Capitolo primo |
I vari casi, la pena e la doglia |
che sotto forma d'un Asin soffersi, |
canterò io, pur che fortuna voglia. |
Non cerco ch'Elicona altr'acqua versi, |
o Febo posi l'arco e la faretra |
e con la lira accompagni i miei versi; |
sì perché questa grazia non s'impetra |
in questi tempi, sì perch'io son certo |
ch'al suon d'un raglio non bisogna cetra. |
Né cerco averne prezzo, premio o merto; |
e ancor non mi curo che mi morda |
un detrattore, o palese o coperto; |
ch'io so ben quanto gratitudo è sorda |
a' preghi di ciascuno, e so ben quanto |
de' benificii un Asin si ricorda. |
Morsi o mazzate io non istimo tanto |
quanto io soleva, sendo divenuto |
de la natura di colui ch'io canto. |
S'io fossi ancor di mia prova tenuto |
più ch'io non soglio, così mi comanda |
quell'Asin sott'il quale io son vissuto. |
Volse già farne un bere in fonte Branda |
ben tutta Siena; e poi gli mise in bocca |
una gocciola d'acqua a randa a randa. |
Ma se 'l ciel nuovi sdegni non trabocca |
contra di me, e' si farà sentire |
per tutto un raglio, e sia zara a chi tocca. |
Ma prima ch'io cominci a riferire |
dell'Asin mio i diversi accidenti, |
non vi rincresca una novella udire. |
Fu, e non sono ancora al tutto spenti |
i suoi consorti un certo giovanetto |
pure in Firenze infra l'antiche genti. |
A costui venne crescendo un difetto: |
ch'in ogni luogo per la via correva, |
e d'ogni tempo senza alcun rispetto. |
E tanto il padre vie più si doleva |
di questo caso, quanto le cagioni |
de la sua malattia men conosceva; |
e volse intender molte opinioni |
di molti savi, e 'n più tempo vi porse |
mille rimedi di mille ragioni. |
Oltra di questo, anco e' lo botò forse; |
ma ciascadun rimedio ci fu vano, |
perciò che sempre, e in ogni luogo corse. |
Ultimamente un certo cerretano, |
de' quali ogni dì molti ci si vede, |
promise al padre suo renderlo sano. |
Ma, come avvien che sempre mai si crede |
a chi promette il bene (onde deriva |
ch'a' medici si presta tanta fede: |
e spesso lor credendo, l'uom si priva |
del bene: e questa sol tra l'altre sètte |
par che del mal d'altrui si pasca e viva), |
così costui niente in dubbio stette, |
e ne le man gli mise questo caso; |
ch'a le parole di costui credette. |
Ed ei gli fe' cento profumi al naso; |
tràssegli sangue de la testa; e poi |
gli parve aver il correr dissuaso. |
E fatto ch'ebbe altri rimedi suoi, |
rendé per sano al padre il suo figliuolo, |
con questi patti ch'or vi direm noi: |
che mai non lo lasciasse andar fuor solo |
per quattro mesi, ma con seco stesse |
chi, se per caso e' si levasse a volo, |
che con qualche buon modo il ritenesse, |
dimostrandogli in parte il suo errore, |
pregandol ch'al suo onor riguardo avesse. |
Così andò ben più d'un mese fòre |
onesto e saggio, infra due suoi fratelli, |
di reverenza pieno e di timore; |
ma giunto un di' ne la via de' Martelli, |
onde puossi la via Larga vedere, |
cominciaro arricciarsigli i capelli. |
Non si poté questo giovin tenere, |
vedendo questa via dritta e spaziosa, |
di non tornar ne l'antico piacere; |
e, posposta da parte ogni altra cosa, |
di correr gli tornò la fantasia, |
che mulinando mai non si riposa; |
e giunto in su la testa de la via |
lasciò ire il mantello in terra, e disse: |
- Qui non mi terrà Cristo; - e corse via. |
E di poi corse sempre, mentre visse, |
tanto che 'l padre si perdé la spesa |
e 'l medico lo studio che vi misse. |
Perché la mente nostra, sempre intesa |
dietro al suo natural, non ci consente |
contr'abito o natura sua difesa. |
Ed io, avendo già volta la mente |
a morder questo e quello, un tempo stetti |
assai quieto, umano e paziente, |
non osservando più gli altrui difetti, |
cercando in altro modo fare acquisto; |
tal che d'esser guarito i' mi credetti. |
Ma questo tempo dispettoso e tristo |
fa, senza ch'alcuno abbia gli occhi d'Argo, |
più tosto il mal che 'l bene ha sempre visto; |
onde s'alquanto or di veleno spargo, |
bench'io mi sia divezzo di dir male, |
mi sforza il tempo di materia largo. |
E l'Asin nostro che per tante scale |
di questo nostro mondo ha mossi i passi, |
per lo ingegno veder d'ogni mortale, |
se bene in ogni luogo si osservassi |
per le sue strade i suoi lunghi cammini, |
non lo terrebbe il ciel che non ragghiassi. |
Dunque, non fie verun che s'avvicini |
a questa rozza e capitosa gregge, |
per non sentir degli scherzi asinini: |
ch'ognun ben sa, che sua natura legge, |
ch'un de' più destri giuochi che far sappi |
è trarre un paio di calci e due corregge. |
E ognuno a suo modo ciarli e frappi |
e abbia quanto voglia e fumo e fasto, |
ch'omai convien che questo Asin ci cappi; |
e sentirassi come il mondo è guasto, |
perch'io vorrò che tutto un vel dipinga, |
avanti che si mangi il freno e 'l basto: |
e chi lo vuol aver per mal, si scinga. |
|
Capitolo secondo |
Quando ritorna la stagione aprica, |
allor che primavera il verno caccia, |
a' ghiacci, al freddo, a le nevi nimica, |
dimostra il cielo assai benigna faccia, |
e suol Diana con le Ninfe sue |
ricominciar pe' boschi andar a caccia; |
e 'l giorno chiaro si dimostra piue, |
massime se, tra l'uno e l'altro corno |
il sol fiammeggia del celeste bue. |
Sentonsi gli asinelli, andando attorno, |
romoreggiar insieme alcuna volta |
la sera, quando a casa fan ritorno; |
tal che chiunque parla, mal si ascolta; |
onde che per antica usanza è suta |
dire una cosa la seconda volta; |
perché con voce tonante e arguta |
alcun di loro spesso o raglia o ride, |
se vede cosa che gli piaccia, o fiuta. |
In questo tempo, allor che si divide |
il giorno da la notte, io mi trovai |
in un luogo aspro quanto mai si vide. |
Io non vi so ben dir com'io v'entrai, |
né so ben la cagion perch'io cascassi |
là dove al tutto libertà lasciai. |
Io non poteva muover i miei passi |
pe 'l timor grande e per la notte oscura, |
ch'io non vedeva punto ov'io m'andassi. |
Ma molto più mi accrebbe la paura |
un suon d'un corno sì feroce e forte, |
ch'ancor la mente non se ne assicura. |
E mi parea veder intorno Morte |
con la sua falce, e d'un color dipinta |
che si dipinge ciascun suo consorte. |
L'aria di folta e grossa nebbia tinta, |
la via di sassi, bronchi e sterpi piena |
avean la virtù mia prostrata e vinta. |
A un troncon m'er'io appoggiato a pena, |
quando una luce subito m'apparve |
non altrimenti che quando balena; |
ma come il balenar già non disparve, |
anzi, crescendo e venendomi presso, |
sempre maggiore e più chiara mi parve. |
Aveva io fisso in quella l'occhio messo, |
e intorno a essa un mormorio sentivo |
d'un frascheggiar, che le veniva appresso. |
Io ero quasi d'ogni senso privo, |
e, spaventato a quella novitate, |
teneva vòlto il volto a ch'io sentivo, |
quando una donna piena di beltade, |
ma fresca e frasca, mi si dimostrava |
con le sue trecce bionde e scapigliate. |
Con la sinistra un gran lume portava |
per la foresta, e da la destra mano |
teneva un corno con ch'ella sonava. |
Intorno a lei, per lo solingo piano, |
erano innumerabili animali, |
che dietro le venian di mano in mano. |
Orsi, lupi e leon fieri e bestiali, |
e cervi e tassi e, con molte altre fiere, |
uno infinito numer di cignali. |
Questo mi fece molto più temere, |
e fuggito sarei pallido e smorto, |
s'aggiunto fosse a la voglia il potere. |
Ma quale stella m'avria mostro il porto? |
E dove gito, misero, sarei? |
O chi m'avrebbe al mio sentiere scòrto? |
Stavano dubbi tutti i pensier miei, |
s'io doveva aspettar ch'a me venisse, |
o reverente farmi incontro a lei; |
tanto ch'innanzi dal tronco i' partisse, |
sopragiunse ella, e con un modo astuto |
e sogghignando: - Buona sera - disse. |
E fu tanto domestico il saluto, |
con tanta grazia, con quanta avria fatto, |
se mille volte m'avesse veduto. |
Io mi rassicurai tutto a quello atto; |
e tanto più chiamandomi per nome |
nel salutar che fece il primo tratto. |
E di poi, sogghignando, disse: - Or come, |
dimmi, sei tu cascato in queste valle |
da nullo abitator colte né dome? |
Le guance mie, ch'erano smorte e gialle, |
mutar colore e diventar di fuoco, |
e tacendo mi strinsi ne le spalle. |
Arei voluto dir: - Mio senno poco, |
vano sperare e vana openione |
m'han fatto ruinare in questo loco; - |
ma non potei formar questo sermone |
in nessun modo, cotanta vergogna |
di me mi prese, e tal compassione. |
Ed ella sorridendo: - E' non bisogna |
tu tema di parlar tra questi ceppi; |
ma parla, e di' quel che 'l tuo core agogna; |
ché, benché in questi solitari greppi |
i' guidi questa mandra, e' son più mesi |
che tutto 'l corso di tua vita seppi. |
Ma perché tu non puoi aver intesi |
i casi nostri, io ti dirò in che lato |
ruinato tu sia, o in che paesi. |
Quando convenne, nel tempo passato, |
a Circe abbandonar l'antico nido, |
prima che Giove prendesse lo stato, |
non ritrovando alcuno albergo fido, |
né gente alcuna che la ricevesse, |
tanto era grande di sua infamia il grido, |
in queste oscure selve, ombrose e spesse, |
fuggendo ogni consorzio umano e legge, |
suo domicilio e la sua sedia messe. |
Tra queste, adunque, solitarie schegge |
agli uomini nimica, si dimora, |
nodrita da' sospir di questa gregge. |
E perché mai alcun non uscì fuora, |
che qui venisse, però mai novelle |
di lei si sepper, né si sanno ancora. |
Sono al servizio suo molte donzelle, |
con le quai solo il suo regno governa, |
ed io sono una del numer di quelle. |
A me è dato per faccenda eterna, |
che meco questa mandria a pascer venga |
per questi boschi, e ogni lor caverna. |
Però convien che questo lume tenga |
e questo corno: l'uno e l'altro è buono, |
s'avvien che 'l giorno, ed io sia fuor, si spenga. |
L'un mi scorge il cammin; con l'altro i' suono |
s'alcuna bestia nel bosco profondo |
fosse smarrita, sappia dove i' sono. |
E se mi domandassi, io ti rispondo: |
sappi che queste bestie che tu vedi, |
uomini, come te, furon nel mondo. |
E s'a le mie parole tu non credi, |
risguarda un po' come intorno ti stanno, |
e chi ti guarda e chi ti lecca i piedi. |
E la cagion del guardar ch'elle fanno |
è ch'a ciascuna de la tua ruina |
rincresce, e del tuo male e del tuo danno. |
Ciascuna, come te, fu peregrina |
in queste selve, e poi fu trasmutata |
in queste forme da la mia regina. |
Questa propria virtù dal ciel gli è data, |
che in varie forme faccia convertire |
tosto che 'l volto d'un uom fiso guata. |
Per tanto a te convien meco venire |
e di questa mia mandra seguir l'orma, |
se in questi boschi tu non vuoi morire. |
E perché Circe non vegga la forma |
del volto tuo, e per venir secreto, |
te ne verrai carpon fra questa torma. |
Allor si mosse con un viso lieto; |
e io, non ci veggendo altro soccorso, |
carpendo con le fiere le andai drieto, |
infra le spalle d'un cervio e d'un orso. |
|
Capitolo terzo |
Dietro a le piante de la mia duchessa |
andando, con le spalle volto al cielo, |
tra quella turba d'animali spessa, |
or mi prendeva un caldo ed or un gelo, |
or le braccia tremando mi cercava |
s'elle avevan cangiato pelle o pelo. |
Le mani e le ginocchia io mi guastava; |
o voi ch'andate a le volte carponi, |
per discrezion pensate com'io stava. |
Er'ito forse un'ora ginocchioni |
tra quelle fiere, quando capitamo |
in un fossato tra duo gran valloni. |
Vedere innanzi a noi non potevamo, |
però che il lume tutti ci abbagliava |
di quella donna che noi seguavamo; |
quando una voce udimmo che fischiava |
col rumor d'una porta che si aperse, |
di cui l'uno e l'altro uscio cigolava. |
Come la vista el riguardar sofferse, |
dinanzi agli occhi nostri un gran palazzo |
di mirabile altura si scoperse. |
Magnifico e spazioso era lo spazzo; |
ma bisognò, per arrivare a quello, |
di quel fossato passar l'acqua a guazzo. |
Una trave faceva ponticello |
sopra cui sol passò la nostra scorta, |
non potendo le bestie andar sopr'ello. |
Giunti che fummo a piè de l'alta porta, |
pien d'affanno e d'angoscia i' entrai drento, |
tra quella turba ch'è peggio che morta, |
e fummi assai di minore spavento; |
ché la mia donna perch'io non temessi, |
avea ne l'entrar quivi il lume spento. |
E questo fu cagion ch'io non vedessi |
d'onde si fosse quel fischiar venuto, |
o chi aperto ne l'entrar ci avessi. |
Così tra quelle bestie sconosciuto, |
mi ritrovai in un ampio cortile, |
tutto smarrito, senza esser veduto. |
E la mia donna bella, alta e gentile, |
per ispazio d'un'ora, o più, attese |
le bestie a rassettar nel loro ovile. |
Poi tutta lieta per la man mi prese, |
ed in una sua camera menommi, |
dov'un gran fuoco di sua mano accese; |
col qual cortesemente rasciugommi |
quell'acqua che m'avea tutto bagnato, |
quando il fossato passar bisognommi. |
Poscia ch'io fui rasciutto, e riposato |
alquanto da l'affanno e dispiacere |
che quella notte m'avea travagliato, |
incominciai: - Madonna il mio tacere |
nasce non già perch'io non sappia a punto |
quanto ben fatto m'hai, quanto piacere. |
Io era al termin di mia vita giunto, |
per luogo oscuro, tenebroso e cieco, |
quando fui da la notte sopraggiunto. |
Tu mi menasti per salvarmi teco: |
dunque la vita da te riconosco |
e ciò ch'intorno a quella porto meco. |
Ma la memoria de l'oscuro bosco |
col tuo bel volto m'han fatto star cheto |
(nel qual ogni mio ben veggo e conosco), |
che fatto m'hanno ora doglioso or lieto: |
doglioso per quel mal che venne pria; |
allegro per quel ben che venne drieto; |
ché potuto non ho la voce mia |
esplicar a parlare infin ch'io sono |
posato in parte de la lunga via. |
Ma tu, ne le cui braccia io m'abbandono, |
e che tal cortesia usata m'hai, |
che non si può pagar con altro dono, |
cortese in questa parte ancor sarai, |
che non ti gravi sì, che tu mi dica |
quel corso di mia vita che tu sai -. |
- Tra la gente moderna e tra l'antica, |
cominciò ella, - alcun mai non sostenne |
più ingratitudin, né maggior fatica. |
Questo già per tua colpa non ti avvenne, |
come avviene ad alcun, ma perché sorte |
al tuo ben operar contraria venne. |
Questa ti chiuse di pietà le porte, |
quando ch'al tutto questa t'ha condutto |
in questo luogo sì feroce e forte. |
Ma perché il pianto a l'uom fu sempre brutto, |
si debbe a' colpi de la sua fortuna |
voltar il viso di lagrime asciutto. |
Vedi le stelle e 'l ciel, vedi la luna, |
vedi gli altri pianeti andar errando |
or alto or basso senza requie alcuna; |
quando il ciel vedi tenebroso, e quando |
lucido e chiaro; e così nulla in terra |
vien ne lo stato suo perseverando. |
Di quivi nasce la pace e la guerra; |
di qui dipendon gli odi tra coloro |
ch'un muro insieme ed una fossa serra. |
Da questo venne il tuo primo martoro; |
da questo nacque al tutto la cagione |
de le fatiche tue senza ristoro. |
Non ha cangiato il cielo opinione |
ancor, né cangerà, mentre che i fati |
tengon ver te la lor dura intenzione. |
E quelli umori i quai ti sono stati |
cotanto avversi e cotanto nimici, |
non sono ancor, non sono ancor purgati; |
ma come secche fien le lor radici |
e che benigni i ciel si mostreranno, |
torneran tempi più che mai felici; |
e tanto lieti e giocondi saranno, |
che ti darà diletto la memoria |
e del passato e del futuro danno. |
Forse ch'ancor prenderai vanagloria |
a queste genti raccontando e quelle |
de le fatiche tue la lunga istoria. |
Ma prima che si mostrin queste stelle |
liete verso di te, gir ti conviene |
cercando il mondo sotto nuova pelle; |
ché quella Provvidenza che mantiene |
l'umana spezie, vuol che tu sostenga |
questo disagio per tuo maggior bene. |
Di qui conviene al tutto che si spenga |
in te l'umana effigie, e, senza quella, |
meco tra l'altre bestie a pascer venga. |
Né può mutarsi questa dura stella; |
e, per averti in questo luogo messo, |
si differisce il mal, non si cancella. |
E lo star meco alquanto t'è permesso, |
acciò del luogo esperienza porti, |
e degli abitator che stanno in esso. |
Adunque fa che tu non ti sconforti; |
ma prendi francamente questo peso |
sopra gli omeri tuoi solidi e forti; |
ch'ancor ti gioverà d'averlo preso. |
|
Capitolo quarto |
Poi che la donna di parlare stette, |
leva'mi in piè, rimanendo confuso |
per le parole ch'ella aveva dette. |
Pur dissi: - Il ciel né altri i' non accuso, |
né mi vo' lamentar di sì ria sorte, |
perché nel mal più che nel ben sono uso. |
Ma s'io dovessi per l'infernal porte |
gire al ben che detto hai, mi piacerebbe, |
non che per quelle vie che tu m'hai porte. |
Fortuna, dunque, tutto quel che debbe |
e che le par, de la mia vita faccia; |
ch'io so ben che di me mai non le 'ncrebbe. - |
Allora la mia donna aprì le braccia, |
e con un bel sembiante, tutta lieta, |
mi baciò dieci volte e più la faccia; |
poi disse festeggiando: - Alma discreta, |
questo viaggio tuo, questo tuo stento, |
cantato fia da istorico o poeta. |
Ma perché via passar la notte sento, |
vo' che pigliam qualche consolazione |
e che mutiam questo ragionamento. |
E prima troverem da colezione, |
ché so bisogno n'hai forse non poco, |
se di ferro non è tua condizione; |
e goderemo insieme in questo loco. |
E detto questo, una sua tovaglietta |
apparecchiò su un certo desco al fuoco. |
Poi trasse d'uno armario una cassetta, |
dentrovi pane, bicchieri e coltella, |
un pollo, una insalata acconcia e netta, |
e altre cose appartenenti a quella. |
Poscia, a me volta, disse: - Questa cena |
ogni sera m'arreca una donzella. |
Ancor questa guastada porta piena |
di vin, che ti parrà, se tu l'assaggi, |
di quel che Val di Grieve e Poppi mena. |
Godiamo, adunque; e, come fanno i saggi, |
pensa che ben possa venire ancora; |
e chi è dritto, al fin convien che caggi. |
E quando viene il mal, che viene ognora, |
mandalo giù come una medicina; |
ché pazzo è chi la gusta o l'assapora. |
Viviamo or lieti, infin che domattina |
con la mia greggia sia tempo uscir fuori, |
per ubbidire a l'alta mia regina -. |
Così lasciando gli affanni e i dolori, |
lieti insieme cenammo: e ragionossi |
di mille canzonette e mille amori. |
Poi, come avemmo cenato, spogliossi, |
e dentro al letto mi fe' seco entrare, |
come suo amante o suo marito io fossi. |
Qui bisogna a le Muse il peso dare, |
per dir la sua beltà; ché senza loro |
sarebbe vano il nostro ragionare. |
Erano i suoi capei biondi com'oro, |
ricciuti e crespi, tal che d'una stella |
pareano i raggi o del superno coro. |
Ciascuno occhio pareva una fiammella |
tanto lucente, sì chiara e sì viva, |
ch'ogni acuto veder si spegne in quella. |
Avea la testa una grazia attrattiva, |
tal ch'io non so a chi me la somigli, |
perché l'occhio al guardarla si smarriva. |
Sottili, arcati e neri erano i cigli, |
perch'a plasmargli fur tutti gli dei, |
tutti i celesti e superni consigli. |
Di quel che da quei pende dir vorrei |
cosa ch'al vero alquanto rispondesse, |
ma tacciol, perché dir non lo saprei. |
Io non so già chi quella bocca fesse; |
se Giove con sua man non la fece egli, |
non credo ch'altra man far la potesse. |
I denti più che d'avorio eran begli; |
e una lingua vibrar si vedeva, |
come una serpe, infra le labbra e quegli: |
d'onde uscì un parlare, il qual poteva |
fermare i venti e far andar le piante, |
sì soave concento e dolce aveva. |
Il collo e 'l mento ancor vedeasi, e tante |
altre bellezze, che farian felice |
ogni meschino e infelice amante. |
Io non so s'a narrarlo si disdice |
quel che seguì da poi; però che 'l vero |
suole spesso far guerra a chi lo dice. |
Pur lo dirò, lasciandone il pensiero |
a chi vuol biasimar; perché, tacendo |
un gran piacer, non è piacer intero. |
Io venni ben con l'occhio discorrendo |
tutte le parti sue infino al petto, |
a lo splendor del qual ancor m'accendo; |
ma più oltre veder mi fu disdetto |
da una ricca e candida coperta, |
con la qual coperto era il picciol letto. |
Era la mente mia stupida e incerta, |
frigida, mesta, timida e dubbiosa, |
non sapendo la via quanto era aperta. |
E come giace stanca e vergognosa |
e involta nel lenzuol, la prima sera, |
presso al marito la novella sposa, |
così d'intorno, pauroso, m'era |
la coperta del letto inviluppata, |
come quel che 'n virtù sua non ispera. |
Ma poi che fu la donna un pezzo stata |
a riguardarmi, sogghignando disse: |
- Sare' io d'ortica o pruni armata? |
Tu puo' aver quel che sospirando misse |
alcun già, per averlo, più d'un grido, |
e fe' mille quistioni e mille risse. |
Bene entreresti in qualche loco infido, |
per ritrovarti meco, o noteresti |
come Leandro infra Seto e Abido; |
poi che la virtute hai sì poca, che questi |
panni che son fra noi ti fanno guerra, |
e da me sì discosto ti ponesti -. |
E come quando nel carcer si serra, |
dubbioso de la vita, un peccatore, |
che sta con gli occhi guardando la terra; |
poi, s'egli avvien che grazia dal signore |
impetri, e' lascia ogni pensiero strano |
e prende assai d'ardire e di valore, |
tal er'io, e tal divenni per l'umano |
suo ragionare; e a lei m'accostai, |
stendendo fra' lenzuol la fredda mano. |
E come poi le sue membra toccai, |
un dolce sì soave al cor mi venne |
qual io non credo più gustar mai. |
Non in un loco la man si ritenne, |
ma, discorrendo per le membra sue, |
la smarrita virtù tosto rinvenne. |
E non essendo già timido piue, |
dopo un dolce sospir, parlando dissi: |
- Sian benedette le bellezze tue! |
Sia benedetta l'ora, quando io missi |
il piè ne la foresta, e se mai cose, |
che ti fossero a cor, feci né scrissi. |
E pien di gesti e parole amorose, |
rinvolto in quelle angeliche bellezze, |
che scordar mi facean l'umane cose, |
intorno al cor sentii tante allegrezze |
con tanto dolce, ch'io mi venni meno |
gustando il fin di tutte le dolcezze, |
tutto prostrato sopra il dolce seno. |
|
Capitolo quinto |
Veniva già la fredda notte manco: |
fuggivansi le stelle ad una ad una, |
e d'ogni parte il ciel si facea bianco; |
cedeva al sole il lume de la luna, |
quando la donna mia disse: - E' bisogna |
poi ch'egli è tale il voler di Fortuna, |
s'io non voglio acquistar qualche vergogna |
tornar a la mia mandra, e menar quella |
dove prender l'usato cibo agogna. |
Tu ti resterai solo in questa cella, |
e questa sera, al tornar, menerotti |
dove tu possa a tuo modo vedella. |
Non uscir fuor; questo ricordo dotti; |
non risponder s'un chiama, perché molti |
degli altri questo errore ha mal condotti. |
Indi partissi; ed io, ch'aveva volti |
tutti i pensieri a l'amoroso aspetto, |
che lucea più che tutti gli altri volti, |
sendo rimaso in camera soletto, |
per mitigar, del letto i' mi levai, |
l'incendio grande che m'ardeva il petto. |
Come prima da lei mi discostai, |
mi riempié di pensier la saetta |
quella ferita che per lei sanai. |
E stav'io come quello che sospetta |
di varie cose, e se stesso confonde, |
desiderando il ben che non aspetta. |
E perché a l'un pensier l'altro risponde |
la mente a le passate cose corse, |
che 'l tempo per ancor non ci nasconde; |
e qua e là ripensando discorse, |
come l'antiche genti, alte e famose, |
fortuna spesso or carezzò e or morse; |
e tanto a me parver maravigliose, |
che meco la cagion discorrer volli |
del variar de le mondane cose. |
Quel che ruina da' più alti colli, |
più ch'altro, i regni, è questo: che i potenti |
di lor potenza non son mai satolli. |
Da questo nasce che son mal contenti |
quei ch'han perduto, e che si desta umore |
per ruinar quei che restan vincenti; |
onde avvien che l'un sorge e l'altro muore; |
e quel ch'è surto, sempre mai si strugge |
per nuova ambizione o per timore. |
Questo appetito gli stati distrugge: |
e tanto è più mirabil, che ciascuno |
conosce questo error, nessun lo fugge. |
San Marco impetuoso ed importuno, |
credendosi aver sempre il vento in poppa, |
non si curò di ruinare ognuno; |
né vide come la potenza troppa |
era nociva, e come il me' sarebbe |
tener sott'acqua la coda e la groppa. |
Spesso uno ha pianto lo stato ch'egli ebbe, |
e, dopo il fatto, poi s'accorge come |
a sua ruina e a suo danno crebbe. |
Atene e Sparta, di cui sì gran nome |
fu già nel mondo, allor sol ruinorno |
quando ebber le potenze intorno dome. |
Ma di Lamagna nel presente giorno |
ciascaduna città vive sicura, |
per aver manco di sei miglia intorno. |
A la nostra città non fe' paura |
Arrigo già con tutta la sua possa, |
quando i confini avea presso a le mura; |
ed or ch'ella ha sua potenza promossa |
intorno, e diventata è grande e vasta, |
teme ogni cosa, non che gente grossa. |
Perché quella virtute che soprasta |
un corpo a sostener, quando egli è solo, |
a regger poi maggior peso non basta. |
Chi vuol toccar e l'uno e l'altro polo, |
si truova ruinato in sul terreno, |
com'Icar già dopo suo folle volo. |
Vero è che suol durar o più o meno |
una potenza, secondo che più |
o men sue leggi buone e ordin fieno. |
Quel regno che sospinto è da virtù |
ad operare, o da necessitate, |
si vedrà sempre mai gire all'insù; |
e per contrario fia quella cittate |
piena di sterpi silvestri e di dumi, |
cangiando seggio dal verno a la state, |
tanto ch'al fin convien che si consumi |
e ponga sempre la sua mira in fallo, |
che ha buone leggi e cattivi costumi. |
Chi le passate cose legge, sallo |
come gli imperii comincian da Nino, |
e poi finiscono in Sardanapallo. |
Quel primo fu tenuto un uom divino, |
quell'altro fu trovato fra l'ancille |
com'una donna dispensar il lino. |
La virtù fa le region tranquille: |
e da tranquillità poi ne risolta |
l'ozio: e l'ozio arde i paesi e le ville. |
Poi, quando una provincia è stata involta |
ne' disordini un tempo, tornar suole |
virtute ad abitarvi un'altra volta. |
Quest'ordine così permette e vuole |
chi ci governa, acciò che nulla stia |
o possa star mai fermo sotto 'l sole. |
Ed è, e sempre fu e sempre fia |
che 'l mal succeda al bene, il bene al male, |
e l'un sempre cagion dell'altro sia. |
Vero è ch'un crede sia cosa mortale |
pe' regni, e sia la lor distruzione |
l'usura, o qualche peccato carnale; |
e della lor grandezza la cagione, |
e che alti e potenti gli mantiene, |
sian digiuni, limosine, orazione. |
Un altro, più discreto e savio, tiene |
ch'a ruinargli questo mal non basti, |
né basti a conservargli questo bene. |
Creder che senza te per te contrasti |
Dio, standoti ozioso e ginocchioni, |
ha molti regni e molti stati guasti. |
E' son ben necessarie l'orazioni: |
e matto al tutto è quel ch'al popol vieta |
le cerimonie e le sue divozioni; |
perché da quelle in ver par che si mieta |
unione e buono ordine; e da quello |
buona fortuna poi dipende e lieta. |
Ma non sia alcun di sì poco cervello, |
che creda, se la sua casa ruina |
che Dio la salvi senz'altro puntello; |
perché e' morrà sotto quella ruina. |
|
Capitolo sesto |
Mentre ch'io stava sospeso ed involto |
con l'affannata mente in quel pensiero, |
aveva il sole il mezzo cerchio volto: |
il mezzo, dico, del nostro emispero; |
tal che da noi s'allontanava il giorno, |
e l'oriente si faceva nero; |
quando io conobbi pe 'l sonar d'un corno |
e pe 'l ruggir de l'infelice armento, |
come la donna mia facea ritorno. |
E bench'io fossi in quel pensiero intento |
che tutto il giorno a sé mi aveva tratto, |
e del mio petto ogni altra cura spento, |
com'io sentii la mia donna, di fatto |
pensai ch'ogni altra cosa fosse vana |
fuor di colei di cui fui servo fatto; |
che, giunta dov'io era, tutta umana |
il collo mio con un de' bracci avvinse, |
con l'altro mi pigliò la man lontana. |
Vergogna alquanto il viso mi dipinse, |
né potti dire alcuna cosa a quella, |
tanta fu la dolcezza che mi vinse. |
Pur, dopo alquanto spazio, e io ed ella |
insieme ragionammo molte cose, |
com'uno amico con l'altro favella. |
Ma, riposate sue membra angosciose |
e recreate dal cibo usitato, |
così parlando la donna propose: |
- Già ti promisi d'averti menato |
in loco dove comprender potresti |
tutta la condizion del nostro stato; |
adunque, se ti piace, fa' t'appresti |
e vedrai gente con cui per l'adrieto |
gran conoscenza e gran pratica avesti -. |
Indi levossi, e io le tenni drieto, |
com'ella volse, e non senza paura; |
pur non sembrava né mesto né lieto. |
Fatta era già la notte ombrosa e scura; |
ond'ella prese una lanterna in mano, |
ch'a suo piacer il lume scuopre e tura. |
Giti che fummo, e non molto lontano, |
mi parve entrar in un gran dormitoro, |
sì come ne' conventi usar veggiàno. |
Un landrone era proprio come il loro, |
e da ciascun de' lati si vedeva |
porte pur fatte di pover lavoro. |
Allor la donna ver me si volgeva, |
e disse come dentro a quelle porte |
il grande armento suo meco giaceva. |
E perché variata era la sorte, |
eran varie le loro abitazioni, |
e ciaschedun si sta col suo consorte. |
- Stanno a man destra, al primo uscio i leoni, |
cominciò, poi che 'l suo parlar riprese, |
- co' denti acuti e con gli adunchi unghioni. |
Chiunque ha cor magnanimo e cortese, |
da Circe in quella fera si converte; |
ma pochi ce ne son del tuo paese. |
Ben son le piagge tue fatte deserte |
e prive d'ogni gloriosa fronda, |
che le facea men sassose e meno erte. |
S'alcun di troppa furia e rabbia abbonda, |
tenendo vita rozza e violenta, |
tra gli orsi sta ne la stanza seconda; |
e ne la terza, se ben mi rammenta, |
voraci lupi e affamati stanno, |
tal che cibo nessun non gli contenta. |
Lor domicilio nel quarto loco hanno |
buffoli e buoi; e se con quella fiera |
si truova alcun de' tuoi, àbbisi il danno. |
Chi si diletta di far buona ciera |
e dorme quando e' veglia intorno al fuoco, |
si sta fra' becchi nella quinta schiera. |
Io non ti vuo' discorrere ogni loco: |
perché a voler parlar di tutti quanti, |
sarebbe il parlar lungo e 'l tempo poco. |
Bàstiti questo: che dietro e davanti |
ci son cervi, pantere e leopardi, |
e maggior bestie assai che leofanti. |
Ma fa ch'un poco al dirimpetto guardi |
quell'ampia porta ch'a l'incontro è posta, |
ne la quale entrerem, benché sia tardi. - |
E prima ch'io facessi altra risposta, |
tutta si mosse, e disse: - Sempre mai |
si debbe far piacer quando e' non costa. |
Ma perché, poi che dentro tu sarai, |
possa conoscer del loco ogni effetto |
e me' considerar ciò che vedrai, |
intender debbi che, sotto ogni tetto |
di queste stanze, sta d'una ragione |
d'animai bruti, come già t'ho detto. |
Sol questa non mantien tal condizione, |
e, come avvien nel Mallevato vostro |
che vi va ad abitar ogni prigione, |
così colà in quel loco ch'io ti mostro, |
può ir ciascuna fiera a diportarsi, |
che per le celle stan di questo chiostro; |
tal che, veggendo quella, potrà farsi, |
senza riveder l'altre ad una ad una, |
dove sarebbon troppi passi sparsi. |
E anche in quella parte si raguna |
fiere che son di maggior conoscenza, |
di maggior grado e di maggior fortuna. |
E se ti parran bestie in apparenza, |
ben ne conoscerai qualcuna in parte |
a' modi, a' gesti, a gli occhi, a la presenza. |
Mentre parlava, noi venimmo in parte |
dove la porta tutta ne appariva, |
con le sue circostanze a parte a parte. |
Una figura, che pareva viva, |
era di marmo scolpita davante |
sopra 'l grande arco che l'uscio copriva: |
e come Annibal sopra un elefante, |
parea che trionfasse; e la sua vesta |
era d'uom grave, famoso e prestante. |
D'alloro una ghirlanda aveva in testa; |
la faccia aveva assai gioconda e lieta; |
d'intorno, gente che li facean festa. |
- Colui è il grande abate di Gaeta, |
disse la donna, come saper dei, |
che fu già coronato per poeta. |
Suo simulacro da' superni Dei, |
come tu vedi, in quel loco fu messo, |
con gli altri che gli sono intorno a' piei, |
perché ciascun che gli venisse appresso, |
senz'altro intender, giudicar potesse |
quai sian le genti là serrate in esso. |
Ma facciam sì omai, ch'io non perdesse |
cotanto tempo a risguardar costui, |
che l'ora del tornar sopragiungesse. |
Vienne, adunque, con meco; e se mai fui |
cortese, ti parrò a questa volta, |
nel dimostrarti questi luoghi bui, |
se tanta grazia non m'è dal ciel tolta. |
|
Capitolo settimo |
Noi eravam col piè già 'n su la soglia |
di quella porta, e di passar là drento |
m'avea fatto venir la donna voglia; |
e di quel mio voler restai contento, |
perché la porta subito s'aperse, |
e dimostronne il serrato convento. |
E perché me' quel potesse vederse, |
il lume ch'ella avea sotto la vesta |
chiuso, ne l'entrar là tutto scoperse. |
A la qual luce sì lucida e presta, |
com'egli avvien nel veder cosa nuova, |
più che duemila bestie alzar la testa. |
Or guarda ben, se di veder ti giova, |
disse la donna, il copioso drappello |
che 'n questo loco insieme si ritruova. |
Né ti paia fatica a veder quello, |
ché non son tutti terrestri animali; |
ben c'è tra tante bestie qualche uccello. |
Io levai gli occhi, e vidi tanti e tali |
animai bruti, ch'io non crederei |
poter mai dir quanti fossero e quali; |
e perché a dirlo tedioso sarei, |
narrerò di qualcun, la cui presenza |
diede più maraviglia a gli occhi miei. |
Vidi un gatto per troppa pazienza |
perder la preda, e restarne scornato, |
benché prudente e di buona semenza. |
Poi vidi un drago tutto travagliato |
voltarsi, senza aver mai posa alcuna, |
ora sul destro ora su l'altro lato. |
Vidi una volpe, maligna e 'mportuna, |
che non truova ancor rete che la pigli; |
e un can còrso abbaiar a la luna. |
Vidi un leon che s'aveva gli artigli |
e' denti ancor da se medesmo tratti, |
pe' suoi non buoni e non saggi consigli. |
Poco più là, certi animai disfatti |
qual coda non avea, qual non orecchi, |
vidi musando starsi quatti quatti. |
Io ve ne scorsi e conobbi parecchi; |
e, se ben mi ricordo in maggior parte, |
era un mescuglio fra conigli e becchi. |
Appresso questi, un po' così da parte, |
vidi un altro animal, non come quelli, |
ma da natura fatto con più arte. |
Aveva rari e delicati e' velli; |
parea superbo in vista e animoso, |
tal che mi venne voglia di piacelli. |
Non dimostrava suo cuor generoso, |
Gli ugnoni avendo incatenato e i denti; |
però si stava sfuggiasco e sdegnoso. |
Una................................ |
.................................... |
.................................... |
Vidi............................... |
.................................... |
.................................... |
Poi vidi una giraffa, che chinava |
il collo a ciascheduno; e da l'un canto |
aveva un orso stanco che russava. |
Vidi un pavon col suo leggiadro ammanto |
girsi pavoneggiando, e non temeva |
se 'l mondo andasse in volta tutto quanto. |
Uno animal che non si conosceva, |
sì variato avea la pelle e 'l dosso, |
e 'n su la groppa una cornacchia aveva. |
Una bestiaccia vidi di pel rosso, |
ch'era un bue senza corna; e dal discosto |
m'ingannò, che mi parve un caval grosso. |
Poi vidi uno asin tanto mal disposto, |
che non potea portar, non ch'altro il basto; |
e parea proprio un citriuol d'agosto. |
Vidi un segugio, ch'avea il veder guasto: |
e Circe n'arìa fatto capitale, |
se non foss'ito, com'un orbo, al tasto. |
Vidi uno soricciuol, ch'avea per male |
d'esser sì piccoletto, e bezzicando |
andava or questo, or quell'altro animale. |
Poi vidi un bracco, ch'andava fiutando |
a questo il ceffo a quell'altro la spalla, |
come s'andasse del padron cercando. |
Il tempo è lungo, e la memoria falla; |
tanto ch'io non vi posso ben narrare |
quel ch'io vidi in un dì per questa stalla. |
Un buffol, che mi fe' raccapricciare |
col suo guardare e 'l suo mugliar sì forte, |
d'aver veduto i' mi vo' ricordare. |
Un cervio vidi, che temeva forte, |
or qua or là variando il cammino, |
tanto avea paura de la morte. |
Vidi sopra una trave un armellino, |
che non vuol ch'altri il guardi, non che 'l tocchi, |
ed era a una allodola vicino. |
In molte buche più di cento allocchi |
vidi, e una oca bianca come neve |
e una scimia che facea lo 'mbocchi. |
Vidi tanti animai, che saria greve |
e lungo a raccontar lor condizioni, |
come fu il tempo a riguardarli breve. |
Quanti mi parver già Fabi e Catoni, |
che, poi che quivi di lor esser seppi, |
mi riusciron pecore e montoni! |
Quanti ne pascon questi duri greppi, |
che seggono alto ne' più alti scanni! |
Quanti nasi aquilin riescon gheppi! |
E bench'io fossi involto in mille affanni, |
pur parlare a qualcuno arei voluto, |
se vi fossero stati i torcimanni; |
ma la mia donna, ch'ebbe conosciuto |
questa mia voglia e questo mio appetito, |
disse: - Non dubitar, ch'e' fia adempiuto. |
Guarda un po' là dov'io ti mostro a dito, |
senz'esserti più oltre mosso un passo |
pur lungo il muro, come tu se' ito. - |
Allora io vidi entro in un luogo basso, |
com'io ebbi ver lui dritto le ciglia, |
tra 'l fango involto un porcellotto grasso. |
Non dirò già chi costui si somiglia; |
bàstivi ch'e' saria trecento e piue |
libbre, se si pesasse a la caviglia. |
E la mia guida disse: - Andiam là giue |
presso a quel porco, se tu se' pur vago |
d'udir le voglie e le parole sue. |
Che se trar lo volessi di quel lago, |
facendol tornar uom, e' non vorrebbe; |
come pesce che fosse in fiume o in lago. |
E perché questo non si crederebbe, |
acciò che far ne possa piena fede, |
domandera'lo se quindi uscirebbe. |
Appresso mosse la mia donna il piede; |
e per non separarmi da lei punto, |
la presi per la man ch'ella mi diede; |
tanto ch'io fui presso a quel porco giunto. |
|
Capitolo ottavo |
Alzò quel porco al giunger nostro il grifo, |
tutto vergato di meta e di loto, |
tal che mi venne nel guardarlo a schifo. |
E perch'io fui già gran tempo suo noto, |
ver me si mosse mostrandomi i denti, |
stando col resto fermo e senza moto. |
Ond'io li dissi, pur con grati accenti: |
- Dio ti dia miglior sorte, se ti pare; |
Dio ti mantenga, se tu ti contenti. |
Se meco ti piacesse ragionare, |
mi sarà grato; e perché sappia certo, |
pur che tu voglia, ti puoi sodisfare. |
E per parlarti libero e aperto, |
tel dico con licenza di costei, |
che mostro m'ha questo sentier deserto. |
Cotanta grazia m'han fatto li Dei, |
che non gli è parso il salvarmi fatica |
e trarmi degli affanni ove tu sei. |
Vuole ancor da sua parte ch'io ti dica |
che ti libererà da tanto male, |
se tornar vuoi ne la tua forma antica. - |
Levossi allora in piè dritto il cignale, |
udendo quello; e fe' questa risposta, |
tutto turbato, il fangoso animale: |
- Non so d'onde tu venga, o di qual costa; |
ma se per altro tu non se' venuto |
che per trarmi di qui, vanne a tua posta. |
Viver con voi io non voglio, e rifiuto; |
e veggo ben che tu se' in quello errore, |
che me più tempo ancor ebbe tenuto. |
Tanto v'inganna il proprio vostro amore, |
che altro ben non credete che sia |
fuor de l'umana essenza e del valore; |
ma se rivolgi a me la fantasia, |
pria che tu parta da la mia presenza, |
farò che 'n tale error mai più non stia. |
Io mi vo' cominciar da la prudenza, |
eccellente virtù, per la qual fanno |
gli uomin maggiore la loro eccellenza. |
Questa san meglio usar color che sanno, |
senz'altra disciplina, per sé stesso |
seguir lor bene ed evitar lor danno. |
Senz'alcun dubbio, io affermo e confesso |
esser superior la parte nostra; |
e ancor tu nol negherai appresso. |
Qual è quel precettor che ci dimostra |
l'erba qual sia, o benigna o cattiva? |
Non studio alcun, non l'ignoranza vostra. |
Noi cangiam region di riva in riva, |
e lasciare uno albergo non ci duole, |
pur che contento e felice si viva. |
L'un fugge il ghiaccio e l'altro fugge il sole, |
seguendo il tempo a viver nostro amico, |
come natura che ne insegna, vuole. |
Voi, infelici assai più ch'io non dico, |
gite cercando quel paese e questo, |
non per aere trovar freddo od aprico, |
ma perché l'appetito disonesto |
de l'aver non vi tien l'animo fermo |
nel viver parco, civile e modesto; |
e spesso in aere putrefatto e infermo, |
lasciando l'aere buon, vi trasferite; |
non che facciate al viver vostro schermo. |
Noi l'aere sol, voi povertà fuggite, |
cercando con pericoli ricchezza, |
che v'ha del ben oprar le vie impedite. |
E se parlar vogliam de la fortezza, |
quanto la parte nostra sia prestante |
si vede, come 'l sol per sua chiarezza. |
Un toro, un fer leone, un leofante |
e 'nfiniti di noi nel mondo sono |
a cui non può l'uom comparir davante. |
E se de l'alma ragionare è buono, |
vedrai di cori invitti e generosi |
e forti esserci fatto maggior dono. |
Tra noi son fatti e gesti valorosi |
senza sperar trionfo o altra gloria, |
come già quei Roman che fur famosi. |
Vedesi ne' leon gran vanagloria |
de l'opra generosa, e de la trista |
volerne al tutto spegner la memoria. |
Alcuna fera ancor tra noi s'è vista, |
che, per fuggir del carcer le catene, |
e gloria e libertà morendo acquista; |
e tal valor nel suo petto ritiene |
ch'avendo perso la sua libertate, |
di viver serva il suo cor non sostiene. |
E se a la temperanza risguardate, |
ancora e' vi parrà ch'a questo gioco |
abbiam le parti vostre superate. |
In Vener noi spendiamo e breve e poco |
tempo; ma voi, senza alcuna misura, |
seguite quella in ogni tempo e loco. |
La nostra specie altro cibar non cura |
che 'l prodotto dal ciel sanz'arte, e voi |
volete quel che non può far natura. |
Né vi contenta un sol cibo, qual noi, |
ma, per me' sodisfar le 'ngorde voglie, |
gite per quelli infin ne' regni Eoi. |
Non basta quel che 'n terra si ricoglie, |
ché voi entrate a l'Oceano in seno, |
per potervi saziar de le sue spoglie. |
Il mio parlar mai non verrebbe meno, |
s'io volessi mostrar come infelici |
voi siete più ch'ogni animal terreno. |
Noi a natura siam maggiori amici; |
e par che in noi più sua virtù dispensi, |
facendo voi d'ogni suo ben mendici. |
Se vuoi questo veder, pon mano a' sensi, |
e sarai facilmente persuaso |
di quel che forse pe 'l contrario pensi. |
L'aquila l'occhio, il can l'orecchio e 'l naso, |
e 'l gusto ancor possiam miglior mostrarvi, |
se 'l tatto a voi più proprio s'è rimaso; |
il qual v'è dato non per onorarvi, |
ma sol perché di Vener l'appetito |
dovesse maggior briga e noia darvi. |
Ogni animal tra noi nasce vestito: |
che 'l difende dal freddo tempo e crudo, |
sotto ogni cielo e per qualunque lito. |
Sol nasce l'uom d'ogni difesa ignudo, |
e non ha cuoio, spine o piume o vello, |
setole o scaglie, che li faccian scudo. |
Dal pianto il viver suo comincia quello, |
con tuon di voce dolorosa e roca; |
tal ch'egli è miserabile a vedello. |
Da poi, crescendo la sua vita è poca, |
senz'alcun dubbio, al paragon di quella |
che vive un cervo, una cornacchia, un'oca. |
Le man vi diè natura e la favella, |
e con quelle anco ambizion, vi dette, |
e avarizia che quel ben cancella. |
A quante infermità vi sottomette |
natura, prima, e poi fortuna! Quanto |
ben senz'alcun effetto vi promette! |
Vostr'è l'ambizion lussuria e 'l pianto, |
e l'avarizia che genera scabbia |
nel viver vostro che stimate tanto. |
Nessun altro animal si trova ch'abbia |
più fragil vita, e di viver più voglia, |
più confuso timore o maggior rabbia. |
Non dà l'un porco a l'altro porco doglia, |
l'un cervo a l'altro; solamente l'uomo |
l'altr'uom ammazza, crocifigge e spoglia. |
Pens'or come tu vuoi ch'io ritorni uomo, |
sendo di tutte le miserie privo, |
ch'io sopportava mentre che fui uomo. |
E s'alcuno infra gli uomini ti par divo, |
felice e lieto, non gli creder molto, |
ché 'n questo fango più felice vivo, |
dove senza pensier mi bagno e vòlto. - |