scizia a quel d'Egitto, |
da l'Inghilterra a l'opposita riva, |
si vede germinar questo delitto. |
Qual regione o qual città n'è priva? |
Qual borgo, qual tugurio? In ogni lato |
l'Ambizione e l'Avarizia arriva. |
Queste nel mondo, come l'uom fu nato, |
nacquono ancora; e se non fussi quelle, |
sarebbe assai felice il nostro stato. |
Di poco aveva Dio fatto le stelle, |
il ciel, la luce, gli elementi e l'uomo |
dominator di tante cose belle, |
e la superbia degli Angeli domo, |
di paradiso Adam fatto ribello |
con la sua donna pe 'l gustar del pomo; |
quando che, nati Cain ed Abello, |
col padre loro e de la lor fatica |
vivendo lieti nel povero ostello, |
potenzia occulta che 'n ciel si nutrica, |
tra le stelle che quel girando serra, |
a la natura umana poco amica, |
per privarci di pace e porne in guerra, |
per torci ogni quiete e ogni bene, |
mandò duo furie ad abitare in terra. |
Nude son queste, e ciascheduna viene |
con grazia tale, che agli occhi di molti |
paion di quella e di diletto piene. |
Ha ciascheduna d'esse quattro volti |
con otto mani; e queste cose fanno |
ti prenda e vegga ovunque una si volti. |
Con queste, Invidia, Accidia e Odio vanno |
de la lor peste riempiendo il mondo, |
e con lor Crudeltà, Superbia e Inganno. |
Da queste Concordia è cacciata al fondo; |
e, per mostrar la lor voglia infinita, |
portano in mano una urna sanza fondo. |
Per costor la quieta e dolce vita, |
di che l'albergo di Adam era pieno, |
si fu, con Pace e Carità, fuggita. |
Queste del lor pestifero veneno, |
contr'al suo buon fratel, Cain armaro, |
empiendogliene il grembo, il petto e 'l seno. |
E loro alta potenzia demostraro |
poi che posserno far ne' primi tempi |
un petto ambizioso, un petto avaro, |
quando gli uomin vivieno e nudi e scempi |
d'ogni fortuna, e quando ancor non era |
di povertà e di ricchezze esempi. |
O mente umana insaziabil, altera, |
subdola e varia, e sopra ogni altra cosa |
maligna, iniqua, impetuosa e fera, |
poi che, per la tua voglia ambiziosa, |
si fe' la prima morte violenta |
nel mondo, e la prima erba sanguinosa! |
Cresciuta poi questa mala sementa, |
multiplicata la cagion del male, |
non c'è ragion che di mal far si penta. |
Di qui nasce ch'un scende e l'altro sale; |
di qui dipende, sanza legge o patto, |
Il variar d'ogni stato mortale. |
Questa ha di Francia il re più volte tratto; |
questa del re Alfonso e Lodovico |
e di san Marco ha lo stato disfatto. |
Né sol quel che di bene ha il suo nimico, |
ma quel che pare (e così sempre fue |
il mondo fatto, moderno e antico) |
ogni uom stima, ogni uom spera piue |
sormontare, opprimendo or quello or questo, |
che per qualunche sua propria virtue. |
A ciascun l'altrui ben sempre è molesto; |
e però sempre, con affanno e pena |
al mal d'altrui è vigilante e desto. |
A questo, istinto natural ci mena |
per proprio moto e propria passione, |
se legge o maggior forza non ci affrena. |
Ma se volessi saper la cagione, |
perch'una gente imperi e l'altra pianga, |
regnando in ogni loco Ambizione; |
e perché Francia vittrice rimanga; |
da l'altra parte, perché Italia tutta |
un mar d'affanni tempestoso franga; |
e perché 'n queste parti sia redutta |
la penitenzia di quel tristo seme |
che Ambizione ed Avarizia frutta: |
se con Ambizion congiunto e insieme |
un cor feroce, una virtute armata, |
quivi del proprio mal raro si teme. |
Quando una region vive effrenata |
per sua natura, e poi, per accidente, |
di buone leggi instrutta e ordinata; |
l'Ambizion contr'a l'esterna gente |
usa il furor ch'usarlo infra se stessa |
né la legge né il re gliene consente; |
onde il mal proprio quasi sempre cessa; |
ma suol ben disturbar l'altrui ovile, |
dove quel suo furor l'insegna ha messa. |
Fie, per adverso, quel loco servile, |
ad ogni danno, ad ogni iniuria esposto, |
dove sie gente ambiziosa e vile. |
Se Viltà e trist'ordin siede accosto |
a questa Ambizione, ogni sciaura, |
ogni ruina, ogni altro mal vien tosto. |
E quando alcun colpassi la natura |
se in Italia, tanto afflitta e stanca, |
non nasce gente sì feroce e dura, |
dico che questo non escusa e franca |
la viltà nostra, perché può supplire |
l'educazion dove natura manca. |
Questa l'Italia già fece fiorire, |
e di occupare il mondo tutto quanto |
la fiera educazion le dette ardire. |
Or vive, se vita è vivere in pianto, |
sotto quella ruina e quella sorte |
ch'ha meritato l'ozio suo cotanto. |
Viltate è quello, con l'altre consorte; |
d'Ambizione son quelle ferite |
ch'hanno d'Italia le provincie morte. |
Lasciar ir di Siena le fraterne lite; |
volta gli occhi, Luigi, a questa parte: |
fra queste genti attonite e smarrite. |
Vedrai d'Ambizion l'una e l'altra arte: |
come quel ruba e quell'altro si duole |
de le fortune sue lacere e sparte. |
Rivolga gli occhi in qua chi veder vuole |
l'altrui fatiche, e riguardi se ancora |
cotanta crudeltà mai vidde il sole. |
Chi 'l padre morto e chi 'l marito plora; |
quell'altro mesto del suo proprio tetto, |
battuto e nudo, trar si vede fora. |
O quante volte, avendo il padre stretto |
in braccio il figlio, con un colpo solo |
è suto rotto a l'uno e l'altro il petto! |
Quello abbandona il suo paterno solo |
accusando gli Dei crudeli e ingrati, |
con la brigata sua piena di dolo. |
O esempli mai più nel mondo stati! |
perché si vede ogni dì parti assai |
per le ferite del lor ventre nati. |
Drieto a la figlia sua piena di guai |
dice la madre: - A che infelici nozze, |
a che crudel marito ti servai! - |
Di sangue son le fosse e l'acque sozze, |
piene di teschi, di gambe e di mani, |
e d'altre membra laniate e mozze. |
Rapaci uccei, fere silvestri, cani |
son poi le lor paterne sepolture: |
o sepulcri crudei, feroci e strani! |
Sempre son le lor faccie orride e scure, |
a guisa d'uom che sbigottito ammiri |
per nuovi danni o sùbite paure. |
Dovunche gli occhi tu rivolti, miri |
di lacrime la terra e sangue pregna |
e l'aria d'urla, singulti e sospiri. |
Se da altri imparare alcun si degna |
come si debba Ambizione usarla, |
l'esemplo tristo di costor lo 'nsegna. |
Da poi che l'uom da sé non può cacciarla, |
debbe il iudicio e l'intelletto sano |
con ordine e ferocia accompagnarla. |
San Marco, a le sue spese, e forse invano, |
tardi conosce come li bisogna |
tener la spada e non il libro in mano. |
Pur altrimenti di regnar s'agogna |
per la più parte; e quanto più s'acquista, |
si perde prima e con maggior vergogna. |
Dunque, se spesso qualche cosa è vista |
nascere impetuosa ed importuna |
che 'l petto di ciascun turba e contrista, |
non ne pigliare ammirazione alcuna, |
perché nel mondo la parte maggiore |
si lascia dominar da la fortuna. |
Lasso! che mentre ne l'altrui dolore |
tengo or l'ingegno involto e la parola, |
sono oppressato da maggior timore. |
Io sento Ambizion, con quella scola |
ch'al principio del mondo el ciel sortille, |
sopra de' monti di Toscana vola; |
e seminato ha già tante faville |
tra quelle genti sì d'invidia pregne, |
ch'arderà le sue terre e le sue ville, |
se grazia o miglior ordin non la spegne. |
|
Dell'Occasione |
A FILIPPO DE' NERLI |
|
- Chi se' tu, che non par' donna mortale, |
di tanta grazia el ciel t'adorna e dota? |
Perché non posi? e perché a' piedi hai l'ale? - |
- Io son l'Occasione, a pochi nota; |
e la cagion che sempre mi travagli, |
è perch'io tengo un piè sopra una rota. |
Volar non è ch'al mio correr s'agguagli; |
e però l'ali a' piedi mi mantengo, |
acciò nel corso mio ciascuno abbagli. |
Li sparsi mia capei dinanti io tengo; |
con essi mi ricuopro il petto e 'l volto, |
perch'un non mi conosca quando io vengo. |
Drieto dal capo ogni capel m'è tolto, |
onde invan s'affatica un, se gli avviene |
ch'i' l'abbi trapassato, o s'i' mi volto. - |
- Dimmi: chi è colei che teco viene? - |
- È Penitenzia; e però nota e intendi: |
chi non sa prender me, costei ritiene. |
E tu, mentre parlando il tempo spendi, |
occupato da molti pensier vani, |
già non t'avvedi, lasso! e non comprendi |
com'io ti son fuggita tra le mani. - |