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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

ADELCHI

Alessandro Manzoni

TRAGEDIA

ATTO SECONDO

[SCENA PRIMA][SCENA SECONDA][SCENA TERZA]

[SCENA QUARTA][SCENA QUINTA]

  

SCENA PRIMA

Campo de' Franchi in Val di Susa

CARLO, PIETRO

 

PIETRO

Carlo invitto, che udii? Toccato ancora

Il suol non hai dove il secondo regno

Il Signor ti destina; e di ritorno

Per tutto il campo si bisbiglia! Oh! possa,

Dal tuo labbro real tosto smentita,

L'empia voce cader! L'età ventura

Non abbia a dir che sul principio tronca

Giacque un'impresa risoluta in cielo,

Abbracciata da te. No; ch'io non torni

Al Pastor santo, e debba dirgli: il brando,

Che suscitato Iddio t'avea, ricadde

Nella guaina; il tuo gran figlio volle,

Volle un momento, e disperò.

 

CARLO

Quant'io

Per la salvezza di tal padre oprai,

Uomo di Dio, tu lo vedesti, il vide

Il mondo, e fede ne farà. Di quello

Che resti a far, dal mio desir consiglio

Non prenderò, quando m'ha dato il suo

Necessità. L'Onnipotente è un solo.

Quando all'orecchio mi pervenne il grido

Del Pastor minacciato, io, su gl'infranti

Idoli vincitor, dietro l'infido

Sassone camminava; e la sua fuga

Mi batteva la via; ristetti in mezzo

Della vittoria, e patteggiai là dove

Tre dì più tardi comandar potea.

Tenni il campo in Ginevra; al voler mio

Ogni voler piegò; Francia non ebbe

Più che un affar; tutta si mosse, al varco

D'Italia s'affacciò volenterosa,

Come al racquisto di sue terre andria.

Ora, a che siam tu il vedi: il varco è chiuso.

Oh! se frapposti tra il conquisto e i Franchi

Fosser uomini sol, questa parola

Il re de' Franchi proferir potrebbe:

Chiusa è la via? Natura al mio nemico

Il campo preparò, gli abissi intorno

Gli scavò per fossati; e questi monti,

Che il Signor fabbricò, son le sue torri

E i battifredi: ogni più picciol varco

Chiuso è di mura, onde insultare ai mille

Potrieno i dieci, ed ai guerrier le donne.

- Già troppo, in opra ove il valer non basta,

Di valenti io perdei: troppo, fidando

Nel suo vantaggio, il fiero Adelchi ha tinta

Di Franco sangue la sua spada. Ardito

Come un leon presso la tana, ei piomba,

Percote, e fugge. Oh ciel! più volte io stesso,

Nell'alta notte visitando il campo,

Fermo presso le tende, udii quel nome

Con terror proferito. I Franchi miei

Ad una scola di terror più a lungo

Io non terrò. S'io del nemico a fronte

Venir poteva in campo aperto, oh! breve

Era questa tenzon, certa l'impresa...

Fin troppo certa per la gloria. E Svarto,

Un guerrier senza nome, un fuggitivo,

L'avria con me divisa, ei che già vinti

Mi rassegnò tanti nemici. Un giorno,

Men che un giorno bastava: Iddio mel niega.

Non se ne parli più.

 

PIETRO

Re, all'umil servo

Di Colui che t'elesse, e pose il regno

Nella tua casa, non vorrai tu i preghi

Anco inibir. Pensa a che man tu lasci

Quel che padre tu nomi. Il suo nemico

Già provocato a guerra avevi, in armi

Già tu scendevi, e ancor di rabbia insano,

Più che di tema, il crudo veglio al santo

Pastor mandava ad intimar, che ai Franchi

Desse altri re: - tu li conosci. - Ei tale

Mandò risposta a quel tiranno: immota

Sia questa man per sempre; inaridisca

Il crisma santo su l'altar di Dio,

Pria che, sparso da me, seme diventi

Di guerra contro il figliuol mio. - T'aiti

Quel tuo figliuol, fe' replicargli il rege;

Ma pensa ben, che, s'ei ti manca un giorno,

Fia risoluta fra noi due la lite".

 

CARLO

A che ritenti questa piaga? In vani

Lamenti vuoi che anch'io mi perda? o pensi

Che abbia Carlo mestier di sproni al fianco?

- È in periglio Adrian; forse è mestieri

Che altri a Carlo il rimembri? Il vedo, il sento;

E non è detto di mortal che possa

Crescere il cruccio che il mio cor ne prova.

Ma superar queste bastite, al suo

Scampo volar... de' Franchi il re nol puote.

Detto io te l'ho; né volentier ripeto

Questa parola. - Io da' miei Franchi ottenni

Tutto finor, perché sol grandi io chiesi

E fattibili cose. All'uom che stassi

Fuor degli eventi e guata, arduo talvolta

Ciò ch'è più lieve appar, lieve talvolta

Ciò che la possa de' mortali eccede.

Ma chi tenzona con le cose, e deve

Ciò ch'egli agogna conseguir con l'opra,

Quei conosce i momenti. - E che potea

Io far di più? Pace al nemico offersi,

Sol che le terre dei Romani ei sgombri;

Oro gli offersi per la pace; e l'oro

Ei ricusò! Vergogna! a ripararla

Sul Vèsero ne andrò.

 

 

SCENA SECONDA

ARVINO, e DETTI

 

ARVINO

Sire, nel campo

Un uom latino è giunto, e il tuo cospetto

Chiede.

 

PIETRO

Un Latin?

 

CARLO

Donde arrivò? Le Chiuse

Come varcò?

 

ARVINO

Per calli sconosciuti,

Declinandole, ei venne; e a te si vanta

Grande avviso recar.

 

CARLO

Fa' ch'io gli parli.

(Arvino parte)

E tu meco l'udrai. Nulla intentato

Per la salvezza d'Adriano io voglio

Lasciar: di questo testimon ti chiamo.

 

 

SCENA TERZA

MARTINO introdotto da ARVINO, e DETTI

(Arvino si ritira)

 

CARLO

Tu se' latino, e qui? tu nel mio campo,

Illeso, inosservato?

 

MARTINO

Inclita speme

Dell'ovil santo e del Pastor, ti veggo;

E de' miei stenti e de' perigli è questa

Ampia mercé; ma non è sola. Eletto

A strugger gli empi! ad insegnarti io vengo

La via.

 

CARLO

Qual via?

 

MARTINO

Quella ch'io feci.

 

CARLO

E come

Giungesti a noi? Chi se'? Donde l'ardito

Pensier ti venne?

 

MARTINO

All'ordin sacro ascritto

De' diaconi io son: Ravenna il giorno

Mi dié: Leone, il suo Pastor, m'invia.

Vanne, ei mi disse, al salvator di Roma;

Trovalo: Iddio sia teco; e s'Ei di tanto

Ti degna, al re sii scorta: a lui di Roma

Presenta il pianto, e d'Adrian.

 

CARLO

Tu vedi

Il suo legato.

 

PIETRO

Ch'io la man ti stringa,

Prode concittadino: a noi tu giungi

Angel di gioia.

 

MARTINO

Uom peccator son io;

Ma la gioia è dal cielo, e non fia vana.

 

CARLO

Animoso Latin, ciò che veduto,

Ciò che hai sofferto, il tuo cammino e i rischi,

Tutto mi narra.

 

MARTINO

Di Leone al cenno,

Verso il tuo campo io mi drizzai; la bella

Contrada attraversai, che nido è fatta

Del Longobardo e da lui piglia il nome.

Scorsi ville e città, sol di latini

Abitatori popolate: alcuno

Dell'empia razza a te nemica e a noi

Non vi riman, che le superbe spose

De' tiranni e le madri, ed i fanciulli

Che s'addestrano all'armi, e i vecchi stanchi,

Lasciati a guardia de' cultor soggetti,

Come radi pastor di folto armento.

Giunsi presso alle Chiuse: ivi addensati

Sono i cavalli e l'armi; ivi raccolta

Tutta una gente sta, perché in un colpo

Strugger la possa il braccio tuo.

 

CARLO

Toccasti,

Il campo lor? qual è? che fan?

 

MARTINO

Securi

Da quella parte che all'Italia è volta,

Fossa non hanno, né ripar, né schiere

In ordinanza: a fascio stanno; e solo

Si guardan quinci, donde solo han tema

Che tu attinger li possa. A te, per mezzo

Il campo ostil, quindi venir non m'era

Possibil cosa; e nol tentai; ché cinto

Al par di rocca è questo lato; e mille

Volte nemico tra costor chiarito

M'avria la breve chioma, il mento ignudo,

L'abito, il volto ed il sermon latino.

Straniero ed inimico, inutil morte

Trovato avrei; reddir senza vederti

M'era più amaro che il morir. Pensai

Che dall'aspetto salvator di Carlo

Un breve tratto mi partia: risolsi

La via cercarne, e la rinvenni.

 

CARLO

E come

Nota a te fu? come al nemico ascosa?

 

MARTINO

Dio gli accecò. Dio mi guidò. Dal campo

Inosservato uscii; l'orme ripresi

Poco innanzi calcate; indi alla manca

Piegai verso aquilone, e abbandonando

I battuti sentieri, in un'angusta

Oscura valle m'internai: ma quanto

Più il passo procedea, tanto allo sguardo

Più spaziosa ella si fea. Qui scorsi

Gregge erranti e tuguri: era codesta

L'ultima stanza de' mortali. Entrai

Presso un pastor, chiesi l'ospizio, e sovra

Lanose pelli riposai la notte.

Sorto all'aurora, al buon pastor la via

Addimandai di Francia. - Oltre quei monti

Sono altri monti, ei disse, ed altri ancora;

E lontano lontan Francia; ma via

Non avvi; e mille son que' monti, e tutti

Erti, nudi, tremendi, inabitati,

Se non da spirti, ed uom mortal giammai

Non li varcò. - Le vie di Dio son molte,

Più assai di quelle del mortal, risposi;

E Dio mi manda. - E Dio ti scorga, ei disse:

Indi, tra i pani che teneva in serbo,

Tanti pigliò di quanti un pellegrino

Puote andar carco; e, in rude sacco avvolti,

Ne gravò le mie spalle: il guiderdone

Io gli pregai dal cielo, e in via mi posi.

Giunsi in capo alla valle, un giogo ascesi,

E in Dio fidando, lo varcai. Qui nulla

Traccia d'uomo apparia; solo foreste

D'intatti abeti, ignoti fiumi, e valli

Senza sentier: tutto tacea; null'altro

Che i miei passi io sentiva, e ad ora ad ora

Lo scrosciar dei torrenti, o l'improvviso

Stridir del falco, o l'aquila, dall'erto

Nido spiccata sul mattin, rombando

Passar sovra il mio capo, o, sul meriggio,

Tocchi dal sole, crepitar del pino

Silvestre i coni. Andai così tre giorni;

E sotto l'alte piante, o ne' burroni

Posai tre notti. Era mia guida il sole;

Io sorgeva con esso, e il suo viaggio

Seguia, rivolto al suo tramonto. Incerto

Pur del cammino io gìa, di valle in valle

Trapassando mai sempre; o se talvolta

D'accessibil pendio sorgermi innanzi

Vedeva un giogo, e n'attingea la cima,

Altre più eccelse cime, innanzi, intorno

Sovrastavanmi ancora; altre, di neve

Da sommo ad imo biancheggianti, e quasi

Ripidi, acuti padiglioni, al suolo

Confitti; altre ferrigne, erette a guisa

Di mura insuperabili. - Cadeva

Il terzo sol quando un gran monte io scersi,

Che sovra gli altri ergea la fronte, ed era

Tutto una verde china, e la sua vetta

Coronata di piante. A quella parte

Tosto il passo io rivolsi. - Era la costa

Oriental di questo monte istesso,

A cui, di contro al sol cadente, il tuo

Campo s'appoggia, o sire. - In su le falde

Mi colsero le tenebre: le secche

Lubriche spoglie degli abeti, ond'era

Il suol gremito, mifur letto, e sponda

Gli antichissimi tronchi. Una ridente

Speranza, all'alba, risvegliommi; e pieno

Di novello vigor la costa ascesi.

Appena il sommo ne toccai, l'orecchio

Mi percosse un ronzio che di lontano

Parea venir, cupo, incessante; io stetti,

Ed immoto ascoltai. Non eran l'acque

Rotte fra i sassi in giù; non era il vento

Che investia le foreste, e, sibilando,

D'una in altra scorrea, ma veramente

Un rumor di viventi, un indistinto

Suon di favelle e d'opre e di pedate

Brulicanti da lungi, un agitarsi

D'uomini immenso. Il cuor balzommi; e il passo

Accelerai. Su questa, o re, che a noi

Sembra di qui lunga ed acuta cima

Fendere il ciel, quasi affilata scure,

Giace un'ampia pianura, e d'erbe è folta,

Non mai calcate in pria. Presi di quella

Il più breve tragitto: ad ogni istante

Si fea il rumor più presso: divorai

L'estrema via: giunsi sull'orlo: il guardo

Lanciai giù nella valle, e vidi... oh! vidi

Le tende d'Israello, i sospirati

Padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,

Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.

 

CARLO

Empio colui che non vorrà la destra

Qui riconoscer dell'Eccelso!

 

PIETRO

E quanto

Più manifesta apparirà nell'opra,

A cui l'Eccelso ti destina!

 

CARLO

Ed io

La compirò.

(a Martino)

Pensa, o Latino, e certa

Sia la risposta: a cavalieri il passo

Dar può la via che percorresti?

 

MARTINO

Il puote.

E a che l'avrebbe preparata il Cielo?

Per chi, signor? perché un mortale oscuro

Al re de' Franchi narrator venisse

D'inutile portento?

 

CARLO

Oggi a riposo

Nella mia tenda rimarrai: sull'alba,

Ad un'eletta di guerrier tu scorta

Per quella via sarai. - Pensa, o valente,

Che il fior di Francia alla tua scorta affido.

 

MARTINO

Con lor sarò: di mie promesse pegno

Il mio capo ti fia.

 

CARLO

Se di quest'alpe

Mi sferro alfine, e vincitore al santo

Avel di Piero, al desiato amplesso

Del gran padre Adrian giunger m'è dato,

Se grazia alcuna al suo cospetto un mio

Prego aver può, le pastorali bende

Circonderan quel capo; e faran fede

In quanto onor Carlo lo tenga. - Arvino!

(entra Arvino)

I Conti e i Sacerdoti.

(al legato e a Martino)

E voi, le mani

Alzate al Ciel; le grazie a lui rendute

Preghiera sian che favor novo impetri.

(partono il Legato e Martino)

 

 

SCENA QUARTA

 

CARLO

Così, Carlo reddiva. Il riso amaro

Del suo nemico e dell'età ventura

Gli stava innanzi; ma l'avea giurato,

Egli in Francia reddia. - Qual de' miei prodi,

Qual de' miei fidi, per consiglio o prego,

Smosso m'avria dal mio proposto? E un solo,

Un uom di pace, uno stranier, m'apporta

Novi pensier! No: quei che in petto a Carlo

Rimette il cor, non è costui. La stella

Che scintillava al mio partir, che ascosa

Stette alcun tempo, io la riveggo. Egli era

Un fantasma d'error quel che parea

Dall'Italia rispingermi; bugiarda

Era la voce che diceami in core:

No, mai, no, rege esser non puoi nel suolo

Ove nacque Ermengarda. - Oh! del tuo sangue

Mondo son io; tu vivi: e perché dunque

Ostinata così mi stavi innanzi,

Tacita, in atto di rampogna, afflitta,

Pallida, e come dal sepolcro uscita?

Dio riprovata ha la tua casa, ed io

Starle unito dovea? Se agli occhi miei

Piacque Ildegarde, al letto mio compagna

Non la chiamava alta ragion di regno?

Se minor degli eventi è il femminile

Tuo cor, che far poss'io? Che mai faria

Colui che tutti, pria d'oprar, volesse

Prevedere i dolori? Un re non puote

Correr l'alta sua via, senza che alcuno

Cada sotto il suo piè. Larva cresciuta

Nel silenzio e nell'ombra, il sol si leva,

Squillan le trombe; ti dilegua.

 

 

SCENA QUINTA

CARLO, CONTI e VESCOVI

 

CARLO

A dura

Prova io vi posi, o miei guerrier; vi tenni

A perigli ozïosi, a patimenti

Che parean senza onor: ma voi fidaste

Nel vostro re, voi gli ubbidiste come

In un dì di battaglia. Or della prova

È giunto il fine; e un guiderdon s'appressa

Degno de' Franchi. Al sol nascente, in via

Una schiera porrassi. - Eccardo, il duce

Tu ne sarai. - Dell'inimico in cerca

N'andranno, e tosto il giungeran là dove

Ei men s'aspetta. Ordin più chiari, Eccardo,

Io ti darò. Nel longobardo campo

Ho amici assai; come li scerna, e d'essi

Ti valga, udrai. Da queste Chiuse il resto

Voi sniderete di leggier: noi tosto

Le passerem senza contrasto, e tutti

Ci rivedremo in campo aperto. - Amici!

Non più muraglie, né bastie, né frecce

Da' merli uscite, e feritor che rida

Da' ripari impunito, o che improvviso

Piombi su noi; ma insegne aperte al vento,

Destrier contra destrier, genti disperse

Nel piano, e petti non da noi più lunge

Che la misura d'una lancia. Il dite

A' miei soldati; dite lor, che lieto

Vedeste il re, siccome il dì che certa

La vittoria predisse in Eresburgo;

Che sian pronti a pugnar; che di ritorno

Si parlerà dopo il conquisto, e quando

Fia diviso il bottin. Tre giorni; e poi

La pugna e la vittoria; indi il riposo

Là nella bella Italia, in mezzo ai campi

Ondeggianti di spighe, e ne' frutteti

Carchi di poma ai padri nostri ignote;

Fra i tempii antichi e gli atrii, in quella terra

rallegrata dai canti, al sol diletta,

Che i signori del mondo in sen racchiude,

E i martiri di Dio; dove il supremo

Pastore alza le palme, e benedice

Le nostre insegne; ove nemica abbiamo

Una piccola gente, e questa ancora

Tra sé divisa, e mezza mia; la stessa

Gente su cui due volte il mio gran padre

Corse; una gente che si scioglie. Il resto

Tutto è per noi, tutto ci aspetta. - Intento,

Dalle vedette sue, miri il nemico

Moversi il nostro campo; e si rallegri.

Sogni il nostro fuggir, sogni del tempio

La scellerata preda, in sua man servo

Sogni il sommo Levita, il comun padre,

Il nostro amico, in fin che giunga Eccardo,

Risvegliator non aspettato. - E voi,

Vescovi santi e Sacerdoti, al campo

Intimate le preci. A Dio si voti

Questa impresa, ch'è sua. Come i miei Franchi,

Umiliati nella polve, innanzi

Al Re de' regi abbasseran la fronte,

Tale i nemici innanzi a lor nel campo.

  

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 18/07/05 01.30.19