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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

ATTILIO REGOLO

Di: Pietro Metastasio

ATTO TERZO

 

[SCENA PRIMA][SCENA SECONDA][SCENA TERZA][SCENA QUARTA]

[SCENA QUINTA][SCENA SESTA][SCENA SETTIMA][SCENA OTTAVA]

[SCENA NONA][SCENA ULTIMA][FINE]

 

SCENA PRIMA
REG. Ma che si fa? Non seppe
forse ancor del Senato
Amilcare il voler? Dov'è? Si trovi;
partir convien. Qui che sperar per lui,
per me non v'è più che bramar. Diventa
colpa ad entrambi or la dimora. Ah vieni,
vieni, amico, al mio seno. Era in periglio
senza te la mia gloria; i ceppi miei
per te conservo; a te si deve il frutto
della mia schiavitù.
MAN. Sì; ma tu parti;
sì; ma noi ti perdiam.
REG. Mi perdereste,
s'io non partissi.
MAN. Ah perché mai sì tardi
incomincio ad amarti! Altri fin ora,
Regolo, non avesti
pegni dell'amor mio, se non funesti.
REG. Pretenderne maggiori
da un vero amico io non potei; ma pure
se il generoso Manlio altri vuol darne,
altri ne chiederò.
MAN. Parla.
REG. Compìto
ogni dover di cittadino, al fine
mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma
due figli, il sai; Publio ed Attilia: e questi
son del mio cor, dopo la patria, il primo,
il più tenero affetto. In lor traluce
indole non volgar; ma sono ancora
piante immature, e di cultor prudente
abbisognano entrambi. Il Ciel non volle
che l'opera io compissi. Ah tu ne prendi
per me pietosa cura;
tu di lor con usura
la perdita compensi. Al tuo bel core
debbano e a' tuoi consigli
la gloria il padre, e l'assistenza i figli.
MAN. Sì, tel prometto: i preziosi germi
custodirò geloso. Avranno un padre,
se non degno così, tenero almeno
il par di te. Della virtù romana
io lor le tracce additerò. Né molto
sudor mi costerà. Basta a quell'alme,
di bel desio già per natura accese,
l'istoria udir delle paterne imprese.
REG. Or sì più non mi resta...
SCENA II
PUBLIO Manlio! Padre!
REG. Che avvenne?
PUBLIO Roma tutta è in tumulto: il popol freme;
non si vuol che tu parta.
REG. E sarà vero
che un vergognoso cambio
possa Roma bramar?
PUBLIO No, cambio o pace
Roma non vuol; vuol che tu resti.
REG. Io! Come?
E la promessa? e il giuramento?
PUBLIO Ognuno
grida che fé non dessi
a perfidi serbar.
REG. Dunque un delitto
scusa è dell'altro. E chi sarà più reo,
se l'esempio è discolpa?
PUBLIO Or si raduna
degli àuguri il collegio: ivi deciso
il gran dubbio esser deve.
REG. Uopo di questo
oracolo io non ho. So che promisi;
voglio partir. Potea
della pace o del cambio
Roma deliberar: del mio ritorno
a me tocca il pensier. Pubblico quello,
questo è privato affar. Non son qual fui;
né Roma ha dritto alcun sui servi altrui.
PUBLIO Degli àuguri il decreto
s'attenda almen.
REG. No; se l'attendo, approvo
la loro autorità. Custodi, al porto.
Amico, addio.
MAN. No, Regolo; se vai
fra la plebe commossa, a viva forza
può trattenerti; e tu, se ciò succede,
tutta Roma fai rea di poca fede.
REG. Dunque mancar degg'io?...
MAN. No; andrai; ma lascia
che quest'impeto io vada
prima a calmar. Ne sederà l'ardore
la consolare autorità.
REG. Rimango,
Manlio, su la tua fé: ma...
MAN. Basta; intendo.
La tua gloria desio,
e conosco il tuo cor: fidati al mio.
Fidati pur; rammento
che nacqui anch'io romano:
al par di te mi sento
fiamme di gloria in sen.
Mi niega, è ver, la sorte
le illustri tue ritorte;
ma, se le bramo in vano,
so meritarle almen.
SCENA III
REG. E tanto or costa in Roma,
tanta or si suda a conservar la fede!
Dunque... Ah Publio! e tu resti? E sì tranquillo
tutto lasci all'amico
d'assistermi l'onor? Corri; proccura
tu ancor la mia partenza. Esser vorrei
di sì gran benefizio
debitore ad un figlio.
PUBLIO Ah padre amato,
ubbidirò; ma...
REG. Che? Sospiri! Un segno
quel sospiro saria d'animo oppresso?
PUBLIO Sì, lo confesso,
morir mi sento;
ma questo istesso
crudel tormento
è il più bel merito
del mio valor.
Qual sacrifizio,
padre, farei,
se fosse il vincere
gli affetti miei
opra sì facile
per questo cor?
SCENA IV
AMIL. Regolo, al fin...
REG. Senza che parli, intendo
già le querele tue. Non ti sgomenti
il moto popolar: Regolo in Roma
vivo non resterà.
AMIL. Non so di quali
moti mi vai parlando. Io querelarmi
teco non voglio. A sostenerti io venni
che solo al Tebro in riva
non nascono gli eroi,
che vi sono alme grandi anche fra noi.
REG. Sia. Non è questo il tempo
d'inutili contese. I tuoi raccogli,
t'appresta alla partenza.
AMIL. No. Pria m'odi, e rispondi.
REG. (Oh sofferenza!)
AMIL. E` gloria l'esser grato?
REG. L'esser grato è dover: ma già sì poco
questo dover s'adempie,
ch'oggi è gloria il compirlo.
AMIL. E se il compirlo
costasse un gran periglio?
REG. Ha il merto allora
d'un'illustre virtù.
AMIL. Dunque non puoi
questo merto negarmi. Odi. Mi rende,
del proprio onor geloso,
la mia Barce il tuo figlio, e pur l'adora:
io generoso ancora
vengo il padre a salvargli, e pur m'espongo
di Cartago al furor.
REG. Tu vuoi salvarmi!
AMIL. Io.
REG. Come?
AMIL. A te lasciando
agio a fuggir. Questi custodi ad arte
allontanar farò. Tu cauto in Roma
celati sol fin tanto
che senza te con simulato sdegno
quindi l'ancore io sciolga.
REG. (Barbaro!)
AMIL. E ben, che dici?
ti sorprende l'offerta.
REG. Assai.
AMIL. L'avresti
aspettata da me?
REG. No.
AMIL. Pur la sorte
non ho d'esser roman.
REG. Si vede.
AMIL. Andate,
custodi...
REG. Alcun non parta.
AMIL. Perché?
REG. Grato io ti sono
del buon voler; ma verrò teco.
AMIL. E sprezzi
la mia pietà?
REG. No; ti compiango. Ignori
che sia virtù. Mostrar virtù pretendi,
e me, la patria tua, te stesso offendi.
AMIL. Io!
REG. Sì. Come disponi
della mia libertà? Servo son io
di Cartago, o di te?
AMIL. Non è tuo peso
l'esaminar se il benefizio...
REG. E` grande
il benefizio in ver! Rendermi reo,
profugo, mentitor...
AMIL. Ma qui si tratta
del viver tuo. Sai che supplizi atroci
Cartago t'apprestò? Sai quale scempio
là si farà di te?
REG. Ma tu conosci,
Amilcare, i Romani?
Sai che vivon d'onor? che questo solo
è sprone all'opre lor, misura, oggetto?
Senza cangiar d'aspetto
qui s'impara a morir; qui si deride,
pur che gloria produca, ogni tormento;
e la sola viltà qui fa spavento.
AMIL. Magnifiche parole,
belle ad udir; ma inopportuno è meco
quel fastoso linguaggio. Io so che a tutti
la vita è cara, e che tu stesso...
REG. Ah troppo
di mia pazienza abusi. I legni appresta,
raduna i tuoi seguaci,
compisci il tuo dover, barbaro, e taci.
AMIL. Fa pur l'intrepido,
m'insulta audace,
chiama pur barbara
la mia pietà.
Sul Tebro Amilcare
t'ascolta e tace;
ma presto in Africa
risponderà.
SCENA V
REG. E Publio non ritorna!
e Manlio... Aimè! Che rechi mai sì lieta,
sì frettolosa, Attilia?
ATT. Il nostro fato
già dipende da te; già cambio o pace,
fida a' consigli tuoi,
Roma non vuol; ma rimaner tu puoi.
REG. Sì, col rossor...
ATT. No; su tal punto il sacro
Senato pronunciò. L'arbitro sei
di partir, di restar. "Giurasti in ceppi;
né obbligar può se stesso
chi libero non è".
REG. Libero è sempre
chi sa morir. La sua viltà confessa
chi l'altrui forza accusa.
Io giurai perché volli;
voglio partir perché giurai.
SCENA VI
PUBLIO Ma in vano,
signor, lo speri.
REG. E chi potrà vietarlo?
PUBLIO Tutto il popolo, o padre: è affatto ormai
incapace di fren. Per impedirti
il passaggio alle navi ognun s'affretta
precipitando al porto; e son di Roma
già l'altre vie deserte.
REG. E Manlio?
PUBLIO E` il solo
che ardisca opporsi ancora
al voto universal. Prega, minaccia;
ma tutto inutilmente. Alcun non l'ode,
non l'ubbidisce alcun. Cresce a momenti
la furia popolar. Già su le destre
ai pallidi littori
treman le scuri; e non ritrova ormai
in tumulto sì fiero
esecutori il consolare impero.
REG. Attilia, addio: Publio, mi siegui.
ATT. E dove?
REG. A soccorrer l'amico; il suo delitto
a rinfacciare a Roma; a conservarmi
l'onor di mie catene;
a partire, o a spirar su queste arene.
ATT. Ah padre! ah no! Se tu mi lasci...
REG. Attilia,
molto al nome di figlia,
al sesso ed all'età fin or donai:
basta; si pianse assai. Per involarmi
d'un gran trionfo il vanto
non congiuri con Roma anche il tuo pianto.
ATT. Ah tal pena è per me...
REG. Per te gran pena
è il perdermi, lo so. Ma tanto costa
l'onor d'esser romana.
ATT. Ogni altri prova
son pronta...
REG. E qual? Co' tuoi consigli andrai
forse fra i padri a regolar di Roma
in Senato il destin? Con l'elmo in fronte
forse i nemici a debellar pugnando
fra l'armi suderai? Qualche disastro
se a soffrir per la patria atta non sei
senza viltà, dì, che farai per lei?
ATT. E` ver. Ma tal costanza...
REG. E` difficil virtù: ma Attilia al fine
è mia figlia, e l'avrà.
ATT. Sì, quanto io possa,
gran genitor, t'imiterò. Ma... oh Dio!
Tu mi lasci sdegnato:
io perdei l'amor tuo.
REG. No, figlia; io t'amo,
io sdegnato non son. Prendine in pegno
questo amplesso da me. Ma questo amplesso
costanza, onor, non debolezza inspiri.
ATT. Ah sei padre, mi lasci, e non sospiri!
REG. Io son padre, e nol sarei
se lasciassi a' figli miei
un esempio di viltà.
Come ogni altro ho core in petto;
ma vassallo è in me l'affetto;
ma tiranno in voi si fa.
SCENA VII
ATT. Su, costanza, o mio cor. Deboli affetti,
sgombrate da quest'alma; inaridite
ormai su queste ciglia,
lagrime imbelli. Assai si pianse; assai
si palpitò. La mia virtù natia
sorga al paterno sdegno;
ed Attilia non sia
il ramo sol di sì gran pianta indegno.
BARCE Attilia, è dunque ver? Dunque a dispetto
del popol, del Senato,
degli àuguri, di noi, del mondo intero
Regolo vuol partir?
ATT. Sì.
BARCE Ma che insano
furor?
ATT. Più di rispetto,
Barce, agli eroi.
BARCE Come! del padre approvi
l'ostinato pensier?
ATT. Del padre adoro
la costante virtù.
BARCE Virtù che a' ceppi,
che all'ire altrui, che a vergognosa morte
certamente dovrà...
ATT. Taci. Quei ceppi,
quell'ire, quel morir del padre mio
saran trionfi.
BARCE E tu n'esulti?
ATT. (Oh Dio!)
BARCE Capir non so...
ATT. Non può capir chi nacque
in barbaro terren per sua sventura
come al paterno vanto
goda una figlia.
BARCE E perché piangi intanto?
ATT. Vuol tornar la calma in seno
quando in lagrime si scioglie
quel dolor che la turbò:
come torna il ciel sereno,
quel vapor, che i rai ci toglie,
quando in pioggia si cangiò.
SCENA VIII
BARCE Che strane idee questa produce in Roma
avidità di lode! Invidia i ceppi
Manlio del suo rival: Regolo abborre
la pubblica pietà: la figlia esulta
nello scempio del padre! E Publio... Ah questo
è caso in ver che ogni credenza eccede:
e Publio ebro d'onor m'ama e mi cede!
Ceder l'amato oggetto,
né spargere un sospiro,
sarà virtù; l'ammiro,
ma non la curo in me.
Di gloria un'ombra vana
in Roma è il solo affetto;
ma l'alma mia romana,
lode agli dei, non è.
SCENA IX
LIC. No, che Regolo parta
Roma non vuole.
MAN. Ed il Senato ed io
non siam parte di Roma?
LIC. Il popol tutto
è la maggior.
MAN. Non la più sana.
LIC. Almeno
la men crudel. Noi conservar vogliamo
pieni di gratitudine e d'amore
a Regolo la vita.
MAN. E noi l'onore.
LIC. L'onor...
MAN. Basta; io non venni
a garrir teco. Olà: libero il varco
lasci ciascuno.
LIC. Olà: nessun si parta.
MAN. Io l'impongo.
LIC. Io lo vieto.
MAN. Osa Licinio
al console d'opporsi?
LIC. Osa al tribuno
d'opporsi Manlio?
MAN. Or si vedrà. Littori,
sgombrate il passo.
LIC. Il passo
difendete, o Romani.
MAN. Oh dei! Con l'armi
si resiste al mio cenno? In questa guisa
la maestà...
LIC. La maestade in Roma
nel popolo risiede; e tu l'oltraggi
contrastando con lui.
POPOLO Regolo resti.
MAN. Udite:
lasciate che l'inganno io manifesti.
POPOLO Resti Regolo.
MAN. Ah voi...
POPOLO Regolo resti.
SCENA ULTIMA
REG. "Regolo resti!" Ed io l'ascolto! Ed io
creder deggio a me stesso! Una perfidia
si vuol? Si vuole in Roma?
si vuol da me? Quai popoli or produce
questo terren! Sì vergognosi voti
chi formò? chi nudrilli?
Dove sono i nepoti
de' Bruti, de' Fabrizi e de' Camilli?
"Regolo resti!" Ah per qual colpa e quando
meritai l'odio vostro?
LIC. E` il nostro amore,
signor, quel che pretende
franger le tue catene.
REG. E senza queste
Regolo che sarà? Queste mi fanno
de' posteri l'esempio,
il rossor de' nemici,
lo splendor della patria: e più non sono,
se di queste mi privo,
che uno schiavo spergiuro e fuggitivo.
LIC. A perfidi giurasti,
giurasti in ceppi; e gli àuguri...
REG. Eh lasciamo
all'Arabo ed al Moro
questi d'infedeltà pretesti indegni.
Roma a' mortali a serbar fede insegni.
LIC. Ma che sarà di Roma,
se perde il padre suo?
REG. Roma rammenti
che il suo padre è mortal; che al fin vacilla
anch'ei sotto l'acciar; che sente al fine
anch'ei le vene inaridir; che ormai
non può versar per lei
né sangue, né sudor; che non gli resta
che finir da romano. Ah m'apre il Cielo
una splendida via: de' giorni miei
possa l'annoso stame
troncar con lode; e mi volete infame!
No, possibil non è: de' miei Romani
conosco il cor. Da Regolo diverso
pensar non può chi respirò nascendo
l'aure del Campidoglio. Ognun di voi
so che nel cor m'applaude;
so che m'invidia e che fra' moti ancora
di quel, che l'ingannò, tenero eccesso,
fa voti al Ciel di poter far l'istesso.
Ah non più debolezza. A terra, a terra
quell'armi inopportune: al mio trionfo
più non tardate il corso,
o amici, o figli, o cittadini. Amico,
favor da voi domando;
esorto, cittadin; padre, comando.
ATT. (Oh Dio! Ciascun già l'ubbidisce).
PUBLIO (Oh Dio!
ecco ogni destra inerme).
LIC. Ecco sgombro il sentier.
REG. Grazie vi rendo,
propizi dei: libero è il passo. Ascendi,
Amilcare, alle navi;
io sieguo i passi tui.
AMIL. (Al fin comincio ad invidiar costui).
REG. Romani, addio. Siano i congedi estremi
degni di noi. Lode agli dei, vi lascio,
e vi lascio Romani. Ah conservate
illibato il gran nome; e voi sarete
gli arbitri della terra; e il mondo intero
roman diventerà. Numi custodi
di quest'almo terren, dee protettrici
della stirpe d'Enea, confido a voi
questo popol d'eroi: sian vostra cura
questo suol, questi tetti e queste mura.
Fate che sempre in esse
la costanza, la fé, la gloria alberghi,
la giustizia, il valore. E, se giammai
minaccia al Campidoglio
alcun astro maligno influssi rei,
ecco Regolo, o dei: Regolo solo
sia la vittima vostra; e si consumi
tutta l'ira del Ciel sul capo mio:
ma Roma illesa... Ah qui si piange! Addio.
CORO DI ROMANI Onor di questa sponda,
padre di Roma, addio.
Degli anni e dell'obblio
noi trionfiam per te.
Ma troppo costa il vanto;
Roma ti perde intanto;
ed ogni età feconda
di Regoli non è.
FINE

 

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.27.21