18 |
Come per l'autorità de' Romani, |
e per lo esemplo della antica milizia, |
si debba stimare più le fanterie |
che i cavagli. |
|
E' si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare
chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni estimassono più la milizia a
piede che a cavallo, e sopra quella fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si
vede per molti esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini appresso al
lago Regillo; dove essendo già inclinato lo esercito romano, per soccorrere ai suoi,
fecero discendere, degli uomini a cavallo, a piede, e per quella via, rinnovata la zuffa,
ebbono la vittoria. Dove si vede manifestamente, i Romani avere più confidato in loro
sendo a piede, che mantenendoli a cavallo. Questo medesimo termine usarono in molte altre
zuffe, e sempre lo trovarono ottimo rimedio alli loro pericoli. |
Né si opponga a questo la opinione d'Annibale, il quale, veggendo in
la giornata di Canne che i Consoli avevano fatto discendere a piè li loro cavalieri,
facendosi beffe di simile partito, disse: "Quam mallem vinctos mihi traderent
equites!", cioè: - Io arei più caro che me gli dessino legati -. La quale opinione,
ancoraché la sia stata in bocca d'un uomo eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire
dietro alla autorità, si debbe più credere a una Republica romana, e a tanti capitani
eccellentissimi che furono in quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché, sanza le
autorità, ce ne sia ragioni manifeste: perché l'uomo a piede può andare in di molti
luoghi, dove non può andare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato
che fussi, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è difficile fare servare l'ordine,
ed impossibile, turbati che sono, riordinargli. Oltre a questo, si truova, come negli
uomini, de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno assai: e molte volte
interviene che un cavallo animoso è cavalcato da un uomo vile, e uno cavallo vile da uno
animoso; ed in qualunque modo che segua questa disparità, ne nasce inutilità e
disordine. Possono le fanterie, ordinate, facilmente rompere i cavagli, e difficilmente
essere rotte da quegli. La quale opinione è corroborata, oltre a molti esempli antichi e
moderni, dalla autorità di coloro che danno delle cose civili regola: dove ei mostrano
come in prima le guerre si cominciarono a fare con i cavagli, perché non era ancora
l'ordine delle fanterie; ma come queste si ordinarono, si conobbe subito quanto loro erano
più utili che quelli. Non è per questo però che i cavagli non siano necessarii negli
eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e predare i paesi, per seguitare i nimici
quando ei sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli
avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito, e quello che si debbe più stimare,
debbano essere le fanterie. |
Ed infra i peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia serva
de' forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed
avere volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la
malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato. Perché, essendosi
ridotta la milizia italiana da' venticinque anni indietro, in uomini che non avevano
stato, ma erano come capitani di ventura, pensarono subito come potessero mantenersi la
riputazione, stando armati loro e disarmati i principi. E perché uno numero grosso di
fanti non poteva loro essere continovamente pagato, e non avendo sudditi da potere
valersene, ed uno piccol numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere cavagli:
perché dugento o trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli uomini che tenevono stato non potesse
essere adempiuto. E perché questo seguisse più facilmente, e per mantenersi più in
riputazione, levarono tutta l'affezione e la riputazione da' fanti, e ridussonla in quelli
loro cavagli: e in tanto crebbono in questo disordine, che in qualunque grossissimo
esercito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece in modo debole, insieme
con molti altri disordini che si mescolarono con quella, questa milizia italiana, che
questa provincia è stata facilmente calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi più
apertamente questo errore, di stimare più i cavagli che le fanterie, per uno altro
esemplo romano. Erano i Romani a campo a Sora, ed essendo uscito fuori della terra una
turma di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo incontro il Maestro de' cavagli
romano con la sua cavalleria; e datosi di petto, la sorte dette che nel primo scontro i
capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e durando
nondimeno la zuffa, i Romani, per superare più facilmente il nimico, scesono a piede, e
constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere, a fare il simile: e, con tutto
questo, i Romani ne riportarono la vittoria. Non può essere questo esemplo maggiore in
dimostrare quanto sia più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perché, se nelle altre
fazioni i Consoli facevano discendere i cavalieri romani, era per soccorrere alle fanterie
che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in questo luogo e' discesono, non per
soccorrere alle fanterie né per combattere con uomini a piè de' nimici, ma combattendo a
cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo superargli a cavallo, potere, scendendo,
più facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata non
possa sanza grandissima difficultà essere superata se non da un'altra fanteria. Crasso e
Marc'Antonio romani corsono per il dominio de' Parti molte giornate con pochissimi cavagli
ed assai fanteria, ed allo incontro avevano innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi
rimase, con parte dello esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco
in queste azioni romane si vide quanto le fanterie prevalevano ai cavagli: perché,
essendo in uno paese largo, dove i monti sono radi, i fiumi radissimi, le marine
longinque, e discosto da ogni commodità, nondimanco Marc'Antonio, al giudicio de' Parti
medesimi, virtuosissimamente si salvò; né mai ebbeno ardire tutta la cavalleria partica
tentare gli ordini dello esercito suo. Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le sue
azioni vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che sforzato: né mai, in tutti i suoi
disordini, i Parti ardirono d'urtarlo; anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli
le vettovaglie, e promettendogli e non gli osservando, lo condussono a una estrema
miseria. |
Io crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la virtù
delle fanterie è più potente che quella de' cavalli se non ci fossono assai moderni
esempli che ne rendano testimonianza pienissima. E' si è veduto novemila Svizzeri a
Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare diecimila cavagli ed altrettanti
fanti, e vincergli: perché i cavagli non gli potevano offendere: i fanti, per essere
gente in buona parte guascona e male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi
ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che aveva
seco ventimila cavagli, quarantamila fanti, e cento carra d'artiglierie; e se non vinsono
la giornata come a Novara, ei la combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti
ch'ei furono, la metà di loro si salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con
la fanteria sua sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se il disegno non gli riuscì, non
fu però che la virtù della sua fanteria non fosse tanta, ch' e' non confidasse tanto in
lei che credesse superare quella difficultà. Replico, pertanto, che, a volere superare i
fanti ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di quegli: altrimenti, si
va a una perdita manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in
Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo capitano allora il
Carmignuola, lo mandò con circa mille cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui,
non sappiendo l'ordine del combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi cavagli,
presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo perduti molti de' suoi
uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi
pigliare nuovi partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e, venuto loro
all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d'armi, e, fatto testa di quelle
alle sue fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio:
perché, sendo le genti d'armi del Carmignuola a piè e bene armate, poterono facilmente
entrare intra gli ordini de' Svizzeri, sanza patire alcuna lesione ed entrati tra quegli
poterono facilmente offenderli: talché di tutto il numero di quegli, ne rimase quella
parte viva, che per umanità del Carmignuola fu conservata. |
Io credo che molti conoschino questa differenzia di virtù che è intra
l'uno e l'altro di questi ordini: ma è tanta la infelicità di questi tempi, che né gli
esempli antichi né i moderni né la confessione dello errore è sufficiente a fare che i
moderni principi si ravvegghino; e pensino che, a volere rendere riputazione alla milizia
d'una provincia o d'uno stato, sia necessario risuscitare questi ordini, tenergli
appresso, dare loro riputazione, dare loro vita, acciocché a lui e vita e riputazione
rendino. E come ei deviano da questi modi, così deviano dagli altri modi, detti di sopra:
onde ne nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno stato; come di sotto
si dirà. |
19 |
Che gli acquisti nelle republiche |
non bene ordinate, |
e che secondo la romana virtù |
non procedano, sono a ruina, |
non ad esaltazione di esse. |
|
Queste contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali esempli che
da questi nostri corrotti secoli sono stati introdotti, fanno che gli uomini non pensono a
deviare dai consueti modi. Quando si sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta
anni in dietro che diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila cavagli ed
altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere ma vincergli, come si vide per lo
esemplo da noi più volte allegato, a Novara? E benché le istorie ne siano piene, tamen
non ci arebbero prestato fede; e se ci avessero prestato fede, arebbero detto che in
questi tempi s'arma meglio, e che una squadra di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno
scoglio, non che una fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il giudizio
loro; né arebbero considerato che Lucullo con pochi fanti ruppe cento cinquantamila
cavalli di Tigrane, e che fra quelli cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto
agli uomini d'arme nostri: e così, come questa fallacia è stata scoperta dallo esemplo
delle genti oltramontane. E come e' si vede, per quello, essere vero, quanto alla
fanteria, quello che nelle istorie si narra, così doverrebbero credere essere veri e
utili tutti gli altri ordini antichi. E quando questo fusse creduto, le republiche ed i
principi errerebbero meno; sariano più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro
addosso; non spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere civile,
lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via dello ampliare, o per la via del
mantenere; e crederebbono che lo accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e
non sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare capitale delle prede,
domare il nimico con le scorrerie e con le giornate e non con le ossidioni, tenere ricco
il publico, povero il privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la
vera via a fare grande una republica, e ad acquistare imperio. E quando questo modo dello
ampliare non gli piacessi, penserebbe che gli acquisti per ogni altra via sono la rovina
delle republiche, e porrebbe freno a ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro
con le leggi e co' costumi, proibendole lo acquistare, e solo pensando a difendersi, e le
difese tenere ordinate bene: come fanno le republiche della Magna, le quali in questi modi
vivano e sono vivute libere un tempo. |
Nondimeno, come altra volta dissi quando discorsi la differenza che
era, da ordinarsi per acquistare e ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una
republica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perché,
se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà
la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo
troverrebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi. E se le
republiche della Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo,
nasce da certe condizioni che sono in quel paese, le quali non sono altrove, sanza le
quali non potrebbero tenere simile modo di vivere. |
Era quella parte della Magna di che io parlo, sottoposta allo Imperio
romano come la Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo
di tale Imperio in quella provincia, cominciarono quelle città più potenti, secondo la
viltà o necessità degl'imperadori, a farsi libere, ricomperandosi dallo Imperio, con
riservargli un piccol censo annuario; tanto che, a poco a poco, tutte quelle città che
erano immediate dello imperadore, e non erano suggette d'alcuno principe, si sono in simil
modo ricomperate. Occorse, in questi medesimi tempi che queste città si ricomperavano,
che certe comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui; tra le quali fu
Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali prosperando nel principio, pigliarono a poco a
poco tanto augumento, che, non che e' siano tornati sotto il giogo di Austria, sono in
timore a tutti i loro vicini: e questi sono quegli che si chiamano i Svizzeri. È,
adunque, questa provincia compartita in Svizzeri, republiche che chiamano terre franche,
principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di vivere, non vi
nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le guerre, è quel segno dello
imperadore; il quale, avvenga che non abbi forze, nondimeno ha infra loro tanta
riputazione ch'egli è un loro conciliatore, e con l'autorità sua, interponendosi come
mezzano, spegne subito ogni scandolo. E le maggiori e le più lunghe guerre vi siano
state, sono quelle che sono seguite intra i Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché da
molti anni in qua lo imperadore ed il duca d'Austria sia una medesima cosa, non pertanto
non ha mai possuto superare l'audacia de' Svizzeri; dove non è stato mai modo d'accordo,
se non per forza. Né il resto della Magna gli ha porti molti aiuti; sì perché le
comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì perché quelli
principi, parte non possono, per essere poveri, parte non vogliono, per avere invidia alla
potenza sua. Possono vivere, adunque, quelle comunità contente del piccolo loro dominio,
per non avere cagione, rispetto all'autorità imperiale, di disiderarlo maggiore: possono
vivere unite dentro alle mura loro, per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le
occasioni di occuparle, qualunque volta le discordassono. Ché, se quella provincia fusse
condizionata altrimenti, converrebbe loro cercare di ampliare e rompere quella loro
quiete. E perché altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo modo di
vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i Romani. E chi si governa
altrimenti, cerca non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perché in mille modi e per
molte cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta molto bene, insieme acquistare
imperio e non forze; e chi acquista imperio e non forze insieme, conviene che rovini. Non
può acquistare forze chi impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei
mette più che non trae degli acquisti: come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i
quali sono stati molto più deboli, quando l'uno aveva la Lombardia e l'altro la Toscana,
che non erano quando l'uno era contento del mare, e l'altro di sei miglia di confini. |
Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non avere saputo
pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo, quanto eglino hanno meno scusa, avendo
veduto il modo hanno tenuto i Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i
Romani, sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro medesimi lo seppono trovare.
Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta non mediocre danno ad ogni bene
ordinata republica, quando e' si acquista una città o una provincia piena di delizie,
dove si può pigliare di quegli costumi per la conversazione che si ha con quegli: come
intervenne a Roma, prima, nello acquisto di Capova, e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse
stata più longinqua dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il rimedio
propinquo, o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta, era, sanza dubbio, quello
acquisto la rovina della romana Repubblica. E Tito Livio fa fede di questo con queste
parole: "Iam tunc minime salubris militari disciplinae Capua, instrumentum omnium
voluptatum, delinitos militum animos avertit a memoria patriae". E veramente, simili
città o provincie si vendicano contro al vincitore sanza zuffa e sanza sangue; perché,
riempiendogli de' suoi tristi costumi, gli espongono a essere vinti da qualunque gli
assalti. E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire, avere considerata questa parte,
dicendo che ne' petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano entrati i
costumi peregrini; ed in cambio di parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, "gula
et luxuria incubuit, victumque ulciscitur orbem". Se, adunque, lo acquistare fu per
essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli con tanta prudenzia e tanta virtù
procedevono, che sarà adunque a quegli che discosto dai modi loro procedono? e che, oltre
agli altri errori che fanno, di che se n'è di sopra discorso assai, si vagliano de'
soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro spesso quelli danni di che nel
seguente capitolo si farà menzione. |
20 |
Quale pericolo porti quel principe |
o quella republica che si vale |
della milizia ausiliare o mercenaria. |
|
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia
inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in
questo discorso assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò, in
questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da passarla, avendo trovato in Tito Livio,
quanto a' soldati ausiliari, sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono quegli
che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E venendo
al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti
de' Sanniti con gli eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per
questo liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare
verso Roma, ed a ciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo
preda de' Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le
quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in quello; tanto che,
dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere l'armi ed
insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso; parendo loro che
gli abitatori non fussono degni di possedere quegli beni che non sapevano difendere. La
quale cosa presentita, fu da' Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle
congiure, largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre qualità
de' soldati, gli ausiliari sono i più dannosi: perché in essi quel principe o quella
repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo
l'autorità colui che gli manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono
mandati da uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati
da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali soldati,
vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano così colui che gli ha condotti, come
colui contro a chi e' sono condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli
manda, o per ambizione loro. E benché la intenzione de' Romani non fusse di rompere
l'accordo e le convenzioni avevano fatto co' Capovani; non per tanto la facilità che
pareva a quegli soldati di opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a pensare di
tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai esempli, ma voglio
mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu tolto la vita e la terra da una legione
che i Romani vi avevano messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica
pigliare prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per sua difesa
genti ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare sopra quelle; perché ogni patto,
ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli arà col nimico gli sarà più leggieri che
tale partito. E se si leggeranno bene le cose passate, e discorrerannosi le presenti, si
troverrà, per uno che ne abbi avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati. |
Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore
occasione di occupare una città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli
eserciti suoi alla difesa di quella. Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non
solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca d'acquistare
quello che non può tenere, e che, da quello che gliene acquista, gli può facilmente
essere tolto. Ma l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente
voglia, non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né lo muovono gli
antichi esempli, così in questo come nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono
mossi da quegli, vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di
essere più alieno da occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto, per lo
esemplo de' Capovani, si dirà. |
21 |
Il primo Pretore ch'e' Romani |
mandarono in alcuno luogo, fu a Capova, |
dopo quattrocento anni che cominciarono |
a fare guerra. |
|
Quanto i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare,
fossero differenti da quegli che ne' presenti tempi ampliano la giurisdizione loro, si è
assai di sopra discorso; e come e' lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere
con le leggi loro, eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si arrendevano
loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio per il Popolo romano, ma le
obligavano a alcune condizioni, le quali osservando le mantenevano nello stato e dignità
loro. E conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli uscirono d'Italia, e
che cominciarono a indurre i regni e gli stati in provincie. |
Di questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che fussi
mandato da loro in alcun luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono, non per loro
ambizione, ma perché e' ne furono ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro
discordia, giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno cittadino romano
che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo gli Anziati mossi, e constretti dalla
medesima necessità, domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio dice, in su
questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare "quod jam non solum arma, sed
iura romana pollebant". Vedesi, pertanto, quanto questo modo facilitò lo augumento
romano. Perché quelle città, massime che sono use a vivere libere, o consuete governarsi
per sua provinciali, con altra quiete stanno contente sotto uno dominio che non veggono,
ancora ch'egli avesse in sé qualche gravezza, che sotto quello che veggendo ogni giorno,
pare loro che ogni giorno sia rimproverata loro la servitù. Appresso, ne seguita uno
altro bene per il principe: che, non avendo i suoi ministri in mano i giudicii ed i
magistrati che civilmente o criminalmente rendono ragione in quelle cittadi, non può
nascere mai sentenza con carico o infamia del principe: e vengono per questa via a mancare
molte cagioni di calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il vero, oltre agli
antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce n'è uno esemplo fresco in Italia.
Perché, come ciascuno sa, sendo Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre
quel re, eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno governatore francioso che in
suo nome la governi. Al presente solo, non per elezione del re, ma perché così ha
ordinato la necessità, ha lasciato governarsi quella città per sé medesima, e da uno
governatore genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di questi due modi rechi più
sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più contentezza a quegli popolari, sanza dubbio
approverebbe questo ultimo modo. Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti si gettono in
grembo, quanto più tu pari alieno dallo occupargli; e tanto meno ti temano per conto
della loro libertà, quanto più se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e
liberalità fece i Capovani correre a chiedere il Pretore a' Romani: ché se a' Romani si
fusse dimostro una minima voglia di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero
discostati da loro. |
Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in
Firenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la città di Pistoia venne
volontariamente sotto lo imperio fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata
intra i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità di animo non è
nata, perché i Pistolesi non prezzino la loro libertà come gli altri, e non si
giudichino da quanto gli altri; ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come
frategli, e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i Pistolesi sono corsi
volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni forza per non vi
pervenire. E sanza dubbio, se i Fiorentini o per vie di leghe o di aiuti avessero
dimesticati e non insalvatichiti i suoi vicini, a questa ora, sanza dubbio, e' sarebbero
signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi che non si abbia adoperare l'armi e
le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non
bastino. |
22 |
Quanto siano false |
molte volte le opinioni degli uomini |
nel giudicare le cose grandi. |
|
Quanto siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto
e veggono coloro che si truovono testimoni delle loro diliberazioni: le quali, molte
volte, se non sono diliberate da uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni verità. E
perché gli eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei tempi quieti massime, e per
invidia e per altre ambiziose cagioni, sono inimicati, si va dietro a quello che o, da uno
comune inganno è giudicato bene, o, da uomini che più presto vogliono i favori che il
bene dello universale, è messo innanzi. Il quale inganno dipoi si scuopre nei tempi
avversi, e per necessità si rifugge a quegli che nei tempi quieti erano come dimenticati:
come nel suo luogo in questa parte appieno si discorrerà. Nascono ancora certi accidenti,
dove facilmente sono ingannati gli uomini che non hanno grande isperienza delle cose,
avendo in sé, quello accidente che nasce, molti verisimili, atti a fare credere quello
che gli uomini sopra tale caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che
Numicio pretore, poiché i Latini furono rotti dai Romani, persuase loro, e per quello
che, pochi anni sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne allo
acquisto di Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto Luigi XII,
e succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e desiderando restituire al regno
il ducato di Milano, stato, pochi anni davanti, occupato da' Svizzeri mediante i conforti
di Papa Iulio II, desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa; ed
oltre a' Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa Leone X;
parendogli la sua impresa più facile, qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per
essere genti del re di Spagna in Lombardia, ed altre forze dello imperadore in Verona. Non
cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da quegli che lo consigliavano
(secondo si disse) si stesse neutrale, mostrandogli in questo partito consistere la
vittoria certa: perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in Italia né il re né
i Svizzeri ma, volendola ridurre nell'antica libertà, era necessario liberarla dalla
servitù dell'uno e dell'altro. E perché vincere l'uno e l'altro, o di per sé o tutti a
dua insieme, non era possibile; conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa
con gli suoi amici urtasse quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed era impossibile
trovare migliore occasione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su i campi, ed avendo
il Papa le sue forze a ordine da potere rappresentarsi in su i confini di Lombardia, e
propinquo a l'uno e l'altro esercito, sotto colore di volere guardare le cose sue, e quivi
stare tanto che venissono alla giornata, la quale ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro
esercito virtuoso, doverrebbe essere sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in
modo debilitato il vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e romperlo: e così
verrebbe con sua gloria a rimanere signore di Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E
quanto questa opinione fusse falsa, si vide per lo evento della cosa: perché, sendo dopo
una lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti del Papa e di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si prepararono alla fuga; la quale ancora non
sarebbe loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la freddezza del re, che non
cercò la seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la Chiesa. |
Ha questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono al
tutto aliene dalla verità. Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi
soldati: perché de' vincitori ne muore nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del
combattere, quando gli uomini hanno volto il viso l'uno all'altro, ne cade pochi, massime
perché la dura poco tempo, il più delle volte; e quando pure durasse assai tempo e de'
vincitori ne morisse assai, è tanta la riputazione che si tira dietro la vittoria, ed il
terrore che la porta seco, che di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati
avesse sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la opinione che fusse
debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe ingannato; se già, e' non fusse lo
esercito tale che d'ogni tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse combatterlo. In
questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù, vincere e perdere; ma quello che
si fusse azzuffato prima, ed avesse vinto, arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che
si conosce certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio pretore
prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli che gli crederono: il quale, vinto
che i Romani ebbero i Latini, gridava per tutto il paese di Lazio, che allora era tempo
assaltare i Romani debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che solo appresso a'
Romani era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli altri danni avevano sopportati come
se fussino stati vinti; e che ogni poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per
spacciargli. Donde quegli popoli, che gli crederono, fecero nuovo esercito, e subito
furono rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre coloro che terranno simile
opinione. |
23 |
Quanto i Romani |
nel giudicare i sudditi |
per alcuno accidente che necessitasse |
tale giudizio |
fuggivano la via del mezzo. |
|
"Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati
possent". Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo quello d'uno principe o d'una
republica che è ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a
che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e dall'altro
canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere
preda del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi
partiti, da non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella
republica o quel principe che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel
termine si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i Romani,
accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e così seppono
fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu loro equalmente dannosa. Erano,
dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da
Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed
avendo messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi;
tornato in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E
perché questo giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare
quando simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste
in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono in ampliare, e
come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi.
Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano
offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti,
o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di
mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per
il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: "Dii
immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra
manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel
saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios victosque?
licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem romanam, victos in civitatem
accipiendo? materia crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum imperium
est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena
seu beneficio praeoccupari oportet". A questa proposta successe la diliberazione del
Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per terra,
tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai
beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli;
di quegli altri sfasciarono le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma,
dissiparongli talmente che con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né
usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono
i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò
Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero assicurato lo imperio
loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli
mancono. Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli
uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli
onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno
cittadino nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva
essere più savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della republica disfarla, perché e'
parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di quelle che
paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si arebbe a ammazzare uno
parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non
avere forze da potere frenare uno uomo solo. E non veggono, questi tali che hanno simili
opinioni, come gli uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta
contro a uno stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio
uno principe che spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel
potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo
che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani
dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de'
Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una, quello che di
sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere: l'altra, quanto la
generosità dell'animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel
conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati,
i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana.
Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed
essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de' Senatori,
"quam poenam meritos Privernates censeret". Al quale il Privernate rispose:
"Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent". Al quale il Consolo
replicò: "Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros
speremus?". A che quello rispose: "Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam,
si malam, haud diuturnam". Donde la più savia parte del Senato, ancora che molti se
ne alterassono, disse: "se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum
populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse
sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi
servitutem esse velint, fidem sperandam esse". Ed in su queste parole, deliberarono
che i Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono,
dicendo: "eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui
Romani fiant". Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa risposta;
perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile. |
E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che
sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno
pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che nascano le spesse
ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e per
questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a giudicare cittadi potenti e che
sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è
vano. E debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai
Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire
il parere di quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o
che si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli
sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi
conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro
diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si discorrerà. |
24 |
Le fortezze generalmente |
sono molto più dannose che utili. |
|
E' parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di Lazio e della città di
Priverno, non pensassono di edificarvi qualche fortezza, la quale fosse uno freno a
tenergli in fede; sendo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi, che Pisa
e l'altre simili città si debbono tenere con le fortezze. E veramente, se i Romani
fussono stati fatti come loro, egli arebbero pensato di edificarle; ma perché gli erano
d'altra virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e' non le edificarono. E mentre che
Roma visse libera, e che la seguì gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai
n'edificò per tenere o città o provincie, ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde
veduto il modo del procedere de' Romani in questa parte, e quello de' principi de' nostri
tempi, mi pare da mettere in considerazione, s'egli è bene edificare fortezze, o se le
fanno danno o utile a quello che l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le fortezze
si fanno o per difendersi dagl'inimici o per difendersi da' suggetti. Nel primo caso le
non sono necessarie; nel secondo, dannose. E cominciando a rendere ragione perché, nel
secondo caso, le siano dannose, dico che quel principe o quella republica che ha paura de'
sudditi suoi e della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che
abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o
da potere credere tenergli con forza, o da poca prudenza di chi gli governa: ed una delle
cose che fa credere potergli forzare, è l'avere loro addosso le fortezze; perché e' mali
trattamenti, che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte per avere quel principe o
quella republica le fortezze: le quali, quando sia vero questo, di gran lunga sono più
nocive che utili. Perché in prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e più
violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà, dentro, che tu ti persuadi:
perché tutte le forze, tutte le violenze che si usono per tenere uno popolo, sono nulla,
eccetto che due; o che tu abbia sempre da mettere in campagna uno buono esercito, come
avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga, disordini e disgiunga, in modo che non
possano convenire a offenderti. Perché, se tu gl'impoverisci, "spoliatis arma
supersunt"; se tu gli disarmi, "furor arma ministrat"; se tu ammazzi i
capi, e gli altri segui d' ingiuriare, rinascono i capi, come quelli della Idra, se tu fai
le fortezze, le sono utili ne' tempi di pace, perché ti dànno più animo a fare loro
male ma ne' tempi di guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico e da'
sudditi, né è possibile che le faccino resistenza ed all'uno ed all'altro. E se mai
furono disutili, sono, ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore delle
quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare con gli ripari, è impossibile
difendere, come di sopra discorremo. |
Io voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu, principe,
vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della tua città; o tu, principe, o
republica, vuoi frenare una città occupata per guerra. Io mi voglio voltare al principe,
e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini, non può essere più
inutile per le cagioni dette di sopra; perché la ti fa più pronto e men rispettivo a
oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua rovina, e gli accende in
modo, che quella fortezza, che ne è cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un
principe savio e buono, per mantenersi buono, per non dare cagione né ardire a' figliuoli
di diventare tristi, mai non farà fortezza, acciocché quelli, non in su le fortezze, ma
in su la benivolenza degli uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato
duca di Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una fortezza, dico che in
questo ei non fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale fortezza fu a danno, e non a
sicurtà de' suoi eredi. Perché giudicando mediante quella vivere sicuri, e potere
offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna generazione di violenza;
talché, diventati sopra modo odiosi, perderono quello stato come prima il nimico gli
assaltò: né quella fortezza gli difese, né fece loro nella guerra utile alcuno, e nella
pace aveva fatto loro danno assai. Perché se non avessono avuto quella, e se per poca
prudenza avessono agramente maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo
più tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più animosamente resistere
allo impeto francioso, co' sudditi amici sanza fortezza, che, con quelli inimici, con la
fortezza: le quali non ti giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di
chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu vuoi che le ti
giovino, e ti aiutino ricuperare uno stato perduto, dove ti sia rimasa solo la fortezza;
ti conviene avere uno esercito, con il quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato:
e quando tu abbi questo esercito, tu riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la fortezza
non vi fosse; e tanto più facilmente, quanto gli uomini ti fossono più amici che non ti
erano avendogli male trattati per l'orgoglio della fortezza. E per isperienza si è visto,
come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi né a' Franciosi, ne' tempi avversi
dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di loro utile alcuno, anzi a tutti ha
arrecato danno e rovine assai, non avendo pensato, mediante quella, a più onesto modo di
tenere quello stato. Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi
tempi tanto stimato capitano, sendo cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa
Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò, fece rovinare
tutte le fortezze che erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché, sendo
quello amato dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e, per conto de' nimici,
vedeva non le potere difendere, avendo quelle bisogno d'uno esercito in campagna, che le
difendesse: talché si volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna
fece in quella città una fortezza; e dipoi faceva assassinare quel popolo da uno suo
governatore: talché quel popolo si ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non gli
giovò la fortezza; e l'offese, intanto che, portandosi altrimenti, gli arebbe giovato.
Niccolò da Castello, padre de' Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito
disfece due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando, non la fortezza, ma la
benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato. Ma di tutti gli altri esempli
il più fresco ed il più notabile in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità dello
edificarle e l'utilità del disfarle, è quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi.
Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne
personalmente e con tutte le forze sue a riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una
fortezza, fortissima di tutte le altre delle quali al presente si avesse notizia: perché
era, per sito e per ogni altra circunstanza, inespugnabile, posta in su una punta di colle
che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi Codefà; e, per questo, batteva tutto il
porto e gran parte della città di Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le
genti franciose d'Italia, Genova, nonostante la fortezza, si ribellò, e prese lo stato di
quella Ottaviano Fregoso; il quale con ogni industria, in termine di sedici mesi, per fame
la espugnò. E ciascuno credeva, e da molti n'era consigliato, che la conservasse per suo
refugio in ogni accidente; ma esso, come prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma
la volontà degli uomini mantenevono i principi in stato, la rovinò. E così, sanza
fondare lo stato suo in su la fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo ha tenuto e
tiene. E dove a variare lo stato di Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari
suoi lo hanno assaltato con diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi adunque per
questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il farla non difese il re.
Perché, quando ei potette venire in Italia con lo esercito, ei potette ricuperare Genova,
non vi avendo fortezza; ma quando ei non potette venire in Italia con lo esercito, ei non
potette tenere Genova, avendovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il farla, e
vergognoso il perderla; a Ottaviano, glorioso il riacquistarla, ed utile il rovinarla. |
Ma vegnamo alle republiche che fanno le fortezze non nella patria, ma
nelle terre che le acquistano. Ed a mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo
esemplo detto, di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i Fiorentini
fecero le fortezze per tenere quella città; e non conobbero che una città stata sempre
inimica del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha alla rebellione per rifugio la
libertà, era necessario, volendola tenere, osservare il modo romano; o farsela compagna,
o disfarla. Perché la virtù delle fortezze si vide nella venuta del re Carlo; al quale
si dettono o per poca fede di chi le guardava o per timore di maggiore male: dove, se le
non fussono state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra quelle, e
quel re non arebbe potuto per quella via privare i Fiorentini di quella città; e i modi
con gli quali si fusse mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per avventura
sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero fatto più cattiva prova che le
fortezze. Conchiudo adunque, che, per tenere la patria propria, la fortezza è dannosa;
per tenere le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio mi basti
l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano tenere con violenza, smuravano,
e non muravano. E chi contro a questa opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e
ne' moderni Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono recuperati dalla
ribellione de' sudditi, rispondo che alla ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno,
fu mandato Fabio Massimo con tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a ricuperarlo
eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e se Fabio usò quella via, quando la non vi
fusse stata, ne arebbe usata un'altra che arebbe fatto il medesimo effetto. Ed io non so
di che utilità sia una fortezza che, a renderti la terra, abbia bisogno, per la
ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare e d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i
Romani l'avessono ripresa in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era
fortezza, e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma vegnamo a Brescia. Dico, come
rade volte occorre quello che occorse in quella rebellione, che la fortezza che rimane
nelle forze tua, sendo ribellata la terra, abbi uno esercito grosso e propinquo, come era
quel de' Franciosi: perché, sendo monsignor di Fois, capitano del re, con lo esercito a
Bologna, intesa la perdita di Brescia, sanza differire ne andò a quella volta, ed in tre
giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto, ancora la
fortezza di Brescia, a volere che la giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno
esercito francioso che in tre dì la soccorresse. Sì che lo esemplo di questo, allo
incontro delli esempli contrari, non basta; perché assai fortezze sono state, nelle
guerre de' nostri tempi, prese e riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa
la campagna, non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di Napoli, e per tutte
le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare fortezze per difendersi da' nimici di fuori,
dico che le non sono necessarie a quelli popoli ed a quelli regni che hanno buoni
eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili: perché i buoni eserciti
sanza le fortezze sono sofficienti a difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti
possono difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono stati e ne' governi
e nell'altre cose tenuti eccellenti; come si vede de' Romani e degli Spartani: che, se i
Romani non edificavano fortezze, gli Spartani, non solamente si astenevano da quelle, ma
non permettevano di avere mura alle loro città; perché volevono che la virtù dell'uomo
particulare, non altro defensivo, gli difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle, gli rispose: - Sì,
s'elle fussono abitate da donne -. Quello principe, adunque, che abbi buoni eserciti,
quando in sulle marine e alla fronte dello stato suo abbia qualche fortezza che possa
qualche dì sostenere el nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa utile, qualche
volta, ma non è necessaria. Ma quando il principe non ha buono esercito, avere le
fortezze per il suo stato, o alle frontiere, gli sono o dannose o inutili: dannose,
perché facilmente le perde, e perdute gli fanno guerra; o, se pure le fussono sì forti
che il nimico non le potessi occupare, sono lasciate indietro dallo esercito inimico, e
vengono a essere di nessuno frutto; perché i buoni eserciti, quando non hanno
gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi inimici sanza rispetto di città o di fortezze
che si lascino indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece Francesco
Maria, il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si lasciò indietro dieci città
inimiche, sanza alcuno rispetto. Quel principe, adunque, che può fare buono esercito,
può fare sanza edificare fortezze; quello che non ha lo esercito buono, non debbe
edificarle. Debbe bene afforzare la città dove abita, e tenerla munita, e bene disposti i
cittadini di quella, per potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o che
aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi di pace, ed
inutili ne' tempi di guerra. E così, chi considererà tutto quello ho detto, conoscerà i
Romani, come savi in ogni altro loro ordine, così furono prudenti in questo giudizio de'
Latini e de' Privernati; dove, non pensando a fortezze, con più virtuosi modi e più savi
se ne assicurarono. |
25 |
Che lo assaltare una città disunita, |
per occuparla mediante la sua disunione, |
è partito contrario. |
|
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la
Nobilità, che i Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono
potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma,
mandò il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo condotto il loro
esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i Veienti, e con assalti e con
obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fu tanta la loro temerità ed
insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano
e vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel
pigliare de' partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa, e la perdono.
Credettono i Veienti, assaltando i Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione
della unione di quegli, e della rovina loro. Perché la cagione della disunione delle
republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e
la guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto più disunita
vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l'arti della pace cerco
di oppressargli. Il modo è cercare di diventare confidente di quella città che è
disunita; ed infino che non vengono all'armi, come arbitro maneggiarsi intra le parti.
Venendo alle armi, dare lenti favori alla parte più debole; sì per tenergli più in su
la guerra, e fargli consumare; sì perché le assai forze non gli facessero dubitare
tutti, che tu volessi opprimergli e diventare loro principe. E quando questa parte è
governata bene, interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai presupposto.
La città di Pistoia, come in altro discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto
alla Republica di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella divisa, e
favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza carico dell'una e dell'altra la
condussono in termine, che, stracca in quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a
gittarsi in le braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato stato, col favore
de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi. Perché, quando ei sono
stati assai e gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che
regge. Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca di
Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre
ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie
de' Fiorentini gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono
adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veienti e gli Toscani da questa opinione, e
furano alfine in una giornata superati da' Romani. E così per lo avvenire ne resterà
ingannato qualunque per simile via e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo. |
26 |
Il vilipendio e l'improperio genera odio |
contro a coloro che l'usano, |
sanza alcuna loro utilità. |
|
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini,
astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e
l'altra non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere
maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi questo
per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è discorso; i quali alla
ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale
ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perché le sono cose che
infiammano ed accendano il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come
è detto, alla offesa; tanto che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne
seguì già uno esemplo notabile in Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a
campo a Amida più tempo, ed avendo deliberato, stracco dal tedio della ossidione,
partirsi; levandosi già con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le mura,
insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria, vituperando,
accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato,
mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che
in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a'
quali, come è detto, non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con le parole gli
vituperarono, ed andando infino in su lo steccato del campo a dire loro ingiuria,
gl'irritarono molto più con le parole che con le armi: e quegli soldati che prima
combattevano mal volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa, talché i Veienti
portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i buoni
principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a fare ogni opportuno rimedio,
che queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, né
infra loro, né contro al nimico: perché, usati contro al nimico, ne riescono
gl'inconvenienti soprascritti; infra loro, farebbero peggio, non vi si riparando, come vi
hanno sempre gli uomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane, state lasciate a
Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si narrerà; ed essendone di
questa congiura nata una sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le
altre constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a coloro che
rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto,
nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di servi che i Romani, per carestia
d'uomini, avevano armati, ordinò, intra le prime cose, pena capitale a qualunque
rimproverasse la servitù a alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si
è detto, cosa dannosa il vilipendere gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna;
perché non è cosa che accenda tanto gli animi loro, né generi maggiore isdegno, o da
vero o da beffe che si dica: "Nam facetiae asperae, quando nimium ex vero traxere,
acrem sui memoriam relinquunt". |
27 |
Ai principi e republiche prudenti |
debbe bastare vincere; |
perché, il più delle volte, |
quando e' non basta, si perde. |
|
Lo usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più delle
volte da una insolenzia che ti dà o la vittoria o la falsa speranza della vittoria; la
quale falsa speranza fa gli uomini non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare.
Perché questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa loro passare il segno;
e perdere, il più delle volte, quella occasione dell'avere uno bene certo, sperando di
avere un meglio incerto. E perché questo è un termine che merita considerazione,
ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello stato loro, e' mi pare da
dimostrarlo particularmente con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni
così distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i Romani a Canne, mandò
suoi oratori a Cartagine a significare la vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in
Senato di quello che si avesse a fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente
cittadino cartaginese, che si usasse questa vittoria saviamente in fare pace con i Romani,
potendola avere con condizioni oneste, avendo vinto; e non si aspettasse di averla a fare
dopo la perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi doveva essere, mostrare a' Romani
come e' bastavano a combatterli; ed avendosene avuto vittoria, non si cercasse di perderla
per la speranza d'una maggiore. Non fu preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato
cartaginese, conosciuto savio, quando la occasione fu perduta. Avendo Alessandro Magno
già preso tutto l'oriente, la republica di Tiro, nobile in quelli tempi, e potente per
avere la loro città in acqua come i Viniziani, veduta la grandezza di Alessandro, gli
mandarono oratori a dirli, come volevano essere suoi buoni servidori e darli quella
ubbidienza voleva, ma che non erano già per accettare né lui né sue genti nella terra;
donde sdegnato Alessandro, che una città gli volesse chiudere quelle porte che tutto il
mondo gli aveva aperte, gli ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi andò a
campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre munizioni necessarie
alla difesa, munita: tanto che Alessandro, dopo quattro mesi, si avvide che una città gli
toglieva quel tempo alla sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e
diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che per loro medesimi avevano
domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti, non solamente non vollero accettare lo accordo,
ma ammazzarono chi venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta forza si
misse alla ispugnazione, che la prese, disfece, ed ammazzò e fece schiavi gli uomini. |
Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino per
rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città, condotti da cittadini d'entro, i
quali avevano dato loro speranza, che, subito fussono in sul dominio fiorentino,
piglierebbero l'armi in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo
alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di che insuperbito il
popolo di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la perdita di Prato, e la rovina di
quello stato. Non possono, pertanto, i principi, che sono assaltati, fare il maggiore
errore, quando lo assalto è fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che
recusare ogni accordo, massime quando egli è offerto: perché non sarà mai offerto sì
basso, che non vi sia dentro in qualche parte il bene essere di colui che lo accetta, e vi
sarà parte della sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che
Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima rifiutate ed era assai
vittoria la loro, quando con l'arme in mano avevano fatto condiscendere uno tanto uomo
alla voglia loro. Doveva bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai vittoria,
se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di quello e le sue non adempiva
tutte: perché la intenzione di quello esercito era mutare lo stato in Firenze, levarlo
dalla divozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di tre cose e' ne avesse avute
due, che son l'ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che era la conservazione dello
stato suo, ci aveva dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione: né si doveva il
popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva volere, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione
della fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque prudente mai arrischierà
se non necessitato. Annibale, partito d'Italia, dove era stato sedici anni glorioso,
richiamato da' suoi Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine intra i termini delle sue mura,
alla quale non restava altro refugio che esso e lo esercito suo. Conoscendo come quella
era l'ultima posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe
tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di domandare la pace, giudicando, se alcuno
rimedio aveva la sua patria, era in quella e non nella guerra: la quale sendogli poi
negata, non volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur vincere,
o, perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale era tanto virtuoso ed aveva il
suo esercito intero, cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo
quella, la sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di manco virtù e di manco
isperienza di lui? Ma gli uomini fanno questo errore, che non sanno porre termini alle
speranze loro; ed in su quelle fondandosi, sanza misurarsi altrimenti, rovinano. |
28 |
Quanto sia pericoloso a una republica |
o a uno principe |
non vendicare una ingiuria |
fatta contro al publico o contro |
al privato. |
|
Quello che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce
per quello che avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre Fabii oratori a' Franciosi, che
erano venuti a assaltare la Toscana, ed in particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il
popolo di Chiusi per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono ambasciadori a'
Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano, significassero loro che si astenessero di
fare guerra a' Toscani. I quali oratori, sendo in su 'l luogo, e più atti a fare che a
dire, venendo i Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra i primi a combattere
contro a quelli: onde ne nacque che, essendo conosciuti da loro, tutto lo sdegno avevano
contro a' Toscani, volsero contro a' Romani. Il quale sdegno diventò maggiore, perché,
avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con il Senato romano di tale
ingiuria, e domandato che in soddisfazione del danno fussino loro dati i soprascritti
Fabii, non solamente non furono consegnati loro, o in altro modo gastigati, ma venendo i
comizi, furono fatti Tribuni con potestà consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli
onorati che dovevano essere puniti, ripresono tutto essere fatto in loro dispregio e
ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a assaltare Roma, e quella presono,
eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai Romani solo per la inosservanza della
giustizia; perché, avendo peccato i loro ambasciatori "contra ius gentium", e
dovendo esserne gastigati, furono onorati. Però è da considerare quanto ogni republica
ed ogni principe debbe tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente contro a una
universalità, ma ancora contro a uno particulare. Perché, se uno uomo è offeso
grandemente o dal publico o dal privato e non sia vendicato secondo la soddisfazione sua;
se e' vive in una republica, cerca, ancora che con la rovina di quella, vendicarsi; se e'
vive sotto un principe, ed abbi in sé alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino
che in qualunque modo si vendichi contro a di colui, come che egli vi vedesse, dentro, il
suo proprio male. |
Per verificare questo, non ci è il più bello né il più vero esemplo
che quello di Filippo re di Macedonia, padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte
Pausania, giovane bello e nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de' primi uomini che
fusse presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco che dovesse acconsentirgli, e
trovandolo alieno da simili cose, diliberò di avere con inganno e per forza quello che,
per altro verso, vedea di non potere avere. E fatto uno solenne convito, nel quale
Pausania e molti altri nobili baroni convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di
vivande e di vino, prendere Pausania, e, condottolo allo stretto, non solamente per forza
sfogò la sua libidine, ma ancora, per maggiore ignominia, lo fece da molti degli altri in
simile modo vituperare. Della quale ingiuria Pausania si dolse più volte con Filippo; il
quale, avendolo tenuto un tempo in speranza di vendicarlo, non solamente non lo vendicò,
ma prepose Attalo al governo d'una provincia di Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo
nimico onorato e non gastigato, volse tutto lo sdegno suo, non contro a quello che gli
aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo aveva vendicato. Ed una mattina
solenne, in su le nozze della figliuola di Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di
Epiro, andando Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero e
figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile a quello de' Romani, e notabile a
qualunque governa: che mai non debbe tanto poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo
ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiuriato non pensi di vendicarsi con ogni suo
pericolo e particulare danno. |
29 |
La fortuna acceca gli animi degli uomini, |
quando la non vuole |
che quegli si opponghino a' disegni suoi. |
|
Se e' si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà
molte volte nascere cose e venire accidenti, a' quali i cieli al tutto non hanno voluto
che si provvegga. E quando, questo che io dico, intervenne a Roma, dove era tanta virtù,
tanta religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga molto più spesso in
una città o in una provincia che manchi delle cose sopradette. E perché questo luogo è
notabile assai, a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito Livio
largamente e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo come, volendo il cielo a
qualche fine, che i Romani conoscessono la potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che
andarono oratori a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare guerra a
Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere quella guerra, non si facesse in Roma alcuna cosa
degna del Popolo romano; avendo prima ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo
unico remedio a tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea; dipoi, venendo i Franciosi
verso Roma, coloro che, per rimediare allo impeto de' Volsci ed altri finitimi loro
inimici, avevano creato molte volte uno Dittatore, venendo i Franciosi, non lo crearono.
Ancora nel fare la elezione de' soldati, la fecioro debole e sanza alcuna istraordinaria
diligenza; e furono tanto pigri al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a
scontrare i Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia. Quivi i
Tribuni posero il loro campo, sanza alcuna consueta diligenza; non prevedendo il luogo
prima, e non si circundando con fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano e
divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e deboli: in modo che né i
soldati né i capitani fecero cosa degna della romana disciplina. Combattessi poi sanza
alcuno sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la maggior parte se
n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i quali, sanza entrare altrimenti nelle case
loro, se ne entrarono in Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di difendere
Roma, non chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne fuggì, parte con gli altri se ne
entrarono in Campidoglio. Pure, nel difendere quello, usarono qualche ordine non
tumultuario; perché ei non aggravarono quello di gente inutile; messonvi tutti i frumenti
che poterono, acciocché potessono sopportare l'ossidione; e della turba inutile de'
vecchi, delle donne e de' fanciugli, la maggior parte se ne fuggì nelle terre
circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de' Franciosi. Talché, chi avesse
letto le cose fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi quelli tempi, non
potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo popolo. E detto che Tito
Livio ha tutti e' sopradetti disordini, conchiude dicendo: "Adeo obcaecat animos
fortuna, cum vim suam ingruentem refringi non vult". Né può più essere vera questa
conclusione: onde gli uomini che vivono ordinariamente nelle grandi avversità o
prosperità, meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più delle volte si vedrà
quelli a una rovina ed a una grandezza essere stati convinti da una commodità grande che
gli hanno fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente. |
Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia
condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù, che ei conosca quelle
occasioni che la gli porge. Così medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine,
ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno fusse che vi potesse ostare,
o la lo ammazza o la lo priva di tutte le facultà da potere operare alcuno bene.
Conoscesi questo benissimo per questo testo, come la fortuna, per fare maggiore Roma, e
condurla a quella grandezza venne, giudicò fussi necessario batterla (come a lungo nel
principio del seguente libro discorrereno), ma non volle già in tutto rovinarla. E per
questo si vede che la fece esulare, e non morire, Cammillo; fece pigliare Roma, e non il
Campidoglio; ordinò che i Romani, per riparare Roma, non pensassono alcuna cosa buona;
per difendere poi il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono ordine. Fece, perché Roma
fusse presa, che la maggior parte de' soldati che furono rotti a Allia, se ne andorono a
Veio; e così, per la difesa della città di Roma, tagliò tutte le vie. E nell'ordinare
questo, preparò ogni cosa alla sua ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano
intero a Veio, e Cammillo a Ardea, da potere fare grossa testa, sotto uno capitano non
maculato d'alcuna ignominia per la perdita, ed intero nella sua riputazione per la
recuperazione della patria sua. |
Sarebbeci da addurre in confermazione delle cose dette qualche esemplo
moderno; ma, per non gli giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli
lascereno indietro. Affermo, bene, di nuovo,questo essere verissimo, secondo che per tutte
le istorie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono
tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non si abbandonare mai; perché,
non sappiendo il fine suo, e andando quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a
sperare, e sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si
truovino. |
30 |
Le republiche |
e gli principi veramente potenti |
non comperono l'amicizie con danari, |
ma con la virtù e con la riputazione |
delle forze. |
|
Erano i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino
aspettassono il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla fame, vennono a
composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa quantità d'oro; e sopra tale
convenzione pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che
fece, dice lo istorico, la fortuna, "ut Romani auro redempti non viverent". La
quale cosa non solamente è notabile in questa parte, ma etiam nel processo delle azioni
di questa Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con danari, mai feciono pace
con danari, ma sempre con la virtù dell'armi: il che non credo sia mai intervenuto a
alcuna altra republica. Ed intra gli altri segni per gli quali si conosce la potenza d'uno
stato forte, è vedere come egli vive con gli vicini suoi. E quando ei si governa in modo
che i vicini, per averlo amico, sieno suoi pensionari, allora è certo segno che quello
stato è potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui, traggono da quello
danari, allora è segno grande della debolezza di quello. |
Legghinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli
Edui, i Rodiani, Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini
ai confini dello imperio romano, per avere l'amicizia di quello concorrevono a spese ed a
tributi ne' bisogni d'esso, non cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al
contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro di Firenze, ne' tempi
passati, nella sua maggiore riputazione, non era signorotto in Romagna che non avessi da
quello provvisione; e di più la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri suoi
vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il
contrario; perché molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e
cerco, non di vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in questa viltà
vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia, il quale, con un tanto
regno, vive tributario di Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere
disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e gli altri prenominati,
godersi un presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più
tosto che vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro stati felici
in perpetuo. Il quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione
col tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare
quante volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in su le guerre,
e quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a che i Romani una sola volta furono
per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno
comperate: di che si è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano con
l'oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa generosità e
questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto
gl'imperadori, e che gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed amare più l'ombra
che il sole, cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai Germani, ora
da altri popoli convicini: il che fu principio della rovina di tanto Imperio. |
Procedono, pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i tuoi
popoli: di che ne risulta uno altro, maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa,
tanto ti truova più debole. Perché chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli
sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono in su i confini dello
imperio suo, per avere uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da questo nasce
che, per tenerlo più discosto, ei dà provvisione a quelli signori e popoli che sono
propinqui ai confini suoi. Donde nasce che questi stati così fatti fanno un poco di
resistenza in sui confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio alcuno.
E non si avveggono, come questo modo del loro procedere è contro a ogni buono ordine.
Perché il cuore e le parti vitali d'uno corpo si hanno a tenere armate, e non le
estremità d'esso; perché sanza quelle si vive, e, offeso questo, si muore: e questi
stati tengono il cuore disarmato, e le mani e li piedi armati. |
Quello che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è veduto, e
vedesi ogni dì: e come uno esercito passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al
cuore, non truova più alcuno rimedio. De' Viniziani si vide, pochi anni sono, la medesima
pruova; e se la loro città non era fasciata dalle acque, se ne sarebbe veduto il fine.
Questa isperienza non si è vista sì spesso in Francia, per essere quello sì gran regno,
ch'egli ha pochi inimici superiori: nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513,
assaltarono quel regno, tremò tutta quella provincia: ed il re medesimo, e ciascuno
altro, giudicava che una rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo stato. Ai Romani
interveniva il contrario; perché, quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto più
trovava potente quella città a resistergli. E si vide nella venuta d'Annibale in Italia,
che, dopo tre rotte e dopo tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non solo
sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il cuore,
e delle estremità tenere meno conto. Perché il fondamento dello stato suo era il popolo
di Roma, il nome latino, le altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei
traevano tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e tenere il mondo.
E che sia vero, si vede per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli oratori
d'Annibale dopo la rotta di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte da Annibale,
furono domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era venuto a domandare pace, e se
del nome latino e delle colonie alcuna terra si era ribellata dai Romani; e negando quegli
l'una e l'altra cosa, replicò Annone: - Questa guerra è ancora intera come prima -. |
Vedesi, pertanto, e per questo discorso, e per quello che più volte
abbiamo altrove detto, quanta diversità sia, dal modo del procedere delle republiche
presenti, a quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite
e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai
la potenza sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli stati spesso; e
varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto amatore,
che la regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto
ella puote. |
31 |
Quanto sia pericoloso credere |
agli sbanditi. |
|
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri
discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che sono cacciati della patria sua,
essendo cose che ciascuno dì si hanno a praticare da coloro che tengono stati; potendo,
massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio nelle sue
istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando Alessandro Magno passò con lo
esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quello, venne con gente in
Italia, chiamato dagli sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe,
mediante loro, occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza
loro venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria
dai loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia vana e la
fede e le promesse di quelli che si truovano privi della loro patria. Perché, quanto alla
fede, si ha a estimare che, qualunque volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi
rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed accosterannosi a altri, nonostante
qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane promesse e speranze, egli è
tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in casa, che ei credono naturalmente
molte cose che sono false e molte a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei credono
e quello che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su
quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini. |
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più
Temistocle ateniese; il quale, essendo fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove
gli promisse tanto, quando ei volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla
impresa. Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per
tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da Temistocle, uomo
eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minore virtù,
si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, uno principe
andare adagio a pigliare imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il più delle
volte se ne resta o con vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora rade volte
riesce il pigliare le terre di furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non
mi pare fuora di proposito discorrerne nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti
modi i Romani le acquistavano. |
32 |
In quanti modi i Romani |
occupavano le terre. |
|
Essendo i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con
ogni vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa che in essa si ricerca. Da
questo nacque che si guardarono da il pigliare le terre per ossidione; perché giudicavano
questo modo di tanta spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga la utilità
che dello acquisto si potessi trarre: e per questo pensarono che fosse meglio e più utile
soggiogare le terre per ogni altro modo che assediandole, donde in tante guerre ed in
tanti anni ci sono pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro. I modi, adunque, con i
quali gli acquistavano le città, erano o per espugnazione o per dedizione. La
espugnazione era o per forza e violenza aperta, o per forza mescolata con fraude. La
violenza aperta era o con assalto, sanza percuotere le mura (il che loro chiamavano
"aggredi urbem corona" perché con tutto lo esercito circundavono la città, e
da tutte le parti la combattevano); e molte volte riuscì loro che in uno assalto
pigliarono una città, ancora che grossissima, come quando Scipione prese Cartagine Nuova
in Ispagna; o, quando questo assalto non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con
arieti, o con altre loro machine belliche: o ei facevano una cava, e per quella entravano
nella città (nel quale modo presono la città de' Veienti); o, per essere equali a quegli
che difendevano le mura, facevono torri di legname, o ei facevono argini di terra
appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza d'esse sopra quegli. Contro a questi
assalti, chi difendeva la terra, nel primo caso, circa lo essere assaltato intorno
intorno, portava più subito pericolo, ed aveva più dubbi rimedi: perché, bisognandogli
in ogni luogo avere assai difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che potessero
o sopperire per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di equale animo a
resistere, e da una parte che fusse inchinata la zuffa, si perdevano tutti. Però occorse,
come io ho detto, che molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva
al primo, non lo ritentavono molto, per essere modo pericoloso per lo esercito; perché,
distendendosi in tanto spazio, restava per tutto debole a potere resistere a una eruzione
che quelli di dentro avessono fatta; ed anche si disordinavano e straccavano i soldati; ma
per una volta ed allo improvviso tentavano tale modo. Quanto alla rottura delle mura, si
opponevano, come ne' presenti tempi, con ripari. E per resistere alle cave, facevano una
contracava, e per quella si opponevano al nimico, o con le armi o con altri ingegni: intra
i quali era questo, che gli empievano dogli di penne, nelle quali appiccavano il fuoco, ed
accesi gli mettevano nella cava, i quali con il fumo e con il puzzo impedivano la entrata
a' nimici. E se con le torre gli assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E
quanto agli argini di terra, rompevano il muro da basso, dove lo argine s'appoggiava,
tirando dentro la terra che quegli di fuori vi ammontavano; talché, ponendosi di fuora la
terra, e levandosi di drento, veniva a non crescere l'argine. Questi modi di espugnare non
si possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da campo o cercare per altri modi
vincere la guerra; come fe' Scipione, quando, entrato in Africa, avendo assaltato Utica e
non gli riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò di rompere gli eserciti
cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come fecero a Veio, Capova, Cartagine e
Ierusalem e simili terre, che per ossidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre
per violenza furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per trattato di quelli di
dentro i Romani la occuparono. Di questa sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono
state tentate molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo impedimento
rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente. Perché, o la congiura si scuopre
innanzi che si venga allo atto, e scuopresi non con molta difficultà, sì per la
infedelità di coloro con chi la è communicata, sì per la difficultà del praticarla,
avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è lecito, se non sotto qualche colore,
parlare. Ma quando la congiura non si scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel
metterla in atto, mille difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi al tempo disegnato, o
se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa: se si lieva uno romore fortuito, come l'oche del
Campidoglio, se si rompe un ordine consueto; ogni minimo errore, ogni minima fallacia che
si piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre della notte, le quali
mettono più paura a chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed essendo la maggiore parte
degli uomini che si conducono a simili imprese, inesperti del sito del paese, e de' luoghi
dove ei sono menati, si confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e fortuito
accidente, ed ogni immagine falsa è per fargli mettere in volta. Né si trovò mai alcuno
che fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente e notturne, che Arato Sicioneo; il
quale, quanto valeva in queste, tanto nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il
che si può giudicare fosse più tosto per una occulta virtù che era in lui, che perché
in quelle naturalmente dovesse essere più felicità. Di questi modi, adunque, se ne
pratica assai, pochi se ne conduce alla pruova, e pochissimi ne riescono. |
Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La volontà nasce, o per qualche necessità estrinseca che gli
costringe a rifuggirtisi sotto, come fece Capova ai Romani, o per desiderio di essere
governati bene, sendo allettati da il governo buono che quel principe tiene in coloro che
se gli sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i Rodiani, i Massiliensi ed altre
simile cittadi, che si dettono al Popolo romano. Quanto alla dedizione forzata, o tale
forza nasce da una lunga ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una continova
oppressione di scorrerie, di predazioni, ed altri mali trattamenti; i quali volendo
fuggire, una città si arrende. Di tutti i modi detti, i Romani usarono più questo ultimo
che nessuno; ed attesono per più che quattrocento cinquanta anni a straccare i vicini con
le rotte e con le scorrerie, e pigliare, mediante gli accordi, riputazione sopra di loro,
come altre volte abbiamo discorso. E sopra tale modo si fondarono sempre, ancora che gli
tentassino tutti; ma negli altri trovarono cose o pericolose o inutili. Perché nella
ossidione è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle
congiure, la incertitudine. E viddono che con una rotta di esercito inimico acquistavano
un regno in un giorno; e, nel pigliare per ossidione una città ostinata, consumavano
molti anni. |
33 |
Come i Romani |
davano agli loro capitani |
degli eserciti le commissioni libere. |
|
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria,
volendone fare profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra
le altre cose che meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei mandavano
fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali si vede
l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si riservare altro che l'autorità
di muovere nuove guerre e di confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello
arbitrio e potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una
guerra, verbigrazia contro a' Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del
Consolo, il quale poteva o fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o
quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti esempli, e
massime per quello che occorse in una espedizione contro a' Toscani. Perché, avendo Fabio
consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con lo esercito dipoi passare la selva
Cimina ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma non gliene
dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio
e pericoloso. Il che si testifica ancora per le deliberazioni che allo incontro di questo
furono fatte dal Senato: il quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e
dubitando che quello non pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana,
giudicando che fosse bene non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a
Fabio due Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi
era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di impeditori della guerra
tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi considererà bene questo
termine, lo vedrà prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto che un
Consolo procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva, lo
faceva meno circunspetto e più lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria della
vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con el consiglio del quale ei
si fusse governato. Oltra di questo, il Senato si obligava a volere consigliare una cosa
che non se ne poteva intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti uomini
esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non sappiendo infiniti
particulari che sono necessari sapere, a volere consigliare bene, arebbono, consigliando,
fatti infiniti errori. E per questo ei volevano che il Consolo per sé facesse, e che la
gloria fosse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo
operare bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perché io veggo che le
republiche de' presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti;
e se gli loro capitani, provveditori o commessari hanno a piantare una artiglieria, lo
vogliono intendere e consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli
altri, i quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che al presente si truovano. |