Secondo libro
I
Due sono, monsignor messer Giulio, per comune giudicio di ciascun
savio, della vita degli uomini le vie; per le quali si può, caminando, a molta
loda di sé con molta utilità d’altrui pervenire. L’una è il fare le belle e le
laudevoli cose; l’altra è il considerare e il contemplare, non pur le cose che
gli uomini far possono, ma quelle ancora che Dio fatte ha, e le cause e gli
effetti loro e il loro ordine, e sopra tutte esso facitor di loro e disponitore e
conservator Dio. Perciò che e con le buone opere, e in pace e in guerra, si fa
in diversi modi e alle private persone e alle comunanze de’ popoli e alle
nazioni giovamento, e per la contemplazione diviene l’uom saggio e prudente
e può gli altri di molta virtù abondevoli fare similmente, loro le cose
da sé trovate e considerate dimostrando. E in tanto furono l’una e l’altra per
sé di queste vie dagli antichi filosofi lodata, che ancora la quistion pende,
quale di loro preporre all’altra si debba e sia migliore. Ora se alle buone
opere e alle belle contemplazioni la penna mancasse, né si trovasse chi le
scrivesse, elle così giovevoli non sarebbono di gran lunga, come sono. Con
ciò sia cosa che essendo lor tolto il modo del poter essere da tutte genti, e
per molti secoli, conosciute, esse né con l’essempio gioverebbono né con
l’insegnamento, se non in picciola e menomissima parte a rispetto di quel
tanto, che far possono con la memoria e col testimonio degl’inchiostri; a’
quali, quando elle state sono raccomandate con vaga e leggiadra maniera,
non solo gran frutto rendono, ma ancora maraviglioso diletto apportano
alle umane menti, vaghe naturalmente sempre d’intendere e di sapere. Per la
qual cosa primieramente da quelli d’Egitto infinite cose si scrissero, infinite
poscia da’ Fenici, dagli Assirii, da’ Caldei e da altre nazioni sopra essi; infinite
sopra tutto da’ Greci, che di tutte le scienze e le discipline e di tutti i modi
dello scrivere stati sono grandi e diligenti maestri; infinite ultimatamente da’
Romani, i quali co’ Greci garreggiarono della maggioranza delle scritture,
istimando per aventura, sì come nelle arti della cavalleria e del signoreggiare
fatto aveano, di vincernegli così in questa, nella quale tanto oltre andarono;
che la latina lingua n’è divenuta tale, chente la vediamo.
II
È ora, monsignor messer Giulio, e a questi ultimi secoli successa alla
latina lingua la volgare; et è successa così felicemente, che già in essa, non
pur molti, ma ancora eccellenti scrittori si leggono, e nel verso e nella prosa.
Perciò che da quel secolo, che sopra Dante infino ad esso fu, cominciando,
molti rimatori incontanente sursero, non solamente della vostra città e di
tutta Toscana, ma eziandio altronde; sì come furono messer Piero dalle
Vigne, Buonagiunta da Lucca, Guitton d’Arezzo, messer Rinaldo d’Acquino,
Lapo Gianni, Francesco Ismera, Forese Donati, Gianni Alfani, Ser Brunetto,
Notaio Jacomo da Lentino, Mazzeo e Guido Giudice messinesi, il re Enzo,
lo ‘mperador Federigo, messer Onesto e messer Semprebene da Bologna,
messer Guido Guinicelli bolognese anch’egli, molto da Dante lodato, Lupo
degli Uberti, che assai dolce dicitor fu per quella età senza fallo alcuno,
Guido Orlandi, Guido Cavalcanti, de’ quali tutti si leggono ora componimenti;
e Guido Ghisilieri e Fabrizio bolognesi e Gallo pisano e Gotto
mantovano, che ebbe Dante ascoltatore delle sue canzoni, e Nino sanese e
degli altri, de’ quali non così ora componimenti, che io sappia, si leggono.
Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico
poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò. Vennero appresso
a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino,
vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto
minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora
egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre,
ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguì a costoro il Petrarca, nel
quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresì molti
prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Giovan Villani, che al tempo di
Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno
Pietro Crescenzo bolognese, di costui più antico, a nome del quale dodici
libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si
tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente
scrissero in prosa, sì come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e
degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi
medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue
tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui più
lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresì molte cose componesse,
nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle
prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’altra, molti scrittori.
Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca
e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar più
oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che
senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la
latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro
stati, che ella oggimai l’antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare
che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di
poco nata dire si può, così tosto si debba essere fermata, per non ir più
innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano
allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sì come nelle raccontate
cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua
scrivere più convenevolmente si può e più agevolmente, che con quella con
la quale ragioniamo? Al che fare, acciò che maggiore agevolezza sia lor data,
io a spor loro verrò, in questo secondo libro, il ragionamento del secondo
giorno, tra quelli medesimi fatto, de’ quali nel primo si disse.
III
Perciò che ritornati gli tre, desinato che essi ebbero, a casa mio fratello,
sì come ordinato aveano, e facendo freddo per lo vento di tramontana,
che ancor traeva, d’intorno al fuoco raccoltisi, preso prima da ciascun di
loro un buon caldo, essi a seder si posero, e mio fratello con esso loro altresì.
Il che fatto e così un poco dimorati, cominciò Giuliano verso gli altri così a
dire: — Io non so, se la gran voglia che io ho, che messer Ercole si disponga
allo scrivere e comporre volgarmente, ha fatto che io ho questa notte un
sogno veduto, che io raccontar vi voglio; o se pure alcuna virtù de’ cieli o
forse delle nostre anime, la quale alle volte per questa via le cose che a venir
sono, prima che avengano, sì come avenute usi agli uomini far vedere, se
l’ha operato; il che a me giova di credere più tosto. Ma come che sia, a me
parea, dormendo io questa notte come io dico, essere sopra una bellissima
riva d’Arno, ombrosa per molti allori e tutta d’erbe e di fiori coperta infino
all’acqua, che purissima e alta, con piacevole lentezza correndo, la bagnava.
E per tutto il fiume, quanto io gli occhi potea stendere, mi parea che
bianchissimi cigni s’andassero sollazzando; e quale compagnia di loro, che
erano in ogni parte molti, incontro al fiume le palme de’ piedi a guisa di
remo sovente adoperando montava; quale col corso delle belle acque accordatasi
si lasciava da loro portare, poco movendosi; e altri nel mezzo del
fiume o accanto le verdi ripe, il sole, che purissimo gli ferìa, ricevendo, si
diportavano; da’ quali tutti uscire sì dolci canti si sentivano e sì piacevole
armonia, che il fiume e le ripe e l’aere tutto e ogni cosa d’intorno, d’infinito
diletto parea ripieno. E mentre che io gli occhi e gli orecchi di quella vista
e di quel concento pasceva, un candidissimo cigno e grande molto, che per
l’aria da mano manca veniva, chinando a poco a poco il suo volo, in mezzo
il fiume soavemente si ripose, e, ripostovisi, a cantare incominciò ancora
egli, strana e dolce melodia rendendo. A questo uccello molto onore parea
che rendessero tutti gli altri, allegrezza della sua venuta dimostrando e larga
corona delle loro schiere facendogli. Della qual cosa maravigliandomi io, e
la cagione cercandone, m’era non so da cui detto, che quel cigno, che io
vedea, era già stato bellissimo giovane, del Po figliuolo, e quegli altri similmente
erano uomini stati, come io era. Ma questi in grembo del padre
cangiata forma, e nel Tevere a volo passando, avea le ripe di quel fiume
buon tempo fatte risonare delle sue voci, e ora ad Arno venuto, volea quivi
dimorarsi altrettanto; di che facevano maravigliosa festa quegli altri, che
sapevano tutti quanto egli era canoro e gentile. Lasciommi appresso a questo
il sonno; laonde io sopra le vedute cose pensando, e al presente stato di
messer Ercole, per gli ragionamenti fatti ieri, traendolene, piglio speranza
che egli da noi persuaso, abbia in brieve a rivolgere alla volgar lingua il suo
studio, e con essa ancora tante cose e così perfettamente a scrivere, chenti e
quali egli ha per adietro scritte nella latina. Di che io per me son acconcio
a niuna cosa tacergli, che io sappia, della quale esso m’addomandi, come ci
disse ieri di voler fare. E medesimamente conforto voi, messer Federigo e
messer Carlo, che facciate; e così insieme tutti e tre ogni diligenza, che
tornare a suo profitto ci possa, usiamo. — Usiamo, — disse incontanente
messer Federigo — né vi si manchi da verun lato per noi; il che fare tanto
più volentieri ci si doverà, quanto ce ne invita il sogno di Giuliano, il quale
io per me piglio in luogo d’arra, e parmi già vedere messer Ercole, dalle
romane alle fiorentine Muse passando, quasi cigno divenuto, nuovi canti
mandar fuori, e spargere per l’aere in disusata maniera soavissimi concenti
e dolcezze —. Allora disse mio fratello: — Se allo scrivere volgarmente si
darà lo Strozza giamai, il che io voglio credere, messer Federigo, che possa
essere agevolmente altresì come voi credete, ché non do men fede al sogno
di Giuliano che diate voi, sicuramente egli non pur cigno ci parrà che sia,
ma ancora fenice, in maniera per lo cielo ne ‘l porterà quel suo rarissimo e
felicissimo ingegno. Perché io il saperei confortare, che egli a sé stesso non
mancasse; e io, quanto appartiene a me, ne lo agevolerò volentieri, se saperò
come o quando il poter fare. — Voi di troppo più m’onorate, — disse a
queste parole lo Strozza — che io non ardisco di disiderare, non che io
stimi che mi si convenga. E il sogno di Giuliano, veramente sogno è in
tutte le altre sue parti, in questa sola potrebbe egli forse essere visione, che
io sia per iscrivere volgarmente a qualche tempo, se io averò vita; perciò
che, da poca ora in qua, tanto disio me ne sento per le vostre persuasioni
esser nato, che non fia maraviglia se io procaccierò, quando che sia, di
trarmene alcuna voglia. Ma tornando alle nostre quistion d’ieri, per le quali
fornire oggi ci siamo qui venuti, io vorrei, messer Carlo, da voi sapere,
poscia che detto ci avete che egli si dee sempre nello scrivere a quella maniera
che è migliore appigliarsi, o antica e de’ passati uomini che ella sia, o
moderna e nostra, in che modo e con qual regola hass’egli a fare questo
giudicio, e a quale segno si conoscono le buone volgari scritture dalle non
buone e, tra due buone, quella che più è migliore e quella che meno, e in
fine di questa medesima forma di componimenti, della quale si ragionò
ieri, de’ presenti toscani uomini, e voi dite non essere così buona come è
quella con la quale scrisse il Boccaccio e il Petrarca, perché si dee credere e
istimare che così sia. — Per questo, se io vi voglio brievemente rispondere,
— disse mio fratello — che ella così lodati scrittori non ha come ha quella.
Che perciò che, come sapete, tanto ciascuno scrittore è lodato, quanto egli
è buono, ne viene che dalla fama fare si può spedito argomento della bontà.
Ché sì come tra’ greci scrittori, né poeta niuno si vede essere né oratore di
tanto grido, di chente Omero e Demostene sono; né tra’ Latini è alcuno, al
quale così piena loda sia data, come a Virgilio si dà e a Cicerone; per la qual
cosa dire si può che essi migliori scrittori siano, sì come sono, di tutti gli
altri; così medesimamente dico, messer Ercole, del nostro volgare avenire.
Che perciò che, tra tutti i toscani rimatori e prosatori, niuno è la cui maniera
dello scrivere di loda e di grido avanzi o pure agguagli quella di costor
due che voi dite o, credere si dee che le guise delle loro scritture migliori
sieno che niune altre. Oltra che se alcuno eziandio volesse, senza por mente
alla fama degli scrittori, pure da’ loro scritti pigliarne il giudicio e darne
sentenza, sì si può questo fare per chi diligentemente considera le parti
tutte delle scritte cose, che sono in quistione, e così facendosi, più certa e
più sicura sperienza se ne piglierebbe, che in altra maniera. Con ciò sia cosa
che egli può bene avenire che alcuno viva, il quale miglior poeta sia o migliore
oratore, che niuno degli antichi, e nondimeno egli non abbia tanto
grido e tanta fama raccolta dalle genti, quanta hanno essi; perciò che il
grido non viene così subitamente a ciascuno, e pochissimi sono quelli che,
vivendo, tanto n’abbiano, quanto si convien loro.
IV
— Ora le parti, messer Carlo, che voi dite che da considerar sarebbono,
— disse lo Strozza — per chi volesse trarne questo giudicio, quali sono? —
Elle sono in gran parte quelle medesime, — disse mio fratello — che si
considerano eziandio ne’ latini componimenti; e queste non fa mestiero
che io vi raccoglia, a cui elle vie più conte sono e più manifeste che a me.
Delle altre, che non sono perciò molte, si potrà vedere, se pure a voi piacerà
che se ne cerchi. — Io non voglio che voi guardiate, messer Carlo, — disse
lo Strozza — quello che della latina lingua mi sia chiaro o non chiaro, che
io ne potrei far perdita; e trovarestemi in ciò di gran lunga meno intendente,
che per aventura non istimate. Né voglio ancora che separiate quelle
parti della volgare favella, che cadono medesimamente nella latina, da quelle
che non vi cadono, ché egli si potrebbe agevolmente più penare a far
questa scielta, che a sporre tutta la somma. Ma io cerco, e di ciò vi stringo
e gravo, che senza rispetto avere alcuno alle latine cose, mi diciate quali
sono quelle parti tutte, per le quali si possa sopra la quistione, che io dico,
quel giudicio fare e quella sentenza trarne, che voi dite. — Io non so già,
messer Ercole, — rispose mio fratello — se io così ora le potessi tutte raccogliere
interamente, le quali sono senza fallo molte, particolarmente e minutamente
considerate. Ma le generali possono esser queste: la materia o
suggetto, che dire vogliamo, del quale si scrive, e la forma o apparenza, che
a quella materia si dà, e ciò è la scrittura. Ma perciò che non della materia,
dintorno alla quale alcuno scrive, ma del modo col quale si scrive, s’è ragionato
ieri e ragionasi oggi tra noi, di questa seconda parte favellando, dico
ogni maniera di scrivere comporsi medesimamente di due parti: l’una delle
quali è la elezione, l’altra è la disposizione delle voci. Perciò che
primieramente è da vedere, con quali voci si possa più acconciamente scrivere
quello che a scrivere prendiamo; e appresso fa di mestiero considerare,
con quale ordine di loro e componimento e armonia, quelle medesime voci
meglio rispondano che in altra maniera. Con ciò sia cosa che né ogni voce
di molte, con le quali una cosa segnar si può, è grave o pura o dolce ugualmente;
né ogni componimento di quelle medesime voci uno stesso
adornamento ha, o piace e diletta ad un modo. Da sciegliere adunque sono
le voci, se di materia grande si ragiona, gravi, alte, sonanti, apparenti, luminose;
se di bassa e volgare, lievi, piane, dimesse, popolari, chete; se di mezzana
tra queste due, medesimamente con voci mezzane e temperate, e le
quali meno all’uno e all’altro pieghino di questi due termini, che si può. È
di mestiero nondimeno in queste medesime regole servar modo, e schifare
sopra tutto la sazietà, variando alle volte e le voci gravi con alcuna temperata,
e le temperate con alcuna leggera, e così allo ‘ncontro queste con alcuna
di quelle, e quelle con alcuna dell’altre né più né meno. Tuttafiata generalissima
e universale regola è in ciascuna di queste maniere e stili, le più pure,
le più monde, le più chiare sempre, le più belle e più grate voci sciegliere e
recare alle nostre composizioni, che si possa. La qual cosa come si faccia,
lungo sarebbe il ragionarvi; con ciò sia cosa che le voci medesime o sono
proprie delle cose delle quali si favella, e paiono quasi nate insieme con esse,
o sono tratte per somiglianza da altre cose, a cui esse sono proprie, e poste
a quelle di cui ragioniamo, o sono di nuovo fatte e formate da noi; e queste
voci poscia, così divise e partite, altre parti hanno e altre divisioni sotto
esse, che tutte da saper sono. Ma voi potete da quelli scrittori ciò imprendere,
che ne scrivono latinamente.
V
E se pure aviene alcuna volta, che quello che noi di scrivere ci proponiamo,
isprimere non si possa con acconcie voci, ma bisogni recarvi le vili
o le dure o le dispettose, il che appena mi si lascia credere che avenir possa,
tante vie e tanti modi ci sono da ragionare e tanto variabile e acconcia a
pigliar diverse forme e diversi sembianti e quasi colori è la umana favella,
ma se pure ciò aviene, dico che da tacere è quel tanto, che sporre non si può
acconciamente, più tosto che, sponendolo, macchiarne l’altra scrittura;
massimamente dove la necessità non istringa e non isforzi lo scrittore,
dalla qual necessità i poeti, sopra gli altri, sono lontani. E il vostro Dante,
Giuliano, quando volle far comperazione degli scabbiosi, meglio avrebbe
fatto ad aver del tutto quelle comperazioni taciute, che a scriverle nella
maniera che egli fece:
E non vidi giamai menare stregghia
a ragazzo aspettato da signorso;
e poco appresso:
E si traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie.
Come che molte altre cose di questa maniera si sarebbono potute tralasciar
dallui senza biasimo, ché nessuna necessità lo strignea più a scriverle che a
non scriverle; là dove non senza biasimo si son dette. Il qual poeta non solamente
se taciuto avesse quello che dire acconciamente non si potea, meglio
avrebbe fatto e in questo e in molti altri luoghi delle composizioni sue, ma
ancora se egli avesse voluto pigliar fatica di dire con più vaghe e più onorate
voci quello che dire si sarebbe potuto, chi pensato v’avesse, et egli detto ha
con rozze e disonorate, sì sarebbe egli di molto maggior loda e grido, che egli
non è; come che egli nondimeno sia di molto. Che quando e’ disse:
Biscazza, e fonde la sua facultate,
Consuma o Disperde avrebbe detto, non Biscazza, voce del tutto dura e spiacevole;
oltra che ella non è voce usata, e forse ancora non mai tocca dagli
scrittori. Non fece così il Petrarca, il quale, lasciamo stare che non togliesse a
dire di ciò che dire non si potesse acconciamente, ma, tra le cose dette bene,
se alcuna minuta voce era, che potesse meglio dirsi, egli la mutava e rimutava,
infino attanto che dire meglio non si potesse a modo alcuno —.
VI
Quivi trapostosi Giuliano, verso lo Strozza rivolto, disse: — O quanto
è vero, messer Ercole, ciò che il Bembo ci ragiona del Petrarca in questa parte.
Perciò che venendomi, non ha guari, vedute alcune carte scritte di mano
medesima del poeta, nelle quali erano alquante delle sue rime, che in que’
fogli mostrava che egli, secondo che esso le veniva componendo, avesse notate,
quale intera, quale tronca, quale in molte parti cassa e mutata più volte, io
lessi tra gli altri questi due versi primieramente scritti a questo modo:
Voi, ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospir, de’ quai nutriva il core.
Poi come quegli che dovette pensare, che il dire De’ quai nutriva il core non
era ben pieno, ma vi mancava la sua persona, oltra che la vicinanza di
quell’altra voce, Di quei, toglieva a questa, De’ quai, grazia, mutò e fecene
Di ch’io nutriva il core. Ultimamente sovenutogli di quella voce, Onde,
essendo ella voce più rotonda e più sonora per le due consonanti che vi
sono, e più piena; aggiuntovi che il dire Sospiri, più compiuta voce è, e più
dolce, che Sospir; così volle dire più tosto, come si legge, che a quel modo.
Ma voi, messer Carlo, nondimeno seguite —. Il quale i suoi ragionamenti
così riprese: — Molte altre parti possono le voci avere, che scemano loro
grazia. Perciò che e sciolte e languide possono talora essere, oltra il convenevole,
o dense e riserrate; pingui, aride; morbide, ruvide; mutole, strepitanti; e tarde
e ratte, e impedite e sdrucciolose, e quando vecchie oltra modo, e quando
nuove. Da questi diffetti adunque, e da simili, chi più si guarderà, a’ buoni
avertimenti dando maggiore opera, colui si potrà dire che nello sciegliere
delle voci, una delle parti, che io dissi, generali dello scrivere, migliore
compositor sia o di prosa o di verso, e più loda meriti che coloro che lo fanno
meno, quando per la comperazione loro si troverà che così sia.
VII
Altrettante cose, anzi più molte ancora si possono, messer Ercole,
nella disposizione considerare delle voci, sì come di parte molto più larga
che la primiera. Con ciò sia cosa che lo sciegliere si fa, una voce semplicemente
con un’altra voce, o con due, le più volte comparando; dove, a dispor
bene, non solamente bisogna una voce spesse fiate comparare a molte
voci, anzi molte guise di voci ancora con molte altre guise di voci comporre
e agguagliare fa mestiero il più delle volte. Dico adunque, che sì come
sogliono i maestri delle navi, che vedute potete avere in più parti di questa
città fabricarsi, i quali tre cose fanno principali; perciò che primieramente
risguardano quale legno, o quale ferro, o quale fune, a quale legno o ferro o
fune compongano, ciò è con quale ordine gli accozzino e congiungano tra
loro; appresso considerano quello medesimo legno, che essi a un altro legno
o ferro o fune hanno a comporre, in quale guisa comporre il possano che
bene stia, o per lo lungo o attraverso o chinato o stante o torto o diritto o
come che sia in altra maniera; ultimamente queste funi o questi ferri o
questi legni, se sono troppi lunghi, essi gli accorzano, se sono corti, gli
allungano, e così o gli ‘ngrossano o gli ristringono, o in altre guise levandone
e giugnendone, gli vanno rassettando in maniera che la nave se ne compone
giusta e bella, come vedete; così medesimamente gli scrittori tre parti
hanno altresì nel disporre i loro componimenti. Perciò che primiera loro
cura è vederne l’ordine, e quale voce con quale voce accozzata, ciò è quale
verbo a quale nome, o qual nome a qual verbo, o pure quale di queste, o
quale altra parte, con quale di queste o delle altre parti del parlare, congiunta
e composta bene stia. È bisogno dopo questo, che per loro si consideri
queste parti medesime in quale guisa stando, migliore e più bella giacitura
truovino, che in altra maniera; ciò è quella voce, che nome ha ad essere,
come e per che via ella essere possa più vaga, o nel numero del più o in
quello del meno, nella forma del maschio o della femina, nel diritto o negli
obliqui casi; medesimamente quello che ha ad esser verbo, se presente o
futuro, se attivamente o passivamente o in altra guisa posto, meglio suona;
a questo modo medesimo per le altre membra tutte de’ nostri parlari, in
quanto si può e lo pate la loro qualità discorrendo. Rimane per ultima loro
fatica poi, quando alcuna di queste parti, o brieve o lunga o altrimenti
disposta, viene loro parendo senza vaghezza, senza armonia, aggiugnervi o
scemar di loro, o mutare e trasporre, come che sia, o poco o molto, o dal
capo o nel mezzo o nel fine. E se io ora, messer Ercole, vi vo’ le minute cose,
e più tosto agli orecchi di nuovo scolare che di dottissimo poeta convenevoli
ad ascoltare, e già da voi, mentre eravate fanciullo, ne’ latini sgrossamenti
udite, raccontando, datene di ciò a voi stesso la colpa che avete così voluto
—. Quivi: — E se a voi non grava di ciò, — rispose lo Strozza — che io a
voi do fatica di raccontarci queste così minute cose, messer Carlo, come voi
dite, di me non vi caglia; il quale come che in niune non sia maestro, pure in
queste sono veramente discepolo. E nondimeno fa mestiero, a chiunque apprendere
alcuna scienza disidera, incominciare da’ suoi principj, che sono per
lo più deboli tutti e leggieri. E se io alcuna parte di queste medesime cose, che
si son dette o sono a dire, ho altra volta, dando alla latina lingua le prime
opere, udito, ciò bene mi metterà in questo, che più agevole mi si farà lo
apprendere e ritenere la volgare, se io giamai d’usarla farò pensiero. Perché, di
grazia, seguite, niuna cosa in niuna parte per niun rispetto tacendoci —.
VIII
Poca fatica piglierei per voi, — rispose mio fratello — e di poco,
messer Ercole, vi potreste valer di me, se io questa volentieri non pigliassi.
Dunque seguasi; e acciò che meglio quello che io dico vi si faccia chiaro,
ragioniamo per atto d’essempio così. Potea il Petrarca dire in questo modo
il primo verso della canzone, che ci allegò Giuliano: Voi ch’in rime ascoltate.
Ma considerando egli che questa voce Ascoltate, per la moltitudine delle
consonanti che vi sono e ancora per la qualità delle vocali e numero delle
sillabe, è voce molto alta e apparente, dove Rime, per li contrari rispetti, è
voce dimessa e poco dimostrantesi, vide che se egli diceva Voi ch’in rime, il
verso troppo lungamente stava chinato e cadente, dove, dicendo Voi
ch’ascoltate, egli subitamente lo inalzava, il che gli accresceva dignità. Oltra
che Rime, perciò che è voce leggiera e snella, posta tra queste due, Ascoltate
e Sparse, che sono amendue piene e gravi, è quasi dell’una e dell’altra temperamento.
E aviene ancora che in tutte queste voci dette e recitate così,
Voi ch’ascoltate in rime sparse, et esse più ordinatamente ne vanno, e fanno
oltre acciò le vocali più dolce varietà e più soave che in quel modo. Perché
meglio fu il dire, come egli fe’, che se egli avesse detto altramente. Il che
potrà essere avertimento dell’ordine, prima delle tre parti che io dissi. Poteva
eziandio il Petrarca, quell’altro verso della medesima canzone dire così:
Fra la vana speranza e ‘l van dolore. Ma perciò che la continuazione della
vocale A toglieva grazia, e la variazione della E trapostavi la riponeva, mutò
il numero del meno in quello del più, e fecene Fra le vane speranze; e fece
bene, che quantunque il mutamento sia poco, non è perciò poca la differenza
della vaghezza, chi vi pensa e considera sottilmente. E cade questo nel
secondo modo del disporre detto di sopra. Perciò che nel terzo, che è togliendo
alle voci alcuna loro parte, o aggiugnendo o pure tramutando come
che sia, cade quest’altro:
Quand’era in parte altr’uom da quel ch’i sono;
e quest’altro:
Ma ben veggi’or, sì come al popol tutto
favola fui gran tempo.
Erano Uomo e Popolo le intere voci, dalle quali egli levò la vocale loro
ultima; la quale se egli levata non avesse, elle sarebbono state voci alquanto
languide e cascanti, che ora sono leggiadrette e gentili. Cadono altresì di
molt’altri; sì come è:
Che m’hanno congiurato a torto incontra;
dove Incontra disse il medesimo poeta, più tosto che Contra. E Sface molte
volte usò, e Servi alcuna fiata, e Adiviene e Dipartìo, più tosto che Disface
e Separi e Aviene e Dipartì, e Diemme e Aprilla dovendo dire dirittamente
Mi diè e La aprì. E perché io v’abbia, di questi modi del disporre, le somiglianze
recate dal verso, non è che essi non cadano eziandio nella prosa,
perciò che ella alla regola delle rime o delle sillabe non sottogiace e può
vagare e spaziare a suo modo, molto meno d’ardire e di licenza si dà in
questa parte, che al verso. Ora, sì come e nelle sillabe e nelle sole voci
queste figure entrano, così dico io che elle entrano parimente negli stesi
parlari, e per avventura molto di più. Perciò che oltra che non ogni parte
che si chiuda con alquante voci, s’acconviene con ogni parte, e meglio giacerà
posta prima che poi, o allo ‘ncontro; e quella medesima parte non in
ogni guisa posta riesce parimente graziosa; e toltone o aggiuntone o mutatone
alcuna voce, più di vaghezza dimostrerà senza comperazione alcuna
che altramente; sì aviene egli ancora che il lungo ragionare, e di quelle
medesime figure molto più capevole esser può, che una sola voce non è, e,
oltre a questo, egli è di molte altre figure capevole, delle quali non è capevole
alcuna sola voce; sì come ne’ libri di coloro palese si vede, che dell’arte del
parlare scrivono partitamente. A queste cose tutte adunque, messer Ercole,
chi risguarderà, quando egli delle maniere di due scrittori, o di prosa o di
verso, piglierà a dar sentenza, egli potrà per aventura non ingannarsi, come
che io non v’abbia tuttavia ogni minuta parte raccolta, di quelle che c’insegnano
questo giudizio —.
IX
Allora messer Federigo, verso mio fratello guardando: — Io volea or
ora — disse — a messer Ercole rivolgermi e dirgli che voi fuggivate fatica,
perciò che molte dell’altre cose potevate recare ancora che sono con queste
congiuntissime e mescolatissime; se voi medesimo confessato non l’aveste.
— E quali sono coteste cose, messer Federigo, — disse lo Strozza — che voi
dite che messer Carlo avrebbe ancora potuto recarci? — Egli le vi dirà, —
rispose messer Federigo — se voi ne ‘l dimanderete, che ha le altre dette,
che avete udito. — Io sicuramente non so se io me ne ricordassi ora, cercandone,
— rispose mio fratello — che sapete come io malagevolmente mi
ramemoro le tralasciate cose, sì come son queste; posto che io il pure volessi
fare, il che vorrei, se a messer Ercole sodisfare altramente non si potesse.
Ma voi, il quale non sete meno di tenace memoria, che siate di capevole
ingegno, né leggeste giamai o udiste dir cosa che non la vi ricordiate (e in
ciò ben si pare, che monsignor lo duca Guido vostro zio vi sia maggiore)
sete senza fallo disubediente, poscia che a messer Ercole, questo da voi
chiedente, non sodisfate; non voglio dire poco amorevole, che non volete
meco essere alla parte di questo peso —. Perché instando con messer Ercole
mio fratello, che egli a messer Federigo facesse dire il rimanente, et esso
stringendone lui, e il Magnifico parimente, che diceva che mio fratello
aveva detto assai, egli dopo una brieve contesa, più per non torre a mio
fratello il fornire lo incominciato ragionamento fatta che per altro, lietamente
a dire si dispose, e cominciò: — Io pure nella mia rete altro preso
non arò che me stesso. E bene mi sta, poscia che io tacere quanto si conveniva
non ho potuto, che io di quello favelli che men vorrei. Né crediate che
io questo dica, perché in ciò la fatica mi sia gravosa, che non è, dove io a
qualunque s’è l’uno di voi piaccia, non che a tutti e tre. Ma dicolo perciò
che le cose, che dire si convengono, sono di qualità, che malagevolmente
per la loro disusanza cadono sotto regola, in modo che pago e sodisfatto se
ne tenga chi l’ascolta. Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si
potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti,
ancora per questa via: che perciò che due parti sono quelle che fanno
bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono
e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione,
dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle
quali all’una e all’altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi
meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti
tra loro, sotto la gravità ripongo l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza,
la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo
la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro
è di questa maniera. Perciò che egli può molto bene alcuna composizione
essere piacevole e non grave, e allo ‘ncontro alcuna altra potrà grave essere,
senza piacevolezza; sì come aviene delle composizioni di messer Cino
e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e
tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico
già tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia
qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli,
alcun’altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte.
Sì come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro
né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo più, e
non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non
si leggesse. Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié
maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle
due egli fosse maggior maestro.
X
Ma venendo alle tre cose generanti queste due parti che io dissi, è
suono quel concento e quella armonia, che nelle prose dal componimento
si genera delle voci, nel verso oltre acciò dal componimento eziandio delle
rime. Ora perciò che il concento, che dal componimento nasce di molte
voci, da ciascuna voce ha origine, e ciascuna voce dalle lettere, che in lei
sono, riceve qualità e forma, è di mestiero sapere, quale suono rendono
queste lettere, o separate o accompagnate, ciascuna. Separate adunque rendono
suono quelle cinque, senza le quali niuna voce, niuna sillaba può aver
luogo. E di queste tutte miglior suono rende la A; con ciò sia cosa che ella
più di spirito manda fuori, perciò che con più aperte labbra ne ‘l manda e
più al cielo ne va esso spirito. Migliore dell’altre poi la E, in quanto ella più
a queste parti s’avicina della primiera che non fanno le tre seguenti. Buono,
appresso questi, è il suono della O; allo spirito della quale mandar fuori, le
labbra alquanto in fuori si sporgono e in cerchio, il che ritondo e sonoro ne
‘l fa uscire. Debole e leggiero e chinato e tuttavia dolce spirito, dopo questo,
è richiesto alla I; perché il suono di lei men buono è che di quelle che
si son dette, soave nondimeno alquanto. Viene ultimamente la U; e questa,
perciò che con le labbra in cerchio, molto più che nella O ristretto, dilungate
si genera, il che toglie alla bocca e allo spirito dignità, così nella qualità del
suono come nell’ordine è sezzaia. E queste tutte molto migliore spirito rendono,
quando la sillaba loro è lunga, che quando ella è brieve; perciò che
con più spazioso spirito escono in quella guisa e più pieno, che in questa.
Senza che la O, quando è in vece della O latina, in parte eziandio il muta,
le più volte più alto rendendolo e più sonoro, che quando ella è in vece
della U; sì come si vede nel dire Orto e Popolo, nelle quali la prima O con
più aperte labbra si forma chell’altre, e nel dire Opra, in cui medesimamente
la O più aperta e più spaziosa se n’esce, che nel dire Ombra e Sopra, e con
più ampio cerchio. Quantunque ancor della E questo medesimamente si
può dire: perciò che nelle voci Gente, Ardente, Legge, Miete e somiglianti,
la prima E alquanto più alta esce che non fa la seconda; sì come quella che
dalla E latina ne vien sempre, dove le rimanenti vengono dalla I le più volte.
Il che più manifestamente apparisce in queste parole del Boccaccio: Se tu di
Costantinopoli se’. Dove si vede che nel primo Se, perciò che esso ne viene
dal Si latino, la E più chinata esce che non fa quella dell’altro Se, il quale
seconda voce è del verbo Essere, e ha la E nel latino e non la I, sì come
sapete. Accompagnate, d’altra parte, rendono suono tutte quelle lettere che
rimangono oltre a queste, tra le quali assai piena, e nondimeno riposata, e
perciò di buonissimo spirito è la Z, la qual sola delle tre doppie, che i Greci
usano, hanno nella loro lingua ricevuta i Toscani; quantunque ella appo
loro non rimane doppia, anzi è semplice, come l’altre; se non quando essi
raddoppiare la vogliono raddoppiando la forza del suono, sì come raddoppiano
il P e il T, e dell’altre. Perciò che nel dire, Zafiro, Zenobio, Alzato,
Inzelosito e simili, ella è semplice, non solo per questo che nel principio
delle voci, o nel mezzo di loro in compagnia d’altra consonante, niuna
consonante porre si può seguentemente due volte, ma ancora per ciò che lo
spirito di lei è la metà pieno e spesso di quello che egli si vede poscia essere
nel dire Bellezza, Dolcezza. Perché dire si può che ella sia più tosto un
segno di lettera, con la quale essi così scrivono quello cotale spirito, che la
lettera che usano i Greci; quando si vede che niuna lettera di natura sua
doppia è in uso di questa lingua; la quale non solamente in vece della X usa
di porre la S raddoppiata, quando ella non sia in principio delle voci, dove
non possono, come s’è detto, due consonanti d’una qualità aver luogo, o
ancor quando nel mezzo la compagnia d’altra lettera non vocale non gliele
vieti, ne’ quali due luoghi la S semplice sodisfa; ma ancora tutte quelle voci
che i Latini scrivono per Ps, ella pure per due S medesimamente scrive
sempre. E questa S, quantunque non sia di purissimo suono, ma più tosto
di spesso, non pare tuttavolta essere di così schifo e rifiutato nel nostro
idioma, come ella solea essere anticamente nel greco; nel quale furono già
scrittori, che per questo alcuna volta delle loro composizioni fornirono senza
essa. E se il Petrarca si vede avere la lettera X usata nelle sue canzoni, nelle
quali egli pose Experto, Extremo, e altre simili voci, ciò fece egli per uscire
in questo dell’usanza della fiorentina lingua, affine di potere alquanto più
inalzare i suoi versi in quella maniera; sì come egli fece eziandio in molte
altre cose, le quali tutti si concedono al verso, che non si concederebbono
alla prosa. Oltre a queste, molle e dilicata e piacevolissima è la L, e di tutte
le sue compagne lettere dolcissima. Allo ‘ncontro la R aspera ma di generoso
spirito. Di mezzano poi tra queste due la M e la N, il suono delle quali si
sente quasi lunato e cornuto nelle parole. Alquanto spesso e pieno suono
appresso rende la F. Spesso medesimamente e pieno, ma più pronto il G. Di
quella medesima e spessezza e prontezza è il C ma più impedito di quest’altri.
Puri e snelli e ispediti poi sono il B e il D. Snellissimi e purissimi il P e
il T, e insieme ispeditissimi. Di povero e morto suono, sopra gli altri tutti,
ultimamente è il Q; e in tanto più ancora maggiormente, che egli, senza la
U che ‘l sostenga, non può aver luogo. La H, perciò che non è lettera, per
sé medesima niente può; ma giugne solamente pienezza e quasi polpa alla
lettera, a cui ella in guisa di servente sta accanto. Conosciute ora queste
forze tutte delle lettere, torno a dire, che secondamente che ciascuna voce le
ha in sé, così ella è ora grave, ora leggiera, quando aspera, quando molle,
quando d’una guisa e quando d’altra; e quali sono poi le guise delle voci,
che fanno alcuna scrittura, tale e il suono, che del mescolamento di loro
esce o nella prosa o nel verso, e talora gravità genera e talora piacevolezza.
XI
È il vero che egli nel verso piglia eziandio qualità dalle rime; le quali
rime graziosissimo ritrovamento si vede che fu, per dare al verso volgare
armonia e leggiadria, che in vece di quella fosse, la quale al latino si dà per
conto de’ piedi, che nel volgare così regolati non sono. Ad esse adunque
passando, dico che sono le rime comunemente di tre maniere: regolate,
libere e mescolate. Regolate sono quelle che si stendono in terzetti, così
detti perciò che ogni rima si pon tre volte, o perché sempre con quello
medesimo ordine di tre in tre versi la rima nuova incominciando, si chiude
e compie la incominciata. E perciò che questi terzetti per un modo insieme
tutti si tengono, quasi anella pendenti l’uno dall’altro, tale maniera di rime
chiamarono alcuni Catena; delle quali poté per aventura essere il ritrovator
Dante, che ne scrisse il suo poema; con ciò sia cosa che sopra lui non si
truova chi le sapesse. Sono regolate altresì quelle, che noi Ottava rima chiamiamo
per questo, che continuamente in otto versi il loro componimento
si rinchiude; e queste si crede che fossero da’ Ciciliani ritrovate, come che
essi non usassero di comporle con più che due rime, perciò che lo aggiugnervi
la terza, che ne’ due versi ultimi ebbe luogo, fu opera de’ Toscani. Sono
medesimamente regolate le sestine, ingenioso ritrovamento de’ provenzali
compositori. Libere poi sono quell’altre, che non hanno alcuna legge o nel
numero de’ versi o nella maniera del rimargli, ma ciascuno, sì come ad esso
piace, così le forma; e queste universalmente sono tutte madriali chiamate,
o perciò che da prima cose materiali e grosse si cantassero in quella maniera
di rime, sciolta e materiale altresì; o pure perché così, più che in altro modo,
pastorali amori e altri loro boscarecci avenimenti ragionassero quelle genti,
nella guisa che i Latini e i Greci ragionano nelle egloghe loro, il nome delle
canzoni formando e pigliando dalle mandre; quantunque alcuna qualità di
madriali si pur truova, che non così tutta sciolta e libera è, come io dico
mescolate ultimamente sono qualunque rime e in parte legge hanno e d’altra
parte sono licenziose, sì come de’ sonetti e di quelle rime, che comunemente
sono canzoni chiamate, si vede che dire si può. Con ciò sia cosa che
a’ sonetti il numero de’ versi è dato, e di parte delle rime; nell’ordine delle
rime poi, e in parte di loro nel numero, non s’usa più certa regola che il
piacere, in quanto capevoli ne sono quei pochi versi; il qual piacere di tanto
innanzi andò con la licenza, che gli antichi fecero talora sonetti di due rime
solamente, talora in amenda di ciò, non bastando loro le rime che s’usano,
quelle medesime ancora trametteano ne’ mezzi versi. Taccio qui che Dante
una sua canzone nella Vita nuova sonetto nominasse; perciò che egli più
volte poi, e in quella opera e altrove, nomò sonetti quelli che ora così si
chiamano. E nelle canzoni puossi prendere quale numero e guisa di versi e
di rime a ciascuno è più a grado, e compor di loro la prima stanza; ma, presi
che essi sono, è di mestiero seguirgli nell’altre con quelle leggi che il
compositor medesimo, licenziosamente componendo, s’ha prese. Il medesimo
di quelle canzoni, che ballate si chiamano, si può dire, le quali quando
erano di più d’una stanza, vestite si chiamavano, e non vestite quando erano
d’una sola; sì come se ne leggono alquante nel Petrarca, fatte e all’una
guisa e all’altra.
XII
Di queste tre guise adunque di rime, e di tutte quelle rime che in
queste guise sono comprese, che possono senza fallo esser molte, più grave
suono rendono quelle rime che sono tra sé più lontane; più piacevole quell’altre
che più vicine sono. Lontane chiamo quelle rime che di lungo spazio
si rispondono, altre rime tra esse e altri versi traposti avendo; vicine, allo
‘ncontro, quell’altre che pochi versi d’altre rime hanno tra esse; più vicine
ancora, quando esse non ve n’hanno niuno, ma finiscono in una medesima
rima due versi; vicinissime poscia quell’altre, che in due versi rotti finiscono;
e tanto più vicine ancora e quelle e queste, quanto esse in più versi
interi e in più rotti finiscono, senza tramissione d’altra rima. Quantunque,
non contenti de’ versi rotti, gli antichi uomini eziandio ne’ mezzi versi le
trametteano, e alle volte più d’una ne traponevano in un verso. Ritorno a
dirvi che più grave suono rendono le rime più lontane. Perché gravissimo
suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità
porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente per li
sei versi primieri, poi quando per alcun meno e quando per alcun più,
ordinatissimamente la legge e la natura della canzone variandonegli. Senza
che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e
grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicazione delle rime in altre
voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando
lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità,
perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che
primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si
toccano nella fine dell’una e incominciamento dell’altra, la rima fosse vicina
in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave; in quanto
il riposo che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all’altra si
passi, framette tra la continuata rima alquanto spazio, e men vicina ne la fa
essere, che se ella in una stanza medesima si continuasse. Rendono adunque,
come io dissi, le più lontane rime il suono e l’armonia più grave, posto
nondimeno tuttavolta che convenevole tempo alla ripetizione delle rime si
dia. Che se voleste voi, messer Ercole, per questo conto comporre una
canzone, che avesse le sue rime di moltissimi versi lontane, voi sciogliereste
di lei ogni armonia da questo canto, non che voi la rendeste migliore. A
servare ora questa convenevolezza di tempo, l’orecchio più tosto, di ciascun
che scrive, è bisogno che sia giudice, che io assegnare alcuna ferma regola vi
ci possa. Nondimeno egli si può dire che non sia bene generalmente
framettere più che tre, o quattro, o ancora cinque versi tra le rime; ma
questi tuttavia rade volte. Il che si vede che osservò il Petrarca; il qual poeta,
se in quella canzone, che incomincia Verdi panni, trapassò questo ordine,
dove ciascuna rima è dalla sua compagna rima per sette versi lontana, sì
l’osservò egli maravigliosamente in tutte le altre; e questa medesima è da
credere che egli componesse così, più per lasciarne una fatta alla guisa,
come io vi dissi, molto usata da’ provenzali rimatori, che per altro. Né dirò
io che egli non l’osservasse in tutte le altre, perciò che nella canzone Qual
più diversa e nova si vegga una sola rima più lontana, che per quattro o
ancora per cinque versi. Anzi dirò io, che e in tutta Verdi panni essere
uscito di questo ordine, e di questa in una sola rima, giugne grazia a questo
medesimo ordine, diligentissimamente dallui osservato in tutte le altre can53
zoni sue; trattone tuttavolta le ballate, dette così perché si cantavano a ballo,
nelle quali, perciò che l’ultima delle due rime de’ primi versi, che da
tutta la corona si cantavano, i quali due o tre o il più quattro essere soleano,
si ripeteva nell’ultimo di quelli che si cantavano da un solo, affine che si
cadesse nel medesimo suono, avere non si dee quel risguardo, che io dico; e
trattone le sestine, le quali stare non debbono sotto questa legge, con ciò sia
cosa che perciò che le rime in loro sempre si rispondono con quelle medesime
voci, se elle più vicine fossero, senza fallo genererebbono fastidio,
quanto ora fanno dignità e grandezza.
XIII
Dico medesimamente, dall’altra parte, che la vicinità delle rime rende
piacevolezza tanto maggiore, quanto più vicine sono tra sé esse rime.
Onde aviene che le canzoni, che molti versi rotti hanno, ora più vago e
grazioso, ora più dolce e più soave suono rendono, che quelle che n’hanno
pochi; perciò che le rime più vicine possono ne’ versi rotti essere che negl’interi.
Sono di molti versi rotti alquante canzoni del Petrarca, tra le quali
due ne sono di più chell’altre. Ponete ora mente quanta vaghezza, quanta
dolcezza, e, in somma, quanta piacevolezza è in questa:
Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei, che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque 5
(con sospir mi rimembra)
a lei di far al bel fianco colonna;
erba, e fior, che la gonna
leggiadra ricoverse
con l’angelico seno; 10
aer sacro sereno,
ov’Amor co’ begli occhi il cor m’aperse;
date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.
D’un verso rotto più in quello medesimo e numero e ordine di versi è la
sorella di questa canzone, nata con lei ad un corpo. Veggiamo ora, se maggior
dolcezza porge il verso rotto dell’una, che dell’altra lo intero:
Se ‘l pensier che mi strugge,
com’è pungente e saldo,
così vestisse d’un color conforme,
forse tal m’arde e fugge, 5
ch’avria parte del caldo,
e desteriasi Amor là dove or dorme;
men solitarie l’orme
fôran de’ miei piè lassi
per campagne e per colli, 10
men gli occhi ad ognior molli,
ardendo lei, che come un ghiaccio stassi,
e non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.
È dolce suono, sì come voi vedete, messer Ercole, quello di questa rima
posta in due vicini versi, l’uno rotto e l’altro intero:
Date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.
Ma più dolce in ogni modo è il suono di quest’altra, della quale amendue i
versi son rotti:
E non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.
Il che aviene per questo, che ogni indugio e ogni dimora nelle cose è naturalmente
di gravità indizio; la qual dimora, perciò che è maggiore nel verso
intero, che nel rotto, alquanto più grave rendendolo, men piacevole il lascia
essere di quell’altro. E questo ultimo termine è della piacevolezza, che dal
suono delle rime può venire; se non in quanto più che due versi porre
vicini si possono d’una medesima rima. Ma di poco tuttavia e rade volte
passare si può questo segno, che la piacevolezza non avilisca. Dissi ultimo
termine; perciò che non che più dolcezza porgano i versi, che le rime hanno
più vicine, sì come sono quelli che le hanno nel mezzo di loro; ma essi
sono oltre acciò duri e asperi, sì perché, ponendosi lo scrittore sotto così
ristretta regola di rime, non può fare o la scielta o la disposizione delle voci
a suo modo, ma conviengli bene spesso servire al bisogno e alla necessità
della rima, e sì ancora perciò che quello così spesso ripigliamento di rime
genera strepito più tosto che suono; sì come dalla canzone di Guido Cavalcanti
si può comprendere, che incomincia così:
Donna mi prega, perch’io voglio dire
d’un accidente, che sovente è fero,
et è sì altero, che si chiama Amore.
Il qual modo e maniera di rime prese Guido e presero gli altri Toschi da’
Provenzali, come ieri si disse, che l’usarono assai sovente. Fuggilla del tutto
il Petrarca; dico, in quanto egli non pose giamai due vicine rime nel mezzo
d’alcun suo verso. Posene alle volte una; e questa una, quanto egli la pose
più di rado nelle sue canzoni, tanto egli a quelle canzoni giunse più di
grazia; e meno ne diede a quell’altre, nelle quali ella si vede essere più sovente;
sì come si vede in quell’altra:
Mai non vo’ più cantar, com’io solea.
La qual canzone chi chiamasse per questa cagione alquanto dura, forse non
errerebbe soverchio. Ma egli tale la fe’, acciò traendonelo la qualità della
canzone, la quale egli proposto s’avea di tessere tutta di proverbi, sì come
s’usò di fare a quel tempo; i quali proverbi, postivi in moltitudine e così a
mischio, non possono non generare alcuna durezza e asprezza. Ma, tornando
alle due canzoni, che io dissi, del Petrarca, sì come elle sono per gli detti
rispetti piacevolissime, così per gli loro contrari è quell’altra del medesimo
poeta gravissima. La quale, quando io il leggo, mi suole parere fuori dell’altre,
quasi donna tra molte fanciulle, o pure come reina tra molte donne,
non solo d’onestà e di dignità abondevole, ma ancora di grandezza e di
magnificenza e di maestà; la qual canzone tutti i suoi versi, da uno per
istanza in fuori, ha interi, e le stanze sono lunghe più che d’alcuna altra:
Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et ancor quasi in erba
la fera voglia, che per mio mal crebbe.
E senza fallo alcuno, chiunque di questa canzone con quelle due
comperazione farà, egli scorgerà agevolmente quanto possano a dar piacevolezza
le rime de’ versi rotti, e quelle degl’interi ad accrescere gravità. E
detto fin qui vi sia del suono.
XIV
Ora a dire del numero passiamo, facitore ancora esso di queste parti,
in quanto per lui si può, che non è poco; il qual numero altro non è che il
tempo che alle sillabe si dà, o lungo o brieve, ora per opera delle lettere che
fanno le sillabe, ora per cagione degli accenti che si danno alle parole, e tale
volta e per l’un conto e per l’altro. E prima ragionando degli accenti, dire di
loro non voglio quelle cotante cose che ne dicono i Greci, più alla loro
lingua richieste che alla nostra. Ma dico solamente questo, che nel nostro
volgare in ciascuna voce è lunga sempre quella sillaba, a cui essi stanno
sopra, e brievi tutte quelle, alle quali essi precedono, se sono nella loro
intera qualità e forma lasciati; il che non avien loro o nel greco idioma o nel
latino. Onde nasce, che la loro giacitura più in un luogo che in un altro,
molto pone e molto leva o di gravità o di piacevolezza, e nella prosa e nel
verso. La qual giacitura, perciò che ella uno di tre luoghi suole avere nelle
voci, e questi sono l’ultima sillaba o la penultima o quella che sta alla penultima
innanzi, con ciò sia cosa che più che tre sillabe non istanno sott’uno
accento comunemente, quando si pone sopra le sillabe, che alle penultime
sono precedenti, ella porge alle voci leggerezza, perciò che, come io dissi,
lievi sempre sono le due sillabe a cui ella è dinanzi, onde la voce di necessità
ne diviene sdrucciolosa. Quando cade nell’ultima sillaba, ella acquista loro
peso allo ‘ncontro; perciò che giunto che all’accento e il suono, egli quivi si
ferma, e come se caduto vi fosse, non se ne rileva altramente. E intanto
sono queste giaciture, l’una leggiera e l’altra ponderosa, che qual volta elle
tengono gli ultimi loro luoghi nel verso, il verso della primiera cresce dagli
altri d’una sillaba, et è di dodici sempre, ché le ultime due sillabe, per la
giacitura dell’accento, sono sì leggiere, che dire si può che in luogo d’una
giusta si ricevano:
Già non compié di tal consiglio rendere;
e quello dell’altra, d’altro canto, d’una sillaba minore degli regolati è sempre,
e più che dieci avere non ne può, il che è segno che il peso della sillaba,
a cui egli soprastà, è tanto, che ella basta e si piglia per due:
Con esso un colpo per la man d’Artù.
Temperata giacitura, e di questi due stremi libera, o più tosto mezzana tra
essi, è poscia quella che alle penultime si pon sopra; e talora gravità dona
alle voci, quando elle di vocali e di consonanti, a ciò fare acconcie, sono
ripiene; e talora piacevolezza, quando e di consonanti e di vocali o sono
ignude e povere molto, o di quelle di loro, che alla piacevolezza servono,
abastanza coperte e vestite. Questa, per lo detto temperamento suo, ancora
che ella molte volte una appresso altra si ponga e usisi, non per ciò sazia,
quando tuttavolta altri non abbia le carte preso a scrivere et empiere di
questa sola maniera d’accento, e non d’altra; là dove le due dell’ultima e
dell’innanzi penultima sillaba, agevolmente fastidiscono e sazievoli sono
molto, e il più delle volte levano e togliono e di piacevolezza e di gravità, se
poste non sono con risguardo. E ciò dico per questo, che esse medesime,
quanto si conviene considerate, e poste massimamente l’una di loro tra
molte voci gravi, e questa è la sdrucciolosa, e l’altra tra molte voci piacevoli,
possono accrescere alcuna volta quello che elle sogliono naturalmente scemare.
Che sì come le medicine, quantunque elle veneno siano, pure, a
tempo e con misura date, giovano, dove, altramente prese, nuocono e spesso
uccidono altrui, e molti più sono i tempi, ne’ quali elle nocive essere si
ritroverebbono, se si pigliassero, che gli altri; così queste due giaciture degli
accenti, ancora che di loro natura elle molto più acconcie sieno a levar
profitto, che a darne, nondimeno alcuna volta nella loro stagione usate, e
danno gravità e accrescono piacevolezza. Ponderosi, oltre a questo, sempre
sono gli accenti che cuoprono le voci d’una sillaba; il che da questa parte si
può vedere, che essi, posti nella fine del verso, quello adoperano, che io
dissi, che fanno gli accenti posti nell’ultima sillaba della voce, quando la
voce nella fine del verso si sta, ciò è che bastano e servono per due sillabe:
Quanto posso mi spetro, e sol mi sto.
E se in Dante si legge questo verso, che ha l’ultima voce d’una sillaba, e
nondimeno il verso è d’undici sillabe:
E più d’un mezzo di traverso non ci ha,
è ciò per questo che non si dà l’accento all’ultima sillaba, anzi se le toglie, e
lasciasi lei all’accento della penultima; e così si mandan fuori queste tre voci
Non ci ha, come se elle fossero una sola voce, o come si mandan fuori
Oncia e Sconcia, che sono le altre due compagne voci di questa rima. Sono
tuttavolta questi accenti più e meno ponderosi, secondo che più o meno
lettere fanno le loro voci, e più in sé piene o non piene, e a questa guisa
poste o a quell’altra.
XV
Raccolte ora queste maniere di giacitura, veggiamo se nel vero così è
come io dico. Ma delle due prima dette, ciò è della giacitura, che sopra
quella sillaba sta, che alla penultima è dinanzi, e di quella che sta sopra
l’ultima, e ancora di quell’altra che alle voci d’una sillaba si pon sopra,
bastevole essempio danno, sì come io dissi, quelli versi che noi sdruccioli
per questo rispetto chiamiamo, e quegli altri, a’ quali danno fine queste due
maniere di giacitura poste nell’ultima sillaba, o nelle voci di più sillabe, o in
quelle d’una sola, i quali non sono giamai di più che di dieci sillabe, per lo
peso che accresce loro l’accento, come s’è detto. Ragioniamo adunque di
quell’altra, che alle penultime sta sopra. Volle il Boccaccio servar gravità in
questo cominciamento delle sue novelle: Umana cosa è l’avere compassione
agli afflitti; perché egli prese voci di qualità, che avessero gli accenti nella
penultima per lo più, la qual cosa fece il detto principio tutto grave e riposato.
Che se egli avesse preso voci che avessero gli accenti nella innanzi
penultima, sì come sarebbe stato il dire: Debita cosa è l’essere compassionevole
a’ miseri, il numero di quella sentenza tutta sarebbe stato men grave, e
non avrebbe compiutamente quello adoperato, che si cercava. E se vorremmo
ancora, senza levar via alcuna voce, mutar di loro solamente l’ordine, il
quale mutato, conviene che si muti l’ordine degli accenti altresì, e dove
dicono: Umana cosa è l’avere compassione agli afflitti, dire così: L’avere
compassione agli afflitti umana cosa è, ancora più chiaro si vedrà quanto
mutamento fanno pochissimi accenti, più ad una via posti che ad altra nelle
scritture. Volle il medesimo compositore versar dolcezza in queste parole di
Gismonda, sopra ‘l cuore del suo morto Guiscardo ragionate: O molto
amato cuore, ogni mio ufficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare,
se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia; perché egli
prese medesimamente voci che nelle penultime loro sillabe gli accenti avessero
per la gran parte, e quelle ordinò nella maniera, che più giovar potesse
a trarne quello effetto che ad esso mettea bene che si traesse. Le quali voci
se in voci d’altri accenti si muteranno, e dove esso dice: O molto amato
cuore, ogni mio ufficio, noi diremo: O sventuratissimo cuore, ciascun dover
nostro; o pure se si muterà di loro solamente l’ordine, e farassi così:
Ogni ufficio mio, o cuore molto amato, è fornito verso te; né altro mi resta
a fare più, se non di venire a fare compagnia con la mia all’anima tua, tanta
differenza potranno per aventura queste voci dolci pigliare, quanta quelle
gravi per lo mutamento, che io dissi, hanno pigliata. Ne’ quali mutamenti,
benché dire si possa che la disposizione delle voci ancora, per altra cagione
che per quella degli accenti considerata, alquanto vaglia a generar la
disparutezza che essere si vede nel così porgere e pronunciare esse voci,
nondimeno è da sapere che, a comperazione di quello degli accenti, ogni
altro rispetto è poco: con ciò sia cosa che essi danno il concento a tutte le
voci, e l’armonia, il che a dire è tanto, quanto sarebbe dare a’ corpi lo spirito
e l’anima. La qual cosa se nelle prose tanto può, quanto si vede potere,
molto più è da dire che ella possa nel verso; nel qual verso il suono e l’armonia
vie più naturale e proprio e conveniente luogo hanno sempre, che nelle
prose. Perciò che le prose, come che elle meglio stiano a questa guisa ordinate,
che a quella, ella tuttavolta prose sono; dove nel verso puossi gli accenti
porre di modo che egli non rimane più verso, ma divien prosa, e muta
in tutto la sua natura, di regolato in dissoluto cangiandosi; come sarebbe, se
alcun dicesse: Voi, ch’in rime sparse ascoltate il suono; e Per far una sua
leggiadra vendetta; o veramente Che s’addita per cosa mirabile, e somiglianti.
Ne’ quali mutamenti, rimanendo le voci e il numero delle sillabe
intero, non rimane per tutto ciò né forma né odore alcuno di verso. E
questo per niuna altra cagione adiviene, se non per lo essere un solo accento
levato del suo luogo in essi versi, e ciò è della quarta o della sesta sillaba in
quelli, e della decima in questo. Che, con ciò sia cosa che a formare il verso
necessariamente si richiegga che nella quarta o nella sesta e nella decima
sillaba siano sempre gli accenti, ogni volta che qualunque s’è l’una di queste
due positure non gli ha, quello non è più verso, comunque poi si stiano le
altre sillabe. E questo detto sia non meno del verso rotto, che dello intero,
in quanto egli capevole ne può essere. Sono adunque, messer Ercole, questi
risguardi non solo a grazia, ma ancora a necessità del verso. A grazia potranno
appresso essere tutti quegli altri, de’ quali s’è ragionato sopra le prose,
dalle quali pigliandogli, quando vi fia mestiero, valere ve ne potrete. Ma
passiamo oggimai a dire del tempo, che le lettere generano, ora lungo, ora
brieve nelle sillabe; il che agevolmente si potrà fare —.
XVI
Allora disse lo Strozza: — Deh, se egli non v’è grave, messer Federigo,
prima che a dire d’altro valichiate, fatemi chiaro come ciò sia, che detto
avete, che comunemente non istanno sott’uno accento più che tre sillabe.
Non istanno elleno sott’un solo accento quattro sillabe in queste voci, Alitano,
Germinano, Terminano, Considerano, e in simili? — Stanno, — rispose
messer Federigo — ma non comunemente. Noi comunemente osserviamo
altresì, come osservano i Greci e Latini, il non porre più che tre sillabe sotto
‘l governo d’un solo accento. È il vero che, perciò che gli accenti appo noi
non possono sopra sillaba, che brieve sia, esser posti, come possono appo
loro; e se posti vi sono la fanno lunga, come fecero in quel verso del Paradiso:
Devoto quanto posso a te supplìco;
e come fecero nella voce Piéta, quasi da tutti i buoni antichi poeti alcuna
volta così detta in vece di Pietà; videro i nostri uomini che molto men male
era ordinare, che in queste voci che voi ricordate, e nelle loro somiglianti, ci
concedesse che quattro sillabe dovessero d’uno accento contentarsi, che
non era una sillaba naturalissimamente brieve mutare in lunga, come sarebbe
a dire Alìtano e Termìnano; il che fare bisognerebbe. Né solamente
quattro sillabe, ma cinque ancora pare alle volte che state siano paghe d’un
solo accento; sì come in questa voce, Sìamivene, e in quest’altra,
Portàndosenela, che disse il Boccaccio: E se egli questo negasse, sicuramente
gli dite, che io sia stata quella che questo v’abbia detto, e sìamivene
doluta; e altrove: Perché portàndosenela il lupo, senza fallo strangolata l’avrebbe.
Ma ciò aviene di rado. Vada adunque, messer Ercole, l’una licenza e
l’una agevolezza per l’altra, e l’una per l’altra strettezza e regola altresì. A’
Greci e a’ Latini è conceduto porre i loro accenti sopra lunghe e sopra brievi
sillabe, il che a noi e vietato; sia dunque a noi conceduto da quest’altro
canto quello che loro si vieta: il poter commettere più che tre sillabe al
governo d’un solo accento. Basti, che non se ne commette alcuna lunga,
fuori solamente quella, a cui egli sta sopra. — E come, — disse messer
Ercole — non se ne commette alcuna lunga? Quando io dico, Uccìdonsi,
Ferìsconsi, non sono lunghe in queste voci delle sillabe, a cui gli accenti
sono dinanzi e non istanno sopra? — Sono, messer Ercole, — rispose
messer Federigo — ma per nostra cagione, non per loro natura: con ciò
sia cosa che naturalmente si dovrebbe dire Uccìdonosi, Ferìsconosi; il che
perciò che dicendo non si pecca, ha voluto l’usanza che non si pecchi
ancora no ‘l dicendo, pigliando come brieve quella sillaba, che nel vero è
brieve quando la voce è naturale e intera. La quale usanza tanto ha potuto,
che ancora quando un’altra sillaba s’aggiugne a queste voci,
Uccìdonsene, Ferìsconsene, ella così si piglia per brieve, come fa quando
sono tali, quali voi avete ricordato.
XVII
Ora, venendo al tempo che le lettere danno alle voci, è da sapere che
tanto maggiore gravità rendono le sillabe, quanto elle più lungo tempo
hanno in sé per questo conto; il che aviene qualora più vocali o più consonanti
entrano in ciascuna sillaba; tutto che la moltitudine delle vocali meno
spaziosa sia che quella delle consonanti, e oltre acciò poco ricevuta dalle
prose. Del verso è ella propria e domestichissima, e stavvi ora per via di
mescolamento, ora di divertimento; sì come nelle due prime sillabe si vede
stare di questo verso, detto da noi altre volte:
Voi ch’ascoltate;
e quando per l’un modo e per l’altro; il che nella sesta di quest’altro ha luogo:
Di quei Sospiri, ond’io nutriva il core;
là dove la moltitudine delle consonanti et è spaziosissima, et entra, oltre
acciò, non meno nelle prose che nel verso. Perché volendo il Boccaccio
render grave, quanto si potea il più, quel principio delle sue novelle, che io
testé vi recitai, poscia che egli per alquante voci ebbe la gravità con gli
accenti e con la maniera delle vocali solamente cercata: Umana cosa è l’avere;
sì la cercò egli per alquante altre eziandio, con le consonanti riempiendo
e rinforzando le sillabe: Compassione agli afflitti. Il che fece medesimamente
il Petrarca, pure nel medesimo principio delle canzoni, Voi ch’ascoltate,
non solamente con altre vocali, ma ancora con quantità di vocali e di consonanti,
acquistando alle voci gravità e grandezza. E questo medesimo acquisto
tanto più adopera, quanto le consonanti, che empiono le sillabe,
sono e in numero più spesse e in spirito più piene; perciò che più grave
suono ha in sé questa voce Destro, che quest’altra Vetro, e più magnifico lo
rende il dire Campo, che o Caldo o Casso dicendosi, non si renderà. E così
delle altre parti si potrà dire della gravità, per le altre posse tutte delle consonanti
discorrendo e avertendo. Dissi in che modo il numero divien grave
per cagione del tempo che le lettere danno alle sillabe; e prima detto avea in
qual modo egli grave diveniva; per cagione di quel tempo che gli accenti
danno alle voci. Ora dico che somma e ultima gravità è, quando ciascuna
sillaba ha in sé l’una e l’altra di queste parti; il che si vede essere per alquante
sillabe in molti luoghi, ma troppo più in questo verso, che in alcuno altro
che io leggessi giamai:
Fior’, frond’, erb’, ombr’, antr’, ond’, aure soavi.
E per dire ancora di questo medesimo acquisto di gravità più innanzi,
dico che come che egli molto adoperi e nelle prose e nelle altre parti del
verso, pure egli molto più adopera e può nelle rime; le quali maravigliosa
gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di più consonanti
ripiena, come hanno in questi versi:
Mentre che ‘l cor dagli amorosi vermi
fu consumato, e ‘n fiamma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari et ermi, 5
et ebbi ardir, cantando, di dolermi
d’amor, di lei, che sì dura m’apparse;
ma l’ingegno e le rime erano scarse
in quella etate a pensier novi e ‘nfermi.
Quel foco è spento, e ‘l copre un picciol marmo. 10
Che se col tempo fosse ito avanzando,
come già in altri, infino a la vecchiezza,
di rime armato, ond’oggi mi disarmo,
con stil canuto avrei fatto, parlando,
romper le pietre, e pianger di dolcezza.
Non possono così le vocali; quantunque ancora di loro dire si può,
che elle non istanno perciò del tutto senza opera nelle rime: con ciò sia cosa
che alquanto più in ogni modo piena si sente essere questa voce Suoi nella
rima, che quest’altra Poi, e Miei, che Lei, e così dell’altre. Resterebbemi
ora, messer Ercole, detto che s’è dell’una parte abastanza, dirvi
medesimamente dell’altra, e mostrarvi, che sì come la spessezza delle lettere
accresce alle voci gravità, così la rarità porge loro piacevolezza; se io non
istimassi, che voi dalle dette cose, senza altro ragionarne sopra, il comprendeste
abastanza; scemando con quelle medesime regole a questo fine, con le
quali si giugne e cresce a quell’altro; il che chiude e compie tutta la forza e
valore del numero.
XVIII
Dirò adunque della terza causa, generante ancor lei in comune le
dette due parti richieste allo scriver bene; e ciò è la variazione non per altro
ritrovata, se non per fuggire la sazietà, della quale ci avertì dianzi messer
Carlo che ci fa non solamente le non ree cose, o pure le buone, ma ancora
le buonissime verso di sé e dilettevolissime spesse volte essere a fastidio, e
allo ‘ncontro le non buone alcuna fiata e le sprezzate venire in grado. Per la
qual cosa, e nel cercare la gravità, dopo molte voci di piene e d’alte lettere,
è da porne alcuna di basse e sottili; e appresso molte rime tra sé lontane,
una vicina meglio risponderà, che altre di quella medesima guisa non faranno;
e tra molti accenti che giacciano nelle penultime sillabe, si dee vedere
di recarne alcuno, che all’ultima e alla innanzi penultima stia sopra; e in
mezzo di molte sillabe lunghissime, frametterne alquante corte giugne grazia
e adornamento. E così, d’altro canto; nel cercare la piacevolezza, non è
bene tutte le parti, che la ci rappresentano, girsi per noi sempre, senza alcun
brieve mescolamento dell’altre, cercando e affettando. Perciò che là dove al
lettore con la nostra fatica diletto procacciamo, sottentrando per la continuazione,
or una volta or altra, la sazietà, ne nasce a poco a poco e allignavisi
il fastidio, effetto contrario del nostro disio. Né pure in queste cose che io
ragionate v’ho, ma in quelle ancora che ci ragionò il Bembo, è da schifare la
sazietà il più che si può e il fastidio. Perciò che e nella scielta delle voci, tra
quelle di loro isquisitissimamente cercate vederne una tolta di mezzo il
popolo, e tra le popolari un’altra recatavi quasi da’ seggi de’ re, e tra le
nostre una straniera, e una antica tra le moderne, o nuova tra le usate, non
si può dire quanto risvegli alcuna volta e sodisfaccia l’animo di chi legge; e
così un’altra un poco aspera tra molte dilicate, e tra le molte risonanti una
cheta, o allo ‘ncontro. E nel disporre medesimamente delle voci, niuna
delle otto parti del parlare, niuno ordine di loro, niuna maniera e figura del
dire usare perpetuamente si conviene e in ogni canto; ma ora isprimere
alcuna cosa per le sue proprie voci, ora per alcun giro di parole, fa luogo; e
questi medesimi o altri giri, ora di molte membra comporre, ora di poche,
e queste membra, ora veloci formare, ora tarde, ora lunghe, ora brievi, e in
tanto in ciascuna maniera di componimenti fuggir si dee la sazietà, che
questo medesimo fuggimento è da vedere che non sazii, e nell’usare varietà
non s’usi continuazione. Oltra che sono eziandio di quelle cose le quali
variare non si possono; sì come sono alcune maniere di poemi di quelle
rime composti, che io regolate chiamai; con ciò sia cosa che non poteva
Dante fuggire la continuazione delle sue terze rime, sì come non possono i
Latini, i quali eroicamente scrivono, fuggire che di sei piedi non siano tutti
i loro versi ugualmente. Ma queste cose tuttavolta sono poche; dove quelle
che si possono e debbono variare, sono infinite. Per la qual cosa né di tutte
quelle, delle quali è capevole il verso, né di quelle tutte, che nelle prose
truovano luogo, recar si può particolare testimonianza, chi tutto dì ragionare
di nulla altro non volesse. Bene si può questo dire che di quelle, la
variazione delle quali nelle prose può capere, gran maestro fu, a fuggirne la
sazietà, il Boccaccio nelle sue novelle, il quale, avendo a far loro cento proemi,
in modo tutti gli variò, che grazioso diletto danno a chi gli ascolta;
senza che in tanti finimenti e rientramenti di ragionari, tra dieci persone
fatti, schifare il fastidio non fu poco. Ma della varietà che può entrar nel
verso, quanto ne sia stato diligente il Petrarca, estimare più tosto si può, che
isprimere bastevolmente; il quale d’un solo suggetto e materia tante canzoni
componendo, ora con una maniera di rimarle, ora con altra, e versi ora
interi e quando rotti, e rime quando vicine e quando lontane, e in mille
altri modi di varietà, tanto fece e tanto adoperò, che, non che sazietà ne
nasca, ma egli non è in tutte loro parte alcuna, la quale con disio e con
avidità di leggere ancora più oltra non ci lasci. La qual cosa maggiormente
apparisce in quelle parti delle sue canzoni, nelle quali egli più canzoni compose
d’alcuna particella e articolo del suo suggetto; il che egli fece più volte,
né pure con le più corte canzoni, anzi ancora con le lunghissime; sì come
sono quelle tre degli occhi, le quali egli variando andò in così maravigliosi
modi, che quanto più si legge di loro e si rilegge, tanto altri più di leggerle
e di rileggerle divien vago; e come sono quelle due piacevolissime, delle quali
poca ora fa vi ragionai, perciò che estimando egli che la loro piacevolezza,
raccolta per gli molti versi rotti, potesse avilire, egli alquante stanze seguentisi,
con le rime acconcie a generar gravità, diè alla primiera, e questa medesima
gravità, affine che non fosse troppa, temperò con un’altra stanza, tutta di
rime piacevoli tessuta allo ‘ncontro. Nel rimanente poi di questa canzone, e in
tutta l’altra, e all’une rime e all’altre per ciascuna stanza dando parte, fuggì
non solamente la troppa piacevolezza o la troppa gravità, ma ancora la troppa
diligenza del fuggirle. Somigliante cura pose molte volte eziandio in un solo
verso, sì come pose in quello che io per gravissimo vi recitai:
Fior’, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi.
Con ciò sia cosa che conoscendo egli che se il verso tutto si forniva con
voci, e per conto delle vocali, e per conto delle consonanti, e per conto degli
accenti pieno di gravità, nella guisa nella quale esso era più che mezzo
tessuto, poteva la gravità venire altrui parendo troppo cercata e affettata e
generarsene la sazietà, egli lo fornì con questa voce, Soavi, piena senza fallo
di piacevolezza, e veramente tale, quale di lei è il sentimento, e a questa
piacevolezza tuttavolta passò con un’altra voce in parte grave e in parte
piacevole, per non passar dall’uno all’altro stremo senza mezzo. I quali
avertimenti, come che paiano avuti sopra leggiere e minute cose, pure sono
tali che, raccolti, molto adoperano, sì come vedete.
XIX
Potrebbesi a queste tre parti, messer Ercole, che io trascorse v’ho, più
tosto che raccontate, al suono, al numero, alla variazione, generanti le due,
dico la gravità e la piacevolezza, che empiono il bene scrivere, aggiugnerne
ancora dell’altre acconcie a questo medesimo fine, sì come sono il decoro e
la persuasione. Con ciò sia cosa che da servare è il decoro degli stili, o
convenevolezza che più ci piaccia di nomare questa virtù, mentre d’essere o
gravi o piacevoli cerchiamo nelle scritture, o per aventura l’uno e l’altro;
quando si vede che agevolmente procacciando la gravità, passare si può più
oltra entrando nell’austerità dello stile; il che nasce, ingannandoci la vicinità
e la somiglianza che avere sogliono i principj del vizio con gli stremi della
virtù, pigliando quelle voci per oneste che sono rozze, e per grandi le ignave,
e ripiene di dignità le severe, e per magnifiche le pompose. E, d’altra parte,
cercando la piacevolezza, puossi trascorrere e scendere al dissoluto; credendo
quelle voci graziose essere, che ridicule sono, e le imbellettate vaghe, e le
insiepide dolci, e le stridevoli soavi. Le quali pecche tutte, e le altre che
aggiugnere a queste si può, fuggire si debbono, e tanto più ancora diligentemente,
quanto più elleno sotto spezie di virtù ci si parano dinanzi, e, di
giovarci promettendo, ci nuocono maggiormente, assalendoci sproveduti.
Né è la persuasione, meno che questo decoro, da disiderare e da procacciare
agli scrittori, senza la quale possono bene aver luogo e la gravità e la piacevolezza;
con ciò sia cosa che molte scritture si veggono, che non mancano
di queste parti, le quali non hanno poscia quella forza e quella virtù che
persuade; ma elle sono poco meno che vane, e indarno s’adoperano, se
ancora questa rapitrice degli animi di chi ascolta esse non hanno dal lor
canto. La quale a dissegnarvi e a dimostrarvi bene e compiutamente, quale
e chente ella è, bisognerebbe tutte quelle cose raccogliere che dell’arte
dell’orare si scrivono, che sono, come sapete, moltissime, perciò che tutta
quella arte altro non c’insegna, e ad altro fine non s’adopera, che a persuadere.
Ma io non dico ora persuasione in generale e in universo; ma dico
quella occulta virtù, che, in ogni voce dimorando, commuove altrui ad
assentire a ciò che egli legge, procacciata più tosto dal giudicio dello scrittore
che dall’artificio de’ maestri. Con ciò sia cosa che non sempre ha, colui
che scrive, la regola dell’arte insieme con la penna in mano. Né fa mestiero
altresì in ciascuna voce fermarsi, a considerare se la riceve l’arte o non riceve,
e specialmente nelle prose, il campo delle quali molto più largo e spazioso
e libero è, che quello del verso. Oltra che se ne ritarderebbe e intiepidirebbe
il calore del componente, il quale spesse volte non pate dimora. Ma bene
può sempre, e ad ogni minuta parte, lo scrittore adoperare il giudicio, e
sentire, tuttavia scrivendo e componendo, se quella voce o quell’altra, e
quello o quell’altro membro della scrittura, vale a persuadere ciò che egli
scrive. Questa forza e questa virtù particolare di persuadere, dico, messer
Ercole, che è grandemente richiesta e alle gravi e alle piacevoli scritture; né
può alcuna veramente grave, o veramente piacevole essere, senza essa. Perché,
recando le molte parole in una, quando si farà per noi a dar giudicio di
due scrittori, quale di loro più vaglia e quale meno, considerando a parte a
parte il suono, il numero, la variazione, il decoro, e ultimamente la persuasione
di ciascun di loro, e quanta piacevolezza e quanta gravità abbiano
generata e sparsa per gli loro componimenti, e con le parti, che ci raccolse
messer Carlo, dello sciegliere e del disporre, prima da noi medesimamente
considerate, ponendole, potremo sicuramente conoscere e trarne la differenza.
E perciò che tutte queste parti sono più abondevoli nel Boccaccio e
nel Petrarca, che in alcuno degli altri scrittori di questa lingua, aggiuntovi
ancora quello che messer Carlo primieramente ci disse, che valeva a trarne
il giudicio, che essi sono i più lodati e di maggior grido, conchiudere vi può
messer Carlo da capo, che niuno altro così buono o prosatore o rimatore è,
messer Ercole, come sono essi. Che quantunque del Boccaccio si possa
dire, che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia;
con ciò sia cosa che egli mancasse talora di giudicio nello scrivere, non pure
delle altre opere, ma nel Decamerone ancora, nondimeno quelle parti del
detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle
medesime egli pure con buono e con leggiadro stile scrisse tutte; il che è
quello che noi cerchiamo. Dico adunque di costor due un’altra volta, che
essi buonissimi scrittori sono sopra tutti gli altri, e insieme che la maniera
dello scrivere de’ presenti toscani uomini così buona non è come è quella
nella quale scrisser questi; e così si vederà essere infino attanto che venga
scrittore, che più di loro abbia ne’ suoi componimenti seminate e sparse
le ragionate cose —.
XX
Tacevasi messer Federigo dopo queste parole, avendo il suo ragionamento
fornito, e insieme con esso lui tacevano tutti gli altri; se non che il
Magnifico, veggendo ognuno starsi cheto, disse: — Se a queste cose tutte,
che messer Federigo e il Bembo v’hanno raccolte, risguardo avessero coloro
che vogliono, messer Ercole, sopra Dante e sopra il Petrarca dar giudicio,
quale è di lor miglior poeta, essi non sarebbono tra loro discordanti sì come
sono. Ché quantunque infinita sia la moltitudine di quelli, da’ quali molto
più è lodato messer Francesco, nondimeno non sono pochi quegli altri, a’
quali Dante più sodisfà, tratti, come io stimo, dalla grandezza e varietà del
suggetto, più che da altro. Nella qual cosa essi s’ingannano; perciò che il
suggetto è ben quello che fa il poema, o puollo almen fare, o alto o umile o
mezzano di stile, ma buono in sé o non buono non giamai. Con ciò sia cosa
che può alcuno d’altissimo suggetto pigliare a scrivere, e tuttavolta scrivere
in modo, che la composizione si dirà esser rea e sazievole; e un altro potrà,
materia umilissima proponendosi, comporre il poema di maniera che da
ogniuno buonissimo e vaghissimo sarà riputato; sì come fu riputato quello
del ciciliano Teocrito, il quale, di materia pastorale e bassissima scrivendo,
è nondimeno molto più in prezzo e in riputazione sempre stato tra’ Greci,
che non fa giamai Lucano tra’ Latini, tutto che egli suggetto reale e altissimo
si ponesse innanzi. Non dico già tuttavia, che un suggetto, più che un
altro, non possa piacere. Ma questo rispetto non è di necessità, dove quegli
altri, de’ quali s’è oggi detto, sono molti, e ciascuno per sé necessariissimo a
doverne essere il componente lodato e pregiato compiutamente. Onde io
torno a dire, che se gli uomini con le regole del Bembo e di messer Federigo
essaminassero gli scrittori, essi sarebbono d’un parere tutti e d’una openione
in questo giudicio —. Allora disse messer Ercole: — Se io questi poeti,
Giuliano, avessi veduti, come voi avete, mi crederei potere ancor io dire
affermatamente così esser vero come voi dite. Ma perciò che io di loro per
adietro niuna sperienza ho presa, tanto solo dirò, che io mi credo che così
sia, persuadendomi che errare non si possa, per chiunque con tanti e tali
avertimenti giudica, chenti son questi che si son detti. Co’ quali, messer
Carlo, stimo io che giudicasse messer Pietro vostro fratello, del quale mi
soviene ora, che essendo egli e messer Paolo Canale, da Roma ritornando e
per Ferrara passando, scavalcati alle mie case, e da me per alcun dì a ristorare
la fatica del camino sopratenutivi, un giorno tra gli altri venne a me il
Cosmico, che in Ferrara, come sapete, dimora, e tutti e tre nel giardino
trovatici, che lentamente spaziando e di cose dilettevoli ragionando ci
diportavamo, dopo i primi raccoglimenti fatti tra loro, egli e messer Pietro,
non so come, nel processo del parlare a dire di Dante e del Petrarca pervennero;
nel quale ragionamento mostrava messer Pietro maravigliarsi come
ciò fosse, che il Cosmico, in uno de’ suoi sonetti, al Petrarca il secondo
luogo avesse dato nella volgar poesia. Nella qual materia molte cose furono
da lor dette e da messer Paolo ancora, che io non mi ricordo; se non in
quanto il Cosmico molto parea che si fondasse sopra la magnificenza e
ampiezza del suggetto, delle quali ora Giuliano diceva, e sopra lo aver Dante
molta più dottrina e molte più scienze per lo suo poema sparse, che non
ha messer Francesco. — Queste cose appunto son quelle, — disse allora
mio fratello — sopra le quali principalmente si fermano, messer Ercole,
tutti quelli che di questa openion sono. Ma se dire il vero si dee tra noi, che
non so quello che io mi facessi fuor di qui, quanto sarebbe stato più lodevole
che egli di meno alta e di meno ampia materia posto si fosse a scrivere, e
quella sempre nel suo mediocre stato avesse, scrivendo, contenuta, che non
è stato, così larga e così magnifica pigliandola, lasciarsi cadere molto spesso
a scrivere le bassissime e le vilissime cose; e quanto ancora sarebbe egli
miglior poeta che non è, se altro che poeta parere agli uomini voluto non
avesse nelle sue rime. Che mentre che egli di ciascuna delle sette arti e della
filosofia e, oltre acciò, di tutte le cristiane cose maestro ha voluto mostrar
d’essere nel suo poema, egli men sommo e meno perfetto è stato nella
poesia. Con ciò sia cosa che affine di poter di qualunque cosa scrivere,
che ad animo gli veniva, quantunque poco acconcia e malagevole a caper
nel verso, egli molto spesso ora le latine voci, ora le straniere, che non
sono state dalla Toscana ricevute, ora le vecchie del tutto e tralasciate, ora
le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime usando, e
allo ‘ncontro le pure e gentili alcuna volta mutando e guastando, e talora,
senza alcuna scielta o regola, da sé formandone e fingendone, ha in maniera
operato, che si può la sua Comedia giustamente rassomigliare ad un
bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe
sterili e dannose mescolato, o ad alcuna non potata vite al suo tempo, la
quale si vede essere poscia la state sì di foglie e di pampini e di viticci
ripiena, che se ne offendono le belle uve —.
XXI
Io, senza dubbio alcuno — disse lo Strozza — mi persuado, messer
Carlo, che così sia, come voi dite; poscia che io tutti e tre vi veggo in ciò
essere d’una sentenza. E pure dianzi quando messer Federigo ci recò le due
comperazioni degli scabbiosi, oltre che elle parute m’erano alquanto essere
disonoratamente dette, sì mi parea egli ancora che vi fosse una voce delle
vostre, dico di questa città, là in quel verso:
Da ragazzo aspettato da signor so,
nel quale, So, pare detto in vece di Suo, forse più licenziosamente che a
grave e moderato poeta non s’appartiene —. Alle quali parole traponendosi
il Magnifico: — Egli è ben vero — disse — che delle voci di questa città
sparse Dante e seminò in più luoghi della sua Comedia che io non arei
voluto, sì come sono Fantin e Fantolin, che egli disse più volte, e Fra, in
vece di Frate, e Ca, in vece di Casa, e Polo, e somiglianti. Ma questa voce
Signorso, che voi credete, messer Ercole, che sian due, ella altro che una
voce non è, e, oltre a questo, è toscana tutta e non viniziana in parte alcuna;
quantunque ella bassissima voce sia e per poco solamente dal volgo usata, e
per ciò non meritevole d’aver luogo negli eroici componimenti. — Come
una voce, — disse messer Ercole — o in qual modo? — Dirollovi — rispose
il Magnifico, e seguitò in questa maniera: — Voi dovete, messer Ercole,
sapere, usanza della Toscana essere con alquante così fatte voci congiugnere
questi possessivi Mio, Tuo, Suo, in modo che se ne fa uno intero, traendone
tuttavia la lettera del mezzo, ciò è la I e la U, in questa guisa: Signòrso,
Signorto, in luogo di Signor suo e Signor tuo; e Fratèlmo, in luogo di Fratel
mio; e Pàtremo e Màtrema, in luogo di Patre mio e Matre mia; e Mògliema
e Mòglieta, e alcuna volta Figliuòlto, e così d’alcune altre; alle quali voci
tutte non si dà l’articolo, ma si leva, che non diciamo Dal Signorso o Della
Moglieta, ma Di Moglieta e Da Signorso; sì come disse Dante in quel
verso, e come si legge nelle novelle del Boccaccio, nelle quali egli e Signorto
e Moglieta pose più d’una volta, e Fratelmo ancora. E dicovi più, che queste
voci s’usano, ragionando tuttodì, non solo nella Toscana, ma ancora in
alcuna delle vicinanze sue, che da noi prese l’hanno, e in Roma altresì; e
messer Federigo le dee aver udite ad Urbino in bocca di quelle genti molte
volte. — Così è, Giuliano, — disse incontanente messer Federigo. — Né
pure queste voci solamente s’usano tra que’ monti, come dite, che vostre
siano, ma dell’altre medesimamente, tra le quali una ve n’è loro così in
usanza, che io ho alle volte creduto che ella non sia vostra. E questa è
Avaccio, che si dice in vece di Tosto; con ciò sia cosa che in Firenze, sì come
io odo, ella oggimai niente più s’usa, o poco —. Alle quali parole il Magnifico
così rispose: — Egli non è dubbio, messer Federigo, che Avaccio, voce
nostra, non sia tratta da Avacciare, che è Affrettare, molto antica e dalle
antiche toscane prose ricordata molto spesso o, dalle quali pigliare l’hanno
Dante e il Boccaccio potuta, che Avacciare, in luogo d’Affrettare, più volte
dissero. Dal qual verbo si fe’ Avaccio, voce molto più del verso che della
prosa, la quale usò il medesimo Boccaccio nelle sue ottave rime, se io non
sono errato, alquante volte, e Dante medesimo per la sua Comedia la seminò
alquante altre. Né l’una di queste voci né l’altra si vede che abbia voluto
usare il Petrarca, ma in luogo d’Avacciare, che ad uopo gli veniva, disse
Avanzare, fuggendo la bassezza del vocabolo, come io stimo, e in questo
modo inalzandolo:
Sì vedrem chiaro poi, come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza;
o pure ancora:
E ben che ‘l primo colpo aspro e mortale
fosse da sé, per avanzar sua impresa
una saetta di pietate ha presa.
La qual voce usò la Toscana assai spesso in questo sentimento di mandare
innanzi e far maggiore, non guari dal sentimento d’Avacciare scostandola;
con ciò sia cosa che chiunque s’avanza, per questo s’avanza, che egli s’affretta
e si sollecita più volte. Ma, tornando alla prima voce Avaccio, ella poco
s’usa oggi nella patria mia come voi dite, divenuta vile, sì come sogliono il
più delle cose, per la sua vecchiezza. Usasi vie più ne’ suoi dintorni, e
spezialmente in quel di Perugia, dove le levano tuttavia la prima lettera, e
dicono Vaccio —.
XXII
Avea così detto il Magnifico e tacevasi, quando lo Strozza, che attentamente
ascoltato l’avea, disse: — Deh, se il cielo, Giuliano, in riputazione
e stima la vostra lingua avanzi di giorno in giorno, e voglio io incominciare
a ragionar toscanamente da questa voce, che buono augurio mi dà e in
speranza mi mette di nuovo acquisto, non fate sosta così tosto nel raccontarci
delle vostre voci, ma ditecene ancora, e sponetecene dell’altre; che io
non vi potrei dire, quanto diletto io piglio di questi ragionamenti. — E che
volete voi, che io vi racconti più oltra? — rispose il Magnifico. — Non
avete voi oggi da messer Carlo e da messer Federigo udite molte cose? — Sì
di vero, — rispose lo Strozza — che io ne ho molte udite, le quali mi
potranno ancora di molta utilità essere o nel giudicare gli altrui componimenti,
se io ne leggerò, o nel misurare i miei, se io me ne travaglierò giamai.
Ma quelle cose nondimeno sono avertimenti generali, che vagliono più a
ben volere usare e mettere in opera la vostra lingua, a chi appresa l’ha e
intendela, che ad appararla: il che a me convien fare, se debbo valermene,
ché sono in essa nuovo, come vedete. Per la qual cosa a me sarebbe sopra
modo caro che voi, per le parti del vostro idioma discorrendo, le particolari
voci di ciascuna, le quali fa luogo a dover sapere, pensaste di ramemorarvi,
e di raccontarlemi. — Io volentieri ciò farei, in quanto si potesse per me
fare, — rispose il Magnifico — se più di spazio a quest’opera mi fosse dato,
che non è; ché, come potete vedere, il dì oggimai è stanco, e più tosto gli
‘nteri giorni sarebbono a tale ragionamento richiesti, che le brievi ore. —
Per questo non dee egli rimanere, — disse mio fratello, a queste parole
traponendosi — che a messer Ercole non si sodisfaccia. E poscia che egli fu
da noi ieri allo scrivere volgarmente invitato, convenevole cosa è, Giuliano,
che noi niuna fatica, che a questo fine porti, rifuggiamo. Vengasi domani
ancor qui, e tanto sopra ciò si ragioni, quanto ad esso gioverà e sarà in
grado. — Vengasi pure, — disse il Magnifico — e ragionisi, se ad esso così
piace; tuttavolta con questa condizione che voi, messer Carlo e messer
Federigo, m’aiutate; ché io non voglio dire altramente —. A queste parole
rispondendo i due, che essi erano contenti di così fare, quantunque sapessero
che allui di loro aiuto non facea mestiero, e messer Ercole aggiugnendo
che esso ne sarebbe loro tenuto grandemente, tutti e tre insieme, sì come il
dì dinanzi fatto aveano, dipartendosi, lasciarono mio fratello.
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