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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

Niccolò Machiavelli

 

Niccolò Machiavelli a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salute.

Libro Primo (1-20)

[I] [II] [III] [IV] [V] [VI] [VII] [VIII] [IX] [X]

[XI] [XII] [XIII] [XIV] [XV] [XVI][XVII] [XVIII] [XIX] [XX]

 

Niccolò Machiavelli
a Zanobi Buondelmonti
e Cosimo Rucellai
salute. 
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo né voi né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete.
LIBRO PRIMO
Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino. E se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia delle antique faranno questo mio conato difettivo e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più discorso e iudizio, potrà a questa mia intenzione satisfare: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo.
Considerando adunque quanto onore si attribuisca all'antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a' presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e' medici presenti e' loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e' regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e' sudditi, nello accrescere l'imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de' tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.
1
Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città,
e quale fusse quello di Roma.
Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma, e da quali latori di leggi e come ordinato, non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato quello imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano o dai forestieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molte e piccole parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna per sé, e per il sito e per il piccolo numero, resistere all'impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro lasciare abbandonati molti de' loro ridotti; e così verrebbero ad essere subita preda dei loro inimici: talmente che, per fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcuno che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono ad abitare insieme in luogo eletto da loro, più commodo a vivere e più facile a difendere.
Di queste, infra molte altre, sono state Atene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di Teseo, fu per simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata; l'altra, sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano nella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento di nuovi barbari, dopo la declinazione dello Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono infra loro, sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere sotto quelle leggi che parevono loro più atte a mantenerli. Il che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli, che affliggevano Italia, navigli da poterli infestare: talché ogni piccolo principio li poté fare venire a quella grandezza nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi o che dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una republica o da uno principe per isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne edificò assai, e per tutto l'imperio suo: ovvero le sono edificate da uno principe, non per abitarvi, ma per sua gloria; come la città di Alessandria, da Alessandro. E per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze, perché (o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano: né poté, ne' principii suoi, fare altri augumenti che quelli che per cortesia del principe gli erano concessi.
Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o sotto uno principe o da per sé, sono constretti, o per morbo o per fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi nuova sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e' truovono ne' paesi ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e' ne edificano di nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la quale è più o meno maravigliosa, secondo che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio. La virtù del quale si conosce in duo modi: il primo è nella elezione del sito; l'altro nella ordinazione delle leggi. E perché gli uomini operono o per necessità o per elezione; e perché si vede quivi essere maggior virtù dove la elezione ha meno autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gli uomini, constretti a industriarsi, meno occupati dall'ozio, vivessono più uniti avendo, per la povertà del sito, minore cagione di discordie; come interviene in Raugia, e in molte altre cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe sanza dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di comandare altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se non con la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo per la ubertà del sito ampliare, possa e difendersi da chi l'assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua si opponesse. E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle necessità le leggi la costringhino, che il sito non la costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre uomini oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio, arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio a quelli che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine, vi sono diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali naturalmente sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il regno degli Egizi, che, non ostante che il paese sia amenissimo, tanto potette quella necessità, ordinata dalle leggi, che ne nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più laude che Alessandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la memoria fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello molti esercizi circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto quanto essi temevano quell'ozio a che la benignità del paese li poteva condurre, se non vi avessono con leggi fortissime ovviato. Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi in luogo fertile, quando quella fertilità con le leggi infra i debiti termini si ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli mostrò come e' la poteva edificare sopra il monte Atho, il quale luogo, oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a quella città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua grandezza. E domandandolo Alessandro di quello che quelli abitatori viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise, e, lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese, e per la commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adunque, la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri; se Romolo di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in qualunque modo, la vedrà avere principio libero, sanza dependere da alcuno: vedrà ancora, come di sotto si dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gli altri, la costringessono; talmente che la fertilità del sito, la commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la mantennero piena di tanta virtù, di quanta mai fusse alcun'altra città o republica ornata.
E perché le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio celebrate, sono seguite o per publico o per privato consiglio, o dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra quelle cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne di maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto quello che da loro dependessi; con i quali Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima parte, si terminerà.
2
Di quante spezie sono le republiche,
e di quale fu la republica romana.
Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio, o come republiche o come principato: le quali hanno avuto, come diversi principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse, o dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e ad un tratto; come quelle che furono date da Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma. Talché, felice si può chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia leggi ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche grado d'infelicità quella città, che, non si sendo abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé medesima riordinarsi. E di queste ancora è più infelice quella che è più discosto dall'ordine; e quella ne è più discosto che co' suoi ordini è al tutto fuori del diritto cammino, che la possa condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono in questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente si rassettino: quelle altre che, se le non hanno l'ordine perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti diventare perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città se non è mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze, la quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel di Prato, nel dodici, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e non per elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e, lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d'ogni altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal timore all'offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle conspirazioni e congiure contro a' principi; non fatte da coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per generosità, grandezza d'animo, ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi potenti, s'armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo alla commune utilità; e le cose private e le publiche con somma diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono che d'uno governo d'ottimati diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro governi, la moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò presto alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di grado in grado, si riviene verso la licenza, ne' modi e per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d'uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.
Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne' tre buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.
Intra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi e la licenza dell'universale, le quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de' Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle qualità regie; ne si diminuì l'autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli largamente si dimosterrà.
3
Quali accidenti facessono creare in Roma
i Tribuni della Plebe, il che fece
la republica più perfetta.
Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario, non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre d'ogni verità.
Pareva che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima; e che i Nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero diventati d'animo popolare, e sopportabili da qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo inganno, né se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii vissero; dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male trattata non si accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano. La quale cosa fa testimonianza a quello che di sopra ho detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se non per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria. Però mancati i Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la Nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che facesse quel medesimo effetto che facevano i Tarquinii quando erano vivi. E però, dopo molte confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la Plebe e la Nobilità, si venne, per sicurtà della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione, che poterono essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia de' Nobili.
4
Che la disunione della Plebe
e del Senato romano fece libera
e potente quella republica.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati, vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette cose, o e' non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero.
Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de' Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all'amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si mosterrà.
5
Dove più sicuramente si ponga
la guardia della libertà, o nel Popolo
o ne' Grandi; e quali hanno maggiore
cagione di tumultuare, o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le più necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una guardia alla libertà: e, secondo che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali sia meglio collocata detta guardia. Ed appresso a' Lacedemonii, e, ne' nostri tempi, appresso de' Viniziani, la è stata messa nelle mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu messa nelle mani della Plebe.
Pertanto, è necessario esaminare quale di queste republiche avesse migliore elezione. E se si andasse dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte de' Nobili, per avere avuta la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la parte de' Romani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d'una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si considerrà il fine de' nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi: talché essendo i popolari preposti a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spartano e veneto, dice che coloro che mettono la guardia in mano di potenti fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più all'ambizione loro, ed avendo più parte nella republica, per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l'altra, che lievono una qualità di autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'infinite dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la Nobilità a qualche disperazione, che col tempo faccia cattivi effetti. E ne dànno per esemplo la medesima Roma, che, per avere i Tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un Consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da questo, ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi dell'imperio della città: né bastò loro questo, ché, menati dal medesimo furore, cominciorono poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità; donde nacque la potenza di Mario, e la rovina di Roma. E veramente, chi discorressi bene l'una cosa e l'altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse eletto per guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di uomini sia più nocivo in una republica, o quello che desidera mantenere l'onore già acquistato o quel che desidera acquistare quello che non ha.
Ed in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una republica che voglia fare uno imperio, come Roma; o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel seguente capitolo si dirà.
Ma, per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica più nocivi, o quelli che desiderano d'acquistare, o quelli che temono di non perdere l'acquistato; dico che, sendo creato Marco Menenio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de' cavagli, tutti a due plebei, per ricercare certe congiure che si erano fatte in Capova contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di potere ricercare chi in Roma, per ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse di venire al consolato, ed agli altri onori della città. E parendo alla Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsono per Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari ma gl'ignobili, i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano, per vie straordinarie, venire a quelli gradi, e particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa che Menenio, fatta una concione e dolutosi delle calunnie dategli da' Nobili, depose la dittatura, e sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne fu assoluto: dove si disputò assai, quale sia più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole acquistare; perché facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare; perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di più vi è, che, possedendo molto, possono con maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano, ne' petti di chi non possiede, voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quelle ricchezze e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.
6
Se in Roma si poteva ordinare uno stato
che togliesse via le inimicizie
intra il Popolo ed il Senato.
Noi abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle seguitate infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo, è necessario ricorrere a quelle republiche le quali sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma. In esemplo tra gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia, state da me di sopra nominate. Sparta fece uno Re, con uno piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha diviso il governo con i nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli che possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le leggi: perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è ora quella città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori, come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di governo; e convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della città, quando parve loro essere tanti che fossero a sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne' loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani. Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perché, quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminato, non avevano cagione né commodità di fare tumulto. La cagione non vi era, perché non era stato loro tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché chi reggeva li teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e' potessono pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare Vinegia non sono stati molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono governati, perché il numero de' Gentiluomini o egli è equale al loro, o egli è superiore: sicché, per queste cagione, Vinegia potette ordinare quello stato, e mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto, era governata da uno Re e da uno stretto Senato. Potette mantenersi così lungo tempo, perché, essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo preso le leggi di Licurgo con riputazione (le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de' tumulti) poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi era una equale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi, perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo nacque dai Re spartani, i quali, essendo collocati in quel principato e posti in mezzo di quella Nobilità, non avevano il maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità, che tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la Plebe non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità, e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unione: l'una essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati da pochi; l'altra, che, non accettando forestieri nella loro republica, non avevano occasione né di corrompersi né di crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che la governavano.
Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare una delle due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette republiche: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a' forestieri, come gli Spartani. E loro feciono l'una e l'altra; il che dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma venendo lo stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo inconveniente, ch'egli era anche più debile, perché e' gli si troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei pervenne: in modo che, volendo Roma levare le cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta, fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei, non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse che ampliasse, come Roma, di dominio e di potenza, ovvero che la stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso, è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si può; perché, sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una republica potrà crescere, o, se la crescerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta e come Vinegia: ma perché l'ampliare è il veleno di simili republiche, debbe, in tutti quelli modi che si può, chi le ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti fondati sopra una republica debole, sono al tutto la rovina sua. Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima, avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno minimo accidente il debile fondamento suo; perché, seguita la ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l'altre cittadi, rovinò al tutto quella republica. Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei bene, che a fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il modo, ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luogo forte, e di tale potenza che nessuno credesse poterla subito opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì grande, che la fusse formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perché, per due cagioni si fa guerra a una republica: l'una, per diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in tutto toglie via; perché, se la è difficile a espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte accaderà, o non mai, che uno possa fare disegno di acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per paura di sé le faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e' fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E sanza dubbio credo, che, potendosi tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la vera quiete d'una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non t'induce, t'induce la necessità: talmente che, avendo ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto. Così, dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l'ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per sé, sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica, pensare alle parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono, quello ch'elle avessono occupato, conservare. E, per tornare al primo ragionamento, credo ch'e' sia necessario seguire l'ordine romano, e non quello dell'altre republiche; perché trovare un modo, mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza. Perché, oltre all'altre ragioni allegate, dove si dimostra l'autorità tribunizia essere stata necessaria per la guardia della libertà, si può facilmente considerare il beneficio che fa nelle republiche l'autorità dello accusare, la quale era, intra gli altri, commessa a' Tribuni; come nel seguente capitolo si discorrerà.
7
Quanto siano in una republica
necessarie le accuse a mantenerla
in libertade.
A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa dua effetti utilissimi a una republica. Il primo è che i cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano cose contro allo stato; e tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto, oppressi. L'altro è che si dà onde sfogare a quegli omori che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque cittadino: e quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari, che fanno rovinare tutta una republica. E però non è cosa che faccia tanto stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che l'alterazione di quegli omori che l'agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalle leggi. Il che si può per molti esempli dimostrare, e massime per quello che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice, che, essendo irritata contro alla Plebe la Nobilità romana, per parerle che la Plebe avessi troppa autorità, mediante la creazione de' Tribuni che la difendevano; ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, inimico alla fazione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torle quella autorità che ella si aveva in pregiudicio della Nobilità presa; tenendola affamata, e non gli distribuendo il frumento: la quale sentenzia sendo venuta agli orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto, quanto sia utile e necessario che le republiche con le leggi loro, diano onde sfogarsi all'ira che concepe la universalità contro a uno cittadino: perché quando questi modi ordinari non vi siano, si ricorre agli straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli.
Perché, se ordinariamente uno cittadino è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne séguita o poco o nessuno disordine in la republica; perché la esecuzione si fa sanza forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle che rovinano il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici, che hanno i termini loro particulari, né trascendono a cosa che rovini la republica. E quanto a corroborare questa opinione con gli esempli, voglio che degli antiqui mi basti questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria risultato alla republica romana, se tumultuariamente ei fusse stato morto: perché ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da' partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la cosa mediante chi ne aveva autorità si vennero a tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con autorità privata.
Noi avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla republica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo ordinariamente contro a un suo cittadino, come accadde ne' tempi che Francesco Valori era come principe della città; il quale sendo giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua audacia e animosità transcendere il vivere civile; e non essendo nella republica via a potergli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne nacque che, non avendo paura quello se non di modi straordinari, si cominciò a fare fautori che lo difendessono; dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto opporsegli, sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare, in sostentamento della soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur in Firenze sopra Piero Soderini, il quale al tutto seguì per non essere in quella republica alcuno modo di accuse contro alla ambizione de' potenti cittadini. Perché lo accusare uno potente a otto giudici in una republica, non basta: bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tanto che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero accusato, vivendo lui male; e per tale mezzo, sanza far venire l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per paura di non essere accusati essi: e così sarebbe da ogni parte cessato quello appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si vede che le forze estranee siano chiamate da una parte di uomini che vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi ordini di quella, per non essere, dentro a quel cerchio, ordine da potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori che nascono negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le accuse agli assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi furono in Roma sì bene ordinati, che, in tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno particulare cittadino disegnò valersi di forze esterne; perché, avendo il rimedio in casa, non erano necessitati andare per quello fuori. E benché gli esempli soprascritti siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella sua istoria: il quale riferisce come, sendo stato in Chiusi, città in quelli tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone violata una sorella di Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la potenza del violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli confortò a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città, non arebbe cerco le forze barbare. Ma come queste accuse sono utili in una republica, così sono inutili e dannose le calunnie, come nel capitolo seguente discorreremo.
8
Quanto le accuse sono utili
alle republiche, tanto sono perniziose
le calunnie.
Non ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado, cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria; parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il Campidoglio, avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre belliche laude, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia, non potendo quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non potere seminare discordia infra i Padri, si volse alla Plebe, seminando varie opinioni sinistre intra quella. E intra le altre cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpato da privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva convertirlo in publica utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da qualche privato debito. Queste parole poterono assai nella Plebe; talché cominciò a avere concorso, ed a fare a sua posta dimolti tumulti nella città: la quale cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo fece citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro; il Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe. Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo tesoro ch'e' diceva, perché n'era così desideroso il Senato, d'intenderlo, come la Plebe: a che Manlio non rispondeva particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non era necessario dire loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in carcere.
È da notare, per questo testo, quanto siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si debba non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Né può essere migliore ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse; perché, quanto le accuse giovano alle republiche, tanto le calunnie nuocono: e dall'una all'altra parte è questa differenza, che le calunnie non hanno bisogno né di testimone né di alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo che ciascuno e da ciascuno può essere calunniato; ma non può già essere accusato, avendo le accuse bisogno di riscontri veri e di circunstanze che mostrino la verità dell'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e dove le città sono meno ordinate a riceverle. Però, un ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e fatto questo, e bene osservato, debbe punire acremente i calunniatori: i quali non si possono dolere quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per le logge calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi: perché le calunnie irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati pensano di valersi, odiando più presto, che temendo, le cose che si dicano contro a loro.
Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinata nella nostra città di Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a Firenze questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per essere stato corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti; perché quelli cittadini, o condannati o assoluti che fussono, non arebbono potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati accusati meno assai che non ne erano calunniati, non si potendo, come ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra l'altre cose di che si è valuto alcun cittadino per venire alla grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo contro a cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano, facevono assai per quello; perché, pigliando la parte del Popolo, e confermandolo nella mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio essere contento solo d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca, comandato da messer Giovanni Guicciardini, commessario di quello. Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna che la espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque il caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché, per giustificarsi, e' si volessi mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo fare. Di che ne nacque assai sdegni intra gli amici di messer Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini grandi ed infra coloro che desideravano fare novità in Firenze. La quale cosa, e per questa e per altre simili cagioni, tanto crebbe che ne seguì la rovina di quella republica.
Era adunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono, in questo caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perché si debbe farli diventare accusatori; e quando l'accusa si riscontri vera, o premiarli o non punirli: ma quando la non si riscontri vera, punirli, come fu punito Manlio.
9
Come egli è necessario essere solo
a volere ordinare una repubblica
di nuovo, o al tutto fuor degli antichi
suoi ordini riformarla.
Ei parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono con l'autorità del loro principe, per ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio.
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una republica, e che abbia questo animo, di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità, solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire una republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e virtuoso, che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse, e secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considerrà bene l'autorità che Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata alcun'altra che comandare agli eserciti quando si era deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove da' Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e tirannico.
Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti esempli; come Moises, Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e di republiche, e' quali poterono, per aversi attribuito un'autorità, formare leggi a proposito del bene comune: ma li voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno, non sì celebre, ma da considerarsi per coloro che desiderassono essere di buone leggi ordinatori: il quale è, che, desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per consequente, di forze e d'imperio, fu, ne' suoi primi principii, ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria se non diventava solo di autorità; parendogli, per l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a fare risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse stata la potenza de' Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche. Perché, essendo, dopo tale ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare una republica è necessario essere solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo.
10
Quanto sono laudabili i fondatori
d'una republica o d'uno regno,
tanto quelli d'una tirannide
sono vituperabili.
Intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati. E perché questi sono di più ragioni, sono celebrati, ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili gli uomini distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle republiche, inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione; come sono gl'impii, i violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno sarà mai sì pazzo o sì savio, sì tristo o sì buono, che, prepostagli la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e biasimi quella che è da biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro che meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo loro onore, o una republica o uno regno, si volgono alla tirannide: né si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono.
Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in una republica, o che per fortuna o per virtù ne diventono principi, se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii: perché vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri non ebbono nella patria loro meno autorità che si avessono Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più biasimevole Cesare, quanto più è da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga ancora con quante laude ei celebrano Bruto; talché, non potendo biasimare quello, per la sua potenza, ei celebravano il nimico suo.
Consideri ancora quello che è diventato principe in una republica, quanta laude, poiché Roma fu diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e vedrà come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco, non erano necessari i soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli, perché i costumi loro, la benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva. Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scelerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a salvarli contro a quelli inimici che li loro rei costumi, la loro malvagia vita, aveva loro generati. E se la istoria di costoro fusse bene considerata, sarebbe assai ammaestramento a qualunque principe, a mostrargli la via della gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo. Perché, di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente e se di quelli che furono morti ne fu alcun buono come Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nei soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scelerato, come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù; le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la lezione di questa istoria, come si può ordinare un regno buono: perché tutti gl'imperadori che succederono all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli che per adozione, furono tutti buoni come furono quei cinque da Nerva a Marco: e come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò nella sua rovina.
Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse essere preposto. Perché, in quelli governati da' buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua autorità, i magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo; pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore e sicurtà i popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati onori, e sopra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Vedrà premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati inimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi cattivi, ed accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria, né gli uomini la possono maggiore desiderare. E se, a volere ordinare bene una città, si avesse di necessità a diporre il principato, meriterebbe, quello che non la ordinasse per non cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in somma, considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei sono loro preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove angustie, e, dopo la morte, lasciare di sé una sempiterna infamia.
11
Della religione de' Romani.
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e, sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento; e quello, per timore avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo amore della patria, le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furano forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione. Ben è vero che l'essere quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E sanza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una republica più facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno male abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
L'umana probitate; e questo vuole
Quel che la dà, perché da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
12
Di quanta importanza sia tenere conto
della religione, e come la Italia,
per esserne mancata mediante
la Chiesa romana, è rovinata.
Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l'uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione Gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti, dependevano da queste perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de' potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e dicendole: "Vis venire Romam?" parve a alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale opinione e credulità da Cammillo a dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne' principi della republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane più unite, più felici assai, che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.
13
Come i Romani si servivono
della religione per riordinare la città
e seguire le loro imprese e fermare
i tumulti.
Ei non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani si servivono della religione per riordinare la città, e per seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo romano i Tribuni di potestà consolare, e, fuora che uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova creazione de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato la maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a placare gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la plebe, sbigottita da questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella espugnazione della città de' Veienti, come i capitani degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti a una impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i soldati romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno si espugnerebbe la città de' Veienti, che si derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la era stata assediata. E così la religione, usata bene, giovò e per la espugnazione di quella città, e per la restituzione del Tribunato nella Nobilità che, sanza detto mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo. Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo tribuno, volendo lui proporre certa legge, per le cagioni che di sotto, nel suo luogo, si diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobilità, fu la religione, della quale si servirono in due modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non perdere la libertà: la quale cosa, ancora che fusse scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne' petti della plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che, avendo un Appio Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato di notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci, perpetui inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare nella pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo che quello insulto era simulato e non vero; uscì fuori del Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di autorità, con parole, parte amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della città, e la intempestiva domanda loro; tanto ch'ei costrinse la plebe a giurare di non si partire dalla voglia del consolo: tanto che la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per non lasciare riposare la plebe, né darle spazio a pensare alla legge Terentilla, le comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era obligata a seguirlo: a che i tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era dato al consolo morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe, per paura della religione, volle più tosto ubbidire al consolo, che credere a' tribuni, dicendo in favore della antica religione queste parole: "Nondum haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum venerat, nec interpretando sibi quisque jusjurandum et leges aptas faciebat". Per la quale cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità, si accordarono col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E così la religione fece al Senato vincere quelle difficultà, che, sanza essa, mai averebbe vinte.
14
I Romani interpetravano gli auspizi
secondo la necessità, e con la prudenza
mostravano di osservare la religione,
quando forzati non la osservavano;
e se alcuno temerariamente
la dispregiava, punivano.
Non solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il fondamento, in buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari, nel principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare; né mai sarebbono iti ad una espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli altri auspicii, avevano negli eserciti certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque volta eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii facessono i loro auspicii; e, beccando i polli, combattevono con buono augurio, non beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della religione.
Il quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in tutto deboli ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la giornata, comandò ai pullarii che facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il principe de' pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la opinione che era nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per non tôrre occasione di bene operare a quello esercito, riferì al consolo come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati, i polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote del consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che, quanto a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario aveva detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati che constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde nacque che, andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la quale cosa udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dei; perché lo esercito con la morte di quel bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono presa contro a di lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come i polli non beccavano, disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece gittare in mare. Donde che azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per avere l'uno vinto, e l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo nel seguente capitolo.
15
I Sanniti, per estremo rimedio
alle cose loro afflitte,
ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; "nec suis nec externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam, malebant". Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: "non enim cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum". E per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
16
Uno popolo, uso a vivere sotto
uno principe, se per qualche
accidente diventa libero,
con difficultà mantiene la libertà.
Quanta difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, perservare dipoi la libertà, se per alcuno accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquinii, lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole; perché quel popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a vivere sotto i governi d'altri, non sappiendo ragionare né delle difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il più delle volte è più grave che quello che, poco inanzi, si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà, quantunque che la materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzione, non può, non che piccol tempo, ma punto vivere libero come di sotto si discorrerà: e però i ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra difficultà, la quale è, che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e non partigiani amici. Partigiani inimici gli diventono tutti coloro che dello stato tirannico si prevalevono, pascendosi delle ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà del valersi, non possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare la tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto, partigiani amici; perché il vivere libero prepone onori e premii, mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di quelle non premia né onora alcuno, e quando uno ha quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa avere obligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella comune utilità che del vivere libero si trae, non è da alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli, non temere di sé; perché nessuno confesserà mai avere obligo con uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad avere, lo stato libero e che di nuovo surge, partigiani inimici, e non partigiani amici. E volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte difficultà arrecherebbono seco, non ci è più potente rimedio, né più valido né più sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria mostra, non furono indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare contro alla patria per altro, se non perché non si potevono valere straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in modo che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la loro servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per via di libertà o per via di principato, e non si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perché quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi ha per nimico l'universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa tanto più debole diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme dal soprascritto, parlando qui d'uno principe e quivi d'una republica; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, uno principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due cose: l'una, vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere la sua libertà. Al primo desiderio il principe può sodisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro alla disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al popolo. In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcuno modo né contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano sopportare lo avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi dal fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati, con una estrema sodisfazione de' popolari. E così egli per questa via sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d'essere liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perché questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino in buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del danaio facessero a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello principe, adunque, o quella republica che non si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei ricuperò la libertà, potette mantenerla, morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quel popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
17
Uno popolo corrotto, venuto in libertà,
si può con difficultà grandissima
mantenere libero.
Io giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno valore; perché, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e che quella corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad istendere per le membra, come le membra fossero state corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera, anzi conviene che l'un principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo signore non si posa mai, se già la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la virtù de' quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte esemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà. Né tanta diversità di evento in una medesima città nacque da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re, bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi non bastò l'autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella corruzione che le parti mariane avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette accecare quella moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi ridurre Milano alla libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Roma, che questi rediventassero corrotti presto, acciò ne fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fusse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione che gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che, dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come poco di sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli ordini buoni; e subito che quel tale è morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come intervenne a Tebe, la quale, per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di republica e di imperio; ma, morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo male avvezza. E se uno d'una lunghissima vita, o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con dimolti pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere. Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità che è in quella città: e volendola ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo più particularmente si dirà.
18
In che modo nelle città corrotte
si potesse mantenere uno stato libero,
essendovi; o, non vi essendo,
ordinarvelo.
Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere più tale difficultà; perché non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de' buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era l'autorità del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono, perché e' non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni ed averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza domandavano i magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura. Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza de' nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini: perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all'armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi, di sopra, che fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il suggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo, colorire il disegno loro.
19
Dopo uno eccellente principe
si può mantenere uno principe debole;
ma, dopo uno debole, non si può
con un altro debole mantenere
alcuno regno.
Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre re romani, si vede come Roma sortì una fortuna grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso, l'altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a Romolo, e più amatore della guerra che della pace. Perché in Roma era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di Romolo; altrimenti quella città sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi vicini. Donde si può notare che uno successore, non di tanta virtù quanto il primo, può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un altro che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il contrario, se dua, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo uno regno pacifico: quale egli si potette con l'arte della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam suo figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile allo avolo, né per fortuna simile al padre, rimase con fatica erede della sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della pace che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e da poterlo con l'arte della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel regno rovinava; ma e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempli, che, dopo uno eccellente principe, si può mantenere uno principe debole; ma, dopo un debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno, se già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non stanno in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso, che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace reggere Roma: ma dopo lui successe Tullo, il quale per la sua ferocità riprese la riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla natura dotato, che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo stimavano poco: talmente che pensò che, a volere mantenere Roma, bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i principi che tengono stato; che chi somiglierà Numa, lo terrà o non terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto; ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso armato di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non gli è tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo che non sapesse con le armi renderle la sua riputazione non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà, potuto pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E così, in mentre che la visse sotto i re la portò questi pericoli di rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
20
Dua continove successioni di principi
virtuosi fanno grandi effetti;
e come le republiche bene ordinate
hanno di necessità virtuose successioni,
e però gli acquisti ed augumenti loro
sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene ordinata.

 

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.24.07