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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Niccolò Machiavelli

 

Libro Terzo (1-25)

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1
A volere che una setta
o una republica viva lungamente,
è necessario ritirarla spesso
verso il suo principio.
Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso e' principii suoi. Perché tutti e' principii delle sètte, e delle republiche e de' regni, conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglio la prima riputazione ed il primo augumento loro. E perché nel processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di medicina dicono, parlando de' corpi degli uomini, "quod quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione". Questa riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente estrinseco o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come egli era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con la potestà consolare, non osservorono alcuna religiosa cerimonia. Così medesimamente, non solamente non punirono i tre Fabii, i quali "contra ius gentium" avevano combattuto contro ai Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente presuppore, che dell'altre constituzioni buone, ordinate da Romolo e da quegli altri principi prudenti, si cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa battitura estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città si ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro virtù che di quegli commodi che e' paresse loro mancare, mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto; perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica religione loro; punirono quegli Fabii che avevano combattuto "contra ius gentium"; ed appresso tanto stimorono la virtù e bontà di Cammillo, che posposto, il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in lui tutto il pondo di quella republica. È necessario, adunque, come è detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o per questi accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E quanto a questi, conviene che nasca o da una legge, la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo; o veramente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene nelle republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Republica romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i Censori, e tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale animosamente concorre ad esequirli contro alla potenza di quegli che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma da' Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la morte de' dieci cittadini, quella di Melio frumentario: dopo la presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morte del figliuolo di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri, l'accusa degli Scipioni. Le quali cose, perché erano eccessive e notabili, qualunque volta ne nasceva una, facevano gli uomini ritirare verso il segno: e quando le cominciarono ad essere più rare, cominciarono anche a dare più spazio agli uomini di corrompersi, e farsi con maggiore pericolo e più tumulto. Perché dall'una all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più, dieci anni: perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano a variare con i costumi e trapassare le leggi; e se non nasce cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e rinnuovisi negli animi loro la paura, concorrono tosto tanti delinquenti, che non si possono più punire sanza pericolo. Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo: e chiamavano ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere, male operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire male; e però è necessario provvedervi, ritirando quello verso i suoi principii. Nasce ancora questo ritiramento delle republiche verso il loro principio dalla semplice virtù d'un uomo, sanza dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione: nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli uomini buoni disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano a tenere vita contraria a quelle. Quegli che in Roma particularmente feciono questi buoni effetti, furono Orazio Cocle, Scevola, Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i quali con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo effetto che si facessino le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni soprascritte, insieme con questi particulari esempli, fossono almeno seguite ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai corrotta: ma come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due cose, cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in Roma surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed intra loro dall'uno all'altro, e rimasono sì soli, che non potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e massime l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la città corrotta, non potette con lo esemplo suo fare che i cittadini diventassino migliori. E questo basti quanto alle republiche.
Ma quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie, per lo esemplo della nostra religione, la quale, se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta: e furono sì potenti gli ordini loro nuovi, che ei sono cagione che la disonestà de' prelati e de' capi della religione non la rovinino; vivendo ancora poveramente, ed avendo tanto credito nelle confessioni con i popoli e nelle predicazioni, che ci dànno loro a intendere come egli è male dir male del male, e che sia bene vivere sotto la obedienza loro, e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così quegli fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione che non veggono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione mantenuto, e mantiene, questa religione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi principii. E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una esecuzione contro ad un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto per essere stato uno ostinato esecutore contro a quella Nobilità: ma qualunque volta ei ne lasciassi alcuna impunita, e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne nascerebbe o che le si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.
Conchiudesi, pertanto, non essere cosa più necessaria in uno vivere comune, o setta o regno o republica che sia, che rendergli quella riputazione ch'egli aveva ne' principii suoi; ed ingegnarsi che siano o gli ordini buoni o i buoni uomini che facciano questo effetto, e non lo abbia a fare una forza estrinseca. Perché, ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da disiderarla. E per dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli: intra e' termini de' quali questo terzo libro, ed ultima parte di questa prima Deca, si concluderà. E benché le azioni degli re fossono grandi e notabili nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le lascerò indietro; né parlereno altrimenti di loro, eccetto che di alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro privati commodi; e comincerenci da Bruto, padre della romana libertà.
2
Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di procedere, si può credere che simulasse ancora questo per essere manco osservato, ed avere più commodità di opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione. E, che pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò cadere per baciare la terra, giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi, quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile, conviene ridursi a' duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua, notabile, vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa, non disidero né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza briga! - perché queste scuse sono udite e non accettate: né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare la libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel mantenerla.
3
Come egli è necessario,
a volere mantenere una libertà
acquistata di nuovo,
ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno: come, dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide in republica è necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per la sua prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la pazienza e con la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli amici fede) che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria autorità, e rompere con le leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe mai poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel male, oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno, come, quello l'aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo, che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e' perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E come egli è cosa difficile salvare uno stato libero, così è difficile salvarne uno regio; come nel sequente capitolo si mosterrà.
4
Non vive sicuro uno principe
in uno principato, mentre vivono coloro
che ne sono stati spogliati.
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il beneficio nuovo è minore che non è stata la ingiuria. E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussono pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito del regnare è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel sequente capitolo si mosterrà.
5
Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia, di quello, ereditario.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E, benché il modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il Senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici con sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola in cose mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i suoi antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con quanta facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto più loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono condannati. Perché egli è molto più facile essere amato dai buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro. E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini, quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua prenominati; che gli costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori concitati contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata da' principi e da' privati.
6
Delle congiure.
Ei non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati; perché si vede per quelle molti più principi avere perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi: il poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa più pericolosa né più temeraria di questa; perché la è difficile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché, adunque, i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto; io ne parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso notabile in documento dell'uno e dell'altro. E veramente, quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si fanno le congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe: delle quali due voglio che al presente ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra a' nimici che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione, similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a sufficienza. E trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe, e prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne è importantissima più che tutte le altre. E questa è lo essere odiato dallo universale, perché il principe che si è concitato questo universale odio, è ragionevole che abbi de' particulari i quali da lui siano stati più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro da quella mala disposizione universale che veggono essergli concitata contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e come debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice offese particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si riscontra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che si mettino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando pure ei fossono d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale che veggono avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di quelle del sangue sono più pericolose le minacce che le esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni non vi è pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare alla vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che si vede costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa uno uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e l'onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun'altra offesa, e dalle quali il principe si debbe guardare: perché e' non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri contro a molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai Medici, fu la eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per ordine di quegli. Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa gli uomini congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di liberare la patria, stata da quello occupata. Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso molti altri contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria loro. Né può, da questo omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino male; donde nacque quel verso di Iuvenale:
Ad generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo, de' tre pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo; perché, innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo, non avendo altri il suo secreto, né portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchio del principe. Questa deliberazione così fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte, grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe; perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlato, ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati d'intorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la ferita mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse d'una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma ebbe pure animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi fatti così, se ne truova, credo, assai che lo vorrebbono fare, perché nel volere non è pena né pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi del principe: perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiurare; perché gli uomini deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga loro fede; perché uno non può consentire alla volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si sono allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma quando pure si fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale difficultà, per non avere l'entrata facile al principe, che gli è impossibile che in essa esecuzione ei non rovinino. Perché, se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono oppressi da quelle difficultà che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle difficultà sanza fine creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non sono al tutto insani) quando e' si veggono deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe, attendono a bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari, del principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio. Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro, alla perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di questo non volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudine: ancora che di queste simili ne' tempi più freschi ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a messer Piero Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo stato. Fu di queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re Ferrando d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello, perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da uomini grandi, dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono fare questa cattività con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque, uno principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte troppe ingiurie. Perché questi mancono di commodità, quelli ne abondano; e la voglia è simile, perché gli è così grande o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se non interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma torniamo all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito facile al principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese quali siano stati, e vedere la cagione che gli ha fatti essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su 'l fatto e poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a discorrere e' pericoli di prima, che sono i più importanti, dico, come e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte, che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o per coniettura. La relazione nasce da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La poca fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino alla morte, o con uomini che siano male contenti del principe. De' fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e' bisogna bene che la benivolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s'ingannano, il più delle volte, dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando, questo, di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in questo tu ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel male contento l'animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e conviene bene, o che l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne' primi principii loro; e che, quando una è stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa: come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi, quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle quali erano consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione, a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in modo che uno servo o altra terza persona t'intenda, come intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa con i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero quando per leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che tu ami o a simile leggieri persona; come fece Dimmo, uno de' congiurati con Filota contro a Alessandro Magno, il quale communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la congiura Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de' congiurati, il dì dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite: per le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto insieme, il dì davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confessare il vero talché la congiura fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le congiure è impossibile guardarsi che, per malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono il numero di tre o di quattro. E come e' ne è preso più che uno, è impossibile non riscontrarla, perché due non possano essere convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne sia preso solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano meno animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da una parte che l'animo manca o da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno de' congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici del re, e dall'altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi che si venga alla esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono al certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi serrare la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Ortano, uno de' grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo conferì con sei altri principi di quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno de' sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno ora a fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E così d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile a questi due esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide, tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e non comunicò mai la commissione sua se non quando e' la volle esequire: donde gli riuscì d'ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare le congiure; e chi imiterà loro, sempre gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava Nerone ne' suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini, d'animo e di cuore e di disposizione atti ad una tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo); e quando Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole convenienti inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E così, se si esamineranno tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute condursi nel medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare, comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne uno così fatto è molto più facile che trovarne più, e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove siano congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che con uno si può parlare ogni cosa, perché tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il sì dell'uno quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio, perché non è cosa che più facilmente ti convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all'accusa, e' non fussi più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato dall'ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e convinto; e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura, o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la quale giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno capitano di alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia, gli comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli quello capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due pericoli: l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro, che non ti accusi convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno e nell'altro di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi negare l'uno, allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare l'altro, allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È, adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo gli esempli soprascritti; o, quando pure la comunichi, non passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve n'è meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è quando una necessità ti costringa a fare quello al principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed intra' primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine o amiche; e perché egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i quali maculava la persona sua e lo Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra Marzia, Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa, subito mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti a tre il pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più civile che armigero; e, come avviene ch'e' principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi, s'egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d'ammazzare lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire, commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto, pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità che non dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che il modo, da me sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di questo discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono cagione di più efficace congiure che le offese: da che uno principe si debbe guardare; perché gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in termine che gli abbiano a pensare che bisogni loro o morire o far morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o da variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che esequisce, o da errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o per non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a variare un ordine e a pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se questa variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali azioni non è cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che gli è meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non è, per volere cancellare quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e' non si ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può l'uomo governare a suo modo.
La congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici, è nota. L'ordine dato era che dessino desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare alla libertà il popolo. Accadde che, essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad uno ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava: il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello che gli avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il che venne a perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista da Montesecco non volle concorrere all'omicidio, dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a fermare l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo, divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa potenza è in uomo legato e prigione, ed affogato nella mala fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore in uno principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva sua! talché ti può questa tale pompa spaventare, o vero con qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a Sitalce re di Tracia, deputorono il dì della esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello male che potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso, duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete e cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro, talché gli avevano arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qualche umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo; perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando discrive di Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole: "Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei". Perché gli è impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa confusione o farti cascare l'armi di mano, o farti dire cose che facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli, gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali parole fecero che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de' Medici, nello accostarsegli disse: - Ah traditore! - la quale voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette: ma facilmente non se le dà perfezione quando si congiura contro a due capi, anzi è tanto difficile, che gli è quasi impossibile che la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti l'altra. In modo che, se il congiurare contro ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che elli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi: perché la è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me lo farebbe credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo che di simili congiure contro a più capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa bene né a sé né alla patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono più insopportabili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e' tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco fece tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere de' tiranni, dal quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno, nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente imprevisto che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con prudenza, rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno altro fine, che ti faccia perturbare l'animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire la congiura da te, o confondere l'azione con acceleralla fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quando ei sono molti ad essere conscii della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli, e fare gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva tolto la figliuola che prima gli aveva data per moglie, diliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui, adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi dentro all'uscio armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando ei fussi presso all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme, scopersono l' agguato; in modo che Pandolfo si salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e' son rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i quali sono solamente uno; e questo è, quando e' rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono, adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta: come intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché non ci hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro negligenza, allora è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina (che così si chiamava la contessa) promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di farla consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d'ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più certo né quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu hai morto: perché a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e' non se ne possono mai assicurare. In esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati, di Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi, ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle; nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti: perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo animo e disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti, seguire felicemente la impresa sua; se gli sono interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s'intende in una republica dove è qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo luogo nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al principato dove e' non portano pericolo di essere oppressi: sì perché le republiche sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute; sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini grandi, e per questo quelli sono più audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma venne in Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella città aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch'egli era di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che d'una legge, la quale poneva termini alle spese de' conviti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene vero, che nello esequire una congiura contro alla patria, vi è difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade volte è che bastino le tue forze proprie conspirando contro a tanti; e ciascuno non è principe d'uno esercito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le forze loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che facciano le cose, o con inganno ed arte, o con forze forestiere. Quanto allo inganno ed all'arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di potere menare armati seco per guardia sua. Da questa autorità facilmente salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in Siena, e gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica, e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono tanta riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe. Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con forze loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna. Catilina preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo menzione, non gli essendo riuscito il veleno, armò, di suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli furono morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide di quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora non portano altri periculi che si porti la natura del principato in sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e se io ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è che quelle del veneno sono più pericolose, per essere più incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno beveraggio di veleno non può essere mortale: come intervenne a quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli avevano dato, furono forzati a strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i principi il maggiore nimico che la congiura: perché, fatta che è una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se la riesce, e' muoiono; se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia stata invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o quella republica contro a chi fosse congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la qualità di essa, e misurino bene le condizioni de' congiurati e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni industria dissimularla; perché i congiurati, veggendosi scoperti, cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di soldati a guardia de' Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i Capovani: la quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non cercarono di accelerare la cosa; e così stettono infino che cominciarono a vedere che il Consolo gli separava l'uno dall'altro: la quale cosa generò in loro sospetto, fece che si scopersono e mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né può essere questo maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte: perché per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e quanto e' sono presti dove la necessità gli caccia. Né può uno principe o una republica, che vuole differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo, occasione con arte ai congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno de' congiurati: il che fece subito pigliare l'armi agli altri; e torgli lo stato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli per tôrre quella terra ai Fiorentini, subito se n'andò in quella città, e sanza pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e, sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo figliuolo, fece pigliare uno de' congiurati: dopo la quale presura, gli altri subito presono l'armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e Guglielmo, di commessario, diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e debbono sanza rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due termini usati, quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di avere la benivolenza de' cittadini fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una congiura; l'altro da Dione siragusano, il quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto, consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male: perché l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l'altro dette la via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo stato e la vita.
7
Donde nasce che le mutazioni
dalla libertà alla servitù, e dalla servitù
alla libertà, alcuna ne è sanza sangue,
alcuna ne è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di qualunque altro. Il che depende da questo: perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o no: e perché, quando e' nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere altri che il capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose: ma sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
8
Chi vuole alterare una republica,
debbe considerare il suggetto di quella.
Egli si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può male operare in una republica che non sia corrotta: la quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il fargli molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli al popolo, ed offerendo di darli quelli danari che si erano ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare loro il prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto maggiore essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte in favore della patria, cancella dipoi una brutta cupidità di regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere della città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto a ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a favorirlo; nessuno de' parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del popolo; e quanto erano più contro a' nobili, tanto più le tiravano innanzi; in questo caso si unirono co' nobili, per opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo dell'utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori, nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua al giudicio del popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io non credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto è questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino pieno d'ogni virtù, e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili. Perché in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto più a' pericoli presenti che da lui dependevano che a' meriti passati: tanto che con la morte sua e' si liberarono. E Tito Livio dice: "Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset, memorabilis". Dove sono da considerare due cose: l'una, che per altri modi si ha a cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è quasi quel medesimo che la prima), che gli uomini nel procedere loro, è tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, e accommodarsi a quegli.
E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l'hanno quegli che si concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole preallegate dello istorico, si può conchiudere, che, se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla, dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e successi che Mario e Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così medesimamente, se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno popolo di una città, ma gli è impossibile che la vita d'uno basti a corromperla in modo che egli medesimo ne possa trarre frutto; e quando bene e' fussi possibile, con lunghezza di tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente differire una loro passione. Appresso, s'ingannano nelle cose loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché, o per poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a volere pigliare autorità in una republica e mettervi trista forma, trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di generazione in generazione, si sia condotta al disordine: la quale vi si conduce di necessità, quando la non sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni esempli, o con nuove leggi ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo raro e memorabile, se e' fussi nato in una città corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche fanno alcuna impresa o in favore della libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto che eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese loro. Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E perché di sopra si dice, che gli uomini nell'operare debbono considerare le qualità de' tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel sequente capitolo.
9
Come conviene variare co' tempi
volendo sempre avere buona fortuna.
Io ho considerato più volte come la cagione della trista e della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera via, nell'uno e nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno, ed avere la fortuna prospera, che riscontra, come ho detto, con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo procedeva con lo esercito suo rispettivamente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo riscontrò bene con i tempi. Perché, sendo venuto Annibale in Italia, giovane e con una fortuna fresca, ed avendo già rotto il popolo romano due volte; ed essendo quella republica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il quale, con la sua tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico. Né ancora Fabio potette riscontrare tempi più convenienti a' modi suoi: di che ne nacque che fu glorioso. E che Fabio facessi questo per natura, e non per elezione, si vide, che, volendo Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare la guerra, Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva spiccare da' suoi modi e dalla consuetudine sua; talché, se fusse stato a lui Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello che non si avvedeva che gli erano mutati i tempi, e che bisognava mutare modo di guerra. E se Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente perdere quella guerra; perché non arebbe saputo variare, col procedere suo, secondo che variavono i tempi: ma essendo nato in una republica dove erano diversi cittadini e diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debiti a sostenere la guerra, così ebbe poi Scipione, ne' tempi atti a vincerla.
Quinci nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de' temporali, per la diversità de' cittadini che sono in quella, che non può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità che, quando e' si mutano i tempi disformi a quel suo modo, che rovini.
Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua patria, mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere suo: ma come e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché insieme con la sua patria rovinò. Papa Iulio II procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia; e perché gli tempi l'accompagnarono bene gli riuscirono le sua imprese tutte. Ma se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava; perché no arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi. E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l'una, che noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura; l'altra, che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi. Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle republiche co' tempi; come lungamente di sopra discorremo: ma sono più tarde, perché le penono più a variare, perché bisogna che venghino tempi che commuovino tutta la republica, a che uno solo, col variare il modo del procedere, non basta.
E perché noi abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi pare da discorrere nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo fare la giornata in ogni modo col nimico, può essere impedito, da quello, che non lo faccia.
10
Che uno capitano
non può fuggire la giornata,
quando l'avversario la vuol fare
in ogni modo.
"Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret". Quando e' séguita uno errore, dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io non credo che sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi sieno disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo. Perché, se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni militari, dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai. Ed è nato questo inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno imposta questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta uno re de' tempi nostri andare in persona, non si crede, però, che da lui nasca altri modi che meritino più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime le italiane; le quali, fidandosi d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di quello che appartenga alla guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione mille errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente non ne tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più savia commissione che paia loro dargli, è quando gl'impongono che per alcuno modo venga a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in questo, imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere, salvò lo stato ai Romani, non intendono che, la maggiore parte delle volte, questa commissione è nulla o è dannosa. Per che si debbe pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare alla campagna, non può fuggire la giornata, qualunque volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa commissione che dire: fa' la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perché a volere stare in campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie, che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro di questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto danno de' sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta; perché e' conviene che, riducendoti con uno esercito in una città, tu venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne Fabio Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la volessi fare a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro non vi aveva se non uno de' tre rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille esempli, e massime nella guerra che i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse: perché Filippo, sendo assaltato dai Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e si pose con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte, dove si afforzò assai, giudicando ch'e' Romani non avessero ardire di andare a trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli, non potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle genti. E quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi posto con il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere, non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i Romani partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti a trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e' patisca necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che dice Tito Livio: "nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret". Ma in ogni altro termine non si può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con più vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua virtù. E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese come egli. Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo incontro di Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe fatto; e per avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare, come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere che qualche cagione importante lo movessi. Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di danari o d'amici e' non può tenere lungamente tale esercito, è matto al tutto se non tenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a risolvere: perché, aspettando e' perde il certo; tentando, potrebbe vincere.
Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo, volere acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che per altro inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale doveva essere constretto da queste necessità. E dall'altro canto, Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti, non pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi poteva stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era all'incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui; perché, se vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro, azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da' Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia, che, campeggiando Novara, fu medesimamente da' Svizzeri rotto.
11
Che chi ha a fare con assai,
ancora che sia inferiore,
pure che possa sostenere gli primi impeti,
vince.
La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande; e fu necessaria, come molte volte da noi è stato discorso, perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe. Nondimeno, perché in ogni cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi accidenti, è necessario a questo con nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente, e formidabile alla Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe nato qualche inconveniente, dannoso alla libertà romana, se da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu che trovarono sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o corrottibile, o amatore del comune bene; talmente che lo disponevano ad opporsi alla volontà di quegli altri, che volessono tirare innanzi alcuna deliberazione contro alla volontà del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a tanta autorità, e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto considerare che, qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro a un altro potente ancora che tutti insieme siano molto più potenti di quello, nondimanco si debbe sempre sperare più in quel solo e men gagliardo che in quelli assai, ancora che gagliardissimi. Perché, lasciando stare tutte quelle cose delle quali uno solo si può, più che molti, prevalere (che sono infinite), sempre occorrerà questo: che potrà, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo addurre antichi esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò nel 1483 tutta Italia contro ai Viniziani; e poiché loro al tutto erano persi, e non potevano stare più con lo esercito in campagna, corruppono il signor Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno accordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse ma usurparono parte dello stato di Ferrara. E così coloro che perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Pochi anni sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo: nondimeno, avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribellò da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai fare giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse così, porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano collegati contro, averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo non avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono. Per che si vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di questi due principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia contro a Francia, per non la fare sì grande in Italia, se gli avessono potuto. Potevano, dunque, i Viniziani dare parte per salvare il resto: il che se loro avessono fatto in tempo che paressi che la non fussi stata necessità, ed innanzi ai moti della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti, pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che così come il Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria contro all'ambizione de' Tribuni, per essere molti, così arà rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei saprà con prudenza usare termini convenienti a disgiungerli.
12
Come uno capitano prudente
debbe imporre ogni necessità
di combattere a' suoi soldati,
e, a quegli degli inimici, torla.
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la necessità, ed a quale gloria siano sute condutte da quella; e, come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo, non arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani degli eserciti la virtù di tale necessità, e quanto per quella gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere; facevano ogni opera perché i soldati loro fussero constretti da quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli nimici se ne liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che desidera o che una città si defenda ostinatamente, o che uno esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale necessità. Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad una espugnazione d'una città, debbe misurare la facilità o la difficultà dello espugnarla, dal conoscere e considerare quale necessità constringa gli abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai necessità che gli constringa alla difesa, giudichi la espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce che le terre, dopo la rebellione, sono più difficili ad acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere offeso, si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono difficili ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e' naturali odii che hanno i principi vicini, e le republiche vicine, l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e gelosia del loro stato, massimamente se le sono republiche, come interviene in Toscana; la quale gara e contenzione ha fatto e farà sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi considera bene i vicini della città di Firenze ed i vicini della città di Vinegia, non si maraviglierà, come molti fanno, che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acquistato meno di Vinegia: perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze; per essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere; e quegli che sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto più tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di quella, tale necessità, e, per consequenzia, tale ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della pena; e se gli avessono paura della libertà, mostrare di non andare contro al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della città; la quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E benché simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i quali, cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono diventate serve: come intervenne a Firenze ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo esercito suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi soldati del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati dalle offerte della pace che erano fatte loro da' loro inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di quello. Dico pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a chiedere pace, offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio, capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò come i Romani volevono in ogni modo guerra, e, benché per loro si desiderasse la pace, necessità gli faceva seguire la guerra dicendo queste parole: "Iustum est bellum quibus necessarium, et pia arma quibus nisi in armis spes est"; sopra la quale necessità egli fondò con gli suoi soldati la speranza della vittoria. E per non avere a tornare più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli esempli romani che sono più degni di notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito, all'incontro de' Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato dentro agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso di quegli; e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed arebbero tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno Tribuno non fusse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si vede come, mentre la necessità costrinse i Veienti a combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando viddero aperta la via, pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a' suoi soldati queste parole: "Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate superiores estis". Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio "ultimum ac maximum telum". Cammillo, prudentissimo di tutti i capitani romani, sendo già dentro nella città de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato.
13
Dove sia più da confidare,
o in uno buono capitano
che abbia lo esercito debole,
o in uno buono esercito che abbia
il capitano debole.
Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la piatà della sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la Republica romana crebbe più per la virtù de' capitani che de' soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la virtù de' soldati sanza capitano avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e più feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse nello esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté, con la virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché, discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la virtù de' soldati arà vinta la giornata; e molti altri, dove solo la virtù de' capitani arà fatto il medesimo effetto: in modo che si può giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro, e l'altro dell'uno.
Ècci bene da considerare, prima, quale sia più da temere, o d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la opinione di Cesare, si debbe estimare poco l'uno e l'altro. Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, "quia ibat ad exercitum sine duce", mostrando la debolezza de' capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contro a Pompeio, disse: "Vado ad ducem sine exercitu".
Puossi considerare un'altra cosa: a quale è più facile, o ad uno buono capitano fare uno buono esercito, o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale questione pare decisa: perché più facilmente molti buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che non farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della servitù degli Spartani, in poco tempo fecero, de' contadini tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l'uno buono può trovare l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo che sia più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodità di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima che venghino alle mani con quello, è convenuto loro instruire lo esercito loro, e farlo buono: perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada, che, se tale ferità fosse stata data a molti, ne sarebbono stimati e riputati meno assai che non sono.
14
Le invenzioni nuove,
che appariscono nel mezzo della zuffa,
e le voci nuove che si odino,
quali effetti facciano.
Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo inclinare uno de' corni del suo esercito, cominciò a gridare forte, che gli stessono saldi perché l'altro corno dello esercito era vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai suoi e sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perché il tutto è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile, occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni sono, divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E perché quella città in su tutti i canti delle vie ha catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già levato il romore all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in grado dicendo "addietro!", cominciò a fare fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e così restò vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì debole accidente.
Dove è da considerare che, non tanto gli ordini in uno esercito sono necessari per potere ordinatamente combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti disordini. Perché, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli altera e fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quegli che abbino a pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che non dichino se non quel che da lui è commesso; perché, non osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere fatti disordini grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli inimici; perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria, questo è efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio, dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi, armò tutti i saccomanni e gente vile del campo; e quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel tempo che la zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a' nimici. La quale cosa così ordinata e fatta, dette tanto terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di stare preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece il re d'India a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono numero di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche, e, quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati con fuochi in su le lance, acciocché i Romani, occupati dalla novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che è da notare, che, quando tali invenzioni hanno più del vero che del fitto, si può bene allora rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai del gagliardo, non si può scoprire così presto la debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto che del vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto, di qualità che le non possino essere così presto scoperte; come fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perché, quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno, e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali benché nel principio turbassono un poco lo esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a loro; gridando: "Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis"; tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono perditori della zuffa.
15
Che uno e non molti
sieno preposti ad uno esercito,
e come i più comandatori offendono.
Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a questo insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de' quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu cagione la virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché un solo riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si conosce la inutilità di molti comandadori in uno esercito, o in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più chiaramente dire che con le infrascritte parole: "Tres Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia, cum alii aliud videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti".
E benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che fanno nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le sue genti a Pisa per ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perché Giovambatista era uomo di riputazione, e di più tempo, Luca al tutto lasciava governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le azioni del campo né con l'opere né con il consiglio, come se fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò quanto con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice: "Saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summam imperii apud unum esse". Il che è contrario a quello che oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne' luoghi, per amministrargli meglio, più d'uno commessario e più d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si cercassi le cagioni della rovina degli eserciti italiani e franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere stata questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità.
16
Che la vera virtù si va
ne' tempi difficili, a trovare;
e ne' tempi facili, non gli uomini virtuosi,
ma quegli che per ricchezze
o per parentado hanno più grazia.
Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perché, per la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico, pensavono all'onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che, nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si facesse questa guerra, e' consigliava cosa che non faceva per lui; perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche è questo disordine, di fare poca stima de' valenti uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale disordine nelle republiche ha causato di molte rovine; perché quegli cittadini che immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono cagione i tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudicio della republica. E pensando quali potessono essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno, mantenere i cittadini poveri, acciocché con le ricchezze sanza virtù e' non potessino corrompere né loro né altri, l'altro, di ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare guerra, e sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città sempre eserciti, sempre vi era luogo alla virtù degli uomini; né si poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad uno che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno solo guerra quando la necessità le costringe, non si possono difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro; e sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino, negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città qualche riputazione e aderenzia. E la città di Roma uno tempo fece difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più le guerre, pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità che gli dessono grazia nel popolo. Perché si vide che Paulo Emilio ebbe più volte la ripulsa nel consolato, né fu prima fatto consolo che surgesse la guerra macedonica; la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta la città fu commessa a lui.
Sendo nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a sorte la città in uno che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti; il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose, tutta l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella elezione del commessario e capo degli eserciti non aveva competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una guerra dove non era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trovò tanti competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari per campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché e' non si vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima coniettura; perché, non avendo più i Pisani da defendersi né da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de' Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano né stringergli né sforzargli, furono tanto intrattenuti che la città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente e buono, a non disiderare di vendicarsene, o con la rovina della città, potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si debbe una republica guardare; come nel seguente capitolo si discorrerà.
17
Che non si offenda uno,
e poi quel medesimo si mandi
in amministrazione e governo
d'importanza.
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella città, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra città che non sia fatta come era allora quella. E perché a simili disordini che nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio, ne seguita che gli è impossibile ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina.
18
Nessuna cosa è più degna d'uno capitano,
che presentire i partiti del nimico.
Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e più utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e' partiti del nimico. E perché tale cognizione è difficile, merita tanto più laude quello che adopera in modo che le coniettura. E non tanto è difficile intendere i disegni del nimico, ch'egli è qualche volta difficile intendere le azioni sue; e non tanto le azioni che per lui si fanno discosto, quanto le presenti e le propinque. Perché molte volte è accaduto che, sendo durata una zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono la guerra; perché, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e disperatosi, per questo errore, della salute, ammazzò sé stesso. Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a Santa Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della vittoria, passò il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano vittoriosi.
Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con lo esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere più sicuri; e lo esercito romano si divise in due parti: l'una ne andò col Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per la virtù del quale lo esercito romano quel giorno non era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza intendere altro de' nimici, si tirò verso Roma; il simile fece lo esercito degli Equi: perché ciascuno di questi credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si ritrasse sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda. Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano, ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come i capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entrò negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi saccheggiò quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese i disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e' può spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessità; e che quello resti poi vincitore che è il primo ad intendere le necessità dello altro.
Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella città; della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che è in sul colle di sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto.
19
Se a reggere una moltitudine
è più necessario l'ossequio che la pena.
Era la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de' plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto si fuggì della sua provincia; Quinzio, per essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait: "In multitudine regenda plus poena quam obsequium valet". E considerando come si possa salvare l'una e l'altra di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti. Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la pena, né quella severità di che ragiona Cornelio; e perché la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la Nobilità, non poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si facevano istraordinariamente temere; se già e' non erano accompagnati da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino insolenti, e che per troppa tua facilità non ti calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio; perché farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba de' sudditi: perché del sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non necessitato, e questa necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è largamente discorso. Meritò adunque, più laude Quinzio che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini suoi, e non ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.
E perché noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare, come uno esemplo di umanità poté appresso i Falisci più che l'armi.
20
Uno esemplo di umanità
appresso i Falisci
potette più che ogni forza romana.
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere più difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di piatà, di castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di superbo, né di crudele, né di lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca.
21
Donde nacque che Annibale,
con diverso modo di procedere
da Scipione
fece quelli medesimi effetti in Italia
che quello in Ispagna.
Io estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come qualche capitano, nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita, abbia nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti nel modo soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie non dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non ti rechino né più forza né più fortuna, potendosi per contrari modi acquistare gloria e riputazione. E per non mi partire dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio quello che io ho voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua umanità e piatà subito farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli. Vedesi, allo incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte le città d'Italia, tutti i popoli lo seguirono.
E pensando donde questa cosa possa nascere, ci si vede dentro più ragioni. La prima è, che gli uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così disiderano il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse, ed è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si fa capo d'una innovazione; e s'egli è forestiero, gli corrono dietro; s'egli è provinciale, gli sono intorno, augumentanlo e favorisconlo: talmenteché, in qualunque modo elli proceda, gli riesce il fare progressi grandi in quegli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due cose principali; o dallo amore, o dal timore: talché, così gli comanda chi si fa amare, come lui che si fa temere; anzi, il più delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi si fa amare.
Importa, pertanto, poco ad uno capitano, per qualunque di queste vie e' si cammini, pure che sia uomo virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini. Perché, quando la è grande, come la fu in Annibale ed in Scipione, ella cancella tutti quegli errori che si fanno per farsi troppo amare o per farsi troppo temere. Perché dall'uno e dall'altro di questi due modi possono nascere inconvenienti grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché colui che troppo desidera essere amato, ogni poco che si parte dalla vera via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di essere temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via del mezzo non si può appunto, perché la nostra natura non ce lo consente: ma è necessario queste cose che eccedono mitigare con una eccessiva virtù, come faceva Annibale e Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e l'altro furono offesi da questi loro modi di vivere, e così furono esaltati.
La esaltazione di tutti a due si è detta. L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici: la quale cosa non nacque da altro che da non lo temere; perché gli uomini sono tanto inquieti, che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione, dimenticano subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la umanità sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto che Scipione, per rimediare a questo inconveniente, fu costretto usare parte di quella crudeltà che elli aveva fuggita. Quanto ad Annibale, non ci è esemplo alcuno particulare, dove quella sua crudeltà e poca fede gli nocesse: ma si può bene presupporre che Napoli, e molte altre terre che stettero in fede del popolo romano, stessero per paura di quella. Viddesi bene questo che quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al popolo romano, che alcuno altro inimico che avesse mai quella Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che egli era con lo esercito in Italia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad Annibale mai, ancora che disarmato e disperso, perdonarono, tanto che lo fecioro morire. Nacquene, adunque, ad Annibale, per essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele, queste incommodità; ma gliene risultò allo incontro una commodità grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori: che, nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni di uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né infra loro medesimi, né contro di lui. Il che non potette dirivare da altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era tanto grande, mescolato con la riputazione che gli dava la sua virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo, dunque, come e' non importa molto in quale modo uno capitano si proceda, pure che in esso sia virtù grande che condisca bene l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è detto, nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando da una virtù istraordinaria non sia corretto. E se Annibale e Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro con detestabili, feciono il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi, ma tutti a due laudabili, una medesima gloria.
22
Come la durezza di Manlio Torquato
e la comità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria.
E' furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono, ma quanto si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti de' soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni generazione di severità sanza intermettere a' suoi soldati o fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall'altra parte, con ogni modo e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza, gl'intratteneva. Per che si vide, che, per avere l'ubbidienza de' soldati, l'uno ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai alcuno. Nondimeno, in tanta diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo frutto, e contro a' nimici ed in favore della republica e suo. Perché nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla voglia di quegli; quantunque gl'imperi di Manlio fussero sì aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati "manliana imperia". Dove è da considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio potette procedere sì umanamente l'altro, quale cagione fe' che questi diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia di loro meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera bene la natura di Manlio d'allora che Tito Livio ne comincia a fare menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e verso la patria, e reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre contro al Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e' n'andò al Consolo con queste parole: "Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam victoriam videam". Venendo, dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che le sono, vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare; altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da notare, che a volere essere ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono proporzione, allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica, con violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che era sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato fusse più forte che il violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti, conviene essere forte; e quello che è di questa fortezza e che le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma chi non è di questa fortezza d'animo, si debbe guardare dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi, dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava la sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e' riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua antica virtù. E se una republica fusse sì felice, ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua. Sì che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de' suoi imperi ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima dalla natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e non era faticosa a osservarla, e non necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non ve n'era; sì perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come è detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e l'altro la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitare costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi modi di procedere sia più laudabile. Il che credo sia disputabile, perché gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno, quegli che scrivono come uno principe si abbia a governare, si accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me, dando di molti esempli della umanità di Ciro, si conforma assai con quello che dice di Valerio, Tito Livio. Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo il dì che doveva combattere, parlò a' suoi soldati con quella umanità con la quale ei si governava; e dopo tale parlare, Tito Livio dice quelle parole: "Non alias militi familiarior dux fuit, inter infimos milites omnia haud gravate mundia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu eodem; nec quemquam aspernari parem qui se offerret; factis benignus pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam suae dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus petierat magistratus, iisdem gerebat". Parla medesimamente, di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo romano ebbe contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa conclusione: che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro esercito, afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio. Talché considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano, sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa parte indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le leggi d'una republica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in favore del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione privata; perché tale modo non si può acquistare partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il bene commune; perché chi fa questo, non si acquista particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse, partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non può essere più utile né più disiderabile in una republica; non mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo essere alcun sospetto della potenza privata. Ma nel modo del procedere di Valerio è il contrario: perché, se bene in quanto al publico si fanno e' medesimi effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni per la particulare benivolenza che colui si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de' Romani corrotti, e quello non essere stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo a considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità, l'umanità, la piatà, e l'altre parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro. Perché lo essere uno principe bene voluto particularmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma con tutte l'altre parti dello stato suo: ma in uno cittadino che abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma già questa parte con l'altre sue parti, che lo hanno a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della Republica viniziana, come, essendo le galee viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al tumulto ed all'armi, né si potendo la cosa quietare né per forza di ministri né per riverenza di cittadini né timore de' magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno gentiluomo che era, l'anno davanti, stato capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione al Senato, che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per morte, se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno principe e pernizioso in uno cittadino; non solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi preparano la via alla tirannide; a sé, perché in sospettando la sua città del modo del procedere suo è costretta assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario, affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte offende; se già questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da sospetto che l'altre tue virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di sotto, di Cammillo si discorrerà.
23
Per quale cagione Cammillo
fusse cacciato di Roma.
Noi abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si nuoce alla patria ed a sé; e, procedendo come Manlio, si giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si pruova assai bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio, parlando di lui, dice, come "eius virtutem milites oderant, et mirabantur".
Quello che lo faceva tenere maraviglioso era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza dello animo, il buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era essere più severo nel gastigargli che liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di questo odio queste cagioni: la prima, che i danari che si trassono de' beni de' Veienti che si venderono, esso gli applicò al publico, e non gli divise con la preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si era voluto agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a Apolline la decima parte della preda de' Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si aveva a trarre delle mani de' soldati che l'avevano di già occupata. Dove si notano bene e facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso appresso il popolo; delle quali la principale è privarlo d'uno utile. La quale è cosa d'importanza assai, perché le cose che hanno in sé utilità, quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima necessità te ne fa ricordare; e perché le necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. L'altra cosa è lo apparire superbo ed enfiato; il che non può essere più odioso a' popoli, e massime a' liberi. E benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che uno principe si debbe guardare come da uno scoglio: perché tirarsi odio addosso senza suo profitto, è al tutto partito temerario e poco prudente.
24
La prolungazione degl'imperii
fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è di uno esemplo notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in tutti i cittadini romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati, e da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii: la quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo alla città di Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù.
25
Della povertà di Cincinnato
e di molti cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che si mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà; né si può credere che altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e' si andava a trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco desiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole auree e celebrata da Tito Livio, dicendo: "Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi effusae affluant opes". Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i Legati del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in quale pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: - Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali tu se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del consolato, e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu impari a sapere essere Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a piede. Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla povertà; e come a un uomo buono e valente, quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano dentro contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi campi fussono stati guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo patisca tale mutazione.
Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che la ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse stata molte volte da altri uomini celebrata.

 

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.20.58