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L'ORLANDO FURIOSO

Luodovico Ariosto

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CANTO TRENTUNESIMO


Che dolce più, che più giocondo stato
saria di quel d'un amoroso core?
che viver più felice e più beato,
che ritrovarsi in servitù d'Amore?
se non fosse l'uom sempre stimulato
da quel sospetto rio, da quel timore,
da quel martìr, da quella frenesia,
da quella rabbia detta gelosia.

Però che ogni altro amaro che si pone
tra questa soavissima dolcezza,
è un augumento, una perfezione,
ed è un condurre amore a più finezza.
L'acque parer fa saporite e buone
la sete, e il cibo pel digiun s'apprezza:
non conosce la pace e non l'estima
chi provato non ha la guerra prima.

Se ben non veggon gli occhi ciò che vede
ognora il core, in pace si sopporta.
Lo star lontano, poi quando si riede,
quanto più lungo fu, più riconforta.
Lo stare in servitù senza mercede
(pur che non resti la speranza morta)
patir si può: che premio al ben servire
pur viene al fin, se ben tarda a venire.

Gli sdegni, le repulse, e finalmente
tutti i martìr d'amor, tutte le pene,
fan per lor rimembranza, che si sente
con miglior gusto un piacer quando viene.
Ma se l'infernal peste una egra mente
avvien che infetti, ammorbi ed avelene;
se ben segue poi festa ed allegrezza,
non la cura l'amante e non l'apprezza.

Questa è la cruda e avelenata piaga
a cui non val liquor, non vale impiastro,
né murmure, né imagine di saga,
né val lungo osservar di benigno astro,
né quanta esperienza d'arte maga
fece mai l'inventor suo Zoroastro:
piaga crudel che sopra ogni dolore
conduce l'uom, che disperato muore.

Oh incurabil piaga che nel petto
d'un amator sì facile s'imprime,
non men per falso che per ver sospetto!
piaga che l'uom sì crudelmente opprime,
che la ragion gli offusca e l'intelletto,
e lo tra' fuor de le sembianze prime!
Oh iniqua gelosia, che così a torto
levasti a Bradamante ogni conforto!

Non di questo che Ippalca e che il fratello
le avea nel core amaramente impresso,
ma dico d'uno annunzio crudo e fello
che le fu dato pochi giorni appresso.
Questo era nulla a paragon di quello
che io vi dirò, ma dopo alcun digresso.
Di Rinaldo ho da dir primieramente,
che vêr Parigi vien con la sua gente.

Scontraro il dì seguente invêr la sera
un cavallier che avea una donna al fianco,
con scudo e sopravesta tutta nera,
se non che per traverso ha un fregio bianco.
Sfidò alla giostra Ricciardetto, che era
dinanzi, e vista avea di guerrier franco:
e quel, che mai nessun ricusar volse,
girò la briglia e spazio a correr tolse.

Senza dir altro, o più notizia darsi
de l'esser lor, si vengono all'incontro.
Rinaldo e gli altri cavallier fermarsi
per veder come seguiria lo scontro.
- Tosto costui per terra ha da versarsi,
se in luogo fermo a mio modo lo incontro -
dicea tra sé medesmo Ricciardetto;
ma contrario al pensier seguì l'effetto:

però che lui sotto la vista offese
di tanto colpo il cavalliero istrano,
che lo levò di sella, e lo distese
più di due lance al suo destrier lontano.
Di vendicarlo incontinente prese
l'assunto Alardo, e ritrovossi al piano
stordito e male acconcio: sì fu crudo
lo scontro fier, che gli spezzò lo scudo.

Guicciardo pone incontinente in resta
l'asta, che vede i duo germani in terra,
ben che Rinaldo gridi: - Resta, resta;
che mia convien che sia la terza guerra: -
ma l'elmo ancor non ha allacciato in testa
sì che Guicciardo al corso si disserra;
né più degli altri si seppe tenere,
e ritrovossi subito a giacere.

Vuol Ricciardo, Viviano e Malagigi,
e l'un prima de l'altro essere in giostra:
ma Rinaldo pon fine ai lor litigi;
che inanzi a tutti armato si dimostra,
dicendo loro: - È tempo ire a Parigi;
e saria troppo la tardanza nostra,
s'io volesse aspettar fin che ciascuno
di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. -

Dissel tra sé, ma non che fosse inteso,
che saria stato agli altri ingiuria e scorno.
L'uno e l'altro del campo avea già preso,
e si faceano incontra aspro ritorno.
Non fu Rinaldo per terra disteso,
che valea tutti gli altri che avea intorno;
le lance si fiaccar, come di vetro,
né i cavallier si piegar oncia a dietro.

L'uno e l'altro cavallo in guisa urtosse,
che gli fu forza in terra a por le groppe.
Baiardo immantinente ridrizzosse,
tanto che a pena il correre interroppe.
Sinistramente sì l'altro percosse,
che la spalla e la schena insieme roppe.
Il cavallier che il destrier morto vede,
lascia le staffe ed è subito in piede.

Ed al figlio d'Amon, che già rivolto
tornava a lui con la man vota, disse:
- Signore, il buon destrier che tu m'hai tolto,
perché caro mi fu mentre che visse,
mi faria uscir del mio debito molto,
se così invendicato si morisse:
sì che vientene, e fa ciò che tu puoi,
perché battaglia esser convien tra noi. -

Disse Rinaldo a lui: - Se il destrier morto,
e non altro ci de' porre a battaglia,
un de' miei ti darò, piglia conforto,
che men del tuo non crederò che vaglia. -
Colui soggiunse: - Tu sei malaccorto,
se creder vuoi che d'un destrier mi caglia.
Ma poi che non comprendi ciò che io voglio,
ti spiegherò più chiaramente il foglio.

Vo' dir che mi parria commetter fallo,
se con la spada non ti provassi anco,
e non sapessi s'in quest'altro ballo
tu mi sia pari, o se più vali o manco.
Come ti piace, o scendi, o sta a cavallo:
pur che le man tu non ti tegna al fianco,
io son contento ogni vantaggio darti:
tanto alla spada bramo di provarti. -

Rinaldo molto non lo tenne in lunga,
e disse: - La battaglia ti prometto;
e perché tu sia ardito, e non ti punga
di questi c'ho d'intorno alcun sospetto,
andranno inanzi fin che io gli raggiunga;
né meco resterà fuor che un valletto
che mi tenga il cavallo: - e così disse
alla sua compagnia che se ne gisse.

La cortesia del paladin gagliardo
commendò molto il cavalliero estrano.
Smontò Rinaldo, e del destrier Baiardo
diede al valletto le redine in mano:
e poi che più non vede il suo stendardo,
il qual di lungo spazio è già lontano,
lo scudo imbraccia e stringe il brando fiero,
e sfida alla battaglia il cavalliero.

E quivi s'incomincia una battaglia
di che altra mai non fu più fiera in vista.
Non crede l'un che tanto l'altro vaglia,
che troppo lungamente gli resista.
Ma poi che il paragon ben gli ragguaglia,
né l'un de l'altro più s'allegra o attrista,
pongon l'orgoglio ed il furor da parte,
ed al vantaggio loro usano ogn'arte.

S'odon lor colpi dispietati e crudi
intorno rimbombar con suono orrendo,
ora i canti levando a' grossi scudi,
schiodando or piastre, e quando maglie aprendo.
Né qui bisogna tanto che si studi
a ben ferir, quanto a parar, volendo
star l'uno a l'altro par; che eterno danno
lor può causar il primo error che fanno.

Durò l'assalto un'ora e più che il mezzo
d'un'altra; ed era il sol già sotto l'onde,
ed era sparso il tenebroso rezzo
de l'orizzon fin all'estreme sponde;
né riposato o fatto altro intermezzo
aveano alle percosse furibonde
questi guerrier, che non ira o rancore,
ma tratto all'arme avea disio d'onore.

Rivolve tuttavia tra sé Rinaldo
chi sia l'estrano cavallier sì forte,
che non pur gli sta contra ardito e saldo,
ma spesso il mena a risco de la morte;
e già tanto travaglio e tanto caldo
gli ha posto, che del fin dubita forte:
e volentier, se con suo onor potesse,
vorria che quella pugna rimanesse.

Da l'altra parte il cavallier estrano,
che similmente non avea notizia
che quel fosse il signor di Montalbano,
quel sì famoso in tutta la milizia,
che gli avea incontra con la spada in mano
condotto così poca nimicizia,
era certo che d'uom di più eccellenza
non potesson dar l'arme esperienza.

Vorrebbe de l'impresa esser digiuno,
che avea di vendicare il suo cavallo;
e se potesse senza biasmo alcuno,
si trarria fuor del periglioso ballo.
Il mondo era già tanto oscuro e bruno,
che tutti i colpi quasi ivano in fallo.
Poco ferire e men parar sapeano,
che a pena in man le spade si vedeano.

Fu quel da Montalbano il primo a dire
che far battaglia non denno allo scuro,
ma quella indugiar tanto e differire,
che avesse dato volta il pigro Arturo;
e che può intanto al padiglion venire,
ove di sé non sarà men sicuro,
ma servito, onorato e ben veduto,
quanto in loco ove mai fosse venuto.

Non bisognò a Rinaldo pregar molto,
che il cortese baron tenne lo 'nvito.
Ne vanno insieme ove il drappel raccolto
di Montalbano era in sicuro sito.
Rinaldo al suo scudiero avea già tolto
un bel cavallo e molto ben guernito,
a spada e a lancia e ad ogni prova buono,
ed a quel cavallier fattone dono.

Il guerrier peregrin conobbe quello
esser Rinaldo, che venìa con esso;
che prima che giungessero all'ostello,
venuto a caso era a nomar se stesso:
e perché l'un de l'altro era fratello,
si sentìr dentro di dolcezza oppresso,
e di pietoso affetto tocco il core;
e lacrimar per gaudio e per amore.

Questo guerriero era Guidon selvaggio,
che dianzi con Marfisa e Sansonetto
e' figli d'Olivier molto viaggio
avea fatto per mar, come v'ho detto.
Di non veder più tosto il suo lignaggio
il fellon Pinabel gli avea interdetto,
avendol preso e a bada poi tenuto
alla difesa del suo rio statuto.

Guidon, che questo esser Rinaldo udio,
famoso sopra ogni famoso duce,
che avuto avea più di veder disio,
che non ha il cieco la perduta luce,
con molto gaudio disse: - O signor mio,
qual fortuna a combatter mi conduce
con voi, che lungamente ho amato ed amo,
e sopra tutto il mondo onorar bramo?

Mi partorì Costanza ne le estreme
ripe del mar Eusino: io son Guidone,
concetto de lo illustre inclito seme,
come ancor voi, del generoso Amone.
Di voi vedere e gli altri nostri insieme
il desiderio è del venir cagione;
e dove mia intenzion fu d'onorarvi,
mi veggo esser venuto a ingiuriarvi.

Ma scusimi apo voi d'un error tanto,
che io non ho voi né gli altri conosciuto;
e s'emendar si può, ditemi quanto
far debbo, che in ciò far nulla rifiuto. -
Poi che si fu da questo e da quel canto
de' complessi iterati al fin venuto,
rispose a lui Rinaldo: - Non vi caglia
meco scusarvi più de la battaglia:

che per certificarne che voi sète
di nostra antiqua stirpe un vero ramo,
dar miglior testimonio non potete,
che il gran valor che in voi chiaro proviamo.
Se più pacifiche erano e quiete
vostre maniere, mal vi credevamo;
che la damma non genera il leone,
né le colombe l'aquila o il falcone. -

Non, per andar, di ragionar lasciando,
non di seguir, per ragionar, lor via,
vennero ai padiglioni; ove narrando
il buon Rinaldo alla sua compagnia
che questo era Guidon, che disiando
veder, tanto aspettato aveano pria,
molto gaudio apportò ne le sue squadre;
e parve a tutti assimigliarsi al padre.

Non dirò l'accoglienze che gli fero
Alardo, Ricciardetto e gli altri dui;
che gli fece Viviano ed Aldigiero,
e Malagigi, frati e cugin sui;
che ogni signor gli fece e cavalliero;
ciò che egli disse a loro, ed essi a lui:
ma vi concluderò che finalmente
fu ben veduto da tutta la gente.

Caro Guidone a' suoi fratelli stato
credo sarebbe in ogni tempo assai;
ma lor fu al gran bisogno ora più grato,
che esser potesse in altro tempo mai.
Poscia che il nuovo sole incoronato
del mare uscì di luminosi rai,
Guidon coi frati e coi parenti in schiera
se ne tornò sotto la lor bandiera.

Tanto un giorno ed un altro se n'andaro,
che di Parigi alle assediate porte
a men di dieci miglia s'accostaro
in ripa a Senna; ove per buona sorte
Grifone ed Aquilante ritrovaro,
i duo guerrier da l'armatura forte:
Grifone il bianco ed Aquilante il nero,
che partorì Gismonda d'Oliviero.

Con essi ragionava una donzella,
non già di vil condizione in vista,
che di sciamito bianco la gonnella
fregiata intorno avea d'aurata lista;
molto leggiadra in apparenza e bella,
fosse quantunque lacrimosa e trista:
e mostrava ne' gesti e nel sembiante
di cosa ragionar molto importante.

Conobbe i cavallier, come essi lui,
Guidon, che fu con lor pochi dì inanzi;
ed a Rinaldo disse: - Eccovi dui
a cui van pochi di valore inanzi;
e se per Carlo ne verran con nui,
non ne staranno i Saracini inanzi. -
Rinaldo di Guidon conferma il detto,
che l'uno e l'altro era guerrier perfetto.

Gli avea riconosciuti egli non manco;
però che quelli sempre erano usati,
l'un tutto nero, e l'altro tutto bianco
vestir su l'arme, e molto andare ornati.
Da l'altra parte essi conobbero anco
e salutar Guidon, Rinaldo e i frati;
ed abbracciar Rinaldo come amico,
messo da parte ogni lor odio antico.

S'ebbero un tempo in urta e in gran dispetto
per Truffaldin, che fôra lungo a dire;
ma quivi insieme con fraterno affetto
s'accarezzar, tutte obliando l'ire.
Rinaldo poi si volse a Sansonetto,
che era tardato un poco più a venire,
e lo raccolse col debito onore,
a pieno istrutto del suo gran valore.

Tosto che la donzella più vicino
vide Rinaldo, e conosciuto l'ebbe
(che avea notizia d'ogni paladino),
gli disse una novella che gli increbbe;
e cominciò: - Signore, il tuo cugino,
a cui la Chiesa e l'alto Imperio debbe,
quel già sì saggio ed onorato Orlando,
è fatto stolto, e va pel mondo errando.

Onde causato così strano e rio
accidente gli sia, non so narrarte.
La sua spada e l'altr'arme ho vedute io,
che per li campi avea gittate e sparte;
e vidi un cavallier cortese e pio
che le andò raccogliendo da ogni parte,
e poi di tutte quelle un arbuscello
fe', a guisa di trofeo, pomposo e bello.

Ma la spada ne fu tosto levata
dal figliuol d'Agricane il dì medesmo.
Tu pòi considerar quanto sia stata
gran perdita alla gente del battesmo
l'essere un'altra volta ritornata
Durindana in poter del paganesmo.
Né Brigliadoro men, che errava sciolto
intorno all'arme, fu dal pagan tolto.

Son pochi dì che Orlando correr vidi
senza vergogna e senza senno, ignudo,
con urli spaventevoli e con gridi:
che è fatto pazzo in somma ti conchiudo;
e non avrei, fuor che a questi occhi fidi,
creduto mai sì acerbo caso e crudo. -
Poi narrò che lo vide giù dal ponte
abbracciato cader con Rodomonte.

- A qualunque io non creda esser nimico
d'Orlando (soggiungea) di ciò favello,
acciò che alcun di tanti a che io lo dico,
mosso a pietà del caso strano e fello,
cerchi o a Parigi o in altro luogo amico
ridurlo, fin che si purghi il cervello.
Ben so, se Brandimarte n'avrà nuova,
sarà per farne ogni possibil prova. -

Era costei la bella Fiordiligi,
più cara a Brandimarte che se stesso,
la qual, per lui trovar, venìa a Parigi:
e de la spada ella suggiunse appresso,
che discordia e contesa e gran litigi
tra il Sericano e l' Tartaro avea messo;
e che avuta l'avea, poi fu casso,
di vita Mandricardo, al fin Gradasso.

Di così strano e misero accidente
Rinaldo senza fin si lagna e duole;
né il core intenerir men se ne sente,
che soglia intenerirsi il ghiaccio al sole:
e con disposta ed immutabil mente,
ovunque Orlando sia, cercar lo vuole,
con speme, poi che ritrovato l'abbia,
di farlo risanar di quella rabbia.

Ma già lo stuolo avendo fatto unire,
sia volontà del cielo o sia aventura,
vuol fare i Saracin prima fuggire,
e liberar le parigine mura.
Ma consiglia l'assalto differire,
che vi par gran vantaggio, a notte scura,
ne la terza vigilia o ne la quarta,
che avrà l'acqua di Lete il Sonno sparta.

Tutta la gente alloggiar fece al bosco,
e quivi la posò per tutto il giorno;
ma poi che il sol, lasciando il mondo fosco,
alla nutrice antiqua fe' ritorno,
ed orsi e capre e serpi senza tosco
e l'altre fere ebbeno il cielo adorno,
che state erano ascose al maggior lampo,
mosse Rinaldo il taciturno campo:

e venne con Grifon, con Aquilante,
con Vivian, con Alardo e con Guidone,
con Sansonetto, agli altri un miglio inante,
a cheti passi e senza alcun sermone.
Trovò dormir l'ascolta d'Agramante:
tutta l'uccise, e non ne fe' un prigione.
Indi arrivò tra l'altra gente Mora,
che non fu visto né sentito ancora.

Del campo d'infedeli a prima giunta
la ritrovata guardia all'improviso
lasciò Rinaldo sì rotta e consunta,
che un sol non ne restò, se non ucciso.
Spezzata che lor fu la prima punta,
i Saracin non l'avean più da riso,
che sonnolenti, timidi ed inermi,
poteano a tai guerrier far pochi schermi.

Fece Rinaldo per maggior spavento
dei Saracini, al mover de l'assalto,
a trombe e a corni dar subito vento,
e, gridando, il suo nome alzar in alto.
Spinse Baiardo, e quel non parve lento;
che dentro all'alte sbarre entrò d'un salto,
e versò cavallier, pestò pedoni,
ed atterrò trabacche e padiglioni.

Non fu sì ardito tra il popul pagano,
a cui non s'arricciassero le chiome,
quando sentì Rinaldo e Montalbano
sonar per l'aria, il formidato nome.
Fugge col campo d'Africa l'ispano,
né perde tempo a caricar le some;
che aspettar quella furia più non vuole,
che aver provata anco si piagne e duole.

Guidon lo segue, e non fa men di lui;
né men fanno i duo figli d'Oliviero,
Alardo e Ricciardetto, e gli altri dui:
col brando Sansonetto apre il sentiero:
Aldigiero e Vivian provar altrui
fan quanto in arme l'uno e l'altro è fiero.
Così fa ognun che segue lo stendardo
di Chiaramonte, da guerrier gagliardo.

Settecento con lui tenea Rinaldo
in Montalbano e intorno a quelle ville,
usati a portar l'arme al freddo e al caldo,
non già più rei dei Mirmidon d'Achille.
Ciascun d'essi al bisogno era sì saldo,
che cento insieme non fuggian per mille;
e se ne potean molti sceglier fuori,
che d'alcun dei famosi eran migliori.

E se Rinaldo ben non era molto
ricco né di città né di tesoro,
facea sì con parole e con buon volto,
e ciò che avea partendo ognor con loro,
che un di quel numer mai non gli fu tolto
per offerire altrui più somma d'oro.
Questi da Montalban mai non rimuove,
se non lo stringe un gran bisogno altrove.

Ed or, perche abbia il Magno Carlo aiuto,
lasciò con poca guardia il suo castello.
Tra gli African questo drappel venuto,
questo drappel del cui valor favello,
ne fece quel che del gregge lanuto
sul falanteo Galeso il lupo fello,
o quel che soglia, del barbato, appresso
il barbaro Cinifio, il leon spesso.

Carlo, che aviso da Rinaldo avuto
avea che presso era a Parigi giunto,
e che la notte il campo sproveduto
volea assalir, stato era in arme e in punto;
e quando bisognò, venne in aiuto
coi paladini; e ai paladini aggiunto
avea il figliol del ricco Monodante,
di Fiordiligi il fido e saggio amante;

che ella più giorni per sì lunga via
cercato avea per tutta Francia invano.
Quivi all'insegne che portar solia,
fu da lei conosciuto di lontano.
Come lei Brandimarte vide pria,
lasciò la guerra, e tornò tutto umano,
e corse ad abbracciarla; e d'amor pieno,
mille volte baciolla o poco meno.

De le lor donne e de le lor donzelle
si fidar molto a quella antica etade.
Senz'altra scorta andar lasciano quelle
per piani e monti e per strane contrade;
ed al ritorno l'han per buone e belle,
né mai tra lor suspizione accade.
Fiordiligi narrò quivi al suo amante,
che fatto stolto era il signor d'Anglante.

Brandimarte sì strana e ria novella
credere ad altri a pena avria potuto;
ma lo credette a Fiordiligi bella,
a cui già maggior cose avea creduto.
Non pur d'averlo udito gli dice ella,
ma che con gli occhi propri l'ha veduto
(c'ha conoscenza e pratica d'Orlando,
quanto alcun altro), e dice dove e quando

E gli narra del ponte periglioso,
che Rodomonte ai cavallier difende,
ove un sepolcro adorna e fa pomposo
di sopraveste e d'arme di chi prende.
Narra c'ha visto Orlando furioso
far cose quivi orribili e stupende;
che nel fiume il pagan mandò riverso,
con gran periglio di restar summerso.

Brandimarte, che il conte amava quanto
si può compagno amar, fratello o figlio,
disposto di cercarlo, e di far tanto,
non ricusando affanno né periglio,
che per opra di medico o d'incanto
si ponga a quel furor qualche consiglio,
così come trovossi armato in sella,
si mise in via con la sua donna bella.

Verso la parte ove la donna il conte
avea veduto, il lor camin drizzaro,
di giornata in giornata, fin che al ponte
che guarda il re d'Algier, si ritrovaro.
La guardia ne fe' segno a Rodomonte;
e gli scudieri a un tempo gli arrecaro
l'arme e il cavallo: e quel si trovò in punto,
quando fu Brandimarte al passo giunto.

Con voce qual conviene al suo furore
il Saracino a Brandimarte grida:
- Qualunque tu ti sia, che, per errore
di via o di mente, qui tua sorte guida,
scendi e spogliati l'arme, e fanne onore
al gran sepolcro, inanzi che io t'uccida,
e che vittima all'ombre tu sia offerto:
che io il farò poi, né te n'avrò alcun merto. -

Non volse Brandimarte a quell'altiero
altra risposta dar, che de la lancia.
Sprona Batoldo, il suo gentil destriero,
e inverso quel con tanto ardir si lancia,
che mostra che può star d'animo fiero
con qual si voglia al mondo alla bilancia:
e Rodomonte, con la lancia in resta,
lo stretto ponte a tutta briglia pesta.

Il suo destrier che avea continuo uso
d'andarvi sopra, e far di quel sovente
quando uno e quando un altro cader giuso,
alla giostra correa sicuramente;
l'altro, del corso insolito confuso,
venìa dubbioso, timido e tremente.
Trema anco il ponte, e par cader ne l'onda,
oltre che stretto e che sia senza sponda.

I cavallier, di giostra ambi maestri,
che le lance avean grosse come travi,
tali qual fur nei lor ceppi silvestri,
si dieron colpi non troppo soavi.
Ai lor cavalli esser possenti e destri
non giovò molto agli aspri colpi e gravi;
che si versar di pari ambi sul ponte,
e seco i signor lor tutti in un monte.

Nel volersi levar con quella fretta
che lo spronar de' fianchi insta e richiede,
l'asse del ponticel lor fu sì stretta,
che non trovaro ove fermare il piede;
sì che una sorte uguale ambi li getta
ne l'acqua; e gran rimbombo al ciel ne riede,
simile a quel che uscì del nostro fiume,
quando ci cadde il mal rettor del lume.

I duo cavalli con tutto il pondo
dei cavallier, che steron fermi in sella,
a cercar la rivera insin al fondo,
se v'era ascosa alcuna ninfa bella.
Non è già il primo salto né il secondo,
che giù del ponte abbia il pagano in quella
onda spiccato col destrero audace;
però sa ben come quel fondo giace:

sa dove è saldo e sa dove è più molle,
sa dove è l'acqua bassa e dove è l'alta.
Dal fiume il capo e il petto e i fianchi estolle,
e Brandimarte a gran vantaggio assalta.
Brandimarte il corrente in giro tolle:
ne la sabbia il destrier, che il fondo smalta,
tutto si ficca, e non può riaversi,
con rischio di restarvi ambi sommersi.

L'onda si leva e li fa andar sozzopra,
e dove è più profonda li trasporta:
va Brandimarte sotto, e il destrier sopra.
Fiordiligi dal ponte afflitta e smorta
e le lacrime e i voti e i prieghi adopra:
- Ah Rodomonte, per colei che morta
tu riverisci, non esser sì fiero,
che affogar lasci un tanto cavalliero!

Deh, cortese signor, s'unque tu amasti,
di me, che amo costui, pietà ti vegna.
Di farlo tuo prigion, per Dio, ti basti;
che s'orni il sasso tuo di quella insegna,
di quante spoglie mai tu gli arrecasti,
questa fia la più bella e la più degna. -
E seppe sì ben dir, che ancor che fosse
sì crudo il re pagan, pur lo commosse;

e fe' che il suo amator ratto soccorse,
che sotto acqua il destrier tenea sepolto,
e de la vita era venuto in forse,
e senza sete avea bevuto molto.
Ma aiuto non però prima gli porse,
che gli ebbe il brando e dipoi l'elmo tolto.
De l'acqua mezzo morto il trasse, e porre
con molti altri lo fe' ne la sua torre.

Fu ne la donna ogni allegrezza spenta,
quando prigion vide il suo amante gire;
ma di questo pur meglio si contenta,
che di vederlo nel fiume perire.
Di se stessa, e non d'altri, si lamenta,
che fu cagion di farlo ivi venire,
per averli narrato che avea il conte
riconosciuto al periglioso ponte.

Quindi si parte, avendo già concetto
di menarvi Rinaldo paladino,
o il Selvaggio Guidone, o Sansonetto,
o altri de la corte di Pipino,
in acqua e in terra cavallier perfetto
da poter contrastar col Saracino;
se non più forte, almen più fortunato
che Brandimarte suo non era stato.

Va molti giorni, prima che s'abbatta
in alcun cavallier che abbia sembiante
d'esser come lo vuol, perché combatta
col Saracino e liberi il suo amante.
Dopo molto cercar di persona atta
al suo bisogno, un le vien pur avante,
che sopravesta avea ricca ed ornata,
a tronchi di cipressi ricamata.

Chi costui fosse, altrove ho da narrarvi;
che prima ritornar voglio a Parigi,
e de la gran sconfitta seguitarvi,
che a' Mori diè Rinaldo e Malagigi.
Quei che fuggiro io non saprei contarvi,
né quei che fur cacciati ai fiumi stigi.
Levò a Turpino il conto l'aria oscura,
che di contarli s'avea preso cura.

Nel primo sonno dentro al padiglione
dormia Agramante; e un cavallier lo desta,
dicendogli che fia fatto prigione,
se la fuga non è via più che presta.
Guarda il re intorno, e la confusione
vede dei suoi, che van senza far testa
chi qua chi là fuggendo inermi e nudi,
che non han tempo di pur tor gli scudi.

Tutto confuso e privo di consiglio
si facea porre indosso la corazza,
quando con Falsiron vi giunse il figlio,
Grandonio e Balugante e quella razza;
e al re Agramante mostrano il periglio
di restar morto o preso in quella piazza:
e che può dir, se salva la persona,
che Fortuna gli sia propizia e buona.

Così Marsilio e così il buon Sobrino,
e così dicon gli altri ad una voce,
che a sua distruzion tanto è vicino,
quanto a Rinaldo il qual ne vien veloce;
che s'aspetta che giunga il paladino
con tanta gente, e un uom tanto feroce,
render certo si può che egli e i suo' amici
rimarran morti, o in man degli nimici.

Ma ridur si può in Arli o sia in Narbona
con quella poca gente c'ha d'intorno;
che l'una e l'altra terra è forte e buona
da mantener la guerra più d'un giorno:
e quando salva sia la sua persona,
si potrà vendicar di questo scorno,
rifacendo l'esercito in un tratto,
onde al fin Carlo ne sarà disfatto.

Il re Agramante al parer lor s'attenne,
ben che il partito fosse acerbo e duro.
Andò verso Arli, e parve aver le penne,
per quel camin che più trovò sicuro.
Oltre alle guide, in gran favor gli venne
che la partita fu per l'aer scuro.
Ventimila tra d'Africa e di Spagna
fur, che a Rinaldo uscir fuor de la ragna.

Quei che egli uccise e quei che i suoi fratelli,
quei che i duo figli del signor di Vienna,
quei che provaro empi nimici e felli
i settecento a cui Rinaldo accenna,
e quei che spense Sansonetto, e quelli
che ne la fuga s'affogaro in Senna,
chi potesse contar, conteria ancora
ciò che sparge d'april Favonio e Flora.

Istima alcun che Malagigi parte
ne la vittoria avesse de la notte;
non che di sangue le campagne sparte
fosser per lui, né per lui teste rotte:
ma che gli infernali angeli per arte
facesse uscir da le tartaree grotte,
e con tante bandiere e tante lance,
che insieme più non ne porrian due France;

e che facesse udir tanti metalli,
tanti tamburi e tanti varii suoni,
tanti anitriri in voce di cavalli,
tanti gridi e tumulti di pedoni,
che risonare e piani e monti e valli
dovean de le longique regioni:
ed ai Mori con questo un timor diede,
che li fece voltare in fuga il piede.

Non si scordò il re d'Africa Ruggiero,
che era ferito e stava ancora grave.
Quanto poté più acconcio s'un destriero
lo fece por, che avea l'andar soave;
e poi che l'ebbe tratto ove il sentiero
fu più sicuro, il fe' posar in nave,
e verso Arli portar commodamente,
dove s'avea a raccor tutta la gente.

Quei che a Rinaldo e a Carlo dier le spalle
(fur, credo, centomila o poco manco),
per campagne, per boschi e monte e valle
cercaro uscir di man del popul franco;
ma la più parte trovò chiuso il calle,
e fece rosso ov'era verde e bianco.
Così non fece il re di Sericana,
che avea da lor la tenda più lontana:

anzi, come egli sente che il signore
di Montalbano è questo che gli assalta,
gioisce di tal iubilo nel core,
che qua e là per allegrezza salta.
Loda e ringrazia il suo sommo Fattore,
che quella notte gli occorra tant'alta
e sì rara aventura d'acquistare
Baiardo, quel destrier che non ha pare.

Avea quel re gran tempo desiato
(credo che altrove voi l'abbiate letto)
d'aver la buona Durindana a lato,
e cavalcar quel corridor perfetto.
E già con più di centomila armato
era venuto in Francia a questo effetto;
e con Rinaldo già sfidato s'era
per quel cavallo alla battaglia fiera;

e sul lito del mar s'era condutto
ove dovea la pugna diffinire:
ma Malagigi a turbar venne il tutto,
che fe' il cugin, mal grado suo, partire,
avendol sopra un legno in mar ridutto.
Lungo saria tutta l'istoria dire.
Da indi in qua stimò timido e vile
sempre Gradasso il paladin gentile.

Or che Gradasso esser Rinaldo intende
costui che assale il campo, se n'allegra.
Si veste l'arme, e la sua alfana prende,
e cercando lo va per l'aria negra:
e quanti ne riscontra, a terra stende;
ed in confuso lascia afflitta ed egra
la gente, o sia di Libia o sia di Francia:
tutti li mena a un par la buona lancia.

Lo va di qua di là tanto cercando,
chiamando spesso e quanto può più forte,
e sempre a quella parte declinando,
ove più folte son le genti morte,
che al fin s'incontra in lui brando per brando
poi che le lance loro ad una sorte
eran salite in mille schegge rotte
sin al carro stellato de la Notte.

Quando Gradasso il paladin gagliardo
conosce, e non perché ne vegga insegna,
ma per gli orrendi colpi e per Baiardo,
che par che sol tutto quel campo tegna;
non è, gridando, a improverargli tardo
la prova che di sé fece non degna:
che al dato campo il giorno non comparse,
che tra lor la battaglia dovea farse.

Suggiunse poi: - Tu forse avevi speme,
se potevi nasconderti quel punto,
che non mai più per raccozzarci insieme
fossimo al mondo: or vedi che io t'ho giunto.
Sie certo, se tu andassi ne l'estreme
fosse di Stige, o fossi in cielo assunto,
ti seguirò, quando abbi il destrier teco,
ne l'alta luce e giù nel mondo cieco.

Se d'aver meco a far non ti dà il core,
e vedi già che non puoi starmi a paro,
e più stimi la vita che l'onore,
senza periglio ci puoi far riparo,
quando mi lasci in pace il corridore;
e viver puoi, se sì t'è il viver caro:
ma vivi a piè, che non merti cavallo,
s'alla cavalleria fai sì gran fallo. -

A quel parlar si ritrovò presente
con Ricciardetto il cavallier Selvaggio;
e le Spade ambi trassero ugualmente,
per far parere il Serican mal saggio.
Ma Rinaldo s'oppose immantinente,
e non patì che se gli fêsse oltraggio,
dicendo: - Senza voi dunque non sono
a chi m'oltraggia per risponder buono? -

Poi se ne ritornò verso il pagano,
e disse: - Odi, Gradasso; io voglio farte,
e tu m'ascolti, manifesto e piano
che io venni alla marina a ritrovarte:
e poi ti sosterrò con l'arme in mano,
che t'avrò detto il vero in ogni parte;
e sempre che tu dica mentirai,
che alla cavalleria mancass'io mai.

Ma ben ti priego che prima che sia
pugna tra noi, che pianamente intenda
la giustissima e vera scusa mia,
acciò che a torto più non mi riprenda;
e poi Baiardo al termine di pria
tra noi vorrò che a piedi si contenda
da solo a solo in solitario lato,
sì come a punto fu da te ordinato. -

Era cortese il re di Sericana,
come ogni cor magnanimo esser suole;
ed è contento udir la cosa piana,
e come il paladin scusar si vuole.
Con lui ne viene in ripa alla fiumana,
ove Rinaldo in semplici parole
alla sua vera istoria trasse il velo,
e chiamò in testimonio tutto il cielo:

e poi chiamar fece il figliuol di Buovo,
l'uom che di questo era informato a pieno,
che a parte a parte replicò di nuovo
l'incanto suo, né disse più né meno.
Soggiunse poi Rinaldo: - Ciò che io provo
col testimonio, io vo' che l'arme sieno,
che ora e in ogni tempo che ti piace,
te n'abbiano a far prova più verace. -

Il re Gradasso, che lasciar non volle
per la seconda la querela prima,
le scuse di Rinaldo in pace tolle,
ma se son vere o false in dubbio stima.
Non tolgon campo più sul lito molle
di Barcelona, ove lo tolser prima;
ma s'accordaro per l'altra matina
trovarsi a una fontana indi vicina:

ove Rinaldo seco abbia il cavallo,
che posto sia communemente in mezzo:
se il re uccide Rinaldo o il fa vassallo,
se ne pigli il destrier senz'altro mezzo,
ma se Gradasso è quel che faccia fallo,
che sia condotto all'ultimo ribrezzo,
o, per più non poter, che gli si renda,
da lui Rinaldo Durindana prenda.

Con maraviglia molta e più dolore
(come v'ho detto) avea Rinaldo udito
da Fiordiligi bella, che era fuore
de l'intelletto il suo cugino uscito.
Avea de l'arme inteso anco il tenore,
e del litigio che n'era seguito;
e che in somma Gradasso avea quel brando
che ornò di mille e mille palme Orlando.

Poi che furon d'accordo, ritornosse
il re Gradasso ai servitori sui
ben che dal paladin pregato fosse
che ne venisse ad alloggiar con lui.
Come fu giorno, il re pagano armosse;
così Rinaldo: e giunsero ambedui
ove dovea non lungi alla fontana
combattersi Baiardo e Durindana.

De la battaglia che Rinaldo avere
con Gradasso dovea da solo a solo,
parean gli amici suoi tutti temere,
e inanzi il caso ne faceano il duolo.
Molto ardir, molta forza, alto sapere
avea Gradasso; ed or che del figliuolo
del gran Milone avea la spada al fianco,
di timor per Rinaldo era ognun bianco.

E più degli altri il frate di Viviano
stava di questa pugna in dubbio e in tema,
ed anco volentier vi porria mano
per farla rimaner d'effetto scema:
ma non vorria che quel da Montalbano
seco venisse a inimicizia estrema;
che anco avea di quell'altra seco sdegno,
che gli turbò, quando il levò sul legno.

Ma stiano gli altri in dubbio, in tema, in doglia:
Rinaldo se ne va lieto e sicuro,
sperando che ora il biasmo se gli toglia,
che avere a torto gli parea pur duro;
sì che quei da Pontieri e d'Altafoglia
faccia cheti restar, come mai furo.
Va con baldanza e sicurtà di core
di riportarne il trionfale onore.

Poi che l'un quinci e l'altro quindi giunto
fu quasi a un tempo in su la chiara fonte,
s'accarezzaro, e fero a punto a punto
così serena ed amichevol fronte,
come di sangue e d'amistà congiunto
fosse Gradasso a quel di Chiaramonte.
Ma come poi s'andassero a ferire,
vi voglio a un'altra volta differire.





CANTO TRENTADUESIMO


Soviemmi che cantar io vi dovea
(già lo promisi, e poi m'uscì di mente)
d'una sospizion che fatto avea
la bella donna di Ruggier dolente,
de l'altra più spiacevole e più rea,
e di più acuto e venenoso dente,
che per quel che ella udì da Ricciardetto,
a devorare il cor l'entrò nel petto.

Dovea cantarne, ed altro incominciai,
perché Rinaldo in mezzo sopravenne;
e poi Guidon mi diè che fare assai,
che tra camino a bada un pezzo il tenne.
D'una cosa in un'altra in modo entrai,
che mal di Bradamante mi sovenne:
sovienmene ora, e vo' narrarne inanti
che di Rinaldo e di Gradasso io canti.

Ma bisogna anco, prima che io ne parli,
che d'Agramante io vi ragioni un poco,
che avea ridutte le reliquie in Arli,
che gli restar del gran notturno fuoco,
quando a raccor lo sparso campo e a darli
soccorso e vettovaglie era atto il loco:
l'Africa incontra, e la Spagna ha vicina,
ed è in sul fiume assiso alla marina.

Per tutto il regno fa scriver Marsilio
gente a piedi e a cavallo, e trista e buona.
Per forza e per amore ogni navilio
atto a battaglia s'arma in Barcelona.
Agramante ogni dì chiama a concilio;
né a spesa né a fatica si perdona.
Intanto gravi esazioni e spesse
tutte hanno le città d'Africa oppresse.

Egli ha fatto offerire a Rodomonte,
perché ritorni (ed impetrar nol puote),
una cugina sua, figlia d'Almonte,
e il bel regno d'Oran dargli per dote.
Non si volse l'altier muover dal ponte,
ove tant'arme e tante selle vote
di quei che son già capitati al passo
ha ragunate, che ne cuopre il sasso.

Già non volse Marfisa imitar l'atto
di Rodomonte: anzi com'ella intese
che Agramante da Carlo era disfatto,
sue genti morte, saccheggiate e prese,
e che con pochi in Arli era ritratto,
senza aspettare invito, il camin prese:
venne in aiuto de la sua corona,
e l'aver gli proferse e la persona.

E gli menò Brunello, e gli ne fece
libero dono, il qual non avea offeso:
l'avea tenuto dieci giorni e diece
notti sempre in timor d'essere appeso;
e poi che né con forza né con prece
da nessun vide il patrocinio preso,
in sì sprezzato sangue non si volse
bruttar l'altiere mani, e lo disciolse.

Tutte l'antique ingiurie gli remesse,
e seco in Arli ad Agramante il trasse.
Ben dovete pensar che gaudio avesse
il re di lei che ad aiutarlo andasse:
e del gran conto che egli ne facesse,
volse che Brunel prova le mostrasse;
che quel di che ella gli avea fatto cenno,
di volerlo impiccar, fe' da buon senno.

Il manigoldo, in loco inculto ed ermo,
pasto di corvi e d'avoltoi lasciollo.
Ruggier che un'altra volta gli fu schermo,
e che il laccio gli avria tolto dal collo,
la giustizia di Dio fa che ora infermo
s'è ritrovato, ed aiutar non puollo:
e quando il seppe, era già il fatto occorso;
sì che restò Brunel senza soccorso.

Intanto Bradamante iva accusando
che così lunghi sian quei venti giorni,
li quai finiti, il termine era quando
a lei Ruggiero ed alla fede torni.
A chi aspetta di carcere o di bando
uscir, non par che il tempo più soggiorni
a dargli libertade, o de l'amata
patria vista gioconda e disiata.

In quel duro aspettare ella talvolta
pensa che Eto e Piròo sia fatto zoppo;
o sia la ruota guasta, che a dar volta
le par che tardi, oltr'all'usato, troppo.
Più lungo di quel giorno a cui, per molta
fede, nel cielo il giusto Ebreo fe' intoppo,
più de la notte che Ercole produsse,
parea lei che ogni notte, ogni dì fusse.

Oh quante volte da invidiar le diero
e gli orsi e i ghiri e i sonnacchiosi tassi!
che quel tempo voluto avrebbe intero
tutto dormir, che mai non si destassi;
né potere altro udir, fin che Ruggiero
dal pigro sonno lei non richiamassi.
Ma non pur questo non può far, ma ancora
non può dormir di tutta notte un'ora.

Di qua di là va le noiose piume
tutte premendo, e mai non si riposa.
Spesso aprir la finestra ha per costume,
per veder s'anco di Titon la sposa
sparge dinanzi al matutino lume
il bianco giglio e la vermiglia rosa:
non meno ancor, poi che nasciuto è il giorno,
brama vedere il ciel di stelle adorno.

Poi che fu quattro o cinque giorni appresso
il termine a finir, piena di spene
stava aspettando d'ora in ora il messo
che le apportasse: - Ecco Ruggier che viene. -
Montava sopra un'alta torre spesso,
che i folti boschi e le campagne amene
scopria d'intorno, e parte de la via
onde di Francia a Montalban si gìa.

Se di lontano o splendor d'arme vede,
o cosa tal che a cavallier simiglia,
che sia il suo disiato Ruggier crede,
e rasserena i begli occhi e le ciglia;
se disarmato o viandante a piede,
che sia messo di lui speranza piglia:
e se ben poi fallace la ritrova,
pigliar non cessa una ed un'altra nuova.

Credendolo incontrar, talora armossi,
scese dal monte e giù calò nel piano;
né lo trovando, si sperò che fossi
per altra strada giunto a Montalbano:
e col disir con che avea i piedi mossi
fuor del castel, ritornò dentro invano.
Né qua né là trovollo; e passò intanto
il termine aspettato da lei tanto.

Il termine passò d'uno, di dui,
di tre giorni, di sei, d'otto e di venti;
né vedendo il suo sposo, né di lui
sentendo nuova, incominciò lamenti
che avrian mosso a pietà nei regni bui
quelle Furie crinite di serpenti;
e fece oltraggio a' begli occhi divini,
al bianco petto, all'aurei crespi crini.

- Dunque fia ver (dicea) che mi convegna
cercare un che mi fugge e mi s'asconde?
Dunque debbo prezzare un che mi sdegna?
Debbo pregar chi mai non mi risponde?
Patirò che chi m'odia, il cor mi tegna?
un che sì stima sue virtù profonde,
che bisogno sarà che dal ciel scenda
immortal dea che il cor d'amor gli accenda.

Sa questo altier che io l'amo e che io l'adoro,
né mi vuol per amante né per serva.
Il crudel sa che per lui spasmo e moro,
e dopo morte a darmi aiuto serva.
E perché io non gli narri il mio martoro
atto a piegar la sua voglia proterva,
da me s'asconde, come aspide suole,
che, per star empio, il canto udir non vuole.

Deh, ferma, Amor, costui che così sciolto
dinanzi al lento mio correr s'affretta;
o tornami nel grado onde m'hai tolto
quando né a te né ad altri era suggetta!
Deh, come è il mio sperar fallace e stolto,
che in te con prieghi mai pietà si metta;
che ti diletti, anzi ti pasci e vivi
di trar dagli occhi lacrimosi rivi!

Ma di che debbo lamentarmi, ahi lassa
fuor che del mio desire irrazionale?
che alto mi leva, e sì ne l'aria passa,
che arriva in parte ove s'abbrucia l'ale;
poi non potendo sostener, mi lassa
dal ciel cader: né qui finisce il male;
che le rimette, e di nuovo arde: ond'io
non ho mai fine al precipizio mio.

Anzi via più che del disir, mi deggio
di me doler, che sì gli apersi il seno;
onde cacciata ha la ragion di seggio,
ed ogni mio poter può di lui meno.
Quel mi trasporta ognor di male in peggio,
né lo posso frenar, che non ha freno:
e mi fa certa che mi mena a morte,
perche aspettando il mal noccia più forte.

Deh perché voglio anco di me dolermi?
Che error, se non d'amarti, unqua commessi?
Che maraviglia, se fragili e infermi
feminil sensi fur subito oppressi?
Perché dovev'io usar ripari e schermi
che la somma beltà non mi piacessi,
gli alti sembianti e le sagge parole?
Misero è ben chi veder schiva il sole!

Ed oltre al mio destino, io ci fui spinta
da le parole altrui degne di fede:
somma felicità mi fu dipinta,
che esser dovea di questo amor mercede.
Se la persuasione, ohimè! fu finta,
se fu inganno il consiglio che mi diede
Merlin, posso di lui ben lamentarmi,
ma non d'amar Ruggier posso ritrarmi.

Di Merlin posso e di Melissa insieme
dolermi, e mi dorrò d'essi in eterno,
che dimostrare i frutti del mio seme
mi fero dagli spirti de lo 'nferno,
per pormi sol con questa falsa speme
in servitù; né la cagion discerno,
se non che erano forse invidiosi
dei miei dolci, sicuri, almi riposi. -

Sì l'occupa il dolor, che non avanza
loco ove in lei conforto abbia ricetto;
ma, mal grado di quel, vien la speranza
e vi vuole alloggiare in mezzo il petto,
rifrescandole pur la rimembranza
di quel che al suo partir l'ha Ruggier detto:
e vuol, contra il parer degli altri affetti,
che d'ora in ora il suo ritorno aspetti.

Questa speranza dunque la sostenne,
finito i venti giorni, un mese appresso;
sì che il dolor sì forte non le tenne,
come tenuto avria, l'animo oppresso.
Un dì che per la strada se ne venne,
che per trovar Ruggier solea far spesso,
novella udì la misera, che insieme
fe' dietro all'altro ben fuggir la speme.

Venne a incontrare un cavallier guascone
che dal campo african venìa diritto,
ove era stato da quel dì prigione,
che fu inanzi a Parigi il gran conflitto.
Da lei fu molto posto per ragione,
fin che si venne al termine prescritto.
Domandò di Ruggiero, e in lui fermosse;
né fuor di questo segno più si mosse.

Il cavallier buon conto ne rendette,
che ben conoscea tutta quella corte:
e narrò di Ruggier, che contrastette
da solo a solo a Mandricardo forte;
e come egli l'uccise, e poi ne stette
ferito più d'un mese presso a morte:
e s'era la sua istoria qui conclusa,
fatto avria di Ruggier la vera escusa.

Ma come poi soggiunse, una donzella
esser nel campo, nomata Marfisa,
che men non era che gagliarda, bella,
né meno esperta d'arme in ogni guisa;
che lei Ruggiero amava e Ruggiero ella,
che egli da lei, che ella da lui divisa
si vedea raro, e che ivi ognuno crede
che s'abbiano tra lor data la fede;

e che come Ruggier si faccia sano,
il matrimonio publicar si deve;
e che ogni re, ogni principe pagano
gran piacere e letizia ne riceve,
che de l'uno e de l'altro sopraumano
conoscendo il valor, sperano in breve
far una razza d'uomini da guerra
la più gagliarda che mai fosse in terra;

credea il Guascon quel che dicea, non senza
cagion; che ne l'esercito de' Mori
openione e universal credenza,
e publico parlar n'era di fuori.
I molti segni di benivolenza
stati tra lor facean questi romori;
che tosto o buona o ria che la fama esce
fuor d'una bocca, in infinito cresce.

L'esser venuta a' Mori ella in aita
con lui, né senza lui comparir mai,
avea questa credenza stabilita;
ma poi l'avea accresciuta pur assai,
che essendosi del campo già partita
portandone Brunel (come io contai),
senza esservi d'alcuno richiamata,
sol per veder Ruggier v'era tornata.

Sol per lui visitar, che gravemente
languia ferito, in campo venuta era,
non una sola volta, ma sovente;
vi stava il giorno e si partia la sera:
e molto più da dir dava alla gente,
che essendo conosciuta così altiera,
che tutto il mondo a sé le parea vile,
solo a Ruggier fosse benigna e umile;

come il Guascon questo affermò per vero,
fu Bradamante da cotanta pena,
da cordoglio assalita così fiero,
che di quivi cader si tenne a pena.
Voltò, senza far motto, il suo destriero,
di gelosia, d'ira e di rabbia piena;
e da sé discacciata ogni speranza,
ritornò furibonda alla sua stanza.

E senza disarmarsi, sopra il letto,
col viso volta in giù, tutta si stese,
ove per non gridar, sì che sospetto
di sé facesse, i panni in bocca prese;
e ripetendo quel che l'avea detto
il cavalliero, in tal dolor discese,
che più non lo potendo sofferire,
fu forza a disfogarlo, e così a dire:

- Misera! a chi mai più creder debb'io?
Vo' dir che ognuno è perfido e crudele,
se perfido e crudel sei, Ruggier mio,
che sì pietoso tenni e sì fedele.
Qual crudeltà, qual tradimento rio
unqua s'udì per tragiche querele,
che non trovi minor, se pensar mai
al mio merto e al tuo debito vorai?

Perché, Ruggier, come di te non vive
cavallier di più ardir, di più bellezza,
né che a gran pezzo al tuo valore arrive,
né a' tuoi costumi, né a tua gentilezza;
perché non fai che fra tue illustri e dive
virtù, si dica ancor che abbi fermezza?
si dica che abbi inviolabil fede?
a chi ogn'altra virtù s'inchina e cede.

Non sai che non compar, se non v'è quella,
alcun valore, alcun nobil costume?
come né cosa (e sia quanto vuol bella)
si può vedere ove non splenda lume.
Facil ti fu ingannare una donzella
di cui tu signore eri, idolo e nume,
a cui potevi far con tue parole
creder che fosse oscuro e freddo il sole.

Crudel, di che peccato a doler t'hai,
se d'uccider chi t'ama non ti penti?
Se il mancar di tua fé sì leggier fai,
di che altro peso il cor gravar ti senti?
Come tratti il nimico, se tu dai
a me, che t'amo sì, questi tormenti?
Ben dirò che giustizia in ciel non sia,
s'a veder tardo la vendetta mia.

Se d'ogn'altro peccato assai più quello
de l'empia ingratitudine l'uomo grava,
e per questo dal ciel l'angel più bello
fu relegato in parte oscura e cava;
e se gran fallo aspetta gran flagello
quando debita emenda il cor non lava;
guarda che aspro flagello in te non scenda,
che mi se' ingrato e non vuoi farne emenda.

Di furto ancora, oltre ogni vizio rio,
di te, crudele, ho da dolermi molto.
Che tu mi tenga il cor, non ti dico io;
di questo io vo' che tu ne vada assolto:
dico di te, che t'eri fatto mio
e poi contra ragion mi ti sei tolto.
Renditi, iniquo, a me; che tu sai bene
che non si può salvar chi l'altrui tiene.

Tu m'hai, Ruggier, lasciata: io te non voglio,
né lasciarti volendo anco potrei;
ma per uscir d'affanno e di cordoglio,
posso e voglio, finire i giorni miei.
Di non morirti in grazia sol mi doglio;
che se concesso m'avessero i dei
che io fossi morta quando t'era grata,
morte non fu giamai tanto beata. -

Così dicendo, di morir disposta,
salta dal letto, e di rabbia infiammata
si pon la spada alla sinistra costa;
ma si ravvede poi che tutta è armata.
Il miglior spirto in questo le s'accosta,
e nel cor le ragiona: - O donna nata
di tant'alto lignaggio, adunque vuoi
finir con sì gran biasmo i giorni tuoi?

Non è meglio che al campo tu ne vada,
ove morir si può con laude ognora?
Quivi, s'avvien che inanzi a Ruggier cada,
del morir tuo si dorrà forse ancora:
ma s'a morir t'avvien per la sua spada,
chi sarà mai che più contenta muora?
Ragione è ben che di vita ti privi,
poi che è cagion che in tanta pena vivi.

Verrà forse anco che prima che muori
farai vendetta di quella Marfisa
che t'ha con fraudi e disonesti amori,
da te Ruggiero alienando, uccisa. -
Questi pensieri parveno migliori
alla donzella; e tosto una divisa
si fe' su l'arme, che volea inferire
disperazione e voglia di morire.

Era la sopraveste del colore
in che riman la foglia che s'imbianca
quando del ramo è tolta, o che l'umore
che facea vivo l'arbore le manca.
Ricamata a tronconi era, di fuore,
di cipresso che mai non si rinfranca,
poi che ha sentita la dura bipenne;
l'abito al suo dolor molto convenne.

Tolse il destrier che Astolfo aver solea,
e quella lancia d'or, che, sol toccando,
cader di sella i cavallier facea.
Perché la le diè Astolfo, e dove e quando,
e da chi prima avuta egli l'avea,
non credo che bisogni ir replicando.
Ella la tolse, non però sapendo
che fosse del valor che era, stupendo.

Senza scudiero e senza compagnia
scese dal monte, e si pose in camino
verso Parigi alla più dritta via,
ove era dianzi il campo saracino;
che la novella ancora non s'udia,
che l'avesse Rinaldo paladino,
aiutandolo Carlo e Malagigi,
fatto tor da l'assedio di Parigi.

Lasciati avea i Cadurci e la cittade
di Caorse alle spalle, e tutto il monte
ove nasce Dordona, e le contrade
scopria di Monferrante e di Clarmonte,
quando venir per le medesme strade
vide una donna di benigna fronte,
che uno scudo all'arcione avea attaccato;
e le venian tre cavallieri a lato.

Altre donne e scudier venivano anco,
qual dietro e qual dinanzi, in lunga schiera.
Domandò ad un che le passò da fianco,
la figlia d'Amon, chi la donna era;
e quel le disse: - Al re del popul franco
questa donna, mandata messaggera
fin di là dal polo artico, è venuta
per lungo mar da l'Isola Perduta.

Altri Perduta, altri ha nomata Islanda
l'isola, donde la regina d'essa,
di beltà sopra ogni beltà miranda,
dal ciel non mai, se non a lei, concessa,
lo scudo che vedete, a Carlo manda;
ma ben con patto e condizione espressa,
che al miglior cavallier lo dia, secondo
il suo parer, che oggi si trovi al mondo.

Ella, come si stima, e come in vero
è la più bella donna che mai fosse,
così vorria trovare un cavalliero
che sopra ogn'altro avesse ardire e posse:
perché fondato e fisso è il suo pensiero,
da non cader per centomila scosse,
che sol chi terrà in arme il primo onore,
abbia d'esser suo amante e suo signore.

Spera che in Francia, alla famosa corte
di Carlo Magno, il cavallier si trove,
che d'esser più d'ogn'altro ardito e forte
abbia fatto veder con mille prove.
I tre che son con lei come sue scorte,
re sono tutti, e dirovvi anco dove:
uno in Svezia, uno in Gotia, in Norvegia uno,
che pochi pari in arme hanno o nessuno.

Questi tre, la cui terra non vicina,
ma men lontana è all'Isola Perduta
(detta così, perché quella marina
da pochi naviganti è conosciuta),
erano amanti, e son, de la regina,
e a gara per moglier l'hanno voluta;
e per aggradir lei, cose fatt'hanno,
che, fin che giri il ciel, dette saranno.

Ma né questi ella, né alcun altro vuole,
che al mondo in arme esser non creda il primo.
- Che abbiate fatto prove (lor dir suole)
in questi luoghi appresso, poco istimo;
e s'un di voi, qual fra le stelle il sole,
fra gli altri duo sarà, ben lo sublimo:
ma non però che tenga il vanto parme
del miglior cavallier che oggi port'arme.

A Carlo Magno, il quale io stimo e onoro
pel più savio signor che al mondo sia,
son per mandare un ricco scudo d'oro,
con patto e condizion che esso lo dia
al cavalliero il quale abbia fra loro
il vanto e il primo onor di gagliardia.
Sia il cavalliero o suo vasallo o d'altri,
il parer di quel re vo' che mi scaltri.

Se, poi che Carlo avrà lo scudo avuto,
e l'avrà dato a quel sì ardito e forte,
che d'ogn'altro migliore abbia creduto,
che 'n sua si trovi o in alcun'altra corte,
uno di voi sarà, che con l'aiuto
di sua virtù lo scudo mi riporte;
porrò in quello ogni amore, ogni disio,
e quel sarà il marito e il signor mio. -

Queste parole han qui fatto venire
questi tre re dal mar tanto discosto,
che riportarne lo scudo, o morire
per man di chi l'avrà, s'hanno proposto. -
Ste' molto attenta Bradamante a udire
quanto le fu da lo scudier risposto;
il qual poi l'entrò inanzi, e così punse
il suo cavallo, che i compagni giunse.

Dietro non gli galoppa né gli corre
ella; che adagio il suo camin dispensa,
e molte cose tuttavia discorre,
che son per accadere: e in somma pensa
che questo scudo di Francia sia per porre
discordia e rissa e nimicizia immensa
fra paladini ed altri, se vuol Carlo
chiarir chi sia il miglior, e a colui darlo.

Le preme il cor questo pensier; ma molto
più le lo preme e strugge in peggior guisa
quel che ebbe prima, di Ruggier, che tolto
il suo amor le abbia e datolo a Marfisa.
Ogni suo senso in questo è sì sepolto,
che non mira la strada, né divisa
ove arrivar, né se troverà inanzi
commodo albergo ove la notte stanzi.

Come nave, che vento da la riva,
o qualche altro accidente abbia disciolta,
va di nochiero e di governo priva
ove la porti o meni il fiume in volta;
così l'amante giovane veniva,
tutta a pensare al suo Ruggier rivolta,
ove vuol Rabican; che molte miglia
lontano è il cor che de' girar la briglia.

Leva al fin gli occhi, e vede il sol che il tergo
avea mostrato alle città di Bocco,
e poi s'era attuffato, come il mergo,
in grembo alla nutrice oltr'a Marocco:
e se disegna che la frasca albergo
le dia ne' campi, fa pensier di sciocco;
che soffia un vento freddo, e l'aria grieve
pioggia la notte le minaccia o nieve.

Con maggior fretta fa movere il piede
al suo cavallo; e non fece via molta,
che lasciar le campagne a un pastor vede,
che s'avea la sua gregge inanzi tolta.
La donna lui con molta istanza chiede
che le 'nsegni ove possa esser raccolta
o ben o mal; che mal sì non s'alloggia,
che non sia peggio star fuori alla pioggia.

Disse il pastore: - Io non so loco alcuno
che io vi sappia insegnar, se non lontano
più di quattro o di sei leghe, for che uno
che si chiama la rocca di Tristano.
Ma d'alloggiarvi non succede a ognuno;
perché bisogna, con la lancia in mano
che se l'acquisti e che se la difenda
il cavallier che d'alloggiarvi intenda.

Se, quando arriva un cavallier, si trova
vota la stanza, il castellan l'accetta;
ma vuol se sopravien poi gente nuova,
che uscir fuori alla giostra gli prometta.
Se non vien, non accade che si mova:
se vien, forza è che l'arme si rimetta
e con lui giostri, e chi di lor val meno.
ceda l'albergo ed esca al ciel sereno.

Se duo, tre, quattro o più guerrieri a un tratto
vi giungon prima, in pace albergo v'hanno;
e chi di poi vien solo, ha peggior patto,
perché seco giostrar quei più lo fanno.
Così, se prima un sol si sarà fatto
quivi alloggiar, con lui giostrar voranno
in duo, tre, quattro o più che verran dopo;
sì che, s'avrà valor, gli fia a grande uopo.

Non men, se donna capita o donzella,
accompagnata o sola a questa rocca,
e poi v'arrivi un'altra, alla più bella
l'albergo, ed alla men star di fuor tocca. -
Domanda Bradamante ove sia quella;
e il buon pastor non pur dice con bocca,
ma le dimostra il loco anco con mano,
da cinque o dai sei miglia indi lontano.

La donna, ancor che Rabican ben trotte,
solecitar però non lo sa tanto
per quelle vie tutte fangose e rotte
da la stagion che era piovosa alquanto,
che prima arrivi, che la cieca notte
fatt'abbia oscuro il mondo in ogni canto.
Trovò chiusa la porta; e a chi n'avea
la guardia disse che alloggiar volea.

Rispose quel, che era occupato il loco
da donne e da guerrier che venner dianzi,
e stavano aspettando intorno al fuoco
che posta fosse lor la cena inanzi.
- Per lor non credo l'avrà fatta il cuoco,
s'ella v'è ancor, né l'han mangiata inanzi
(disse la donna): or va, che qui gli attendo;
che so l'usanza, e di servarla intendo.-

Parte la guardia, e porta l'imbasciata
là dove i cavallier stanno a grand'agio,
la qual non poté lor troppo esser grata,
che all'aer li fa uscir freddo e malvagio;
ed era una gran pioggia incomminciata.
Si levan pure, e piglian l'arme adagio:
restano gli altri; e quei non troppo in fretta
escono insieme ove la donna aspetta.

Eran tre cavallier che valean tanto,
che pochi al mondo valean più di loro;
ed eran quei che il dì medesmo a canto
veduti a quella messaggiera foro;
quei che in Islanda s'avean dato vanto
di Francia riportar lo scudo d'oro:
e perché avean meglio i cavalli punti,
prima di Bradamante eran giunti.

Di loro in arme pochi erano migliori,
ma di quei pochi ella sarà ben l'una;
che a nessun patto rimaner di fuori
quella notte intendea molle e digiuna.
Quei dentro alle finestre e ai corridori
miran la giostra al lume de la luna,
che mal grado de' nugoli lo spande
e fa veder, ben che la pioggia è grande.

Come s'allegra un bene acceso amante
che ai dolci furti per entrar si trova,
quando al fin senta dopo indugie tante,
che il taciturno chiavistel si muova;
così volontarosa Bradamante
di far di sé coi cavallieri prova,
s'allegrò quando udì le porte aprire,
calare il ponte, e fuor li vide uscire.

Tosto che fuor del ponte i guerrier vede
uscire insieme o con poco intervallo,
si volge a pigliar campo, e di poi riede
cacciando a tutta briglia il buon cavallo,
e la lancia arrestando, che le diede
il suo cugin, che non si corre in fallo,
che fuor di sella è forza che trabocchi,
se fosse Marte, ogni guerrier che tocchi.

Il re di Svezia, che primier si mosse,
fu primier anco a riversciarsi al piano:
con tanta forza l'elmo gli percosse
l'asta che mai non fu abbassata invano.
Poi corse il re di Gotia, e ritrovosse
coi piedi in aria al suo destrier lontano.
Rimase il terzo sottosopra volto,
ne l'acqua e nel pantan mezzo sepolto.

Tosto che ella ai tre colpi tutti gli ebbe
fatto andar coi piedi alti e i capi bassi,
alla rocca ne va, dove aver debbe
la notte albergo; ma prima che passi,
v'è chi la fa giurar che n'uscirebbe,
sempre che a giostrar fuori altri chiamassi.
Il signor de là dentro, che il valore
ben n'ha veduto, le fa grande onore.

Così le fa la donna che venuta
era con quegli tre quivi la sera,
come io dicea, da l'Isola Perduta,
mandata al re di Francia messaggiera.
Cortesemente a lei che la saluta,
sì come graziosa e affabil era,
si leva incontra, e con faccia serena
piglia per mano, e seco al fuoco mena.

La donna, cominciando a disarmarsi,
s'avea lo scudo e dipoi l'elmo tratto;
quando una cuffia d'oro, in che celarsi
soleano i capei lunghi e star di piatto,
uscì con l'elmo; onde caderon sparsi
giù per le spalle, e la scopriro a un tratto
e la feron conoscer per donzella,
non men che fiera in arme, in viso bella.

Quale al cader de le cortine suole
parer fra mille lampade la scena,
d'archi e di più d'una superba mole,
d'oro e di statue e di pitture piena;
o come suol fuor de la nube il sole
scoprir la faccia limpida e serena:
così, l'elmo levandosi dal viso,
mostrò la donna aprisse il paradiso.

Già son cresciute e fatte lunghe in modo
le belle chiome che tagliolle il frate,
che dietro al capo ne può fare un nodo,
ben che non sian come son prima state.
Che Bradamante sia, tien fermo e sodo
(che ben l'avea veduta altre fiate)
il signor de la rocca; e più che prima
or l'accarezza e mostra farne stima.

Siedono al fuoco, e con giocondo e onesto
ragionamento dan cibo all'orecchia,
mentre, per ricreare ancora il resto
del corpo, altra vivanda s'apparecchia.
La donna all'oste domandò se questo
modo d'albergo è nuova usanza o vecchia,
e quando ebbe principio, e chi la pose;
e il cavalliero a lei così rispose:

- Nel tempo che regnava Fieramonte,
Clodione, il figliuolo, ebbe una amica
leggiadra e bella e di maniere conte
quant'altra fosse a quella etade antica;
la quale amava tanto, che la fronte
non rivolgea da lei, più che si dica
che facesse da Ione il suo pastore,
perche avea ugual la gelosia all'amore.

Qui la tenea; che il luogo avuto in dono
avea dal padre, e raro egli n'uscia;
e con lui dieci cavallier ci sono,
e dei miglior di Francia tuttavia.
Qui stando, venne a capitarci il buono
Tristano, ed una donna in compagnia,
liberata da lui poche ore inante,
che traea presa a forza un fier gigante.

Tristano ci arrivò che il sol già volto
avea le spalle ai liti di Siviglia;
e domandò qui dentro esser raccolto,
perché non c'è altra stanza a dieci miglia.
Ma Clodion, che molto amava e molto
era geloso, in somma si consiglia
che forestier, sia chi si voglia, mentre
ci stia la bella donna, qui non entre.

Poi che con lunghe ed iterate preci
non poté aver qui albergo il cavalliero:
- Or quel che far con prieghi io non ti feci,
che il facci (disse) tuo mal grado, spero, -
E sfidò Clodion con tutti i dieci
che tenea appresso, e con un grido altiero
se gli offerse con lancia e spada in mano
provar che discortese era e villano;

con patto, che se fa che con lo stuolo
suo cada in terra, ed ei stia in sella forte,
ne la rocca alloggiar vuole egli solo,
e vuol gli altri serrar fuor de le porte.
Per non patir quest'onta, va il figliuolo
del re di Francia a rischio de la morte;
che aspramente percosso cade in terra,
e cadon gli altri, e Tristan fuor li serra.

Entrato ne la rocca, trova quella
la qual v'ho detta a Clodion sì cara,
e che avea, a par d'ogn'altra, fatto bella
Natura, a dar bellezze così avara.
Con lei ragiona: intanto arde e martella
di fuor l'amante aspra passione amara;
il qual non differisce a mandar prieghi
al cavallier, che dar non gli la nieghi.

Tristano, ancor che lei molto non prezze,
né prezzar, fuor che Isotta, altra potrebbe
(che altra né che ami vuol né che accarezze
la pozion che già incantata bebbe),
pur, perché vendicarsi de l'asprezze
che Clodion gli ha usate si vorebbe:
- Di far gran torto mi parria (gli disse)
che tal bellezza del suo albergo uscisse.

E quando a Clodion dormire incresca
solo alla frasca, e compagnia domandi,
una giovane ho meco bella e fresca,
non però di bellezze così grandi.
Questa sarò contento che fuor esca,
e che ubbidisca a tutti i suoi comandi;
ma la più bella mi par dritto e giusto
che stia con quel di noi che è più robusto. -

Escluso Clodione e malcontento,
andò sbuffando tutta notte in volta,
come s'a quei che ne l'alloggiamento
dormiano ad agio, fêsse egli l'ascolta;
e molto più che del freddo e del vento,
si dolea de la donna che gli è tolta.
La mattina Tristano a cui ne 'ncrebbe,
gli la rendé, donde il dolor fin ebbe:

perché gli disse, e lo fe' chiaro e certo,
che qual trovolla, tal gli la rendea;
e ben che degno era d'ogni onta in merto
de la discortesia che usata avea,
pur contentar d'averlo allo scoperto
fatto star tutta notte si volea:
né l'escusa accettò, che fosse Amore
stato cagion di così grave errore;

che Amor de' far gentile un cor villano,
e non far d'un gentil contrario effetto.
Partito che si fu di qui Tristano,
Clodion non ste' molto a mutar tetto;
ma prima consegnò la rocca in mano
a un cavallier, che molto gli era accetto,
con patto che egli e chi da lui venisse,
quest'uso in albergar sempre seguisse:

che il cavallier che abbia maggior possanza,
e la donna beltà, sempre ci alloggi;
e chi vinto riman, voti la stanza,
dorma sul prato, o altrove scenda e poggi.
E finalmente ci fe' por l'usanza
che vedete durar fin al dì d'oggi. -
Or, mentre il cavallier questo dicea,
lo scalco por la mensa fatto avea.

Fatto l'avea ne la gran sala porre,
di che non era al mondo la più bella;
indi con torchi accesi venne a torre
le belle donne, e le condusse in quella.
Bradamante, all'entrar, con gli occhi scorre,
e similmente fa l'altra donzella;
e tutte piene le superbe mura
veggon di nobilissima pittura.

Di sì belle figure è adorno il loco,
che per mirarle oblian la cena quasi,
ancor che ai corpi non bisogni poco,
pel travaglio del dì lassi rimasi,
e lo scalco si doglia e doglia il coco,
che i cibi lascin raffreddar nei vasi.
Pur fu chi disse: - Meglio fia che voi
pasciate prima il ventre, e gli occhi poi. -

S'erano assisi, e porre alle vivande
voleano man, quando il signor s'avide
che l'alloggiar due donne è un error grande:
l'una ha da star, l'altra convien che snide.
Stia la più bella, e la men fuor si mande,
dove la pioggia bagna e il vento stride.
Perché non vi son giunte amendue a un'ora,
l'una ha a partire, e l'altra a far dimora.

Chiama duo vecchi, e chiama alcune sue
donne di casa, a tal giudizio buone;
e le donzelle mira, e di lor due
chi la più bella sia, fa paragone.
Finalmente parer di tutti fue
che era più bella la figlia d'Amone;
e non men di beltà l'altra vincea,
che di valore i guerrier vinti avea.

Alla donna d'Islanda, che non sanza
molta sospizion stava di questo,
il signor disse: - Che serviàn l'usanza,
non v'ha, donna, a parer se non onesto.
A voi convien procacciar d'altra stanza,
quando a noi tutti è chiaro e manifesto
che costei di bellezze e di sembianti,
ancor che inculta sia, vi passa inanti. -

Come si vede in un momento oscura
nube salir d'umida valle al cielo,
che la faccia che prima era sì pura
cuopre del sol con tenebroso velo;
così la donna alla sentenza dura
che fuor la caccia ove è la pioggia e il gielo,
cangiar si vide, e non parer più quella
che fu pur dianzi sì gioconda e bella.

S'impallidisce e tutta cangia in viso,
che tal sentenza udir poco le aggrada.
Ma Bradamante con un saggio aviso,
che per pietà non vuol che se ne vada,
rispose: - A me non par che ben deciso,
né che ben giusto alcun giudicio cada,
ove prima non s'oda quanto nieghi
la parte o affermi, e sue ragioni alleghi.

Io che a difender questa causa toglio,
dico: o più bella o men che io sia di lei,
non venni come donna qui, né voglio
che sian di donna ora i progressi miei.
Ma chi dirà, se tutta non mi spoglio,
s'io sono o s'io non son quel che è costei?
E quel che non si sa non si de' dire,
e tanto men, quando altri n'ha a patire.

Ben son degli altri ancor, c'hanno le chiome
lunghe, com'io, né donne son per questo.
Se come cavallier la stanza, o come
donna acquistata m'abbia, è manifesto:
perché dunque volete darmi nome
di donna, se di maschio è ogni mio gesto?
La legge vostra vuol che ne sian spinte
donne da donne, e non da guerrier vinte.

Poniamo ancor, che, come a voi pur pare,
io donna sia (che non però il concedo),
ma che la mia beltà non fosse pare
a quella di costei; non però credo
che mi vorreste la mercé levare
di mia virtù, se ben di viso io cedo.
Perder per men beltà giusto non parmi
quel c'ho acquistato per virtù con l'armi.

E quando ancor fosse l'usanza tale,
che chi perde in beltà ne dovesse ire,
io ci vorrei restare, o bene o male
che la mia ostinazion dovesse uscire.
Per questo, che contesa diseguale
è tra me e questa donna, vo' inferire
che, contendendo di beltà, può assai
perdere, e meco guadagnar non mai.

E se guadagni e perdite non sono
in tutto pari, ingiusto è ogni partito:
sì che a lei per ragion, sì ancor per dono
spezial, non sia l'albergo proibito.
E s'alcuno di dir che non sia buono
e dritto il mio giudizio sarà ardito,
sarò per sostenergli a suo piacere,
che il mio sia vero, e falso il suo parere. -

La figliuola d'Amon, mossa a pietade
che questa gentil donna debba a torto
esser cacciata ove la pioggia cade,
ove né tetto, ove né pure è un sporto,
al signor de l'albergo persuade
con ragion molte e con parlare accorto,
ma molto più con quel che al fin concluse,
che resti cheto e accetti le sue scuse.

Qual sotto il più cocente ardore estivo,
quando di ber più desiosa è l'erba,
il fior che era vicino a restar privo
di tutto quell'umor che in vita il serba,
sente l'amata pioggia e si fa vivo;
così, poi che difesa sì superba
si vide apparecchiar la messaggera,
lieta e bella tornò come prim'era.

La cena, stata lor buon pezzo avante,
né ancor pur tocca, al fin godersi in festa,
senza che più di cavalliero errante
nuova venuta fosse lor molesta.
La goder gli altri, ma non Bradamante,
pure all'usanza addolorata e mesta;
che quel timor, che quel sospetto ingiusto
che sempre avea nel cor, le tollea il gusto.

Finita che ella fu (che saria forse
stata più lunga, se il desir non era
di cibar gli occhi), Bradamante sorse,
e sorse appresso a lei la messaggera.
Accennò quel signore ad un che corse
e prestamente allumò molta cera,
che splender fe' la sala in ogni canto.
Quel che seguì dirò ne l'altro canto.





CANTO TRENTATREESIMO


Timagora, Parrasio, Polignoto,
Protogene, Timante, Apollodoro,
Apelle, più di tutti questi noto,
e Zeusi, e gli altri che a quei tempi foro;
di quai la fama (mal grado di Cloto,
che spinse i corpi e dipoi l'opre loro)
sempre starà, fin che si legga e scriva,
mercé degli scrittori, al mondo viva:

e quei che furo a' nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel che a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, che onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e gli altri di cui tal l'opra si vede,
qual de la prisca età si legge e crede:

questi che noi veggiàn pittori, e quelli
che già mille e mill'anni in pregio furo,
le cose che son state, coi pennelli
fatt'hanno, altri su l'asse, altri sul muro.
Non però udiste antiqui, né novelli
vedeste mai dipingere il futuro:
e pur si sono istorie anco trovate,
che son dipinte inanzi che sian state.

Ma di saperlo far non si dia vanto
pittore antico né pittor moderno;
e ceda pur quest'arte al solo incanto,
del qual trieman gli spirti de lo 'nferno.
La sala che io dicea ne l'altro canto,
Merlin col libro, o fosse al lago Averno,
o fosse sacro alle Nursine grotte,
fece far dai demonii in una notte.

Quest'arte, con che i nostri antiqui fenno
mirande prove, a nostra etade è estinta.
Ma ritornando ove aspettar mi denno
quei che la sala hanno a veder dipinta,
dico che a uno scudier fu fatto cenno,
che accese i torchi; onde la notte, vinta
dal gran splendor, si dileguò d'intorno;
né più vi si vedria, se fosse giorno.

Quel signor disse lor: - Vo' che sappiate,
che de le guerre che son qui ritratte,
fin al dì d'oggi poche ne son state;
e son prima dipinte, che sian fatte.
Chi l'ha dipinte, ancor l'ha indovinate.
Quando vittoria avran, quando disfatte
in Italia saran le genti nostre,
potrete qui veder come si mostre.

Le guerre che i Franceschi da far hanno
di là da l'Alpe, o bene o mal successe,
dal tempo suo fin al millesim'anno,
Merlin profeta in questa sala messe;
il qual mandato fu dal re britanno
al franco re che a Marcomir successe:
e perché lo mandassi, e perché fatto
da Merlin fu il lavor, vi dirò a un tratto.

Re Fieramonte, che passò primiero
con l'esercito franco in Gallia il Reno,
poi che quella occupò, facea pensiero
di porre alla superba Italia il freno.
Faceal perciò, che più il romano Impero
vedea di giorno in giorno venir meno:
e per tal causa col britanno Arturo
volse far lega; che ambi a un tempo furo.

Artur, che impresa ancor senza consiglio
del profeta Merlin non fece mai,
di Merlin, dico, del demonio figlio,
che del futuro antivedeva assai,
per lui seppe, e saper fece il periglio
a Fieramonte, a che di molti guai
porrà sua gente, s'entra ne la terra
che Apenin parte, e il mare e l'Alpe serra.

Merlin gli fe' veder che quasi tutti
gli altri che poi di Francia scettro avranno,
o di ferro gli eserciti distrutti,
o di fame o di peste si vedranno;
e che brevi allegrezze e lunghi lutti,
poco guadagno ed infinito danno
riporteran d'Italia; che non lice
che il Giglio in quel terreno abbia radice.

Re Fieramonte gli prestò tal fede,
che altrove disegnò volger l'armata;
e Merlin, che così la cosa vede,
che abbia a venir, come se già sia stata,
avere a' prieghi di quel re si crede
la sala per incanto istoriata,
ove dei Franchi ogni futuro gesto,
come già stato sia, fa manifesto.

Acciò chi poi succederà, comprenda
che, come ha d'acquistar vittoria e onore,
qualor d'Italia la difesa prenda
incontra ogn'altro barbaro furore;
così, s'avvien che a danneggiarla scenda,
per porle il giogo e farsene signore,
comprenda, dico, e rendasi ben certo
che oltre a quei monti avrà il sepulcro aperto. -

Così disse; e menò le donne dove
incomincian l'istorie: e Singiberto
fa lor veder, che per tesor si muove,
che gli ha Maurizio imperatore offerto.
- Ecco che scende dal monte di Giove
nel pian da l'Ambra e dal Ticino aperto.
Vedete Eutar, che non pur l'ha respinto,
ma volto in fuga e fracassato e vinto.

Vedete Clodoveo, che a più di cento
mila persone fa passare il monte:
vedete il duca là di Benevento,
che con numer dispar vien loro a fronte.
Ecco finge lasciar l'alloggiamento,
e pon gli aguati: ecco, con morti ed onte,
al vin lombardo la gente francesca
corre, e riman come la lasca all'esca.

Ecco in Italia Childiberto quanta
gente di Francia e capitani invia;
né più che Clodoveo, si gloria e vanta
che abbia spogliata o vinta Lombardia;
che la spada del ciel scende con tanta
strage de' suoi, che n'è piena ogni via,
morti di caldo e di profluvio d'alvo;
sì che di dieci un non ne torna salvo.

Mostra Pipino, e mostra Carlo appresso,
come in Italia un dopo l'altro scenda,
e v'abbia questo e quel lieto successo,
che venuto non v'è perché l'offenda;
ma l'uno, acciò il pastor Stefano oppresso,
l'altro Adriano, e poi Leon difenda:
l'un doma Aistulfo, e l'altro vince e prende
il successore, e al papa il suo onor rende.

Lor mostra appresso un giovene Pipino,
che con sua gente par che tutto cuopra
da le Fornaci al lito pelestino;
e faccia con gran spesa e con lung'opra
il ponte a Malamocco, e che vicino
giunga a Rialto, e vi combatta sopra.
Poi fuggir sembra, e che i suoi lasci sotto
l'acque; che il ponte il vento e il mar gli han rotto.

- Ecco Luigi Borgognon, che scende
là dove par che resti vinto e preso,
e che giurar gli faccia chi lo prende,
che più da l'arme sue non sarà offeso.
Ecco che il giuramento vilipende;
ecco di nuovo cade al laccio teso;
ecco vi lascia gli occhi, e come talpe
lo riportano i suoi di qua da l'Alpe.

Vedete un Ugo d'Arli far gran fatti,
e che d'Italia caccia i Berengari;
e due o tre volte gli ha rotti e disfatti,
or dagli Unni rimessi, or dai Bavari.
Poi da più forza è stretto di far patti
con l'inimico, e non sta in vita guari;
né guari dopo lui vi sta l'erede,
e il regno intero a Berengario cede.

Vedete un altro Carlo, che a' conforti
del buon Pastor fuoco in Italia ha messo;
e in due fiere battaglie ha duo re morti,
Manfredi prima, e Coradino appresso.
Poi la sua gente, che con mille torti
sembra tenere il nuovo regno oppresso,
di qua e di là per le città divisa,
vedete a un suon di vespro tutta uccisa. -

Lor mostra poi (ma vi parea intervallo
di molti e molti, non che anni, ma lustri)
scender dai monti un capitano Gallo,
e romper guerra ai gran Visconti illustri;
e con gente francesca a piè e a cavallo
par che Alessandria intorno cinga e lustri;
e che il duca il presidio dentro posto,
e fuor abbia l'aguato un po' discosto;

e la gente di Francia malaccorta,
tratta con arte ove la rete è tesa,
col conte Armeniaco, la cui scorta
l'avea condotta all'infelice impresa,
giaccia per tutta la campagna morta,
parte sia tratta in Alessandria presa:
e di sangue non men che d'acqua grosso,
il Tanaro si vede il Po far rosso.

Un, detto de la Marca, e tre Angioini
mostra l'un dopo l'altro, e dice: - Questi
a Bruci, a Dauni, a Marsi, a Salentini
vedete come son spesso molesti.
Ma né de' Franchi val né de' Latini
aiuto sì, che alcun di lor vi resti:
ecco li caccia fuor del regno, quante
volte vi vanno, Alfonso e poi Ferrante.

Vedete Carlo ottavo, che discende
da l'Alpe, e seco ha il fior di tutta Francia,
che passa il Liri e tutto il regno prende
senza mai stringer spada o abbassar lancia,
fuor che lo scoglio che a Tifeo si stende
su le braccia, sul petto e su la pancia;
che del buon sangue d'Avalo al contrasto
la virtù trova d'Inico del Vasto. -

Il signor de la rocca, che venìa
quest'istoria additando a Bradamante,
mostrato che l'ebbe Ischia, disse: - Pria
che a vedere altro più vi meni avante,
io vi dirò quel che a me dir solia
il bisavolo mio, quand'io era infante,
e quel che similmente mi dicea
che da suo padre udito anche esso avea;

e il padre suo da un altro, o padre o fosse
avolo, e l'un da l'altro sin a quello
che a udirlo da quel proprio ritrovosse,
che l'imagini fe' senza pennello,
che qui vedete bianche, azzurre e rosse:
udì che, quando al re mostrò il castello
che or mostro a voi su quest'altiero scoglio,
gli disse quel che a voi riferir voglio.

Udì che gli dicea che in in questo loco
di quel buon cavallier che lo difende
con tanto ardir, che par disprezzi il fuoco
che d'ogn'intorno e sino al Faro incende,
nascer debbe in quei tempi o dopo poco
(e ben gli disse l'anno e le calende)
un cavalliero, a cui sarà secondo
ogn'altro che sin qui sia stato al mondo.

Non fu Nireo sì bel, non sì eccellente
di forze Achille, e non sì ardito Ulisse,
non sì veloce Lada, non prudente
Nestor, che tanto seppe e tanto visse,
non tanto liberal, tanto clemente,
l'antica fama Cesare descrisse;
che verso l'uom che in Ischia nascer deve,
non abbia ogni lor vanto a restar lieve.

E se si gloriò l'antiqua Creta,
quando il nipote in lei nacque di Celo,
se Tebe fece Ercole e Bacco lieta,
se si vantò dei duo gemelli Delo;
né questa isola avrà da starsi cheta,
che non s'esalti e non si levi in cielo,
quando nascerà in lei quel gran marchese
che avrà sì d'ogni grazia il ciel cortese.

Merlin gli disse, e replicògli spesso,
che era serbato a nascere all'etade
che più il romano Imperio saria oppresso,
acciò per lui tornasse in libertade.
Ma perché alcuno de' suoi gesti appresso
vi mostrerò, predirli non accade. -
Così disse; e tornò all'istoria dove
di Carlo si vedean l'inclite prove.

- Ecco (dicea) sì pente Ludovico
d'aver fatto in ltalia venir Carlo;
che sol per travagliar l'emulo antico
chiamato ve l'avea, non per cacciarlo;
e se gli scuopre al ritornar nimico
con Veneziani in lega, e vuol pigliarlo.
Ecco la lancia il re animoso abbassa,
apre la strada e, lor mal grado, passa.

Ma la sua gente che a difesa resta
del nuovo regno, ha ben contraria sorte;
che Ferrante, con l'opra che gli presta
il signor mantuan, torna sì forte,
che in pochi mesi non ne lascia testa,
o in terra o in mar, che non sia messa a morte:
poi per un uom che gli è con fraude estinto,
non par che senta il gaudio d'aver vinto. -

Così dicendo, mostragli il marchese
Alfonso di Pescara, e dice: - Dopo
che costui comparito in mille imprese
sarà più risplendente che piropo,
ecco qui ne l'insidie che gli ha tese
con un trattato doppio il rio Etiopo,
come scannato di saetta cade
il miglior cavallier di quella etade.

Poi mostra ove il duodecimo Luigi
passa con scorta italiana i monti,
e svelto il Moro, pon la Fiordaligi
nel fecondo terren già de' Visconti.
Indi manda sua gente pei vestigi
di Carlo, a far sul Garigliano i ponti;
la quale appresso andar rotta e dispersa
si vede, e morta e nel fiume summersa.

Vedete in Puglia non minor macello
de l'esercito franco in fuga volto;
e Consalvo Ferrante ispano è quello
che due volte alla trappola l'ha colto.
E come qui turbato, così bello
mostra Fortuna al re Luigi il volto
nel ricco pian che, fin dove Adria stride,
tra l'Apenino e l'Alpe il Po divide. -

Così dicendo, se stesso riprende
che quel che avea a dir prima abbia lasciato;
e torna a dietro, e mostra uno che vende
il castel che il signor suo gli avea dato;
mostra il perfido Svizzero che prende
colui che a sua difesa l'ha assoldato:
le quai due cose, senza abbassar lancia,
han dato la vittoria al re di Francia.

Poi mostra Cesar Borgia col favore
di questo re farsi in Italia grande;
che ogni baron di Roma, ogni signore
suggietto a lei, par che in esilio mande.
Poi mostra il re che di Bologna fuore
leva la Sega, e vi fa entrar le Giande;
poi come volge i Genovesi in fuga
fatti ribelli, e la città suggiuga.

- Vedete (dice poi) di gente morta
coperta in Giaradada la campagna.
Par che apra ogni cittade al re la porta,
e che Venezia a pena vi rimagna.
Vedete come al papa non comporta
che, passati i confini di Romagna,
Modana al duca di Ferrara toglia,
né qui si fermi, e il resto tor gli voglia:

e fa, all'incontro, a lui Bologna torre;
che v'entra la Bentivola famiglia.
Vedete il campo de' Francesi porre
a sacco Brescia, poi che la ripiglia;
e quasi a un tempo Felsina soccorre,
e il campo ecclesiastico sgombiglia:
e l'uno e l'altro poi nei luoghi bassi
par si riduca del lito de Chiassi.

Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa
la gente ispana; e la battaglia è grande.
Cader si vede e far la terra rossa
la gente d'arme in amendua le bande.
Piena di sangue uman pare ogni fossa:
Marte sta in dubbio u' la vittoria mande.
Per virtù d'un Alfonso al fin si vede
che resta il Franco, e che l'Ispano cede,

e che Ravenna saccheggiata resta.
Si morde il papa per dolor le labbia,
e fa da' monti, a guisa di tempesta,
scendere in fretta una tedesca rabbia,
che ogni Francese, senza mai far testa,
di qua da l'Alpe par che cacciat'abbia,
e che posto un rampollo abbia del Moro
nel giardino onde svelse i Gigli d'oro.

Ecco torna il Francese: eccolo rotto
da l'infedele Elvezio che in suo aiuto
con troppo rischio ha il giovine condotto,
del quale il padre avea preso e venduto.
Vedete poi l'esercito, che sotto
la ruota di Fortuna era caduto,
creato il novo re, che si prepara
de l'onta vendicar che ebbe a Novara:

e con migliore auspizio ecco ritorna.
Vedete il re Francesco inanzi a tutti,
che così rompe a' Svizzeri le corna,
che poco resta a non gli aver distrutti:
sì che il titolo mai più non gli adorna,
che usurpato s'avran quei villan brutti,
che domator de' principi, e difesa
si nomeran de la cristiana Chiesa.

Ecco, mal grado de la lega, prende
Milano, e accorda il giovene Sforzesco.
Ecco Borbon che la città difende
pel re di Francia dal furor tedesco.
Eccovi poi, che mentre altrove attende
ad altre magne imprese il re Francesco,
né sa quanta superbia e crudeltade
usino i suoi, gli è tolta la cittade.

Ecco un altro Francesco che assimiglia
di virtù all'avo, e non di nome solo;
che, fatto uscirne i Galli, si ripiglia
col favor de la Chiesa il patrio suolo.
Francia anco torna, ma ritien la briglia,
né scorre Italia, come suole, a volo;
che il bon duca di Mantua sul Ticino
le chiude il passo, e le taglia il camino.

Federico, che ancor non ha la guancia
de' primi fiori sparsa, si fa degno
di gloria eterna, che abbia con la lancia,
ma più con diligenza e con ingegno,
Pavia difesa dal furor di Francia,
e del Leon del mar rotto il disegno.
Vedete duo marchesi, ambi terrore
di nostre genti, ambi d'Italia onore;

ambi d'un sangue, ambi in un nido nati.
Di quel marchese Alfonso il primo è figlio,
il qual tratto dal Negro negli aguati,
vedeste il terren far di sé vermiglio.
Vedete quante volte son cacciati
d'Italia i Franchi pel costui consiglio.
L'altro di sì benigno e lieto aspetto
il Vasto signoreggia, e Alfonso è detto.

- Questo è il buon cavallier, di cui dicea,
quando l'isola d'Ischia vi mostrai,
che già profetizzando detto avea
Merlino a Fieramonte cose assai:
che diferire a nascere dovea
nel tempo che d'aiuto più che mai
l'afflitta Italia, la Chiesa e l'Impero
contra ai barbari insulti avria mistiero.

Costui dietro al cugin suo di Pescara
con l'auspicio di Prosper Colonnese,
vedete come la Bicocca cara
fa parere all'Elvezio e più al Francese.
Ecco di nuovo Francia si prepara
di ristaurar le mal successe imprese:
scende il re con un campo in Lombardia,
un altro per pigliar Napoli invia.

Ma quella che di noi fa come il vento
d'arida polve, che l'aggira in volta,
la leva fin al cielo, e in un momento
a terra la ricaccia, onde l'ha tolta;
fa che intorno a Pavia crede di cento
mila persone aver fatto raccolta
il re, che mira a quel che di man gli esce,
non se la gente sua si scema o cresce.

Così per colpa de' ministri avari,
e per bontà del re che se ne fida,
sotto l'insegne si raccoglion rari,
quando la notte il campo all'arme grida,
che si vede assalir dentro ai ripari
dal sagace Spagnuol, che con la guida
di duo del sangue d'Avalo ardiria
farsi nel cielo e ne lo 'nferno via.

Vedete il meglio de la nobiltade
di tutta Francia alla campagna estinto.
Vedete quante lance e quante spade
han d'ogn'intorno il re animoso cinto;
vedete che il destrier sotto gli cade:
né per questo si rende o chiama vinto,
ben che a lui solo attenda, a lui sol corra
lo stuol nimico, e non è chi il soccorra.

Il re gagliardo si difende a piede,
e tutto de l'ostil sangue si bagna:
ma virtù al fine a troppa forza cede.
Ecco il re preso, ed eccolo in Ispagna:
ed a quel di Pescara dar si vede,
ed a chi mai da lui non si scompagna,
a quel del Vasto, le prime corone
del campo rotto e del gran re prigione.

Rotto a Pavia l'un campo, l'altro che era,
per dar travaglio a Napoli, in camino,
restar si vede, come, se la cera
gli manca o l'oglio, resta il lumicino.
Ecco che il re ne la prigione ibera
lascia i figliuoli, e torna al suo domìno:
ecco fa a un tempo egli in Italia guerra;
ecco altri la fa a lui ne la sua terra.

Vedete gli omicidi e le rapine
in ogni parte far Roma dolente;
e con incendi e stupri le divine
e le profane cose ire ugualmente.
Il campo de la lega le ruine
mira d'appresso, e il pianto e il grido sente;
e dove ir dovria inanzi, torna indietro,
e prender lascia il successor di Pietro.

Manda Lotrecco il re con nuove squadre,
non più per fare in Lombardia l'impresa,
ma per levar de le mani empie e ladre
il capo e l'altre membra de la Chiesa;
che tarda sì, che trova al Santo Padre
non esser più la libertà contesa.
Assedia la cittade ove sepolta
è la sirena, e tutto il regno volta.

Ecco l'armata imperial si scioglie
per dar soccorso alla città assediata;
ed ecco il Doria che la via le toglie,
e l'ha nel mar sommersa, arsa e spezzata.
Ecco Fortuna come cangia voglie,
sin qui a' Francesi sì propizia stata;
che di febbre gli uccide, e non di lancia,
sì che di mille un non ne torna in Francia. -

La sala queste ed altre istorie molte,
che tutte saria lungo riferire,
in vari e bei colori avea raccolte;
che era ben tal che le potea capire.
Tornano a rivederle due e tre volte,
né par che se ne sappiano partire;
e rilegon più volte quel che in oro
si vedea scritto sotto il bel lavoro.

Le belle donne e gli altri quivi stati
mirando e ragionando insieme un pezzo,
fur dal signore a riposar menati,
che onorar gli osti suoi molt'era avezzo.
Già sendo tutti gli altri addormentati,
Bradamante a corcar si va da sezzo,
e si volta or su questo or su quel fianco,
né può dormir sul destro né sul manco.

Pur chiude alquanto appresso all'alba i lumi,
e di veder le pare il suo Ruggiero,
il qual le dica: - Perché ti consumi,
dando credenza a quel che non è vero?
Tu vedrai prima all'erta andare i fiumi,
che ad altri mai, che a te, volga il pensiero.
S'io non amassi te, né il cor potrei
né le pupille amar degli occhi miei. -

E par che le suggiunga: - Io son venuto
per battezzarmi e far quanto ho promesso;
e s'io son stato tardi, m'ha tenuto
altra ferita, che d'amore, oppresso. -
Fuggesi in questo il sonno, né veduto
è più Ruggier che se ne va con esso.
Rinuova allora i pianti la donzella,
e ne la mente sua così favella:

- Fu quel che piacque, un falso sogno; e questo
che mi tormenta, ahi lassa! è un veggiar vero.
Il ben fu sogno a dileguarsi presto,
ma non è sogno il martire aspro e fiero.
Perche or non ode e vede il senso desto
quel che udire e veder parve al pensiero?
A che condizione, occhi miei, sete,
che chiusi il ben, e aperti il mal vedete?

Il dolce sonno mi promise pace,
ma l'amaro veggiar mi torna in guerra:
il dolce sonno è ben stato fallace,
ma l'amaro veggiare, ohimè! non erra.
Se il vero annoia, e il falso sì mi piace,
non oda o vegga mai più vero in terra:
se il dormir mi dà gaudio, e il veggiar guai,
possa io dormir senza destarmi mai.

O felice animai che un sonno forte
sei mesi tien senza mai gli occhi aprire!
Che s'assimigli tal sonno alla morte,
tal veggiare alla vita, io non vo' dire;
che a tutt'altre contraria la mia sorte
sente morte a veggiar, vita a dormire:
ma s'a tal sonno morte s'assimiglia,
deh, Morte, or ora chiudimi le ciglia! -

De l'orizzonte il sol fatte avea rosse
l'estreme parti, e dileguato intorno
s'eran le nubi, e non parea che fosse
simile all'altro il cominciato giorno;
quando svegliata Bradamante armosse
per fare a tempo al suo camin ritorno,
rendute avendo grazie a quel signore
del buono albergo e de l'avuto onore.

E trovò che la donna messaggera,
con damigelle sue, con suoi scudieri
uscita de la rocca, venut'era
là dove l'attendean quei tre guerrieri;
quei che con l'asta d'oro essa la sera
fatto avea riversar giù dei destrieri,
e che patito avean con gran disagio
la notte l'acqua e il vento e il ciel malvagio.

Arroge a tanto mal, che a corpo voto
ed essi e i lor cavalli eran rimasi,
battendo i denti e calpestando il loto:
ma quasi lor più incresce, e senza quasi
incresce e preme più, che farà noto
la messaggera, appresso agli altri casi,
alla sua donna, che la prima lancia
gli abbia abbattuti, c'han trovata in Francia.

E presti o di morire, o di vendetta
subito far del ricevuto oltraggio,
acciò la messaggera, che fu detta
Ullania, che nomata più non aggio,
la mala opinion che avea concetta
forse di lor, si tolga del coraggio,
la figliuola d'Amon sfidano a giostra,
tosto che fuor del ponte ella si mostra;

non pensando però che sia donzella,
che nessun gesto di donzella avea.
Bradamante ricusa, come quella
che in fretta gìa, né soggiornar volea.
Pur tanto e tanto fur molesti, che ella,
che negar senza biasmo non potea,
abbassò l'asta, ed a tre colpi in terra
li mandò tutti; e qui finì la guerra:

che senza più voltarsi mostrò loro
lontan le spalle, e dileguossi tosto.
Quei che, per guadagnar lo scudo d'oro,
di paese venian tanto discosto,
poi che senza parlar ritti si foro,
che ben l'avean con ogni ardir deposto,
stupefatti parean di maraviglia,
né verso Ullania ardian d'alzar le ciglia;

che con lei molte volte per camino
dato s'avean troppo orgogliosi vanti:
che non è cavallier né paladino
che al minor di lor tre durasse avanti.
La donna, perché ancor più a capo chino
vadano, e più non sian così arroganti,
fa lor saper che fu femina quella,
non paladin, che li levò di sella.

- Or che dovete (diceva ella), quando
così v'abbia una femina abbattuti,
pensar che sia Rinaldo o che sia Orlando,
non senza causa in tant'onore avuti?
S'un d'essi avrà lo scudo, io vi domando
se migliori di quel che siate suti
contra una donna, contra lor sarete?
Non credo io già, né voi forse il credete.

Questo vi può bastar; né vi bisogna
del valor vostro aver più chiara prova:
e quel di voi che temerario aggogna
far di sé in Francia esperienza nuova,
cerca giungere il danno alla vergogna
in che ieri ed oggi s'è trovato e trova;
se forse egli non stima utile e onore,
qualor per man di tai guerrier si muore. -

Poi che ben certi i cavallieri fece
Ullania, che quell'era una donzella,
la qual fatto avea nera più che pece
la fama lor, che esser solea sì bella;
e dove una bastava, più di diece
persone il detto confermar di quella;
essi fur per voltar l'arme in se stessi,
da tal dolor, da tanta rabbia oppressi.

E da lo sdegno e da la furia spinti,
l'arme si spoglian, quante n'hanno indosso;
né si lascian la spada onde eran cinti,
e del castel la gittano nel fosso:
e giuran, poi che gli ha una donna vinti,
e fatto sul terren battere il dosso,
che, per purgar sì grave error, staranno
senza mai vestir l'arme intero un anno;

e che n'andranno a piè pur tuttavia,
o sia la strada piana, o scenda e saglia;
né, poi che l'anno anco finito sia,
saran per cavalcare o vestir maglia,
s'altr'arme, altro destrier da lor non fia
guadagnato per forza di battaglia.
Così senz'arme, per punir lor fallo,
essi a piè se n'andar, gli altri a cavallo.

Bradamante la sera ad un castello
che alla via di Parigi si ritrova,
di Carlo e di Rinaldo suo fratello,
che avean rotto Agramante, udì la nuova.
Quivi ebbe buona mensa e buono ostello:
ma questo ed ogn'altro agio poco giova;
che poco mangia e poco dorme, e poco,
non che posar, ma ritrovar può loco.

Non però di costei voglio dir tanto,
che io non ritorni a quei duo cavallieri
che d'accordo legato aveano a canto
la solitaria fonte i duo destrieri.
La pugna lor, di che vo' dirvi alquanto,
non è per acquistar terre né imperi,
ma perché Durindana il più gagliardo
abbia ad avere, e a cavalcar Baiardo.

Senza che tromba o segno altro accennasse
quando a muover s'avean, senza maestro
che lo schermo e il ferir lor ricordasse,
e lor pungesse il cor d'animoso estro,
l'uno e l'altro d'accordo il ferro trasse,
e si venne a trovare agile e destro.
I spessi e gravi colpi a farsi udire
incominciaro, ed a scaldarsi l'ire.

Due spade altre non so per prova elette
ad esser ferme e solide e ben dure,
che a tre colpi di quei si fosser rette,
che erano fuor di tutte le misure:
ma quelle fur di tempre sì perfette,
per tante esperienze sì sicure,
che ben poteano insieme riscontrarsi
con mille colpi e più, senza spezzarsi.

Or qua Rinaldo, or là mutando il passo,
con gran destrezza e molta industria ed arte
fuggia di Durindana il gran fracasso,
che sa ben come spezza il ferro e parte.
Ferìa maggior percosse il re Gradasso;
ma quasi tutte al vento erano sparte:
se coglieva talor, coglieva in loco
ove potea gravare e nuocer poco.

L'altro con più ragion sua spada inchina,
e fa spesso al pagan stordir le braccia;
e quando ai fianchi e quando ove confina
la corazza con l'elmo, gli la caccia:
ma trova l'armatura adamantina,
sì che una maglia non ne rompe o straccia.
Se dura e forte la ritrova tanto,
avvien perche ella è fatta per incanto.

Senza prender riposo erano stati
gran pezzo tanto alla battaglia fisi,
che volti gli occhi in nessun mai de' lati
aveano, fuor che nei turbati visi;
quando da un'altra zuffa distornati,
e da tanto furor furon divisi.
Ambi voltaro a un gran strepito il ciglio,
e videro Baiardo in gran periglio.

Vider Baiardo a zuffa con un mostro
che era più di lui grande, ed era augello:
avea più lungo di tre braccia il rostro;
l'altre fattezze avea di vipistrello;
avea la piuma negra come inchiostro;
avea l'artiglio grande, acuto e fello;
occhi di fuoco, e sguardo avea crudele;
l'ale avea grandi, che parean due vele.

Forse era vero augel, ma non so dove
o quando un altro ne sia stato tale.
Non ho veduto mai, né letto altrove,
fuor che in Turpin, d'un sì fatto animale:
questo rispetto a credere mi muove,
che l'augel fosse un diavolo infernale
che Malagigi in quella forma trasse,
acciò che la battaglia disturbasse.

Rinaldo il credette anco, e gran parole
e sconce poi con Malagigi n'ebbe.
Egli già confessar non glielo vuole;
e perché tor di colpa si vorrebbe,
giura pel lume che dà lume al sole,
che di questo imputato esser non debbe.
Fosse augello o demonio, il mostro scese
sopra Baiardo, e con l'artiglio il prese.

Le redine il destrier, che era possente,
subito rompe, e con sdegno e con ira
contra l'augello i calci adopra e il dente;
ma quel veloce in aria si ritira:
indi ritorna, e con l'ugna pungente
lo va battendo, e d'ogn'intorno aggira.
Baiardo offeso, e che non ha ragione
di schermo alcun, ratto a fuggir si pone.

Fugge Baiardo alla vicina selva,
e va cercando le più spesse fronde.
Segue di sopra la pennuta belva
con gli occhi fisi ove la via seconde;
ma pure il buon destrier tanto s'inselva,
che al fin sotto una grotta si nasconde.
Poi che l'alato ne perde la traccia,
ritorna in cielo, e cerca nuova caccia.

Rinaldo e il re Gradasso, che partire
veggono la cagion de la lor pugna,
restan d'accordo quella differire
fin che Baiardo salvino da l'ugna
che per la scura selva il fa fuggire;
con patto, che qual d'essi lo raggiugna,
a quella fonte lo restituisca,
ove la lite lor poi si finisca.

Seguendo, si partir da la fontana,
l'erbe novellamente in terra peste.
Molto da lor Baiardo s'allontana,
che ebbon le piante in seguir lui mal preste.
Gradasso, che non lungi avea l'alfana,
sopra vi salse, e per quelle foreste
molto lontano il paladin lasciosse,
tristo e peggio contento che mai fosse.

Rinaldo perdé l'orme in pochi passi
del suo destrier, che fe' strano viaggio;
che andò rivi cercando, arbori e sassi,
il più spinoso luogo, il più selvaggio,
acciò che da quella ugna si celassi,
che cadendo dal ciel gli facea oltraggio.
Rinaldo, dopo la fatica vana,
ritornò ad aspettarlo alla fontana,

se da Gradasso vi fosse condutto,
sì come tra lor dianzi si convenne.
Ma poi che far si vide poco frutto,
dolente e a piedi in campo se ne venne.
Or torniamo a quell'altro, al quale in tutto
diverso da Rinaldo il caso avvenne.
Non per ragion, ma per suo gran destino
sentì anitrire il buon destrier vicino;

e lo trovò ne la spelonca cava,
da l'avuta paura anco sì oppresso,
che uscire allo scoperto non osava:
perciò l'ha in suo potere il pagan messo.
Ben de la convenzion si raccordava,
che alla fonte tornar dovea con esso;
ma non è più disposto d'osservarla,
e così in mente sua tacito parla:

- Abbial chi aver lo vuol con lite e guerra:
io d'averlo con pace più disio.
Da l'uno all'altro capo de la terra
già venni, e sol per far Baiardo mio.
Or che io l'ho in mano, ben vaneggia ed erra
chi crede che depor lo volesse io.
Se Rinaldo lo vuol, non disconviene,
come io già in Francia, or s'egli in India viene.

Non men sicura a lui fia Sericana,
che già due volte Francia a me sia stata. -
Così dicendo, per la via più piana
ne venne in Arli, e vi trovò l'armata;
e quindi con Baiardo e Durindana
si partì sopra una galea spalmata.
Ma questo a un'altra volta; che or Gradasso,
Rinaldo e tutta Francia a dietro lasso.

Voglio Astolfo seguir, che a sella e a morso,
a uso facea andar di palafreno
l'ippogrifo per l'aria a sì gran corso,
che l'aquila e il falcon vola assai meno.
Poi che de' Galli ebbe il paese scorso
da un mare a l'altro e da Pirene al Reno,
tornò verso ponente alla montagna
che separa la Francia da la Spagna.

Passò in Navarra, ed indi in Aragona,
lasciando a chi il vedea gran maraviglia.
Restò lungi a sinistra Taracona,
Biscaglia a destra, ed arrivò in Castiglia.
Vide Gallizia e il regno d'Ulisbona,
poi volse il corso a Cordova e Siviglia;
né lasciò presso al mar né fra campagna
città, che non vedesse tutta Spagna.

Vide le Gade e la meta che pose
ai primi naviganti Ercole invitto.
Per l'Africa vagar poi si dispose
dal mar d'Atlante ai termini d'Egitto.
Vide le Baleariche famose,
e vide Eviza appresso al camin dritto.
Poi volse il freno, e tornò verso Arzilla
sopra il mar che da Spagna dipartilla.

Vide Marocco, Feza, Orano, Ippona,
Algier, Buzea, tutte città superbe,
c'hanno d'altre città tutte corona,
corona d'oro, e non di fronde o d'erbe.
Verso Biserta e Tunigi poi sprona:
vide Capisse e l'isola d'Alzerbe
e Tripoli e Bernicche e Tolomitta,
sin dove il Nilo in Asia si tragitta.

Tra la marina e la silvosa schena
del fiero Atlante vide ogni contrada.
Poi diè le spalle ai monti di Carena,
e sopra i Cirenei prese la strada;
e traversando i campi de l'arena,
venne a' confin di Nubia in Albaiada.
Rimase dietro il cimiter di Batto
e l'gran tempio d'Amon, che oggi è disfatto.

Indi giunse ad un'altra Tremisenne,
che di Maumetto pur segue lo stilo.
Poi volse agli altri Etiopi le penne,
che contra questi son di là dal Nilo.
Alla città di Nubia il camin tenne
tra Dobada e Coalle in aria a filo.
Questi cristiani son, quei saracini;
e stan con l'arme in man sempre a' confini.

Senapo imperator de la Etiopia,
che in loco tien di scettro in man la croce,
di gente, di cittadi e d'oro ha copia
quindi fin là dove il mar Rosso ha foce;
e serva quasi nostra fede propia,
che può salvarlo da l'esilio atroce.
Gli è, s'io non piglio errore, in questo loco
ove al battesmo loro usano un fuoco.

Dismontò il duca Astolfo alla gran corte
dentro di Nubia, e visitò il Senapo.
Il castello è più ricco assai che forte,
ove dimora d'Etiopia il capo.
Le catene dei ponti e de le porte,
gangheri e chiavistei da piedi a capo,
e finalmente tutto quel lavoro
che noi di ferro usiamo, ivi usan d'oro.

Ancor che del finissimo metallo
vi sia tale abondanza, è pur in pregio.
Colonnate di limpido cristallo
son le gran logge del palazzo regio.
Fan rosso, bianco, verde, azzurro e giallo
sotto i bei palchi un relucente fregio,
divisi tra proporzionati spazi,
rubin, smeraldi, zafiri e topazi.

In mura, in tetti, in pavimenti sparte
eran le perle, eran le ricche gemme.
Quivi il balsamo nasce; e poca parte
n'ebbe appo questi mai Ierusalemme.
Il muschio che a noi vien, quindi si parte;
quindi vien l'ambra, e cerca altre maremme:
vengon le cose in somma da quel canto,
che nei paesi nostri vaglion tanto.

Si dice che il soldan, re de l'Egitto,
a quel re dà tributo e sta suggetto,
perche è in poter di lui dal camin dritto
levare il Nilo, e dargli altro ricetto,
e per questo lasciar subito afflitto
di fame il Cairo e tutto quel distretto.
Senapo detto è dai sudditi suoi;
gli diciàn Presto o Preteianni noi.

Di quanti re mai d'Etiopia foro,
il più ricco fu questi e il più possente;
ma con tutta sua possa e suo tesoro,
gli occhi perduti avea miseramente.
E questo era il minor d'ogni martoro:
molto era più noioso e più spiacente,
che, quantunque ricchissimo si chiame,
cruciato era da perpetua fame.

Se per mangiare o ber quello infelice
venìa cacciato dal bisogno grande,
tosto apparia l'infernal schiera ultrice,
le mostruose arpie brutte e nefande,
che col griffo e con l'ugna predatrice
spargeano i vasi, e rapian le vivande;
e quel che non capia lor ventre ingordo,
vi rimanea contaminato e lordo.

E questo, perche essendo d'anni acerbo,
e vistosi levato in tanto onore,
che, oltre alle ricchezze, di più nerbo
era di tutti gli altri e di più core;
divenne, come Lucifer, superbo,
e pensò muover guerra al suo Fattore.
Con la sua gente la via prese al dritto
al monte onde esce il gran fiume d'Egitto.

Inteso avea che su quel monte alpestre,
che oltre alle nubi e presso al ciel si leva,
era quel paradiso che terrestre
si dice, ove abitò già Adamo ed Eva.
Con camelli, elefanti, e con pedestre
esercito, orgoglioso si moveva
con gran desir, se v'abitava gente,
di farla alle sue leggi ubbidiente.

Dio gli ripresse il temerario ardire,
e mandò l'angel suo tra quelle frotte,
che centomila ne fece morire,
e condannò lui di perpetua notte.
Alla sua mensa poi fece venire
l'orrendo mostro da l'infernal grotte,
che gli rapisce e contamina i cibi,
né lascia che ne gusti o ne delibi.

Ed in desperazion continua il messe
uno che già gli avea profetizzato
che le sue mense non sariano oppresse
da la rapina e da l'odore ingrato,
quando venir per l'aria si vedesse
un cavallier sopra un cavallo alato.
Perché dunque impossibil parea questo,
privo d'ogni speranza vivea mesto.

Or che con gran stupor vede la gente
sopra ogni muro e sopra ogn'alta torre
entrare il cavalliero, immantinente
è chi a narrarlo al re di Nubia corre,
a cui la profezia ritorna a mente;
ed obliando per letizia torre
la fedel verga, con le mani inante
vien brancolando al cavallier volante.

Astolfo ne la piazza del castello
con spaziose ruote in terra scese.
Poi che fu il re condotto inanzi a quello,
inginochiossi, e le man giunte stese,
e disse: - Angel di Dio, Messi novello,
s'io non merto perdono a tante offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.

Del mio error consapevole, non chieggio
né chiederti ardirei gli antiqui lumi.
Che tu lo possa far, ben creder deggio,
che sei de' cari a Dio beati numi.
Ti basti il gran martìr che io non ci veggio,
senza che ognor la fame mi consumi:
almen discaccia le fetide arpie,
che non rapiscan le vivande mie.

E di marmore un tempio ti prometto
edificar de l'alta regia mia,
che tutte d'oro abbia le porte e il tetto,
e dentro e fuor di gemme ornato sia;
e dal tuo santo nome sarà detto,
e del miracol tuo scolpito fia. -
Così dicea quel re che nulla vede,
cercando invan baciare al duca il piede.

Rispose Astolfo: - Né l'angel di Dio,
né son Messia novel, né dal cielo vegno;
ma son mortale e peccatore anche io,
di tanta grazia a me concessa indegno.
Io farò ogn'opra acciò che il mostro rio,
per morte o fuga, io ti levi del regno.
S'io il fo, me non, ma Dio ne loda solo,
che per tuo aiuto qui mi drizzò il volo.

Fa questi voti a Dio, debiti a lui;
a lui le chiese edifica e gli altari. -
Così parlando, andavano ambidui
verso il castello fra i baron preclari.
Il re commanda ai servitori sui
che subito il convito si prepari,
sperando che non debba essergli tolta
la vivanda di mano a questa volta.

Dentro una ricca sala immantinente
apparecchiossi il convito solenne.
Col Senapo s'assise solamente
il duca Astolfo, e la vivanda venne.
Ecco per l'aria lo stridor si sente,
percossa intorno da l'orribil penne;
ecco venir l'arpie brutte e nefande,
tratte dal cielo a odor de le vivande.

Erano sette in una schiera, e tutte
volto di donne avean, pallide e smorte,
per lunga fame attenuate e asciutte,
orribili a veder più che la morte.
L'alaccie grandi avean, deformi e brutte;
le man rapaci, e l'ugne incurve e torte;
grande e fetido il ventre, e lunga coda,
come di serpe che s'aggira e snoda.

Si sentono venir per l'aria, e quasi
si veggon tutte a un tempo in su la mensa
rapire i cibi e riversare i vasi:
e molta feccia il ventre lor dispensa,
tal che gli è forza d'atturare i nasi;
che non si può patir la puzza immensa.
Astolfo, come l'ira lo sospinge,
contra gli ingordi augelli il ferro stringe.

Uno sul collo, un altro su la groppa
percuote, e chi nel petto, e chi ne l'ala;
ma come fera in su 'n sacco di stoppa,
poi langue il colpo, e senza effetto cala:
e quei non vi lasciar piatto né coppa
che fosse intatta, né sgombrar la sala,
prima che le rapine e il fiero pasto
contaminato il tutto avesse e guasto.

Avuto avea quel re ferma speranza
nel duca, che l'arpie gli discacciassi;
ed or che nulla ove sperar gli avanza,
sospira e geme, e disperato stassi.
Viene al duca del corno rimembranza,
che suole aitarlo ai perigliosi passi;
e conchiude tra sé, che questa via
per discacciare i mostri ottima sia.

E prima fa che il re con suoi baroni
di calda cera l'orecchia si serra,
acciò che tutti, come il corno suoni,
non abbiano a fuggir fuor de la terra.
Prende la briglia, e salta sugli arcioni
de l'ippogrifo, ed il bel corno afferra;
e con cenni allo scalco poi commanda
che riponga la mensa e la vivanda.

E così in una loggia s'apparecchia
con altra mensa altra vivanda nuova.
Ecco l'arpie che fan l'usanza vecchia:
Astolfo il corno subito ritrova.
Cli augelli, che non han chiusa l'orecchia,
udito il suon, non puon stare alla prova;
ma vanno in fuga pieni di paura,
né di cibo né d'altro hanno più cura.

Subito il paladin dietro lor sprona:
volando esce il destrier fuor de la loggia,
e col castel la gran città abandona,
e per l'aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l'arpie verso la zona roggia,
tanto che sono all'altissimo monte
ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.

Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di che allo 'nferno vuol scender talotta.
Quivi s'è quella turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giù sin di Cocito in su la proda
scesa, e più là, dove quel suon non oda.

All'infernal caliginosa buca
che apre la strada a chi abandona il lume,
finì l'orribil suon l'inclito duca,
e fe' raccorre al suo destrier le piume.
Ma prima che più inanzi io lo conduca,
per non mi dipartir dal mio costume,
poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,
finire il canto, e riposar mi voglio.





CANTO TRENTAQUATTRESIMO


Oh famelice, inique e fiere arpie
che all'accecata Italia e d'error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggon che una cena
di questi mostri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.

Troppo fallò chi le spelonche aperse,
che già molt'anni erano state chiuse;
onde il fetore e l'ingordigia emerse,
che ad ammorbare Italia si diffuse.
Il bel vivere allora si summerse;
e la quiete in tal modo s'escluse,
che in guerre, in povertà sempre e in affanni
è dopo stata, ed è per star molt'anni:

fin che ella un giorno ai neghitosi figli
scuota la chioma, e cacci fuor di Lete,
gridando lor: - Non fia chi rassimigli
alla virtù di Calai e di Zete?
che le mense dal puzzo e dagli artigli
liberi, e torni a lor mondizia liete,
come essi già quelle di Fineo, e dopo
fe' il paladin quelle del re etiopo. -

Il paladin col suono orribil venne
le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta,
tanto che a piè d'un monte si ritenne,
ove esse erano entrate in una grotta.
L'orecchie attente allo spiraglio tenne,
e l'aria ne sentì percossa e rotta
da pianti e d'urli e da lamento eterno:
segno evidente quivi esser lo 'nferno.

Astolfo si pensò d'entrarvi dentro,
e veder quei c'hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra fin al centro,
e le bolge infernal cercare intorno.
- Di che debbo temer (dicea) s'io v'entro,
che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Satanasso,
e il can trifauce leverò dal passo. -

De l'alato destrier presto discese,
e lo lasciò legato a un arbuscello:
poi si calò ne l'antro, e prima prese
il corno, avendo ogni sua speme in quello.
Non andò molto inanzi, che gli offese
il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello,
più che di pece grave e che di zolfo:
non sta d'andar per questo inanzi Astolfo.

Ma quando va più inanzi, più s'ingrossa
il fumo e la caligine, e gli pare
che andare inanzi più troppo non possa;
che sarà forza a dietro ritornare.
Ecco, non sa che sia, vede far mossa
da la volta di sopra, come fare
il cadavero appeso al vento suole,
che molti dì sia stato all'acqua e al sole.

Sì poco, e quasi nulla era di luce
in quella affumicata e nera strada,
che non comprende e non discerne il duce
chi questo sia che sì per l'aria vada;
e per notizia averne si conduce
a dargli uno o due colpi de la spada.
Stima poi che un spirto esser quel debbia;
che gli par di ferir sopra la nebbia.

Allor sentì parlar con voce mesta:
- Deh, senza fare altrui danno, giù cala!
Pur troppo il negro fumo mi molesta,
che dal fuoco infernal qui tutto esala. -
Il duca stupefatto allor s'arresta,
e dice all'ombra: - Se Dio tronchi ogni ala
al fumo, sì che a te più non ascenda,
non ti dispiaccia che il tuo stato intenda.

E se vuoi che di te porti novella
nel mondo su, per satisfarti sono. -
L'ombra rispose: - Alla luce alma e bella
tornar per fama ancor sì mi par buono,
che le parole è forza che mi svella
il gran desir c'ho d'aver poi tal dono,
e che il mio nome e l'esser mio ti dica,
ben che il parlar mi sia noia e fatica. -

E cominciò: - Signor, Lidia sono io,
del re di Lidia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condannata,
per esser stata al fido amante mio,
mentre io vissi, spiacevole ed ingrata.
D'altre infinite è questa grotta piena,
poste per simil fallo in simil pena.

Sta la cruda Anassarete più al basso,
ove è maggiore il fumo e più martire.
Restò converso al mondo il corpo in sasso
e l'anima qua giù venne a patire,
poi che veder per lei l'afflitto e lasso
suo amante appeso poté sofferire.
Qui presso è Dafne, che or s'avvede quanto
errasse a fare Apollo correr tanto.

Lungo saria se gli infelici spirti
de le femine ingrate, che qui stanno,
volesse ad uno ad uno riferirti;
che tanti son, che in infinito vanno.
Più lungo ancor saria gli uomini dirti,
a' quai l'essere ingrato ha fatto danno,
e che puniti sono in peggior loco,
ove il fumo gli accieca, e cuoce il fuoco.

Perché le donne più facili e prone
a creder son, di più supplicio è degno
chi lor fa inganno. Il sa Teseo e Iasone
e chi turbò a Latin l'antiquo regno;
sallo che incontra sé il frate Absalone
per Tamar trasse a sanguinoso sdegno;
ed altri ed altre: che sono infiniti,
che lasciato han chi moglie e chi mariti.

Ma per narrar di me più che d'altrui,
e palesar l'error che qui mi trasse,
bella, ma altiera più, sì in vita fui,
che non so s'altra mai mi s'aguagliasse:
né ti saprei ben dir, di questi dui,
s'in me l'orgoglio o la beltà avanzasse;
quantunque il fasto o l'alterezza nacque
da la beltà che a tutti gli occhi piacque.

Era in quel tempo in Tracia un cavalliero
estimato il miglior del mondo in arme,
il qual da più d'un testimonio vero
di singular beltà sentì lodarme;
tal che spontaneamente fe' pensiero
di volere il suo amor tutto donarme,
stimando meritar per suo valore,
che caro aver di lui dovessi il core.

In Lidia venne; e d'un laccio più forte
vinto restò, poi che veduta m'ebbe.
Con gli altri cavallier si messe in corte
del padre mio, dove in gran fama crebbe.
L'alto valore e le più d'una sorte
prodezze che mostrò, lungo sarebbe
a raccontarti, e il suo merto infinito,
quando egli avesse a più grato uom servito.

Panfilia e Caria e il regno de' Cilici
per opra di costui mio padre vinse;
che l'esercito mai contra i nimici,
se non quanto volea costui, non spinse.
Costui, poi che gli parve i benefici
suoi meritarlo, un dì col re si strinse
a domandargli in premio de le spoglie
tante arrecate, che io fossi sua moglie.

Fu repulso dal re, che in grande stato
maritar disegnava la figliuola,
non a costui che cavallier privato
altro non tien che la virtude sola:
e il padre mio troppo al guadagno dato,
e all'avarizia, d'ogni vizio scuola,
tanto apprezza costumi, o virtù ammira,
quanto l'asino fa il suon de la lira.

Alceste, il cavallier di che io ti parlo
(che così nome avea), poi che si vede
repulso da chi più gratificarlo
era più debitor, commiato chiede;
e lo minaccia, nel partir, di farlo
pentir che la figliuola non gli diede.
Se n'andò al re d'Armenia, emulo antico
del re di Lidia e capital nimico;

e tanto stimulò, che lo dispose
a pigliar l'arme e far guerra a mio padre.
Esso per l'opre sue chiare e famose
fu fatto capitan di quelle squadre.
Pel re d'Armenia tutte l'altre cose
disse che acquisteria: sol le leggiadre
e belle membra mie volea per frutto
de l'opra sua, vinto che avesse il tutto.

Io non ti potre' esprimere il gran danno
che Alceste al padre mio fa in quella guerra.
Quattro eserciti rompe, e in men d'un anno
lo mena a tal, che non gli lascia terra,
fuor che un castel che alte pendici fanno
fortissimo; e là dentro il re si serra
con la famiglia che più gli era accetta,
e col tesor che trar vi puote in fretta.

Quivi assedionne Alceste; ed in non molto
termine a tal disperazion ne trasse,
che per buon patto avria mio padre tolto
che moglie e serva ancor me gli lasciasse
con la metà del regno, s'indi assolto
restar d'ogni altro danno si sperasse.
Vedersi in breve de l'avanzo privo
era ben certo, e poi morir captivo.

Tentar, prima che accada, si dispone
ogni rimedio che possibil sia;
e me, che d'ogni male era cagione,
fuor de la rocca, ov'era Alceste invia.
Io vo ad Alceste con intenzione
di dargli in preda la persona mia,
e pregar che la parte che vuol tolga
del regno nostro, e l'ira in pace volga.

Come ode Alceste che io vo a ritrovarlo,
mi viene incontra pallido e tremante:
di vinto e di prigione, a riguardarlo,
più che di vincitore, have sembiante.
Io che conosco che arde, non gli parlo
sì come avea già disegnato inante:
vista l'occasion, fo pensier nuovo
conveniente al grado in che io lo trovo.

A maledir comincio l'amor d'esso,
e di sua crudeltà troppo a dolermi,
che iniquamente abbia mio padre oppresso,
e che per forza abbia cercato avermi;
che con più grazia gli saria successo
indi a non molti dì, se tener fermi
saputo avesse i modi cominciati,
che al re ed a tutti noi sì furon grati.

E se ben da principio il padre mio
gli avea negata la domanda onesta
(però che di natura è un poco rio,
né mai si piega alla prima richiesta),
farsi per ciò di ben servir restio
non doveva egli, e aver l'ira sì presta;
anzi, ognor meglio oprando, tener certo
venire in breve al desiato merto.

E quando anco mio padre a lui ritroso
stato fosse, io l'avrei tanto pregato,
che avria l'amante mio fatto mio sposo.
Pur, se veduto io l'avessi ostinato,
avrei fatto tal opra di nascoso,
che di me Alceste si saria lodato.
Ma poi che a lui tentar parve altro modo,
io di mai non l'amar fisso avea il chiodo.

E se ben era a lui venuta, mossa
da la pietà che al mio padre portava,
sia certo che non molto fruir possa
il piacer che al dispetto mio gli dava;
che era per far di me la terra rossa,
tosto che io avessi alla sua voglia prava
con questa mia persona satisfatto
di quel che tutto a forza saria fatto.

Queste parole e simili altre usai,
poi che potere in lui mi vidi tanto;
e il più pentito lo rendei, che mai
si trovasse ne l'eremo alcun santo.
Mi cadde a' piedi, e supplicommi assai,
che col coltel che si levò da canto
(e volea in ogni modo che io il pigliassi)
di tanto fallo suo mi vendicassi.

Poi che io lo trovo tale, io fo disegno
la gran vittoria insin al fin seguire:
gli do speranza di farlo anco degno
che la persona mia potrà fruire,
s'emendando il suo error, l'antiquo regno
al padre mio farà restituire;
e nel tempo a venir vorrà acquistarme
servendo, amando, e non mai più per arme.

Così far mi promesse, e ne la rocca
intatta mi mandò, come a lui venni,
né di baciarmi pur s'ardì la bocca:
vedi s'al collo il giogo ben gli tenni;
vedi se bene Amor per me lo tocca,
se convien che per lui più strali impenni.
Al re d'Armenia andò, di cui dovea
esser per patto ciò che si prendea:

e con quel miglior modo che usar puote,
lo priega che al mio padre il regno lassi,
del qual le terre ha depredate e vote,
ed a goder l'antiqua Armenia passi.
Quel re, d'ira infiammando ambe le gote,
disse ad Alceste che non vi pensassi;
che non si volea tor da quella guerra,
fin che mio padre avea palmo di terra.

E s'Alceste è mutato alle parole
d'una vil feminella, abbiasi il danno.
Già a' prieghi esso di lui perder non vuole
quel che a fatica ha preso in tutto un anno.
Di nuovo Alceste il priega, e poi si duole
che seco effetto i prieghi suoi non fanno.
All'ultimo s'adira, e lo minaccia
che vuol, per forza o per amor, lo faccia.

L'ira multiplicò sì, che li spinse
da le male parole ai peggior fatti.
Alceste contra il re la spada strinse
fra mille che in suo aiuto s'eran tratti,
e mal grado lor tutti, ivi l'estinse;
e quel dì ancor gli Armeni ebbe disfatti,
con l'aiuto de' Cilici e de' Traci
che pagava egli, e d'altri suoi seguaci.

Seguitò la vittoria, ed a sue spese,
senza dispendio alcun del padre mio,
ne rendé tutto il regno in men d'un mese.
Poi per ricompensarne il danno rio,
oltr'alle spoglie che ne diede, prese
in parte, e gravò in parte di gran fio
Armenia e Capadocia che confina,
e scorse Ircania fin su la marina.

In luogo di trionfo, al suo ritorno,
facemmo noi pensier dargli la morte.
Restammo poi, per non ricever scorno;
che lo veggiàn troppo d'amici forte.
Fingo d'amarlo, e più di giorno in giorno
gli do speranza d'essergli consorte;
ma prima contra altri nimici nostri
dico voler che sua virtù dimostri.

E quando sol, quando con poca gente
lo mando a strane imprese e perigliose,
da farne morir mille agevolmente:
ma lui successer ben tutte le cose;
che tornò con vittoria, e fu sovente
con orribil persone e mostruose,
con Griganti a battaglia e Lestrigoni,
che erano infesti a nostre regioni.

Non fu da Euristeo mai, non fu mai tanto
da la matrigna esercitato Alcide
in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto,
alle valli d'Etolia, alle Numide,
sul Tevre, su l'Ibero e altrove; quanto
con prieghi finti e con voglie omicide
esercitato fu da me il mio amante,
cercando io pur di torlomi davante.

Né potendo venire al primo intento,
vengone ad un di non minore effetto:
gli fo quei tutti ingiuriar, che io sento
che per lui sono, e a tutti in odio il metto.
Egli che non sentia maggior contento
che d'ubbidirmi, senza alcun rispetto
le mani ai cenni miei sempre avea pronte,
senza guardare un più d'un altro in fronte.

Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso
spento aver del mio padre ogni nimico,
e per lui stesso Alceste aver conquiso,
che non si avea, per noi, lasciato amico;
quel che io gli avea con simulato viso
celato fin allor, chiaro gli esplico:
che grave e capitale odio gli porto,
e pur tuttavia cerco che sia morto.

Considerando poi, s'io lo facessi,
che in publica ignominia ne verrei
(sapeasi troppo quanto io gli dovessi,
e crudel detta sempre ne sarei),
mi parve fare assai che io gli togliessi
di mai venir più inanzi agli occhi miei.
Né veder né parlar mai più gli volsi,
né messo udio, né lettera ne tolsi.

Questa mia ingratitudine gli diede
tanto martìr, che al fin dal dolor vinto,
e dopo un lungo domandar mercede,
infermo cadde, e ne rimase estinto.
Per pena che al fallir mio si richiede,
or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto
del negro fumo: e così avrò in eterno;
che nulla redenzione è ne l'inferno. -

Poi che non parla più Lidia infelice,
va il duca per saper s'altri vi stanzi:
ma la caligine alta che era ultrice
de l'opre ingrate, si gli ingrossa inanzi,
che andare un palmo sol più non gli lice;
anzi a forza tornar gli conviene, anzi,
perché la vita non gli sia intercetta
dal fumo, i passi accelerar con fretta.

Il mutar spesso de le piante ha vista
di corso, e non di chi passeggia o trotta.
Tanto, salendo inverso l'erta, acquista,
che vede dove aperta era la grotta;
e l'aria, già caliginosa e trista,
dal lume cominciava ad esser rotta.
Al fin con molto affanno e grave ambascia
esce de l'antro, e dietro il fumo lascia.

E perché del tornar la via sia tronca
a quelle bestie c'han sì ingorde l'epe,
raguna sassi, e molti arbori tronca,
che v'eran qual d'amomo e qual di pepe;
e come può, dinanzi alla spelonca
fabrica di sua man quasi una siepe:
e gli succede così ben quell'opra,
che più l'arpie non torneran di sopra.

Il negro fumo de la scura pece,
mentre egli fu ne la caverna tetra,
non macchiò sol quel che apparia, ed infece,
ma sotto i panni ancora entra e penètra;
sì che per trovare acqua andar lo fece
cercando un pezzo; e al fin fuor d'una pietra
vide una fonte uscir ne la foresta,
ne la qual si lavò dal piè alla testa.

Poi monta il volatore, e in aria s'alza
per giunger di quel monte in su la cima,
che non lontan con la superna balza
dal cerchio de la luna esser si stima.
Tanto è il desir che di veder lo 'ncalza,
che al cielo aspira, e la terra non stima.
De l'aria più e più sempre guadagna,
tanto che al giogo va de la montagna.

Zafir, rubini, oro, topazi e perle,
e diamanti e crisoliti e iacinti
potriano i fiori assimigliar, che per le
liete piaggie v'avea l'aura dipinti:
sì verdi l'erbe, che possendo averle
qua giù, ne fôran gli smeraldi vinti;
né men belle degli arbori le frondi,
e di frutti e di fior sempre fecondi.

Cantan fra i rami gli augelletti vaghi
azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli.
Murmuranti ruscelli e cheti laghi
di limpidezza vincono i cristalli.
Una dolce aura che ti par che vaghi
a un modo sempre e dal suo stil non falli,
facea sì l'aria tremolar d'intorno,
che non potea noiar calor del giorno:

e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura
gli odor diversi depredando giva,
e di tutti faceva una mistura
che di soavità l'alma notriva.
Surgea un palazzo in mezzo alla pianura,
che acceso esser parea di fiamma viva:
tanto splendore intorno e tanto lume
raggiava, fuor d'ogni mortal costume.

Astolfo il suo destrier verso il palagio
che più di trenta miglia intorno aggira,
a passo lento fa muovere ad agio,
e quinci e quindi il bel paese ammira;
e giudica, appo quel, brutto e malvagio,
e che sia al ciel ed a natura in ira
questo che abitian noi fetido mondo:
tanto è soave quel, chiaro e giocondo.

Come egli è presso al luminoso tetto,
attonito riman di maraviglia;
che tutto d'una gemma è il muro schietto,
più che carbonchio lucida e vermiglia.
O stupenda opra, o dedalo architetto!
Qual fabrica tra noi le rassimiglia?
Taccia qualunque le mirabil sette
moli del mondo in tanta gloria mette.

Nel lucente vestibulo di quella
felice casa un vecchio al duca occorre,
che il manto ha rosso, e bianca la gonnella,
che l'un può al latte, e l'altro al minio opporre.
I crini ha bianchi, e bianca la mascella
di folta barba che al petto discorre;
ed è sì venerabile nel viso,
che un degli eletti par del paradiso.

Costui con lieta faccia al paladino,
che riverente era d'arcion disceso,
disse: - O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso;
pur credi che non senza alto misterio
venuto sei da l'artico emisperio.

Per imparar come soccorrer déi
Carlo, e la santa fé tor di periglio
venuto meco a consigliar ti sei
per così lunga via, senza consiglio.
Né a tuo saper, né a tua virtù vorrei
che esser qui giunto attribuissi, o figlio;
che né il tuo corno, né il cavallo alato
ti valea, se da Dio non t'era dato.

Ragionerem più ad agio insieme poi,
e ti dirò come a procedere hai:
ma prima vienti a ricrear con noi;
che il digiun lungo de' noiarti ormai. -
Continuando il vecchio i detti suoi,
fece meravigliare il duca assai,
quando scoprendo il nome suo, gli disse
esser colui che l'evangelio scrisse:

quel tanto al Redentor caro Giovanni,
per cui il sermone tra i fratelli uscìo,
che non dovea per morte finir gli anni;
sì che fu causa che il figliuol di Dio
a Pietro disse: - Perché pur t'affanni,
s'io vo' che così aspetti il venir mio? -
Ben che non disse: egli non de' morire,
si vede pur che così volse dire.

Quivi fu assunto, e trovò compagnia,
che prima Enoch, il patriarca, v'era;
eravi insieme il gran profeta Elia,
che non han vista ancor l'ultima sera;
e fuor de l'aria pestilente e ria
si goderan l'eterna primavera,
fin che dian segno l'angeliche tube,
che torni Cristo in su la bianca nube.

Con accoglienza grata il cavalliero
fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un'altra al suo destriero
di buona biada, che gli fu a bastanza.
De' frutti a lui del paradiso diero,
di tal sapor, che a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti,
se per quei fur sì poco ubbidienti.

Poi che a natura il duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi ebbe;
lasciando già l'Aurora il vecchio sposo,
che ancor per lunga età mai non l'increbbe,
si vide incontra ne l'uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;

che lo prese per mano, e seco scorse
di molte cose di silenzio degne:
e poi disse: - Figliuol, tu non sai forse
che in Francia accada, ancor che tu ne vegne.
Sappi che il vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commesse insegne,
è punito da Dio, che più s'accende
contra chi egli ama più, quando s'offende.

Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
somma possanza Dio con sommo ardire,
e fuor de l'uman uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
così voluto l'ha costituire,
come Sansone incontra a' Filistei
costituì a difesa degli Ebrei:

renduto ha il vostro Orlando al suo Signore
di tanti benefici iniquo merto;
che quanto aver più lo dovea in favore,
n'è stato il fedel popul più deserto.
Sì accecato l'avea l'incesto amore
d'una pagana, che avea già sofferto
due volte e più venire empio e crudele,
per dar la morte al suo cugin fedele.

E Dio per questo fa che egli va folle,
e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e l'intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco.
A questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir anco,
che sette anni il mandò il furor pieno,
sì che, qual bue, pasceva l'erba e il fieno.

Ma perche assai minor del paladino,
che di Nabucco, è stato pur l'eccesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t'ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda,
come ad Orlando il suo senno si renda.

Gli è ver che ti bisogna altro viaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la luna a menar t'aggio,
che dei pianeti a noi più prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra.
Come la luna questa notte sia
sopra noi giunta, ci porremo in via. -

Di questo e d'altre cose fu diffuso
il parlar de l'apostolo quel giorno.
Ma poi che il sol s'ebbe nel mar rinchiuso,
e sopra lor levò la luna il corno,
un carro apparecchiòsi, che era ad uso
d'andar scorrendo per quei cieli intorno:
quel già ne le montagne di Giudea
da' mortali occhi Elia levato avea.

Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l'aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che il vecchio fe' miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.

Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò che in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.

Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e che aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi la terra e il mar che intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l'imagin lor poco alta si conduce.

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c'han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l'apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel che in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe che eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro.

Ami d'oro e d'argento appresso vede
in una massa, che erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi che in laude dei signor si fanno.

Di nodi d'oro e di gemmati ceppi
vede c'han forma i mal seguiti amori.
V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi,
l'autorità che ai suoi danno i signori.
I mantici che intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.

Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l'opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
che era il servir de le misere corti.

Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor che importe.
- L'elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte. -
Di vari fiori ad un gran monte passa,
che ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.

Vide gran copia di panie con visco,
che erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l'occurrenze nostre:
sol la pazzia non v'è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
che egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n'era quivi un monte,
solo assai più che l'altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d'Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l'altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d'Orlando.

E così tutte l'altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti che egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n'era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de' signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d'altro aprezze.
Di sofisti e d'astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n'era molto.

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l'oscura Apocalisse.
L'ampolla in che era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
che Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma che uno error che fece poi, fu quello
che un'altra volta gli levò il cervello.

La più capace e piena ampolla, ov'era
il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera,
come stimò, con l'altre essendo a monte.
Prima che il paladin da quella sfera
piena di luce alle più basse smonte,
menato fu da l'apostolo santo
in un palagio ov'era un fiume a canto;

che ogni sua stanza avea piena di velli
di lin, di seta, di coton, di lana,
tinti in vari colori e brutti e belli.
Nel primo chiostro una femina cana
fila a un aspo traea da tutti quelli,
come veggiàn l'estate la villana
traer dai bachi le bagnate spoglie,
quando la nuova seta si raccoglie.

V'è chi, finito un vello, rimettendo
ne viene un altro, e chi ne porta altronde:
un'altra de le filze va scegliendo
il bel dal brutto che quella confonde.
- Che lavor si fa qui, che io non l'intendo? -
dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde:
- Le vecchie son le Parche, che con tali
stami filano vite a voi mortali.

Quanto dura un de' velli, tanto dura
l'umana vita, e non di più un momento.
Qui tien l'occhio e la Morte e la Natura,
per saper l'ora che un debba esser spento.
Sceglier le belle fila ha l'altra cura,
perché si tesson poi per ornamento
del paradiso; e dei più brutti stami
si fan per li dannati aspri legami. -

Di tutti i velli che erano già messi
in aspo, e scelti a farne altro lavoro,
erano in brevi piastre i nomi impressi,
altri di ferro, altri d'argento o d'oro:
e poi fatti n'avean cumuli spessi,
de' quali, senza mai farvi ristoro,
portarne via non si vedea mai stanco
un vecchio, e ritornar sempre per anco.

Era quel vecchio sì espedito e snello,
che per correr parea che fosse nato;
e da quel monte il lembo del mantello
portava pien del nome altrui segnato.
Ove n'andava, e perché facea quello,
ne l'altro canto vi sarà narrato,
se d'averne piacer segno farete
con quella grata udienza che solete.





CANTO TRENTACINQUESIMO


Chi salirà per me, madonna, in cielo
a riportarne il mio perduto ingegno?
che, poi che uscì da' bei vostri occhi il telo
che il cor mi fisse, ognor perdendo vegno.
Né di tanta iattura mi querelo,
pur che non cresca, ma stia a questo segno;
che io dubito, se più si va scemando,
di venir tal, qual ho descritto Orlando.

Per riaver l'ingegno mio m'è aviso
che non bisogna che per l'aria io poggi
nel cerchio de la luna o in paradiso;
che il mio non credo che tanto alto alloggi.
Ne' bei vostri occhi e nel sereno viso,
nel sen d'avorio e alabastrini poggi
se ne va errando; ed io con queste labbia
lo corrò, se vi par che io lo riabbia.

Per gli ampli tetti andava il paladino
tutte mirando le future vite,
poi che ebbe visto sul fatal molino
volgersi quelle che erano già ordite:
e scorse un vello che più che d'or fino
splender parea; né sarian gemme trite,
s'in filo si tirassero con arte,
da comparargli alla millesma parte.

Mirabilmente il bel vello gli piacque,
che tra infiniti paragon non ebbe;
e di sapere alto disio gli nacque,
quando sarà tal vita, e a chi si debbe.
L'evangelista nulla gliene tacque:
che venti anni principio prima avrebbe
che col .M. e col .D. fosse notato
l'anno corrente dal Verbo incarnato,

E come di splendore e di beltade
quel vello non avea simile o pare,
così saria la fortunata etade
che dovea uscirne al mondo singulare;
perché tutte le grazie inclite e rade
che alma Natura, o proprio studio dare,
o benigna Fortuna ad uomo puote,
avrà in perpetua ed infallibil dote.

- Del re de' fiumi tra l'altiere corna
or siede umil (diceagli) e piccol borgo:
dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna
d'alta palude un nebuloso gorgo;
che, volgendosi gli anni, la più adorna
di tutte le città d'Italia scorgo,
non pur di mura e d'ampli tetti regi,
ma di bei studi e di costumi egregi.

Tanta esaltazione e così presta,
non fortuìta o d'aventura casca;
ma l'ha ordinata il ciel, perché sia questa
degna in che l'uom di che io ti parlo, nasca:
che, dove il frutto ha da venir, s'inesta
e con studio si fa crescer la frasca;
e l'artefice l'oro affinar suole,
in che legar gemma di pregio vuole.

Né sì leggiadra né sì bella veste
unque ebbe altr'alma in quel terrestre regno;
e raro è sceso e scenderà da queste
sfere superne un spirito sì degno,
come per farne Ippolito da Este
n'have l'eterna mente alto disegno.
Ippolito da Este sarà detto
l'uom a chi Dio sì ricco dono ha eletto.

Quegli ornamenti che divisi in molti,
a molti basterian per tutti ornarli,
in suo ornamento avrà tutti raccolti
costui, di c'hai voluto che io ti parli.
Le virtudi per lui, per lui soffolti
saran gli studi; e s'io vorrò narrar li
alti suoi merti, al fin son sì lontano,
che Orlando il senno aspetterebbe invano. -

Così venìa l'imitator di Cristo
ragionando col duca: e poi che tutte
le stanze del gran luogo ebbono visto,
onde l'umane vite eran condutte,
sul fiume usciro, che d'arena misto
con l'onde discorrea turbide e brutte;
e vi trovar quel vecchio in su la riva,
che con gli impressi nomi vi veniva.

Non so se vi sia a mente, io dico quello
che al fin de l'altro canto vi lasciai,
vecchio di faccia, e sì di membra snello,
che d'ogni cervio è più veloce assai.
Degli altrui nomi egli si empìa il mantello;
scemava il monte, e non finiva mai:
ed in quel fiume che Lete si noma,
scarcava, anzi perdea la ricca soma.

Dico che, come arriva in su la sponda
del fiume, quel prodigo vecchio scuote
il lembo pieno, e ne la turbida onda
tutte lascia cader l'impresse note.
Un numer senza fin se ne profonda,
che un minimo uso aver non se ne puote;
e di cento migliaia che l'arena
sul fondo involve, un se ne serva a pena.

Lungo e d'intorno quel fiume volando
givano corvi ed avidi avoltori,
mulacchie e vari augelli, che gridando
facean discordi strepiti e romori;
ed alla preda correan tutti, quando
sparger vedean gli amplissimi tesori:
e chi nel becco, e chi ne l'ugna torta
ne prende; ma lontan poco li porta.

Come vogliono alzar per l'aria i voli,
non han poi forza che il peso sostegna;
sì che convien che Lete pur involi
de' ricchi nomi la memoria degna.
Fra tanti augelli son duo cigni soli,
bianchi, Signor, come è la vostra insegna,
che vengon lieti riportando in bocca
sicuramente il nome che lor tocca.

Così contra i pensieri empi e maligni
del vecchio che donar li vorria al fiume,
alcuno ne salvan gli augelli benigni:
tutto l'avanzo oblivion consume.
Or se ne van notando i sacri cigni,
ed or per l'aria battendo le piume,
fin che presso alla ripa del fiume empio
trovano un colle, e sopra il colle un tempio.

All'Inmmortalitade il luogo è sacro,
ove una bella ninfa giù del colle
viene alla ripa del leteo lavacro,
e di bocca dei cigni i nomi tolle;
e quelli affige intorno al simulacro
che in mezzo il tempio una colonna estolle,
quivi li sacra, e ne fa tal governo,
che vi si pôn veder tutti in eterno.

Chi sia quel vecchio, e perché tutti al rio
senza alcun frutto i bei nomi dispensi,
e degli augelli, e di quel luogo pio
onde la bella ninfa al fiume viensi,
aveva Astolfo di saper desio
i gran misteri e gli incogniti sensi;
e domandò di tutte queste cose
l'uomo di Dio, che così gli rispose:

- Tu déi saper che non si muove fronda
là giù che segno qui non se ne faccia.
Ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa faccia.
Quel vecchio, la cui barba il petto inonda,
veloce sì che mai nulla l'impaccia,
gli effetti pari e la medesima opra
che il Tempo fa là giù, fa qui di sopra.

Volte che son le fila in su la ruota,
là giù la vita umana arriva al fine.
La fama là, qui ne riman la nota;
che immortali sariano ambe e divine,
se non che qui quel da la irsuta gota,
e là giù il Tempo ognor ne fa rapine.
Questi le getta, come vedi, al rio;
e quel l'immerge ne l'eterno oblio.

E come qua su i corvi e gli avoltori
e le mulacchie e gli altri varii augelli
s'affaticano tutti per trar fuori
de l'acqua i nomi che veggion più belli:
così là giù ruffiani, adulatori,
buffon, cinedi, accusatori, e quelli
che viveno alle corti e che vi sono
più grati assai che il virtuoso e il buono,

e son chiamati cortigian gentili,
perché sanno imitar l'asino e il ciacco;
de' lor signor, tratto che n'abbia i fili
la giusta Parca, anzi Venere e Bacco,
questi di che io ti dico, inerti e vili,
nati solo ad empir di cibo il sacco,
portano in bocca qualche giorno il nome;
poi ne l'oblio lascian cader le some.

Ma come i cigni che cantando lieti
rendeno salve le medaglie al tempio,
così gli uomini degni da' poeti
son tolti da l'oblio, più che morte empio.
Oh bene accorti principi e discreti,
che seguite di Cesare l'esempio,
e gli scrittor vi fate amici, donde
non avete a temer di Lete l'onde!

Son, come i cigni, anco i poeti rari,
poeti che non sian del nome indegni;
sì perché il ciel degli uomini preclari
non pate mai che troppa copia regni,
sì per gran colpa dei signori avari
che lascian mendicare i sacri ingegni;
che le virtù premendo, ed esaltando
i vizi, caccian le buone arti in bando.

Credi che Dio questi ignoranti ha privi
de lo 'ntelletto, e loro offusca i lumi;
che de la poesia gli ha fatto schivi,
acciò che morte il tutto ne consumi.
Oltre che del sepolcro uscirian vivi,
ancor che avesser tutti i rei costumi,
pur che sapesson farsi amica Cirra,
più grato odore avrian che nardo o mirra.

Non sì pietoso Enea, né forte Achille
fu, come è fama, né sì fiero Ettorre;
e ne son stati e mille a mille e mille
che lor si puon con verità anteporre:
ma i donati palazzi e le gran ville
dai descendenti lor, gli ha fatto porre
in questi senza fin sublimi onori
da l'onorate man degli scrittori.

Non fu sì santo né benigno Augusto
come la tuba di Virgilio suona.
L'aver avuto in poesia buon gusto
la proscrizion iniqua gli perdona.
Nessun sapria se Neron fosse ingiusto,
né sua fama saria forse men buona,
avesse avuto e terra e ciel nimici,
se gli scrittor sapea tenersi amici.

Omero Agamennòn vittorioso,
e fe' i Troian parer vili ed inerti;
e che Penelopea fida al suo sposo
dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.
E se tu vuoi che il ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l'istoria converti:
che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice.

Da l'altra parte odi che fama lascia
Elissa, che ebbe il cor tanto pudico;
che riputata viene una bagascia,
solo perché Maron non le fu amico.
Non ti maravigliar che io n'abbia ambascia,
e se di ciò diffusamente io dico.
Gli scrittori amo, e fo il debito mio;
che al vostro mondo fui scrittore anche io.

E sopra tutti gli altri io feci acquisto
che non mi può levar tempo né morte:
e ben convenne al mio lodato Cristo
rendermi guidardon di sì gran sorte.
Duolmi di quei che sono al tempo tristo,
quando la cortesia chiuso ha le porte;
che con pallido viso e macro e asciutto
la notte e il dì vi picchian senza frutto.

Sì che continuando il primo detto,
sono i poeti e gli studiosi pochi;
che dove non han pasco né ricetto,
insin le fere abbandonano i lochi. -
Così dicendo il vecchio benedetto
gli occhi infiammò, che parveno duo fuochi;
poi volto al duca con un saggio riso
tornò sereno il conturbato viso.

Resti con lo scrittor de l'evangelo
Astolfo ormai, che io voglio far un salto,
quanto sia in terra a venir fin dal cielo;
che io non posso più star su l'ali in alto.
Torno alla donna a cui con grave telo
mosso avea gelosia crudele assalto.
Io la lasciai che avea con breve guerra
tre re gittati, un dopo l'altro, in terra;

e che giunta la sera ad un castello
che alla via di Parigi si ritrova,
d'Agramante, che rotto dal fratello
s'era ridotto in Arli, ebbe la nuova.
Certa che il suo Ruggier fosse con quello,
tosto che apparve in ciel la luce nuova,
verso Provenza, dove ancora intese
che Carlo lo seguia, la strada prese.

Verso Provenza per la via più dritta
andando, s'incontrò in una donzella,
ancor che fosse lacrimosa e afflitta,
bella di faccia e di maniere bella.
Questa era quella sì d'amor traffitta
per lo figliuol di Monodante, quella
donna gentil che avea lasciato al ponte
l'amante suo prigion di Rodomonte.

Ella venìa cercando un cavalliero,
che a far battaglia usato, come lontra,
in acqua e in terra fosse, e così fiero,
che lo potesse al pagan porre incontra.
La sconsolata amica di Ruggiero,
come quest'altra sconsolata incontra,
cortesemente la saluta, e poi
le chiede la cagion dei dolor suoi.

Fiordiligi lei mira, e veder parle
un cavallier che al suo bisogno fia;
e comincia del ponte a ricontarle,
ove impedisce il re d'Algier la via;
e che era stato appresso di levarle
l'amante suo: non che più forte sia;
ma sapea darsi il Saracino astuto
col ponte stretto e con quel fiume aiuto.

- Se sei (dicea) sì ardito e sì cortese,
come ben mostri l'uno e l'altro in vista,
mi vendica, per Dio, di chi mi prese
il mio signore, e mi fa gir sì trista;
o consigliami almeno in che paese
possa io trovare un che a colui resista,
e sappia tanto d'arme e di battaglia,
che il fiume e il ponte al pagan poco vaglia.

Oltre che tu farai quel che conviensi
ad uom cortese e a cavalliero errante,
in beneficio il tuo valor dispensi
del più fedel d'ogni fedele amante.
De l'altre sue virtù non appertiensi
a me narrar; che sono tante e tante,
che chi non n'ha notizia, si può dire
che sia del veder privo e de l'udire. -

La magnanima donna, a cui fu grata
sempre ogni impresa che può farla degna
d'esser con laude e gloria nominata,
subito al ponte di venir disegna:
ed ora tanto più, che è disperata,
vien volentier, quando anco a morir vegna;
che credendosi, misera! esser priva
del suo Ruggiero, ha in odio d'esser viva.

- Per quel che io vaglio, giovane amorosa
(rispose Bradamante), io m'offerisco
di far l'impresa dura e perigliosa,
per altre cause ancor, che io preterisco;
ma più, che del tuo amante narri cosa
che narrar di pochi uomini avvertisco,
che sia in amor fedel; che a fé ti giuro
che in ciò pensai che ognun fosse pergiuro. -

Con un sospir quest'ultime parole
finì, con un sospir che uscì dal core;
poi disse: - Andiamo; - e nel seguente sole
giunsero al fiume, al passo pien d'orrore.
Scoperte da la guardia che vi suole
farne segno col corno al suo signore,
il pagan s'arma; e quale è il suo costume,
sul ponte s'apparecchia in ripa al fiume:

e come vi compar quella guerriera,
di porla a morte subito minaccia,
quando de l'arme e del destrier su che era,
al gran sepolcro oblazion non faccia.
Bradamante che sa l'istoria vera,
come per lui morta Issabella giaccia,
che Fiordiligi detto le l'avea,
al Saracin superbo rispondea:

- Perché vuoi tu, bestial, che gli innocenti
facciano penitenza del tuo fallo?
Del sangue tuo placar costei convienti:
tu l'uccidesti, e tutto il mondo sallo.
Sì che di tutte l'arme e guernimenti
di tanti che gittati hai da cavallo,
oblazione e vittima più accetta
avrà, che io te l'uccida in sua vendetta.

E di mia man le fia più grato il dono,
quando, come ella fu, son donna anche io:
né qui venuta ad altro effetto sono,
che a vendicarla; e questo sol disio.
Ma far tra noi prima alcun patto è buono,
che il tuo valor si compari col mio.
S'abbattuta sarò, di me farai
quel che degli altri tuoi prigion fatt'hai:

ma s'io t'abbatto, come io credo e spero,
guadagnar voglio il tuo cavallo e l'armi,
e quelle offerir sole al cimitero,
e tutte l'altre distaccar da' marmi;
e voglio che tu lasci ogni guerriero. -
Rispose Rodomonte: - Giusto parmi
che sia come tu dio; ma i prigion darti
già non potrei, che io non gli ho in queste parti.

Io gli ho al mio regno in Africa mandati:
ma ti prometto, e ti do ben la fede,
che se m'avvien per casi inopinati
che tu stia in sella e che io rimanga a piede,
farò che saran tutti liberati
in tanto tempo quanto si richiede
di dare a un messo che in fretta si mandi
e far quel che, s'io perdo, mi commandi.

Ma s'a te tocca star di sotto, come
piu si conviene, e certo so che fia,
non vo' che lasci l'arme, né il tuo nome,
come di vinta, sottoscritto sia:
al tuo bel viso, a' begli occhi, alle chiome,
che spiran tutti amore e leggiadria,
voglio donar la mia vittoria; e basti
che ti disponga amarmi, ove m'odiasti.

Io son di tal valor, son di tal nerbo,
che aver non déi d'andar di sotto a sdegno. -
Sorrise alquanto, ma d'un riso acerbo
che fece d'ira, più che d'altro, segno,
la donna, né rispose a quel superbo;
ma tornò in capo al ponticel di legno,
spronò il cavallo, e con la lancia d'oro
venne a trovar quell'orgoglioso Moro.

Rodomonte alla giostra s'apparecchia:
viene a gran corso; ed è sì grande il suono
che rende il ponte, che intronar l'orecchia
può forse a molti che lontan ne sono.
La lancia d'oro fe' l'usanza vecchia;
che quel pagan, sì dianzi in giostra buono,
levò di sella, e in aria lo sospese,
indi sul ponte a capo in giù lo stese.

Nel trapassar ritrovò a pena loco
ove entrar col destrier quella guerriera;
e fu a gran risco, e ben vi mancò poco,
che ella non traboccò ne la riviera:
ma Rabicano, il quale il vento e il fuoco
concetto avean, sì destro ed agil era,
che nel margine estremo trovò strada;
e sarebbe ito anco su 'n fil di spada.

Ella si volta, e contra l'abbattuto
pagan ritorna; e con leggiadro motto:
- Or puoi (disse) veder chi abbia perduto,
e a chi di noi tocchi di star di sotto. -
Di maraviglia il pagan resta muto,
che una donna a cader l'abbia condotto;
e far risposta non poté o non volle,
e fu come uom pien di stupore e folle.

Di terra si levò tacito e mesto;
e poi che andato fu quattro o sei passi,
lo scudo e l'elmo, e de l'altre arme il resto
tutto si trasse, e gittò contra i sassi;
e solo e a piè fu a dileguarsi presto:
non che commission prima non lassi
a un suo scudier, che vada a far l'effetto
dei prigion suoi, secondo che fu detto.

Partissi; e nulla poi più se n'intese,
se non che stava in una grotta scura.
Intanto Bradamante avea sospese
di costui l'arme all'alta sepoltura,
e fattone levar tutto l'arnese,
il qual dei cavallieri, alla scrittura,
conobbe de la corte esser di Carlo;
non levò il resto, e non lasciò levarlo.

Oltr'a quel del figliuol di Monodante,
v'è quel di Sansonetto e d'Oliviero,
che per trovare il principe d'Anglante,
quivi condusse il più dritto sentiero.
Quivi fur presi, e furo il giorno inante
mandati via dal Saracino altiero.
Di questi l'arme fe' la donna torre
da l'alta mole, e chiuder ne la torre.

Tutte l'altre lasciò pender dai sassi,
che fur spogliate ai cavallier pagani.
V'eran l'arme d'un re, del quale i passi
per Frontalatte mal fur spesi e vani:
io dico l'arme del re de' Circassi,
che dopo lungo errar per colli e piani,
venne quivi a lasciar l'altro destriero;
e poi senz'arme andossene leggiero.

S'era partito disarmato e a piede
quel re pagan dal periglioso ponte,
sì come gli altri che eran di sua fede,
partir da sé lasciava Rodomonte.
Ma di tornar più al campo non gli diede
il cor; che ivi apparir non avria fronte:
che per quel che vantossi, troppo scorno
gli saria farvi in tal guisa ritorno.

Di pur cercar nuovo desir lo prese
colei che sol avea fissa nel core.
Fu l'aventura sua, che tosto intese
(io non vi saprei dir chi ne fu autore)
che ella tornava verso il suo paese:
onde esso, come il punge e sprona Amore,
dietro alla pesta subito si pone.
Ma tornar voglio alla figlia d'Amone.

Poi che narrato ebbe con altro scritto
come da lei fu liberato il passo;
a Fiordiligi che avea il core afflitto,
e tenea il viso lacrimoso e basso,
domandò umanamente ov'ella dritto
volea che fosse, indi partendo, il passo.
Rispose Fiordiligi: - Il mio camino
vo' che sia in Arli al campo saracino,

ove navilio e buona compagnia
spero trovar da gir ne l'altro lito.
Mai non mi fermerò fin che io non sia
venuta al mio signore e mio marito.
Voglio tentar, perché in prigion non stia,
più modi e più; che se mi vien fallito
questo che Rodomonte t'ha promesso,
ne voglio avere uno ed un altro appresso. -

- Io m'offerisco (disse Bradamante)
d'accompagnarti un pezzo de la strada,
tanto che tu ti vegga Arli davante,
ove per amor mio vo' che tu vada
a trovar quel Ruggier del re Agramante,
che del suo nome ha piena ogni contrada;
e che gli rendi questo buon destriero,
onde abbattuto ho il Saracino altiero.

Voglio che a punto tu gli dica questo:
- Un cavallier che di provar si crede,
e fare a tutto il mondo manifesto
che contra lui sei mancator di fede;
acciò ti trovi apparecchiato e presto,
questo destrier, perche io tel dia, mi diede.
Dice che trovi tua piastra e tua maglia,
e che l'aspetti a far teco battaglia. -

Digli questo, e non altro; e se quel vuole
saper da te che io son, dio che nol sai. -
Quella rispose umana come suole:
- Non sarò stanca in tuo servizio mai,
spender la vita, non che le parole;
che tu ancora per me così fatto hai. -
Grazie le rende Bradamante, e piglia
Frontino, e le lo porge per la briglia.

Lungo il fiume le belle e pellegrine
giovani vanno a gran giornate insieme,
tanto che veggono Arli, e le vicine
rive odon risonar del mar che freme.
Bradamante si ferma alle confine
quasi de' borghi ed alle sbarre estreme,
per dare a Fiordiligi atto intervallo,
che condurre a Ruggier possa il cavallo.

Vien Fiordiligi, ed entra nel rastrello,
nel ponte e ne la porta; e seco prende
chi le fa compagnia fin all'ostello
ove abita Ruggiero, e quivi scende;
e, secondo il mandato, al damigello
fa l'imbasciata, e il buon Frontin gli rende:
indi va, che risposta non aspetta,
ad eseguire il suo bisogno in fretta.

Ruggier riman confuso e in pensier grande,
e non sa ritrovar capo né via
di saper chi lo sfide, e chi gli mande
a dire oltraggio e a fargli cortesia.
Che costui senza fede lo domande,
o possa domandar uomo che sia,
non sa veder né imaginare; e prima,
che ogn'altro sia che Bradamante, istima.

Che fosse Rodomonte, era più presto
ad aver, che fosse altri, opinione;
e perché ancor da lui debba udir questo,
pensa, né imaginar può la cagione.
Fuor che con lui, non sa di tutto il resto
del mondo, con chi lite abbia e tenzone.
Intanto la donzella di Dordona
chiede battaglia, e forte il corno suona.

Vien la nuova a Marsilio e ad Agramante,
che un cavallier di fuor chiede battaglia.
A caso Serpentin loro era avante,
ed impetrò di vestir piastra e maglia,
e promesse pigliar questo arrogante.
Il popul venne sopra la muraglia;
né fanciullo restò, né restò veglio,
che non fosse a veder chi fêsse meglio.

Con ricca sopravesta e bello arnese
Serpentin da la Stella in giostra venne.
Al primo scontro in terra si distese:
il destrier aver parve a fuggir penne.
Dietro gli corse la donna cortese,
e per la briglia al Saracin lo tenne,
e disse: - Monta, e fa che il tuo signore
mi mandi un cavallier di te migliore. -

Il re african, che era con gran famiglia
sopra le mura alla giostra vicino,
del cortese atto assai si maraviglia,
che usato ha la donzella a Serpentino.
- Di ragion può pigliarlo, e non lo piglia, -
diceva, udendo il popul saracino.
Serpentin giunge, e come ella commanda,
un miglior da sua parte al re domanda.

Grandonio di Volterna furibondo,
il più superbo cavallier di Spagna,
pregando fece sì, che fu il secondo,
ed uscì con minacce alla campagna.
- Tua cortesia nulla ti vaglia al mondo;
che, quando da me vinto tu rimagna,
al mio signor menar preso ti voglio:
ma qui morrai, s'io posso, come soglio. -

La donna disse lui: - Tua villania
non vo' che men cortese far mi possa,
che io non ti dica che tu torni pria
che sul duro terren ti doglian l'ossa.
Ritorna, e dio al tuo re da parte mia,
che per simile a te non mi son mossa;
ma per trovar guerrier che il pregio vaglia,
son qui venuta a domandar battaglia. -

Il mordace parlare, acre ed acerbo,
gran fuoco al cor del Saracino attizza;
sì che senza poter replicar verbo,
volta il destrier con colera e con stizza.
Volta la donna, e contra quel superbo
la lancia d'oro e Rabicano drizza.
Come l'asta fatal lo scudo tocca,
coi piedi al cielo il Saracin trabocca.

Il destrier la magnanima guerriera
gli prese, e disse: - Pur tel prediss'io,
che far la mia imbasciata meglio t'era,
che de la giostra aver tanto disio.
Dio, al re, ti prego, che fuor de la schiera
elegga un cavallier che sia par mio;
né voglia con voi altri affaticarme,
che avete poca esperienza d'arme. -

Quei da le mura, che stimar non sanno
chi sia il guerriero in su l'arcion sì saldo,
quei più famosi nominando vanno,
che tremar li fan spesso al maggior caldo.
Che Brandimarte sia, molti detto hanno:
la più parte s'accorda esser Rinaldo:
molti su Orlando avrian fatto disegno;
ma il suo caso sapean di pietà degno.

La terza giostra il figlio di Lanfusa
chiedendo, disse: - Non che vincer speri,
ma perché di cader più degna scusa
abbian, cadendo anche io, questi guerrieri. -
E poi di tutto quel che in giostra s'usa
si messe in punto; e di cento destrieri
che tenea in stalla, d'un tolse l'eletta,
che avea il correre acconcio, e di gran fretta.

Contra la donna per giostrar si fece;
ma prima salutolla, ed ella lui.
Disse la donna: - Se saper mi lece,
ditemi in cortesia che siate vui. -
Di questo Ferraù le satisfece,
che usò di rado di celarsi altrui.
Ella soggiunse: - Voi già non rifiuto,
ma avria più volentieri altri voluto. -

- E chi? - Ferraù disse. Ella rispose:
- Ruggiero; - e a pena il poté proferire,
e sparse d'un color come di rose
la bellissima faccia in questo dire.
Soggiunse al detto poi: - Le cui famose
lode a tal prova m'han fatto venire.
Altro non bramo, e d'altro non mi cale,
che di provar come egli in giostra vale. -

Semplicemente disse le parole
che forse alcuno ha già prese a malizia.
Rispose Ferraù: - Prima si vuole
provar tra noi chi sa più di milizia.
Se di me avvien quel che di molti suole,
poi verrà ad emendar la mia tristizia
quel gentil cavallier che tu dimostri
aver tanto desio che teco giostri. -

Parlando tuttavolta la donzella
teneva la visiera alta dal viso.
Mirando Ferraù la faccia bella,
si sente rimaner mezzo conquiso,
e taciturno dentro a sé favella:
- Questo un angel mi par del paradiso;
e ancor che con la lancia non mi tocchi,
abbattuto son già da' suoi begli occhi. -

Preson del campo; e come agli altri avvenne,
Ferraù se n'uscì di sella netto.
Bradamante il destrier suo gli ritenne,
e disse: - Torna, e serva quel c'hai detto. -
Ferraù vergognoso se ne venne,
e ritrovò Ruggier che era al cospetto
del re Agramante; e gli fece sapere
che alla battaglia il cavallier lo chere.

Ruggier non conoscendo ancor chi fosse
chi a sfidar lo mandava alla battaglia,
quasi certo di vincere, allegrosse;
e le piastre arrecar fece e la maglia:
né l'aver visto alle gravi percosse,
che gli altri sian caduti, il cor gli smaglia.
Come s'armasse, e come uscisse, e quanto
poi ne seguì, lo serbo all'altro canto.





CANTO TRENTASEIESIMO


Convien che ovunque sia, sempre cortese
sia un cor gentil, che esser non può altrimente;
che per natura e per abito prese
quel che di mutar poi non è possente.
Convien che ovunque sia, sempre palese
un cor villan si mostri similmente.
Natura inchina al male, e viene a farsi
l'abito poi difficile a mutarsi.

Di cortesia, di gentilezza esempi
fra gli antiqui guerrier si vider molti,
e pochi fra i moderni; ma degli empi
costumi avvien che assai ne vegga e ascolti
in quella guerra, Ippolito, che i tempi
di segni ornaste agli nimici tolti,
e che traeste lor galee captive
di preda carche alle paterne rive.

Tutti gli atti crudeli ed inumani
che usasse mai Tartaro o Turco o Moro,
(non già con volontà de' Veneziani,
che sempre esempio di giustizia foro),
usaron l'empie e scelerate mani
di rei soldati, mercenari loro.
Io non dico or di tanti accesi fuochi
che arson le ville e i nostri ameni lochi:

ben che fu quella ancor brutta vendetta,
massimamente contra voi, che appresso
Cesare essendo, mentre Padua stretta
era d'assedio, ben sapea che spesso
per voi più d'una fiamma fu interdetta,
e spento il fuoco ancor, poi che fu messo,
da villaggi e da templi, come piacque,
all'alta cortesia che con voi nacque.

Io non parlo di questo né di tanti
altri lor discortesi e crudeli atti;
ma sol di quel che trar dai sassi i pianti
debbe poter, qual volta se ne tratti:
quel dì, Signor, che la famiglia inanti
vostra mandaste là dove ritratti
dai legni lor con importuni auspici
s'erano in luogo forte gli inimici.

Qual Ettorre ed Enea sin dentro ai flutti,
per abbruciar le navi greche, andaro;
un Ercol vidi e un Alessandro, indutti
da troppo ardir, partirsi a paro a paro,
e spronando i destrier, passarci tutti,
e i nemici turbar fin nel riparo,
e gir sì inanzi, che al secondo molto
aspro fu il ritornare, e al primo tolto.

Salvossi il Ferruffin, restò il Cantelmo.
Che cor, duca di Sora, che consiglio
fu allora il tuo, che trar vedesti l'elmo
fra mille spade al generoso figlio,
e menar preso a nave, e sopra un schelmo
troncargli il capo? Ben mi maraviglio
che darti morte lo spettacol solo
non poté, quanto il ferro a tuo figliuolo.

Schiavon crudele, onde hai tu il modo appreso
de la milizia? In qual Scizia s'intende
che uccider si debba un, poi che gli è preso,
che rende l'arme, e più non si difende?
Dunque uccidesti lui, perché ha difeso
la patria? Il sole a torto oggi risplende,
crudel seculo, poi che pieno sei
di Tiesti, di Tantali e di Atrei.

Festi, barbar crudel, del capo scemo
il più ardito garzon che di sua etade
fosse da un polo e l'altro, e da l'estremo
lito degli Indi a quello ove il sol cade.
Potea in Antropofàgo, in Polifemo
la beltà e gli anni suoi trovar pietade;
ma non in te, più crudo e più fellone
d'ogni Ciclope e d'ogni Lestrigone.

Simile esempio non credo che sia
fra gli antiqui guerrier, di quai li studi
tutti fur gentilezza e cortesia;
né dopo la vittoria erano crudi.
Bradamante non sol non era ria
a quei che avea, toccando lor gli scudi,
fatto uscir de la sella, ma tenea
loro i cavalli, e rimontar facea.

Di questa donna valorosa e bella
io vi dissi di sopra, che abbattuto
avea Serpentin quel da la Stella,
Grandonio di Volterra e Ferrauto,
e ciascun d'essi poi rimesso in sella;
e dissi ancor che il terzo era venuto,
da lei mandato a disfidar Ruggiero,
là dove era stimata un cavalliero.

Ruggier tenne lo 'nvito allegramente,
e l'armatura sua fece venire.
Or mentre che s'armava al re presente,
tornaron quei signor di nuovo a dire
chi fosse il cavallier tanto eccellente,
che di lancia sapea sì ben ferire;
e Ferraù, che parlato gli avea,
fu domandato se lo conoscea.

Rispose Ferraù: - Tenete certo
che non è alcun di quei che avete detto.
A me parea, che il vidi a viso aperto,
il fratel di Rinaldo giovinetto:
ma poi che io n'ho l'alto valore esperto,
e so che non può tanto Ricciardetto,
penso che sia la sua sorella, molto
(per quel che io n'odo) a lui simil di volto.

Ella ha ben fama d'esser forte a pare
del suo Rinaldo e d'ogni paladino;
ma, per quanto io ne veggo oggi, mi pare
che val più del fratel, più del cugino. -
Come Ruggier lei sente ricordare,
del vermiglio color che il matutino
sparge per l'aria, si dipinge in faccia,
e nel cor triema, e non sa che si faccia.

A questo annunzio, stimulato e punto
da l'amoroso stral, dentro infiammarse,
e per l'ossa sentì tutto in un punto
correre un giaccio che il timor vi sparse,
timor che un nuovo sdegno abbia consunto
quel grande amor che già per lui sì l'arse.
Di ciò confuso non si risolveva,
s'incontra uscirle, o pur restar doveva.

Or quivi ritrovandosi Marfisa,
che d'uscire alla giostra avea gran voglia,
ed era armata, perché in altra guisa
è raro, o notte o dì, che tu la coglia;
sentendo che Ruggier s'arma, s'avisa
che di quella vittoria ella si spoglia
se lascia che Ruggiero esca fuor prima:
pensa ire inanzi, e averne il pregio stima.

Salta a cavallo, e vien spronando in fretta
ove nel campo la figlia d'Amone
con palpitante cor Ruggiero aspetta,
desiderosa farselo prigione,
e pensa solo ove la lancia metta,
perché del colpo abbia minor lesione.
Marfisa se ne vien fuor de la porta,
e sopra l'elmo una fenice porta;

o sia per sua superbia, dinotando
se stessa unica al mondo in esser forte,
o pur sua casta intenzion lodando
di viver sempremai senza consorte.
La figliuola d'Amon la mira; e quando
le fattezze che amava non ha scorte,
come si nomi le domanda, ed ode
esser colei che del suo amor si gode;

o per dir meglio, esser colei che crede
che goda del suo amor, colei che tanto
ha in odio e in ira, che morir si vede,
se sopra lei non vendica il suo pianto.
Volta il cavallo, e con gran furia riede,
non per desir di porla in terra, quanto
di passarle con l'asta in mezzo il petto,
e libera restar d'ogni suspetto.

Forza è a Marfisa che a quel colpo vada
a provar se il terreno è duro o molle;
e cosa tanto insolita le accada,
che ella n'è per venir di sdegno folle.
Fu in terra a pena, che trasse la spada,
e vendicar di quel cader si volle.
La figliuola d'Amon non meno altiera
gridò: - Che fai? tu sei mia prigioniera.

Se bene uso con gli altri cortesia,
usar teco, Marfisa, non la voglio,
come a colei che d'ogni villania
odo che sei dotata e d'ogni orgoglio. -
Marfisa a quel parlar fremer s'udia
come un vento marino in uno scoglio.
Grida, ma sì per rabbia si confonde,
che non può esprimer fuor quel che risponde.

Mena la spada, e più ferir non mira
lei, che il destrier, nel petto e ne la pancia:
ma Bradamante al suo la briglia gira,
e quel da parte subito si lancia;
e tutto a un tempo con isdegno ed ira
la figliuola d'Amon spinge la lancia,
e con quella Marfisa tocca a pena,
che la fa riversar sopra l'arena.

A pena ella fu in terra, che rizzosse,
cercando far con la spada mal'opra.
Di nuovo l'asta Bradamante mosse,
e Marfisa di nuovo andò sozzopra.
Ben che possente Bradamante fosse,
non però sì a Marfisa era di sopra,
che l'avesse ogni colpo riversata;
ma tal virtù ne l'asta era incantata.

Alcuni cavallieri in questo mezzo,
alcuni, dico, de la parte nostra,
se n'erano venuti dove, in mezzo
l'un campo e l'altro, si facea la giostra
(che non eran lontani un miglio e mezzo),
veduta la virtù che il suo dimostra;
il suo che non conoscono altrimente
che per un cavallier de la lor gente.

Questi vedendo il generoso figlio
di Troiano alle mura approssimarsi,
per ogni caso, per ogni periglio
non volse sproveduto ritrovarsi;
e fe' che molti all'arme dier di piglio,
e che fuor dei ripari appresentarsi.
Tra questi fu Ruggiero, a cui la fretta
di Marfisa la giostra avea intercetta.

L'inamorato giovene mirando
stava il successo, e gli tremava il core,
de la sua cara moglie dubitando;
che di Marfisa ben sapea il valore.
Dubitò, dico, nel principio, quando
si mosse l'una e l'altra con furore;
ma visto poi come successe il fatto,
restò maraviglioso e stupefatto:

e poi che fin la lite lor non ebbe,
come avean l'altre avute, al primo incontro,
nel cor profundamente gli ne 'ncrebbe,
dubbioso pur di qualche strano incontro.
De l'una egli e de l'altra il ben vorrebbe;
che ama amendue: non che da porre incontro
sien questi amori: è l'un fiamma e furore,
l'altro benivolenza più che amore.

Partita volentier la pugna avria,
se con suo onor potuto avesse farlo.
Ma quei che egli avea seco in compagnia,
perché non vinca la parte di Carlo,
che già lor par che superior ne sia,
saltan nel campo, e vogliono turbarlo.
Da l'altra parte i cavallier cristiani
si fanno inanzi, e son quivi alle mani.

Di qua di là gridar si sente all'arme,
come usati eran far quasi ogni giorno.
Monti chi è a piè, chi non è armato s'arme,
alla bandiera ognun faccia ritorno!
dicea con chiaro e bellicoso carme
più d'una tromba che scorrea d'intorno:
e come quelle svegliano i cavalli,
svegliano i fanti i timpani e i taballi.

La scaramuccia fiera e sanguinosa,
quanto si possa imaginar, si mesce.
La donna di Dordona valorosa,
a cui mirabilmente aggrava e incresce
che quel di che era tanto disiosa,
di por Marfisa a morte, non riesce;
di qua di là si volge e si raggira,
se Ruggier può veder, per cui sospira.

Lo riconosco all'aquila d'argento
c'ha nello scudo azzurro il giovinetto.
Ella con gli occhi e col pensiero intento
si ferma a contemplar le spalle e il petto,
le leggiadre fattezze, e il movimento
pieno di grazia; e poi con gran dispetto,
imaginando che altra ne gioisse,
da furore assalita così disse:

- Dunque baciar sì belle e dolce labbia
deve altra, se baciar non le poss'io?
Ah non sia vero già che altra mai t'abbia;
che d'altra esser non déi, se non sei mio.
Più tosto che morir sola di rabbia,
che meco di mia man mori, disio;
che se ben qui ti perdo, almen l'inferno
poi mi ti renda, e stii meco in eterno.

Se tu m'occidi, è ben ragion che deggi
darmi de la vendetta anco conforto;
che voglion tutti gli ordini e le leggi,
che chi dà morte altrui debba esser morto.
Né par che anco il tuo danno il mio pareggi;
che tu mori a ragione, io moro a torto.
Farò morir chi brama, ohimè! che io muora;
ma tu, crudel, chi t'ama e chi t'adora.

Perché non déi tu, mano, essere ardita
d'aprir col ferro al mio nimico il core?
che tante volte a morte m'ha ferita
sotto la pace in sicurtà d'amore,
ed or può consentir tormi la vita,
né pur aver pietà del mio dolore.
Contra questo empio ardisci, animo forte:
vendica mille mie con la sua morte. -

Gli sprona contra in questo dir, ma prima:
- Guardati (grida), perfido Ruggiero:
tu non andrai, s'io posso, de la opima
spoglia del cor d'una donzella altiero. -
Come Ruggiero ode il parlare, estima
che sia la moglie sua, com'era in vero,
la cui voce in memoria sì bene ebbe,
che in mille riconoscer la potrebbe.

Ben pensa quel che le parole denno
volere inferir più; che ella l'accusa
che la convenzion che insieme fenno,
non le osservava: onde per farne iscusa,
di volerle parlar le fece cenno:
ma quella già con la visiera chiusa
venìa dal dolor spinta e da la rabbia,
per porlo, e forse ove non era sabbia.

Quando Ruggier la vede tanto accesa,
si ristringe ne l'arme e ne la sella:
la lancia arresta; ma la tien sospesa,
piegata in parte ove non nuoccia a quella.
La donna, che a ferirlo e a fargli offesa
venìa con mente di pietà rubella,
non poté sofferir, come fu appresso,
di porlo in terra e fargli oltraggio espresso.

Così lor lance van d'effetto vote
a quello incontro; e basta ben s'Amore
con l'un giostra e con l'altro, e gli percuote
d'una amorosa lancia in mezzo il core.
Poi che la donna sofferir non puote
di far onta a Ruggier, volge il furore
che l'arde il petto, altrove; e vi fa cose
che saran, fin che giri il ciel, famose.

In poco spazio ne gittò per terra
trecento e più con quella lancia d'oro.
Ella sola quel dì vinse la guerra,
messe ella sola in fuga il popul Moro.
Ruggier di qua di là s'aggira ed erra
tanto, che se le accosta e dice: - Io moro,
s'io non ti parlo: ohimè! che t'ho fatto io,
che mi debbi fuggire? Odi, per Dio! -

Come ai meridional tiepidi venti,
che spirano dal mare il fiato caldo,
le nievi si disciolveno e i torrenti,
e il ghiaccio che pur dianzi era sì saldo;
così a quei prieghi, a quei brevi lamenti
il cor de la sorella di Rinaldo
subito ritornò pietoso e molle,
che l'ira, più che marmo, indurar volle.

Non vuol dargli, o non puote, altra risposta;
ma da traverso sprona Rabicano,
e quanto può dagli altri si discosta,
ed a Ruggiero accenna con la mano.
Fuor de la moltitudine in reposta
valle si trasse, ov'era un piccol piano
che in mezzo avea un boschetto di cipressi
che parean d'una stampa, tutti impressi.

In quel boschetto era di bianchi marmi
fatta di nuovo un'alta sepoltura.
Chi dentro giaccia, era con brevi carmi
notato a chi saperlo avesse cura.
Ma quivi giunta Bradamante, parmi
che gia non pose mente alla scrittura.
Ruggier dietro il cavallo affretta e punge
tanto, che al bosco e alla donzella giunge.

Ma ritorniamo a Marfisa che s'era
in questo mezzo in sul destrier rimessa,
e venìa per trovar quella guerriera
che l'avea al primo scontro in terra messa:
e la vide partir fuor de la schiera,
e partir Ruggier vide e seguir essa;
né si pensò che per amor seguisse,
ma per finir con l'arme ingiurie e risse.

Urta il cavallo, e vien dietro alla pesta
tanto, che a un tempo con lor quasi arriva.
Quanto sua giunta ad ambi sia molesta,
chi vive amando, il sa, senza che io il scriva.
Ma Bradamante offesa più ne resta,
che colei vede, onde il suo mal deriva.
Chi le può tor che non creda esser vero
che l'amor ve la sproni di Ruggiero?

E perfido Ruggier di nuovo chiama.
- Non ti bastava, perfido (disse ella),
che tua perfidia sapessi per fama,
se non mi facevi anco veder quella?
Di cacciarmi da te veggo c'hai brama:
e per sbramar tua voglia iniqua e fella,
io vo' morir; ma sforzerommi ancora
che muora meco chi è cagion che io mora. -

Sdegnosa più che vipera, si spicca,
così dicendo, e va contra Marfisa;
ed allo scudo l'asta sì le appicca,
che la fa a dietro riversare in guisa,
che quasi mezzo l'elmo in terra ficca;
né si può dir che sia colta improvisa:
anzi fa incontra ciò che far si puote;
e pure in terra del capo percuote.

La figliuola d'Amon, che vuol morire
o dar morte a Marfisa, è in tanta rabbia,
che non ha mente di nuovo a ferire
con l'asta, onde a gittar di nuovo l'abbia;
ma le pensa dal busto dipartire
il capo mezzo fitto ne la sabbia:
getta da sé la lancia d'oro, e prende
la spada, e del destrier subito scende.

Ma tarda è la sua giunta; che si trova
Marfisa incontra, e di tanta ira piena
(poi che s'ha vista alla seconda prova
cader sì facilmente su l'arena),
che pregar nulla, e nulla gridar giova
a Ruggier che di questo avea gran pena:
sì l'odio e l'ira le guerriere abbaglia,
che fan da disperate la battaglia.

A mezzo spada vengono di botto;
e per la gran superbia che l'ha accese,
van pur inanzi, e si son già sì sotto,
che altro non puon che venire alle prese.
Le spade, il cui bisogno era interrotto,
lascian cadere, e cercan nuove offese.
Priega Ruggiero e supplica amendue,
ma poco frutto han le parole sue.

Quando pur vede che il pregar non vale,
di partirle per forza si dispone:
leva di mano ad amendua il pugnale,
ed al piè d'un cipresso li ripone.
Poi che ferro non han più da far male,
con prieghi e con minaccie s'interpone:
ma tutto è invan; che la battaglia fanno
a pugni e a calci, poi che altro non hanno.

Ruggier non cessa: or l'una or l'altra prende
per le man, per le braccia, e la ritira;
e tanto fa, che di Marfisa accende
contra di sé, quanto si può più, l'ira.
Quella che tutto il mondo vilipende,
alla amicizia di Ruggier non mira.
Poi che da Bradamante si distacca,
corre alla spada, e con Ruggier s'attacca.

- Tu fai da discortese e da villano,
Ruggiero, a disturbar la pugna altrui;
ma ti farò pentir con questa mano
che vo' che basti a vincervi ambedui.
Cerca Ruggier con parlar molto umano
Marfisa mitigar; ma contra lui
la trova in modo disdegnosa e fiera,
che un perder tempo ogni parlar seco era.

All'ultimo Ruggier la spada trasse,
poi che l'ira anco lui fe' rubicondo.
Non credo che spettacolo mirasse
Atene o Roma o luogo altro del mondo,
che così a' riguardanti dilettasse,
come dilettò questo e fu giocondo
alla gelosa Bradamante, quando
questo le pose ogni sospetto in bando.

La sua spada avea tolta ella di terra,
e tratta s'era a riguardar da parte;
e le parea veder che il dio di guerra
fosse Ruggiero alla possanza e all'arte.
Una furia infernal quando si sferra
sembra Marfisa, se quel sembra Marte.
Vero è che un pezzo il giovene gagliardo
di non far il potere ebbe riguardo.

Sapea ben la virtù de la sua spada;
che tante esperienze n'ha già fatto.
Ove giunge, convien che se ne vada
l'incanto, o nulla giovi, e stia di piatto:
sì che ritien che il colpo suo non cada
di taglio o punta, ma sempre di piatto.
Ebbe a questo Ruggier lunga avvertenza:
ma perdé pure un tratto la pazienza;

perché Marfisa una percossa orrenda
gli mena per dividergli la testa.
Leva lo scudo che il capo difenda
Ruggiero, e il colpo in su l'aquila pesta.
Vieta lo 'ncanto che lo spezzi o fenda;
ma di stordir non però il braccio resta:
e s'avea altr'arme che quelle d'Ettorre,
gli potea il fiero colpo il braccio torre:

e saria sceso indi alla testa, dove
disegnò di ferir l'aspra donzella.
Ruggiero il braccio manco a pena muove,
a pena più sostien l'aquila bella.
Per questo ogni pietà da sé rimuove;
par che negli occhi avampi una facella:
e quanto può cacciar, caccia una punta.
Marfisa, mal per te, se n'eri giunta!

Io non vi so ben dir come si fosse:
la spada andò a ferire in un cipresso,
e un palmo e più ne l'arbore cacciosse:
in modo era piantato il luogo spesso.
In quel momento il monte e il piano scosse
un gran tremuoto; e si sentì con esso
da quell'avel che in mezzo il bosco siede,
gran voce uscir, che ogni mortale eccede.

Grida la voce orribile: - Non sia
lite tra voi: gli è ingiusto ed inumano
che alla sorella il fratel morte dia,
o la sorella uccida il suo germano.
Tu, mio Ruggiero, e tu, Marfisa mia,
credete al mio parlar che non è vano:
in un medesimo utero d'un seme
foste concetti, e usciste al mondo insieme.

Concetti foste da Ruggier secondo:
vi fu Galaciella genitrice,
i cui fratelli avendole dal mondo
cacciato il genitor vostro infelice,
senza guardar che avesse in corpo il pondo
di voi, che usciste pur di lor radice,
la fer, perché s'avesse ad affogare,
s'un debol legno porre in mezzo al mare.

Ma Fortuna che voi, ben che non nati,
avea già eletti a gloriose imprese,
fece che il legno ai liti inabitati
sopra le Sirti a salvamento scese;
ove, poi che nel mondo v'ebbe dati,
l'anima eletta al paradiso ascese.
Come Dio volse e fu vostro destino,
a questo caso io mi trovai vicino.

Diedi alla madre sepoltura onesta,
qual potea darsi in sì deserta arena;
e voi teneri avolti ne la vesta
meco portai sul monte di Carena;
e mansueta uscir de la foresta
fecie lasciare i figli una leena,
de le cui poppe dieci mesi e dieci
ambi nutrir con molto studio feci.

Un giorno che d'andar per la contrada
e da la stanza allontanar m'occorse,
vi sopravenne a caso una masnada
d'Arabi (e ricordarvene de' forse),
che te, Marfisa, tolser ne la strada,
ma non poter Ruggier, che meglio corse.
Restai de la tua perdita dolente,
e di Ruggier guardian più diligente.

Ruggier, se ti guardò, mentre che visse,
il tuo maestro Atlante, tu lo sai.
Di te sentio predir le stelle fisse,
che tra' cristiani a tradigion morrai;
e perché il male influsso non seguisse,
tenertene lontan m'affaticai:
né ostare al fin potendo alla tua voglia,
infermo caddi, e mi morio di doglia.

Ma inanzi a morte, qui dove previdi
che con Marfisa aver pugna dovevi,
feci raccor con infernal sussidi
a formar questa tomba i sassi grevi;
ed a Caron dissi con alti gridi:
- Dopo morte non vo' lo spirto levi
di questo bosco, fin che non ci giugna
Ruggier con la sorella per far pugna. -

Così lo spirto mio per le belle ombre
ha molti dì aspettato il venir vostro:
sì che mai gelosia più non t'ingombre,
o Bradamante, che ami Ruggier nostro.
Ma tempo è ormai che de la luce io sgombre,
e mi conduca al tenebroso chiostro. -
Qui si tacque; e a Marfisa ed alla figlia
d'Amon lasciò e a Ruggier gran maraviglia.

Riconosce Marfisa per sorella
Ruggier con molto gaudio, ed ella lui;
e ad abbracciarsi, senza offender quella
che per Ruggiero ardea, vanno ambidui:
e rammentando de l'età novella
alcune cose: io feci, io dissi, io fui;
vengon trovando con più certo effetto,
tutto esser ver quel c'ha lo spirto detto.

Ruggiero alla sorella non ascose
quanto avea nel cor fissa Bradamante;
e narrò con parole affettuose
de le obligazion che le avea tante:
e non cessò, che in grand'amor compose
le discordie che insieme ebbono avante;
e fe', per segno di pacificarsi,
che umanamente andaro ad abbracciarsi.

A domandar poi ritornò Marfisa
chi stato fosse, e di che gente il padre;
e chi l'avesse morto, ed a che guisa,
s'in campo chiuso o fra l'armate squadre;
e chi commesso avea che fosse uccisa
dal mar atroce la misera madre:
che se già l'avea udito da fanciulla,
or ne tenea poca memoria o nulla.

Ruggiero incominciò, che da' Troiani
per la linea d'Ettorre erano scesi;
che poi che Astianatte de le mani
campò d'Ulisse e da li aguati tesi,
avendo un de' fanciulli coetani
per lui lasciato, uscì di quei paesi;
e dopo un lungo errar per la marina,
venne in Sicilia e dominò Messina.

- I descendenti suoi di qua dal Faro
signoreggiar de la Calabria parte;
e dopo più successioni andaro
ad abitar ne la città di Marte.
Più d'uno imperatore e re preclaro
fu di quel sangue in Roma e in altra parte,
cominciando a Costante e a Costantino,
sino a re Carlo figlio de Pipino.

Fu Ruggier primo e Gianbaron di questi,
Buovo, Rambaldo, al fin Ruggier secondo,
che fe', come d'Atlante udir potesti,
di nostra madre l'utero fecondo.
De la progenie nostra i chiari gesti
per l'istorie vedrai celebri al mondo. -
Seguì poi, come venne il re Agolante
con Almonte e col padre d'Agramante;

e come menò seco una donzella
che era sua figlia, tanto valorosa,
che molti paladin gittò di sella;
e di Ruggiero al fin venne amorosa,
e per suo amor del padre fu ribella,
e battezzossi, e diventògli sposa.
Narrò come Beltramo traditore
per la cognata arse d'incesto amore;

e che la patria e il padre e duo fratelli
tradì, così sperando acquistar lei;
aperse Risa agli nimici, e quelli
fer di lor tutti i portamenti rei;
come Agolante e i figli iniqui e felli
poser Galaciella, che di sei
mesi era grave, in mar senza governo,
quando fu tempestoso al maggior verno.

Stava Marfisa con serena fronte
fisa al parlar che il suo german facea:
ed esser scesa da la bella fonte
che avea sì chiari rivi, si godea.
Quindi Mongrana e quindi Chiaramonte
le due progenie derivar sapea,
che al mondo fu molti e molt'anni e lustri
splendide, e senza par d'uomini illustri.

Poi che il fratello al fin le venne a dire
che il padre d'Agramante e l'avo e il zio
Ruggiero a tradigion feron morire,
e posero la moglie a caso rio;
non lo poté più la sorella udire,
che lo 'nterroppe, e disse: - Fratel mio
(salva tua grazia), avuto hai troppo torto
a non ti vendicar del padre morto.

Se in Almonte e in Troian non ti potevi
insanguinar, che erano morti inante,
dei figli vendicar tu ti dovevi.
Perché, vivendo tu, vive Agramante?
Questa è una macchia che mai non ti levi
dal viso; poi che dopo offese tante
non pur posto non hai questo re a morte,
ma vivi al soldo suo ne la sua corte.

Io fo ben voto a Dio (che adorar voglio
Cristo Dio vero, che adorò mio padre)
che di questa armatura non mi spoglio,
fin che Ruggier non vendico e mia madre.
E vo' dolermi, e fin ora mi doglio,
di te, se più ti veggo fra le squadre
del re Agramante o d'altro signor Moro,
se non col ferro in man per danno loro. -

Oh come a quel parlar leva la faccia
la bella Bradamante, e ne gioisce!
E conforta Ruggier che così faccia
come Marfisa sua ben l'ammonisce;
e venga a Carlo, e conoscer si faccia,
che tanto onora, lauda e riverisce
del suo padre Ruggier la chiara fama,
che ancor guerrier senza alcun par lo chiama.

Ruggiero accortamente le rispose
che da principio questo far dovea;
ma per non bene aver note le cose,
come ebbe poi, tardato troppo avea.
Ora, essendo Agramante che gli pose
la spada al fianco, farebbe opra rea
dandogli morte, e saria traditore;
che già tolto l'avea per suo signore.

Ben, come a Bradamante già promesse,
promettea a lei di tentare ogni via,
tanto che occasione, onde potesse
levarsi con suo onor, nascer faria.
E se già fatto non l'avea, non desse
la colpa a lui, m'al re di Tartaria,
dal qual ne la battaglia che seco ebbe,
lasciato fu, come saper si debbe.

Ed ella che ogni dì gli venìa al letto,
buon testimon, quanto alcun altro, n'era.
Fu sopra questo assai risposto e detto
da l'una e da l'altra inclita guerriera.
L'ultima conclusion, l'ultimo effetto
è che Ruggier ritorni alla bandiera
del suo signor, fin che cagion gli accada,
che giustamente a Carlo se ne vada.

- Lascialo pur andar (dicea Marfisa
a Bradamante), e non aver timore:
fra pochi giorni io farò bene in guisa
che non gli fia Agramante più signore. -
Così dice ella, né però devisa
quanto di voler fare abbia nel core.
Tolta da lor licenza, al fin Ruggiero
per tornare al suo re volgea il destriero;

quando un pianto s'udì da le vicine
valli sonar, che li fe' tutti attenti.
A quella voce fan l'orecchie chine,
che di femina par che si lamenti.
Ma voglio questo canto abbia qui fine,
e di quel che voglio io, siate contenti;
che miglior cose vi prometto dire,
s'all'altro canto mi verrete a udire.



CANTO TRENTASETTESIMO


Se, come in acquistar qualche altro dono
che senza industria non può dar Natura,
affaticate notte e dì si sono
con somma diligenza e lunga cura
le valorose donne, e se con buono
successo n'è uscit'opra non oscura;
così si fosson poste a quelli studi
che immortal fanno le mortal virtudi;

e che per sé medesime potuto
avesson dar memoria alle sue lode,
non mendicar dagli scrittori aiuto,
ai quali astio ed invidia il cor sì rode,
che il ben che ne puon dir, spesso è taciuto,
e il mal, quanto ne san, per tutto s'ode;
tanto il lor nome sorgeria, che forse
viril fama a tal grado unqua non sorse.

Non basta a molti di prestarsi l'opra
in far l'un l'altro glorioso al mondo,
che anco studian di far che si discuopra
ciò che le donne hanno fra lor d'immondo.
Non le vorrian lasciar venir di sopra,
e quanto puon, fan per cacciarle al fondo:
dico gli antiqui; quasi l'onor debbia
d'esse il lor oscurar, come il sol nebbia.

Ma non ebbe e non ha mano né lingua,
formando in voce o discrivendo in carte
(quantunque il mal, quanto può, accresce e impingua,
e minuendo il ben va con ogni arte),
poter però, che de le donne estingua
la gloria sì, che non ne resti parte;
ma non già tal, che presso al segno giunga,
né che anco se gli accosti di gran lunga:

che Arpalice non fu, non fu Tomiri,
non fu chi Turno, non chi Ettor soccorse;
non chi seguita da Sidoni e Tiri
andò per lungo mare in Libia a porse;
non Zenobia, non quella che gli Assiri,
i Persi e gli Indi con vittoria scorse:
non fur queste e poche altre degne sole,
di cui per arme eterna fama vole.

E di fedeli e caste e sagge e forti
stato ne son, non pur in Grecia e in Roma,
ma in ogni parte ove fra gli Indi e gli Orti
de le Esperide il Sol spiega la chioma:
de le quai sono i pregi agli onor morti,
sì che a pena di mille una si noma;
e questo, perché avuto hanno ai lor tempi
gli scrittori bugiardi, invidi ed empi.

Non restate però, donne, a cui giova
il bene oprar, di seguir vostra via;
né da vostra alta impresa vi rimuova
tema che degno onor non vi si dia:
che, come cosa buona non si trova
che duri sempre, così ancor né ria.
Se le carte sin qui state e gli inchiostri
per voi non sono, or sono a' tempi nostri.

Dianzi Marullo ed il Pontan per vui
sono, e duo Strozzi, il padre e il figlio, stati:
c'è il Bembo, c'è il Capel, c'è chi, qual lui
vediamo, ha tali i cortigian formati:
c'è un Luigi Alaman: ce ne son dui,
di par da Marte e da le Muse amati,
ambi del sangue che regge la terra
che il Menzo fende e d'alti stagni serra.

Di questi l'uno, oltre che il proprio istinto
ad onorarvi e a riverirvi inchina,
e far Parnasso risonare e Cinto
di vostra laude, e porla al ciel vicina;
l'amor, la fede, il saldo e non mai vinto
per minacciar di strazi e di ruina,
animo che Issabella gli ha dimostro,
lo fa, assai più che di se stesso, vostro:

sì che non è per mai trovarsi stanco
di farvi onor nei suoi vivaci carmi:
e s'altri vi dà biasmo, non è che anco
sia più pronto di lui per pigliar l'armi:
e non ha il mondo cavallier che manco
la vita sua per la virtù rispiarmi.
Dà insieme egli materia ond'altri scriva,
e fa la gloria altrui, scrivendo, viva.

Ed è ben degno che sì ricca donna,
ricca di tutto quel valor che possa
esser fra quante al mondo portin gonna,
mai non si sia di sua costanza mossa;
e sia stata per lui vera colonna,
sprezzando di Fortuna ogni percossa:
di lei degno egli, e degna ella di lui;
né meglio s'accoppiaro unque altri dui.

Nuovi trofei pon su la riva d'Oglio;
che in mezzo a ferri, a fuochi, a navi, a ruote
ha sparso alcun tanto ben scritto foglio,
che il vicin fiume invidia aver gli puote.
Appresso a questo un Ercol Bentivoglio
fa chiaro il vostro onor con chiare note,
e Renato Trivulcio, e il mio Guidetto,
e il Molza, a dir di voi da Febo eletto.

C'è il duca de' Carnuti Ercol, figliuolo
del duca mio, che spiega l'ali come
canoro cigno, e va cantando a volo,
e fin al cielo udir fa il vostro nome.
C'è il mio signor del Vasto, a cui non solo
di dare a mille Atene e a mille Rome
di sé materia basta, che anco accenna
volervi eterne far con la sua penna.

Ed oltre a questi ed altri che oggi avete,
che v'hanno dato gloria e ve la danno,
voi per voi stesse dar ve la potete;
poi che molte, lasciando l'ago e il panno,
son con le Muse a spegnersi la sete
al fonte d'Aganippe andate, e vanno;
e ne ritornan tai, che l'opra vostra
è più bisogno a noi, che a voi la nostra.

Se chi sian queste, e di ciascuna voglio
render buon conto, e degno pregio darle,
bisognerà che io verghi più d'un foglio,
e che oggi il canto mio d'altro non parle:
e s'a lodarne cinque o sei ne toglio,
io potrei l'altre offendere e sdegnarle.
Che farò dunque? Ho da tacer d'ognuna,
o pur fra tante sceglierne sol una?

Sceglieronne una; e sceglierolla tale,
che superato avrà l'invidia in modo,
che nessun'altra potrà avere a male,
se l'altre taccio, e se lei sola lodo.
Quest'una ha non pur sé fatta immortale
col dolce stil di che il meglior non odo;
ma può qualunque di cui parli o scriva,
trar del sepolcro, e far che eterno viva.

Come Febo la candida sorella
fa più di luce adorna, e più la mira,
che Venere o che Maia o che altra stella
che va col cielo o che da sé si gira:
così facundia, più che all'altre, a quella
di che io vi parlo, e più dolcezza spira;
e dà tal forza all'alte sue parole,
che orna a' dì nostri il ciel d'un altro sole.

Vittoria è il nome; e ben conviensi a nata
fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi,
di trofei sempre e di trionfi ornata,
la vittoria abbia seco, o dietro o inanzi.
Questa è un'altra Artemisia, che lodata
fu di pietà verso il suo Mausolo; anzi
tanto maggior, quanto è più assai bell'opra,
che por sotterra un uom, trarlo di sopra.

Se Laodamìa se la moglier di Bruto,
s'Arria, s'Argia, s'Evadne, e s'altre molte
meritar laude per aver voluto,
morti i mariti, esser con lor sepolte;
quanto onore a Vittoria è più dovuto,
che di Lete e del rio che nove volte
l'ombre circonda, ha tratto il suo consorte,
mal grado de le Parche e de la Morte!

S'al fiero Achille invidia de la chiara
meonia tromba il Macedonico ebbe,
quanto, invitto Francesco di Pescara,
maggior a te, se vivesse or, l'avrebbe!
che sì casta mogliere e a te sì cara
canti l'eterno onor che ti si debbe,
e che per lei sì il nome tuo rimbombe,
che da bramar non hai più chiare trombe.

Se quanto dir se ne potrebbe, o quanto
io n'ho desir, volessi porre in carte,
ne direi lungamente; ma non tanto,
che a dir non ne restasse anco gran parte:
e di Marfisa e dei compagni intanto
la bella istoria rimarria da parte,
la quale io vi promisi di seguire,
s'in questo canto mi verreste a udire.

Ora essendo voi qui per ascoltarmi,
ed io per non mancar de la promessa,
serberò a maggior ozio di provarmi
che ogni laude di lei sia da me espressa;
non perche io creda bisognar miei carmi
a chi se ne fa copia da se stessa;
ma sol per satisfare a questo mio.
c'ho d'onorarla e di lodar, disio.

Donne, io conchiudo in somma, che ogni etate
molte ha di voi degne d'istoria avute;
ma per invidia di scrittori state
non sete dopo morte conosciute:
il che più non sarà, poi che voi fate
per voi stesse immortal vostra virtute.
Se far le due cognate sapean questo,
si sapria meglio ogni lor degno gesto.

Di Bradamante e di Marfisa dico,
le cui vittoriose inclite prove
di ritornare in luce m'affatico;
ma de le diece mancanmi le nove.
Queste che io so, ben volentieri esplìco;
sì perché ogni bell'opra si de', dove
occulta sia, scoprir, sì perché bramo
a voi, donne, aggradir, che onoro ed amo.

Stava Ruggier, com'io vi dissi, in atto
di partirsi, ed avea commiato preso,
e dall'arbore il brando già ritratto,
che, come dianzi, non gli fu conteso;
quando un gran pianto, che non lungo tratto
era lontan, lo fe' restar sospeso;
e con le donne a quella via si mosse,
per aiutar, dove bisogno fosse.

Spingonsi inanzi, e via più chiaro il suon ne
viene, e via più son le parole intese.
Giunti ne la vallea, trovan tre donne
che fan quel duolo, assai strane in arnese;
che fin all'ombilico ha lor le gonne
scorciate non so chi poco cortese:
e per non saper meglio elle celarsi,
sedeano in terra, e non ardian levarsi.

Come quel figlio di Vulcan, che venne
fuor de la polve senza madre in vita,
e Pallade nutrir fe' con solenne
cura d'Aglauro, al veder troppo ardita,
sedendo, ascosi i brutti piedi tenne
su la quadriga da lui prima ordita;
così quelle tre giovani le cose
secrete lor tenean, sedendo, ascose.

Lo spettacolo enorme e disonesto
l'una e l'altra magnanima guerriera
fe' del color che nei giardin di Pesto
esser la rosa suol da primavera.
Riguardò Bradamante, e manifesto
tosto le fu che Ullania una d'esse era,
Ullania che da l'Isola Perduta
in Francia messaggera era venuta:

e riconobbe non men l'altre due;
che dove vide lei, vide esse ancora.
Ma se n'andaron le parole sue
a quella de le tre che ella più onora;
e le domanda chi sì iniquo fue,
e sì di legge e di costumi fuora,
che quei segreti agli occhi altrui riveli,
che, quanto può, par che Natura celi.

Ullania che conosce Bradamante,
non meno che alle insegne, alla favella,
esser colei che pochi giorni inante
avea gittati i tre guerrier di sella,
narra che ad un castel poco distante
una ria gente e di pietà ribella,
oltre all'ingiuria di scorciarle i panni,
l'avea battuta e fattol'altri danni.

Né le sa dir che de lo scudo sia,
né dei tre re che per tanti paesi
fatto le avean sì lunga compagnia:
non sa se morti, o sian restati presi;
e dice c'ha pigliata questa via,
ancor che andare a piè molto le pesi,
per richiamarsi de l'oltraggio a Carlo,
sperando che non sia per tolerarlo.

Alle guerriere ed a Ruggier, che meno
non han pietosi i cor, che audaci e forti,
de' bei visi turbò l'aer sereno
l'udire, e più il veder sì gravi torti:
et obliando ogn'altro affar che avieno,
e senza che li prieghi o che gli esorti
la donna afflitta a far la sua vendetta,
piglian la via verso quel luogo in fretta.

Di commune parer le sopraveste,
mosse da gran bontà, s'aveano tratte,
cha' ricoprir le parti meno oneste
di quelle sventurate assai furo atte.
Bradamante non vuol che Ullania peste
le strade a piè, che avea a piede anco fatte,
e se la leva in groppa del destriero;
l'altra Marfisa, l'altra il buon Ruggiero.

Ullania a Bradamante che la porta,
mostra la via che va al castel più dritta:
Bradamante all'incontro lei conforta,
che la vendicherà di chi l'ha afflitta.
Lascian la valle, e per via lunga e torta
sagliono un colle or a man manca or ritta;
e prima il sol fu dentro il mare ascoso,
che volesser tra via prender riposo.

Trovaro una villetta che la schena
d'un erto colle, aspro a salir, tenea;
ove ebbon buono albergo e buona cena,
quale avere in quel loco si potea.
Si mirano d'intorno, e quivi piena
ogni parte di donne si vedea,
quai giovani, quai vecchie; e in tanto stuolo
faccia non v'apparia d'un uomo solo.

Non più a Iason di maraviglia denno,
né agli Argonauti che venian con lui,
le donne che i mariti morir fenno
e i figli e i padri coi fratelli sui,
sì che per tutta l'isola di Lenno
di viril faccia non si vider dui;
che Ruggier quivi, e chi con Ruggier era
maraviglia ebbe all'alloggiar la sera.

Fero ad Ullania ed alle damigelle
che venivan con lei, le due guerriere
la sera proveder di tre gonnelle,
se non così polite, almeno intere.
A sé chiama Ruggiero una di quelle
donne che abitan quivi, e vuol sapere
ove gli uomini sian, che un non ne vede;
ed ella a lui questa risposta diede:

- Questa che forse è maraviglia a voi,
che tante donne senza uomini siamo,
è grave e intolerabil pena a noi,
che qui bandite misere viviamo.
E perché il duro esilio più ci annoi,
padri, figli e mariti, che sì amiamo,
aspro e lungo divorzio da noi fanno,
come piace al crudel nostro tiranno.

Da le sue terre, le quai son vicine
a noi due leghe, e dove noi siàn nate,
qui ci ha mandato il barbaro in confine,
prima di mille scorni ingiuriate;
ed ha gli uomini nostri e noi meschine
di morte e d'ogni strazio minacciate,
se quelli a noi verranno, o gli fia detto
che noi diàn lor, venendoci, ricetto.

Nimico è sì costui del nostro nome,
che non ci vuol, più che io vi dico, appresso,
né che a noi venga alcun de' nostri, come
l'odor l'ammorbi del femineo sesso.
Già due volte l'onor de le lor chiome
s'hanno spogliato gli alberi e rimesso,
da indi in qua che il rio signor vaneggia
in furor tanto: e non è chi il correggia;

che il populo ha di lui quella paura
che maggior aver può l'uom de la morte;
che aggiunto al mal voler gli ha la natura
una possanza fuor d'umana sorte.
Il corpo suo di gigantea statura
è più, che di cent'altri insieme, forte.
Né pure a noi sue suddite è molesto,
ma fa alle strane ancor peggio di questo.

Se l'onor vostro, e queste tre vi sono
punto care, che avete in compagnia,
più vi sarà sicuro, utile e buono
non gir più inanzi, e trovar altra via.
Questa al castel de l'uom di che io ragiono,
a provar mena la costuma ria
che v'ha posta il crudel con scorno e danno
di donne e di guerrier che di là vanno.

Marganor il fellon (così si chiama
il signore, il tiran di quel castello),
del qual Nerone, o s'altri è che abbia fama
di crudeltà, non fu più iniquo e fello,
il sangue uman, ma il feminil più brama,
che il lupo non lo brama de l'agnello.
Fa con onta scacciar le donne tutte
da lor ria sorte a quel castel condutte. -

Perché quell'empio in tal furor venisse,
volson le donne intendere e Ruggiero:
pregar colei, che in cortesia seguisse,
anzi che cominciasse il conto intero.
- Fu il signor del castel (la donna disse)
sempre crudel, sempre inumano e fiero;
ma tenne un tempo il cor maligno ascosto,
né si lasciò conoscer così tosto:

che mentre duo suoi figli erano vivi,
molto diversi dai paterni stili,
che amavan forestieri, ed eran schivi
di crudeltade e degli altri atti vili;
quivi le cortesie fiorivan, quivi
i bei costumi e l'opere gentili:
che il padre mai, quantunque avaro fosse,
da quel che lor piacea non li rimosse.

Le donne e i cavallier che questa via
facean talor, venian sì ben raccolti,
che si partian de l'alta cortesia
dei duo germani inamorati molti.
Amendui questi di cavalleria
parimente i santi ordini avean tolti:
Cilandro l'un, l'altro Tanacro detto,
gagliardi, arditi e di reale aspetto.

Ed eran veramente, e sarian stati
sempre di laude degni e d'ogni onore,
s'in preda non si fossino sì dati
a quel desir che nominiamo amore;
per cui dal buon sentier fur traviati
al labirinto ed al camin d'errore;
e ciò che mai di buono aveano fatto,
restò contaminato e brutto a un tratto.

Capitò quivi un cavallier di corte
del greco imperator, che seco avea
una sua donna di maniere accorte,
bella quanto bramar più si potea.
Cilandro in lei s'inamorò sì forte,
che morir, non l'avendo, gli parea:
gli parea che dovesse, alla partita
di lei, partire insieme la sua vita.

E perché i prieghi non v'avriano loco,
di volerla per forza si dispose.
Armossi, e dal castel lontano un poco,
ove passar dovean, cheto s'ascose.
L'usata audacia e l'amoroso fuoco
non gli lasciò pensar troppo le cose:
sì che vedendo il cavallier venire,
l'andò lancia per lancia ad assalire.

Al primo incontro credea porlo in terra,
portar la donna e la vittoria indietro:
ma il cavallier, che mastro era di guerra,
l'osbergo gli spezzò come di vetro.
Venne la nuova al padre ne la terra,
che lo fe' riportar sopra un ferètro;
e ritrovandol morto, con gran pianto
gli diè sepulcro agli antiqui avi a canto.

Né più però né manco si contese
l'albergo e l'accoglienza a questo e a quello,
perché non men Tanacro era cortese,
né meno era gentil di suo fratello.
L'anno medesmo di lontan paese
con la moglie un baron venne al castello,
a maraviglia egli gagliardo, ed ella,
quanto si possa dir, leggiadra e bella;

né men che bella, onesta e valorosa,
e degna veramente d'ogni loda:
il cavallier, di stirpe generosa,
di tanto ardir, quanto più d'altri s'oda.
E ben conviensi a tal valor, che cosa
di tanto prezzo e sì eccellente goda.
Olindro il cavallier da Lungavilla,
la donna nominata era Drusilla.

Non men di questa il giovene Tanacro
arse, che il suo fratel di quella ardesse,
che gli fe' gustar fine acerbo ed acro
del desiderio ingiusto che in lei messe.
Non men di lui di violar del sacro
e santo ospizio ogni ragione ellesse,
più tosto che patir che il duro e forte
nuovo desir lo conducesse a morte.

Ma perche avea dinanzi agli occhi il tema
del suo fratel che n'era stato morto,
pensa di torla in guisa, che non tema
che Olindro s'abbia a vendicar del torto.
Tosto s'estingue in lui, non pur si scema
quella virtù su che solea star sorto;
ché non lo sommergean dei vizi l'acque,
de le quai sempre al fondo il padre giacque.

Con gran silenzio fece quella notte
seco raccor da vent'uomini armati;
e lontan dal castel, fra certe grotte
che si trovan tra via, messe gli aguati.
Quivi ad Olindro il dì le strade rotte,
e chiusi i passi fur da tutti i lati;
e ben che fe' lunga difesa e molta,
pur la moglie e la vita gli fu tolta.

Ucciso Olindro, ne menò captiva
la bella donna, addolorata in guisa,
che a patto alcun restar non volea viva,
e di grazia chiedea d'essere uccisa.
Per morir si gittò giù d'una riva
che vi trovò sopra un vallone assisa;
e non poté morir, ma con la testa
rotta rimase, e tutta fiacca e pesta.

Altrimente Tanacro riportarla
a casa non poté che s'una bara.
Fece con diligenza medicarla;
che perder non volea preda sì cara.
E mentre che s'indugia a risanarla,
di celebrar le nozze si prepara:
che aver sì bella donna e sì pudica
debbe nome di moglie, e non d'amica.

Non pensa altro Tanacro, altro non brama,
d'altro non cura, e d'altro mai non parla.
Si vede averla offesa, e se ne chiama
in colpa, e ciò che può, fa d'emendarla.
Ma tutto è invano: quanto egli più l'ama,
quanto più s'affatica di placarla,
tant'ella odia più lui, tanto è più forte,
tanto è più ferma in voler porlo a morte.

Ma non però quest'odio così ammorza
la conoscenza in lei, che non comprenda
che, se vuol far quanto disegna, è forza
che simuli, ed occulte insidie tenda;
e che il desir sotto contraria scorza
(il quale è sol come Tanacro offenda)
veder gli faccia; e che si mostri tolta
dal primo amore, e tutto a lui rivolta.

Simula il viso pace; ma vendetta
chiama il cor dentro, e ad altro non attende.
Molte cose rivolge, alcune accetta,
altre ne lascia, ed altre in dubbio appende.
Le par che quando essa a morir si metta,
avrà il suo intento; e quivi al fin s'apprende.
E dove meglio può morire, o quando,
che il suo caro marito vendicando?

Ella si mostra tutta lieta, e finge
di queste nozze aver sommo disio;
e ciò che può indugiarle, a dietro spinge,
non che ella mostri averne il cor restio.
Più de l'altre s'adorna e si dipinge:
Olindro al tutto par messo in oblio.
Ma che sian fatte queste nozze vuole,
come ne la sua patria far si suole.

Non era però ver che questa usanza
che dir volea, ne la sua patria fosse:
ma, perché in lei pensier mai non avanza,
che spender possa altrove, imaginosse
una bugia, la qual le diè speranza
di far morir chi il suo signor percosse:
e disse di voler le nozze a guisa
de la sua patria, e il modo gli devisa.

- La vedovella che marito prende,
deve, prima (dicea) che a lui s'appresse,
placar l'alma del morto che ella offende,
facendo celebrargli offici e messe,
in remission de le passate mende,
nel tempio ove di quel son l'ossa messe;
e dato fin che al sacrificio sia,
alla sposa l'annel lo sposo dia:

ma che abbia in questo mezzo il sacerdote
sul vino ivi portato a tale effetto
appropriate orazion devote,
sempre il liquor benedicendo, detto;
indi che il fiasco in una coppa vote,
e dia alli sposi il vino benedetto:
ma portare alla sposa il vino tocca,
ed esser prima a porvi su la bocca. -

Tanacro, che non mira quanto importe
che ella le nozze alla sua usanza faccia,
le dice: - Pur che il termine si scorte
d'essere insieme, in questo si compiaccia. -
Né s'avede il meschin che essa la morte
d'Olindro vendicar così procaccia,
e sì la voglia ha in uno oggetto intensa,
che sol di quello, e mai d'altro non pensa.

Avea seco Drusilla una sua vecchia,
che seco presa, seco era rimasa.
A sé chiamolla, e le disse all'orecchia,
sì che non poté udire uomo di casa:
- Un subitano tosco m'apparecchia,
qual so che sai comporre, e me lo invasa;
c'ho trovato la via di vita torre
il traditor figliuol di Marganorre.

E me so come, e te salvar non meno:
ma diferisco a dirtelo più ad agio. -
Andò la vecchia, e apparecchiò il veneno,
ed acconciollo, e ritornò al palagio.
Di vin dolce di Candia un fiasco pieno
trovò da por con quel succo malvagio,
e lo serbò pel giorno de le nozze;
che omai tutte l'indugie erano mozze.

Lo statuito giorno al tempio venne,
di gemme ornata e di leggiadre gonne,
ove d'Olindro, come gli convenne,
fatto avea l'arca alzar su due colonne.
Quivi l'officio si cantò solenne:
trasseno a udirlo tutti, uomini e donne,
e lieto Marganor più de l'usato,
venne col figlio e con gli amici a lato.

Tosto che al fin le sante esequie foro,
e fu col tosco il vino benedetto,
il sacerdote in una coppa d'oro
lo versò, come avea Drusilla detto.
Ella ne bebbe quanto al suo decoro
si conveniva, e potea far l'effetto:
poi diè allo sposo con viso giocondo
il nappo; e quel gli fe' apparire il fondo.

Renduto il nappo al sacerdote, lieto
per abbracciar Drusilla apre le braccia.
Or quivi il dolce stile e mansueto
in lei si cangia e quella gran bonaccia.
Lo spinge a dietro, e gli ne fa divieto,
e par che arda negli occhi e ne la faccia;
e con voce terribile e incomposta
gli grida: - Traditor, da me ti scosta!

Tu dunque avrai da me solazzo e gioia,
io lagrime da te, martìri e guai?
Io vo' per le mie man che ora tu muoia:
questo è stato venen, se tu nol sai.
Ben mi duol c'hai troppo onorato boia,
che troppo lieve e facil morte fai;
che mani e pene io non so sì nefande,
che fosson pari al tuo peccato grande.

Mi duol di non vedere in questa morte
il sacrificio mio tutto perfetto:
che s'io il poteva far di quella sorte
che era il disio, non avria alcun difetto.
Di ciò mi scusi il dolce mio consorte:
riguardi al buon volere, e l'abbia accetto;
che non potendo come avrei voluto,
io t'ho fatto morir come ho potuto.

E la punizion che qui, secondo
il desiderio mio, non posso darti,
spero l'anima tua ne l'altro mondo
veder patire; ed io starò a mirarti. -
Poi disse, alzando con viso giocondo
i turbidi occhi alle superne parti:
- Questa vittima, Olindro, in tua vendetta
col buon voler de la tua moglie accetta;

ed impetra per me dal Signor nostro
grazia, che in paradiso oggi io sia teco.
Se ti dirà che senza merto al vostro
regno anima non vien, dio che io l'ho meco;
che di questo empio e scelerato mostro
le spoglie opime al santo tempio arreco.
E che merti esser puon maggior di questi,
spegner sì brutte e abominose pesti? -

Finì il parlare insieme con la vita;
e morta anco parea lieta nel volto
d'aver la crudeltà così punita
di chi il caro marito le avea tolto.
Non so se prevenuta, o se seguita
fu da lo spirto di Tanacro sciolto:
fu prevenuta, credo; che effetto ebbe
prima il veneno in lui, perché più bebbe.

Marganor che cader vede il figliuolo,
e poi restar ne le sue braccia estinto,
fu per morir con lui, dal grave duolo
che alla sprovista lo trafisse, vinto.
Duo n'ebbe un tempo, or si ritrova solo:
due femine a quel termine l'han spinto.
La morte a l'un da l'una fu causata;
e l'altra all'altro di sua man l'ha data.

Amor, pietà, sdegno, dolore ed ira,
disio di morte e di vendetta insieme
quell'infelice ed orbo padre aggira,
che, come il mar che turbi il vento, freme.
Per vendicarsi va a Drusilla, e mira
che di sua vita ha chiuse l'ore estreme;
e come il punge e sferza l'odio ardente,
cerca offendere il corpo che non sente.

Qual serpe che ne l'asta che alla sabbia
la tenga fissa, indarno i denti metta;
o qual mastin che al ciottolo che gli abbia
gittato il viandante, corra in fretta,
e morda invano con stizza e con rabbia,
né se ne voglia andar senza vendetta:
tal Marganor d'ogni mastin, d'ogni angue
via più crudel, fa contra il corpo esangue.

E poi che per stracciarlo e farne scempio
non si sfoga il fellon né disacerba,
vien fra le donne di che è pieno il tempio,
né più l'una de l'altra ci riserba;
ma di noi fa col brando crudo ed empio
quel che fa con la falce il villan d'erba.
Non vi fu alcun ripar, che in un momento
trenta n'uccise, e ne ferì ben cento.

Egli da la sua gente è sì temuto,
che uomo non fu che ardisse alzar la testa.
Fuggon le donne col popul minuto
fuor de la chiesa, e chi può uscir, non resta.
Quel pazzo impeto al fin fu ritenuto
dagli amici con prieghi e forza onesta,
e lasciando ogni cosa in pianto al basso,
fatto entrar ne la rocca in cima al sasso.

E tuttavia la colera durando,
di cacciar tutte per partito prese;
poi che gli amici e il populo pregando,
che non ci uccise a fatto, gli contese:
e quel medesmo dì fe' andare un bando,
che tutte gli sgombrassimo il paese;
e darci qui gli piacque le confine.
Misera chi al castel più s'avvicine!

Da le mogli così furo i mariti,
da le madri così i figli divisi.
S'alcuni sono a noi venire arditi,
nol sappia già chi Marganor n'avisi;
che di multe gravissime puniti
n'ha molti, e molti crudelmente uccisi.
Al suo castello ha poi fatto una legge,
di cui peggior non s'ode né si legge.

Ogni donna che trovin ne la valle,
la legge vuol (che alcuna pur vi cade)
che percuotan con vimini alle spalle,
e la faccian sgombrar queste contrade:
ma scorciar prima i panni, e mostrar falle
quel che Natura asconde ed Onestade;
e s'alcuna vi va, che armata scorta
abbia di cavallier, vi resta morta.

Quelle c'hanno per scorta cavallieri,
son da questo nimico di pietate,
come vittime, tratte ai cimiteri
dei morti figli, e di sua man scannate.
Leva con ignominia arme e destrieri,
e poi caccia in prigion chi l'ha guidate:
e lo può far; che sempre notte e giorno
si trova più di mille uomini intorno.

E dir di più vi voglio ancora, che esso,
s'alcun ne lascia, vuol che prima giuri
su l'ostia sacra, che il femineo sesso
in odio avrà fin che la vita duri.
Se perder queste donne e voi appresso
dunque vi pare, ite a veder quei muri
ove alberga il fellone, e fate prova
s'in lui più forza o crudeltà si trova. -

Così dicendo, le guerriere mosse
prima a pietade, e poscia a tanto sdegno,
che se, come era notte, giorno fosse,
sarian corse al castel senza ritegno.
La bella compagnia quivi pososse;
e tosto che l'Aurora fece segno
che dar dovesse al Sol loco ogni stella,
ripigliò l'arme e si rimesse in sella.

Già sendo in atto di partir, s'udiro
le strade risonar dietro le spalle
d'un lungo calpestio, che gli occhi in giro
fece a tutti voltar giù ne la valle.
E lungi quanto esser potrebbe un tiro
di mano, andar per uno istretto calle
vider da forse venti armati in schiera,
di che parte in arcion, parte a pied'era;

e che traean con lor sopra un cavallo
donna che al viso aver parea molt'anni,
a guisa che si mena un che per fallo
a fuoco o a ceppo o a laccio si condanni:
la qual fu, non ostante l'intervallo,
tosto riconosciuta al viso e ai panni.
La riconobber queste de la villa
esser la cameriera di Drusilla:

la cameriera che con lei fu presa
dal rapace Tanacro, come ho detto,
ed a chi fu dipoi data l'impresa
di quel venen che fe' il crudele effetto.
Non era entrata ella con l'altre in chiesa;
che di quel che seguì stava in sospetto:
anzi in quel tempo, de la villa uscita,
ove esser sperò salva, era fugita.

Avuto Marganor poi di lei spia,
la qual s'era ridotta in Ostericche,
non ha cessato mai di cercar via
come in man l'abbia, acciò l'abruci o impicche:
e finalmente l'Avarizia ria,
mossa da doni e da proferte ricche,
ha fatto che un baron, che assicurata
l'avea in sua terra, a Marganor l'ha data:

e mandata glie l'ha fin a Costanza
sopra un somier, come la merce s'usa,
legata e stretta, e toltole possanza
di far parole, e in una cassa chiusa:
onde poi questa gente l'ha ad istanza
de l'uom che ogni pietade ha da sé esclusa,
quivi condotta con disegno che abbia
l'empio a sfogar sopra di lei sua rabbia.

Come il gran fiume che di Vesulo esce,
quanto più inanzi e verso il mar discende,
e che con lui Lambra e Ticin si mesce,
ed Ada e gli altri onde tributo prende,
tanto più altiero e impetuoso cresce;
così Ruggier, quante più colpe intende
di Marganor, così le due guerriere
se gli fan contra più sdegnose e fiere.

Elle fur d'odio, elle fur d'ira tanta
contra il crudel, per tante colpe, accese,
che di punirlo, mal grado di quanta
gente egli avea, conclusion si prese.
Ma dargli presta morte troppo santa
pena lor parve e indegna a tante offese;
ed era meglio fargliela sentire,
fra strazio prolungandola e martìre.

Ma prima liberar la donna è onesto,
che sia condotta da quei birri a morte.
Lentar di briglia col calcagno presto
fece a' presti destrier far le vie corte.
Non ebbon gli assaliti mai di questo
uno incontro più acerbo né più forte;
sì che han di grazia di lasciar gli scudi
e la donna e l'arnese, e fuggir nudi:

sì come il lupo che di preda vada
carco alla tana, e quando più si crede
d'esser sicur, dal cacciator la strada
e da' suoi cani attraversar si vede,
getta la soma, e dove appar men rada
la scura macchia inanzi, affretta il piede.
Già men presti non fur quelli a fuggire,
che li fusson quest'altri ad assalire.

Non pur la donna e l'arme vi lasciaro,
ma de' cavalli ancor lasciaron molti,
e da rive e da grotte si lanciaro,
parendo lor così d'esser più sciolti.
Il che alle donne ed a Ruggier fu caro;
che tre di quei cavalli ebbono tolti
per portar quelle tre che il giorno d'ieri
feron sudar le groppe ai tre destrieri.

Quindi espediti segueno la strada
verso l'infame e dispietata villa.
Voglion che seco quella vecchia vada,
per veder la vendetta di Drusilla.
Ella che teme che non ben le accada,
lo niega indarno, e piange e grida e strilla;
ma per forza Ruggier la leva in groppa
del buon Frontino, e via con lei galoppa.

Giunseno in somma onde vedeano al basso
di molte case un ricco borgo e grosso,
che non serrava d'alcun lato il passo,
perché né muro intorno avea né fosso.
Avea nel mezzo un rilevato sasso
che un'alta rocca sostenea sul dosso.
A quella si drizzar con gran baldanza,
che esser sapean di Marganor la stanza.

Tosto che son nel borgo, alcuni fanti
che v'erano alla guardia de l'entrata,
dietro chiudon la sbarra, e già davanti
veggion che l'altra uscita era serrata:
ed ecco Marganorre, e seco alquanti
a piè e a cavallo, e tutta gente armata;
che con brevi parole, ma orgogliose,
la ria costuma di sua terra espose.

Marfisa, la qual prima avea composta
con Bradamante e con Ruggier la cosa,
gli spronò incontro in cambio di risposta;
e com'era possente e valorosa,
senza che abbassi lancia, o che sia posta
in opra quella spada sì famosa,
col pugno in guisa l'elmo gli martella,
che lo fa tramortir sopra la sella.

Con Marfisa la giovane di Francia
spinge a un tempo il destrier, né Ruggier resta
ma con tanto valor corre la lancia,
che sei, senza levarsela di resta,
n'uccide, uno ferito ne la pancia,
duo nel petto, un nel collo, un ne la testa:
nel sesto che fuggia l'asta si roppe,
che entrò alle schene e riuscì alle poppe.

La figliuola d'Amon quanti ne tocca
con la sua lancia d'or, tanti n'atterra:
fulmine par, che il cielo ardendo scocca,
che ciò che incontra, spezza e getta a terra.
Il popul sgombra, chi verso la rocca,
chi verso il piano; altri si chiude e serra,
chi ne le chiese e chi ne le sue case;
né, fuor che morti, in piazza uomo rimase.

Marfisa Marganorre avea legato
intanto con le man dietro alle rene,
ed alla vecchia di Drusilla dato,
che appagata e contenta se ne tiene.
D'arder quel borgo poi fu ragionato,
s'a penitenza del suo error non viene:
levi la legge ria di Marganorre,
e questa accetti, che essa vi vuol porre.

Non fu già d'ottener questo fatica;
con quella gente, oltre al timor che avea
che più faccia Marfisa che non dica,
che uccider tutti ed abbruciar volea,
di Marganorre affatto era nimica
e de la legge sua crudele e rea.
Ma il populo facea come i più fanno,
che ubbidiscon più a quei che più in odio hanno.

Però che l'un de l'altro non si fida,
e non ardisce conferir sua voglia,
lo lascian che un bandisca, un altro uccida,
a quel l'avere, a questo l'onor toglia.
Ma il cor che tace qui, su nel ciel grida,
fin che Dio e santi alla vendetta invoglia;
la qual, se ben tarda a venir, compensa
l'indugio poi con punizione immensa.

Or quella turba d'ira e d'odio pregna
con fatti e con mal dir cerca vendetta:
com'è in proverbio, ognun corre a far legna
all'arbore che il vento in terra getta.
Sia Marganorre esempio di chi regna;
che chi mal opra, male al fine aspetta.
Di vederlo punir de' suoi nefandi
peccati, avean piacer piccioli e grandi.

Molti a chi fur le mogli o le sorelle
o le figlie o le madri da lui morte,
non più celando l'animo ribelle,
correan per dargli di lor man la morte:
e con fatica lo difeser quelle
magnanime guerriere e Ruggier forte;
che disegnato avean farlo morire
d'affanno, di disagio e di martire.

A quella vecchia che l'odiava quanto
femina odiare alcun nimico possa,
nudo in mano lo dier, legato tanto,
che non si scioglierà per una scossa;
ed ella, per vendetta del suo pianto,
gli andò facendo la persona rossa
con un stimulo aguzzo che un villano,
che quivi si trovò, le pose in mano.

La messaggera e le sue giovani anco,
che quell'onta non son mai per scordarsi,
non s'hanno più a tener le mani al fianco,
né meno che la vecchia, a vendicarsi;
ma sì è il desir d'offenderlo, che manco
viene il potere, e pur vorrian sfogarsi:
chi con sassi il percuote, chi con l'unge;
altra lo morde, altra cogli aghi il punge.

Come torrente che superbo faccia
lunga pioggia talvolta o nievi sciolte,
va ruinoso, e giù da' monti caccia
gli arbori e i sassi e i campi e le ricolte;
vien tempo poi, che l'orgogliosa faccia
gli cade, e sì le forze gli son tolte,
che un fanciullo, una femina per tutto
passar lo puote, e spesso a piede asciutto:

così già fu che Marganorre intorno
fece tremar, dovunque udiasi il nome;
or venuto è chi gli ha spezzato il corno
di tanto orgoglio, e sì le forze dome,
che gli puon far sin a' bambini scorno,
chi pelargli la barba e chi le chiome.
Quindi Ruggiero e le donzelle il passo
alla rocca voltar, che era sul sasso.

La diè senza contrasto in poter loro
chi v'era dentro, e così i ricchi arnesi,
che in parte messi a sacco, in parte foro
dati ad Ullania ed a' compagni offesi.
Ricovrato vi fu lo scudo d'oro,
e quei tre re che avea il tiranno presi,
li quai venendo quivi, come parmi
d'avervi detto, erano a piè senz'armi;

perché dal dì che fur tolti di sella
da Bradamante, a piè sempre eran iti
senz'arme, in compagnia de la donzella
la qual venìa da sì lontani liti.
Non so se meglio o peggio fu di quella,
che di lor armi non fusson guerniti.
Era ben meglio esser da lor difesa;
ma peggio assai, se ne perdean l'impresa:

perché stata saria, com'eran tutte
quelle che armate avean seco le scorte,
al cimitero misere condutte
dei due fratelli, e in sacrificio morte.
Gli è pur men che morir, mostrar le brutte
e disoneste parti, duro e forte;
e sempre questo e ogn'altro obbrobrio amorza
il poter dir che le sia fatto a forza.

Prima che indi si partan le guerriere,
fan venir gli abitanti a giuramento,
che daranno i mariti alle mogliere
de la terra e del tutto il reggimento;
e castigato con pene severe
sarà chi contrastare abbia ardimento.
In somma quel che altrove è del marito,
che sia qui de la moglie è statuito.

Poi si feccion promettere che a quanti
mai verrian quivi, non darian ricetto,
o fosson cavallieri, o fosson fanti,
né 'ntrar li lascerian pur sotto un tetto,
se per Dio non giurassino e per santi,
o s'altro giuramento v'è più stretto,
che sarian sempre de le donne amici,
e dei nimici lor sempre nimici;

e s'avranno in quel tempo, e se saranno,
tardi o più tosto, mai per aver moglie,
che sempre a quelle sudditi saranno,
e ubbidienti a tutte le lor voglie.
Tornar Marfisa, prima che esca l'anno,
disse, e che perdan gli arbori le foglie;
e se la legge in uso non trovasse,
fuoco e ruina il borgo s'aspettasse.

Né quindi si partir, che de l'immondo
luogo dov'era, fer Drusilla torre,
e col marito in uno avel, secondo
che ivi potean più riccamente porre.
La vecchia facea intanto rubicondo
con lo stimulo il dosso a Marganorre:
sol si dolea di non aver tal lena,
che potesse non dar triegua alla pena.

L'animose guerriere a lato un tempio
videno quivi una colonna in piazza,
ne la qual fatt'avea quel tiranno empio
scriver la legge sua crudele e pazza.
Elle, imitando d'un trofeo l'esempio,
lo scudo v'attaccaro e la corazza
di Marganorre e l'elmo; e scriver fenno
la legge appresso, che esse al loco denno.

Quivi s'indugiar tanto, che Marfisa
fe' por la legge sua ne la colonna,
contraria a quella che già v'era incisa
a morte ed ignominia d'ogni donna.
Da questa compagnia restò divisa
quella d'Islanda, per rifar la gonna;
che comparire in corte obbrobrio stima,
se non si veste ed orna come prima.

Quivi rimase Ullania; e Marganorre
di lei restò in potere: ed essa poi,
perché non s'abbia in qualche modo a sciorre,
e le donzelle un'altra volta annoi,
lo fe' un giorno saltar giù d'una torre,
che non fe' il maggior salto a' giorni suoi.
Non più di lei, né più dei suoi si parli,
ma de la compagnia che va verso Arli.

Tutto quel giorno, e l'altro fin appresso
l'ora di terza andaro; e poi che furo
giunti dove in due strade è il camin fesso
(l'una va al campo, e l'altra d'Arli al muro),
tornar gli amanti ad abbracciarsi, e spesso
a tor commiato, e sempre acerbo e duro.
Al fin le donne in campo, e in Arli è gito
Ruggiero; ed io il mio canto ho qui finito.





CANTO TRENTOTTESIMO


Cortesi donne, che benigna udienza
date a' miei versi, io vi veggo al sembiante,
che quest'altra sì subita partenza
che fa Ruggier da la sua fida amante,
vi dà gran noia, e avete displicenza
poco minor che avesse Bradamante;
e fate anco argumento che esser poco
in lui dovesse l'amoroso fuoco.

Per ogni altra cagion che allontanato
contra la voglia d'essa se ne fusse,
ancor che avesse più tesor sperato
che Creso o Crasso insieme non ridusse,
io crederia con voi, che penetrato
non fosse al cor lo stral che lo percusse;
che un almo gaudio, un così gran contento
non potrebbe comprare oro né argento.

Pur, per salvar l'onor, non solamente
d'escusa, ma di laude è degno ancora;
per salvar, dico, in caso che altrimente
facendo, biasmo ed ignominia fôra:
e se la donna fosse renitente
ed ostinata in fargli far dimora,
darebbe di sé indizio e chiaro segno
o d'amar poco o d'aver poco ingegno.

Che se l'amante de l'amato deve
la vita amar più de la propria, o tanto
(io parlo d'uno amante a cui non lieve
colpo d'Amor passò più là del manto);
al piacer tanto più, che esso riceve,
l'onor di quello antepor deve, quanto
l'onore è di più pregio che la vita,
che a tutti altri piaceri è preferita.

Fece Ruggiero il debito a seguire
il suo signor, che non se ne potea,
se non con ignominia, dipartire;
che ragion di lasciarlo non avea.
E s'Almonte gli fe' il padre morire,
tal colpa in Agramante non cadea;
che in molti effetti avea con Ruggier poi
emendato ogni error dei maggior suoi.

Farà Ruggiero il debito a tornare
al suo signore; ed ella ancor lo fece,
che sforzar non lo volse di restare,
come potea, con iterata prece.
Ruggier potrà alla donna satisfare
a un altro tempo, s'or non satisfece:
ma all'onor, chi gli manca d'un momento,
non può in cento anni satisfar né in cento.

Torna Ruggiero in Arli, ove ha ritratta
Agramante la gente che gli avanza.
Bradamante e Marfisa, che contratta
col parentado avean grande amistanza,
andaro insieme ove re Carlo fatta
la maggior prova avea di sua possanza,
sperando, o per battaglia o per assedio,
levar di Francia così lungo tedio.

Di Bradamante, poi che conosciuta
in campo fu, si fe' letizia e festa:
ognun la riverisce e la saluta;
ed ella a questo e a quel china la testa.
Rinaldo, come udì la sua venuta,
le venne incontra; né Ricciardo resta
né Ricciardetto od altri di sua gente,
e la raccoglion tutti allegramente.

Come s'intese poi che la compagna
era Marfisa, in arme sì famosa,
che dal Cataio ai termini di Spagna
di mille chiare palme iva pomposa;
non è povero o ricco che rimagna
nel padiglion: la turba disiosa
vien quinci e quindi, e s'urta, storpia e preme
sol per veder sì bella coppia insieme.

A Carlo riverenti appresentarsi.
Questo fu il primo dì (scrive Turpino)
che fu vista Marfisa inginocchiarsi;
che sol le parve il figlio di Pipino
degno, a cui tanto onor dovesse farsi,
tra quanti, o mai nel popul saracino
o nel cristiano, imperatori e regi
per virtù vide o per ricchezza egregi.

Carlo benignamente la raccolse,
e le uscì incontra fuor dei padiglioni;
e che sedesse a lato suo poi volse
sopra tutti re, principi e baroni.
Si diè licenza a chi non se la tolse;
sì che tosto restaro in pochi e buoni:
restaro i paladini e i gran signori;
la vilipesa plebe andò di fuori.

Marfisa cominciò con grata voce:
- Eccelso, invitto e glorioso Augusto,
che dal mar Indo alla Tirinzia foce,
dal bianco Scita all'Etiope adusto
riverir fai la tua candida croce,
né di te regna il più saggio o il più giusto;
tua fama, che alcun termine non serra,
qui tratto m'ha fin da l'estrema terra.

E, per narrarti il ver, sola mi mosse
invidia, e sol per farti guerra io venni,
acciò che sì possente un re non fosse,
che non tenesse la legge che io tenni.
Per questo ho fatto le campagne rosse
del cristian sangue; ed altri fieri cenni
era per farti da crudel nimica,
se non cadea chi mi t'ha fatto amica.

Quando nuocer pensai più alle tue squadre,
io trovo (e come sia dirò più adagio)
che il bon Ruggier di Risa fu mio padre,
tradito a torto dal fratel malvagio.
Portommi in corpo mia misera madre
di là dal mare, e nacqui in gran disagio.
Nutrimmi un mago infin al settimo anno,
a cui gli Arabi poi rubata m'hanno.

E mi vendero in Persia per ischiava
a un re che poi cresciuta io posi a morte;
che mia virginità tor mi cercava.
Uccisi lui con tutta la sua corte;
tutta cacciai la sua progenie prava,
e presi il regno; e tal fu la mia sorte,
che diciotto anni d'uno o di due mesi
io non passai, che sette regni presi.

E di tua fama invidiosa, come
io t'ho già detto, avea fermo nel core
la grande altezza abbatter del tuo nome:
forse il faceva, o forse era in errore.
Ma ora avvien che questa voglia dome,
e faccia cader l'ale al mio furore,
l'aver inteso, poi che qui son giunta,
come io ti son d'affinità congiunta.

E come il padre mio parente e servo
ti fu, ti son parente e serva anche io:
e quella invidia e quell'odio protervo
il qual io t'ebbi un tempo, or tutto oblio;
anzi contra Agramante io lo riservo,
e contra ogn'altro che sia al padre o al zio
di lui stato parente, che fur rei
di porre a morte i genitori miei. -

E seguitò, voler cristiana farsi,
e dopo che avrà estinto il re Agramante,
voler piacendo a Carlo, ritornarsi
a battezzare il suo regno in Levante;
ed indi contra tutto il mondo armarsi,
ove Macon s'adori e Trivigante;
e con promission, che ogni suo acquisto
sia de l'Impero e de la fé di Cristo.

L'imperator, che non meno eloquente
era, che fosse valoroso e saggio,
molto esaltando la donna eccellente,
e molto il padre e molto il suo lignaggio,
rispose ad ogni parte umanamente,
e mostrò in fronte aperto il suo coraggio;
e conchiuse ne l'ultima parola,
per parente accettarla e per figliuola.

E qui si leva, e di nuovo l'abbraccia,
e, come figlia, bacia ne la fronte.
vengono tutti con allegra faccia
quei di Mongrana e quei di Chiaramonte.
Lungo a dir fôra, quanto onor le faccia
Rinaldo, che di lei le prove conte
vedute avea più volte al paragone,
quando Albracca assediar col suo girone.

Lungo a dir fôra, quanto il giovinetto
Guidon s'allegri di veder costei,
Aquilante e Grifone e Sansonetto
che alla città crudel furon con lei;
Malagigi e Viviano e Ricciardetto,
che all'occision de' Maganzesi rei
e di quei venditori empi di Spagna
l'aveano avuta sì fedel compagna.

Apparecchiar per lo seguente giorno,
ed ebbe cura Carlo egli medesmo,
che fosse un luogo riccamente adorno,
ove prendesse Marfisa battesmo.
I vescovi e gran chierici d'intorno,
che le leggi sapean del cristianesmo,
fece raccorre, acciò da lor in tutta
la santa fé fosse Marfisa istrutta.

Venne in pontificale abito sacro
l'arcivesco Turpino, e battizzolla:
Carlo dal salutifero lavacro
con cerimonie debite levolla.
Ma tempo è ormai che al capo voto e macro
di senno si soccorra con l'ampolla,
con che dal ciel più basso ne venìa
il duca Astolfo sul carro d'Elia.

Sceso era Astolfo dal giro lucente
alla maggiore altezza de la terra,
con la felice ampolla che la mente
dovea sanare al gram mastro di guerra.
Un'erba quivi di virtù eccellente
mostra Giovanni al duca d'Inghilterra:
con essa vuol che al suo ritorno tocchi
al re di Nubia e gli risani gli occhi;

acciò per questi e per li primi merti
gente gli dia con che Biserta assaglia.
E come poi quei populi inesperti
armi ed acconci ad uso di battaglia,
e senza danno passi pei deserti
ove l'arena gli uomini abbarbaglia,
a punto a punto l'ordine che tegna,
tutto il vecchio santissimo gli insegna.

Poi lo fe' rimontar su quello alato
che di Ruggiero, e fu prima d'Atlante.
Il paladin lasciò, licenziato
da San Giovanni, le contrade sante;
e secondando il Nilo a lato a lato,
tosto i Nubi apparir si vide inante;
e ne la terra che del regno è capo
scese da l'aria, e ritrovò il Senapo.

Molto fu il gaudio e molta fu la gioia
che portò a quel signor nel suo ritorno;
che ben si raccordava de la noia
che gli avea tolta, de l'arpie, d'intorno.
Ma poi che la grossezza gli discuoia
di quello umor che già gli tolse il giorno,
e che gli rende la vista di prima,
l'adora e cole, e come un Dio sublima:

sì che non pur la gente che gli chiede
per muover guerra al regno di Biserta,
ma centomila sopra gli ne diede,
e gli fe' ancor di sua persona offerta.
La gente a pena, che era tutta a piede,
potea capir ne la campagna aperta;
che di cavalli ha quel paese inopia,
ma d'elefanti e de camelli copia.

La notte inanzi il dì che a suo camino
l'esercito di Nubia dovea porse,
montò su l'ippogrifo il paladino,
e verso mezzodì con fretta corse,
tanto che giunse al monte che l'austrino
vento produce e spira contra l'Orse.
Trovò la cava, onde per stretta bocca,
quando si desta, il furioso scocca.

E come raccordògli il suo maestro,
avea seco arrecato un utre voto,
il qual, mentre ne l'antro oscuro e alpestro,
affaticato dorme il fiero Noto,
allo spiraglio pon tacito e destro:
ed è l'aguato in modo al vento ignoto,
che, credendosi uscir fuor la dimane,
preso e legato in quello utre rimane.

Di tanta preda il paladino allegro,
ritorna in Nubia, e la medesma luce
si pone a caminar col popul negro,
e vettovaglia dietro si conduce.
A salvamento con lo stuolo integro
verso l'Atlante il glorioso duce
pel mezzo vien de la minuta sabbia,
senza temer che il vento a nuocer gli abbia.

E giunto poi di qua dal giogo, in parte
onde il pian si discuopre e la marina,
Astolfo elegge la più nobil parte
del campo, e la meglio atta a disciplina;
e qua e là per ordine la parte
a piè d'un colle, ove nel pian confina.
Quivi la lascia, e su la cima ascende
in vista d'uom che a gran pensieri intende.

Poi che, inchinando le ginocchia, fece
al santo suo maestro orazione,
sicuro che sia udita la sua prece,
copia di sassi a far cader si pone.
Oh quanto a chi ben crede in Cristo, lece!
I sassi, fuor di natural ragione
crescendo, si vedean venire in giuso,
e formar ventre e gambe e collo e muso:

e con chiari anitrir giù per quei calli
venian saltando, e giunti poi nel piano
scuotean le groppe, e fatti eran cavalli,
chi baio e chi leardo e chi rovano.
La turba che aspettando ne le valli
stava alla posta, lor dava di mano:
sì che in poche ore fur tutti montati;
che con sella e con freno erano nati.

Ottantamila cento e dua in un giorno
fe', di pedoni, Astolfo cavallieri.
Con questi tutta scorse Africa intorno,
facendo prede, incendi e prigionieri.
Posto Agramante avea fin al ritorno
il re di Fersa e il re degli Algazeri,
col re Branzardo a guardia del paese:
e questi si fer contra al duca inglese;

prima avendo spacciato un suttil legno,
che a vele e a remi andò battendo l'ali,
ad Agramante aviso, come il regno
patia dal re de' Nubi oltraggi e mali.
Giorno e notte andò quel senza ritegno,
tanto che giunse ai liti provenzali;
e trovò in Arli il suo re mezzo oppresso,
che il campo avea di Carlo un miglio appresso.

Sentendo il re Agramante a che periglio,
per guadagnare il regno di Pipino,
lasciava il suo, chiamar fece a consiglio
principi e re del popul saracino.
E poi che una o due volte girò il ciglio
quinci a Marsilio e quindi al re Sobrino,
i quai d'ogni altro fur, che vi venisse,
i duo più antiqui e saggi, così disse:

- Quantunque io sappia come mal convegna
a un capitano dir: non mel pensai,
pur lo dirò; che quando un danno vegna
da ogni discorso uman lontano assai,
a quel fallir par che sia escusa degna:
e qui si versa il caso mio; che errai
a lasciar d'arme l'Africa sfornita,
se da li Nubi esser dovea assalita.

Ma chi pensato avria, fuor che Dio solo,
a cui non è cosa futura ignota,
che dovesse venir con sì gran stuolo
a farne danno gente sì remota?
tra i quali e noi giace l'instabil suolo
di quella arena ognor da' venti mota.
Pur è venuta ad assediar Biserta,
ed ha in gran parte l'Africa deserta.

Or sopra ciò vostro consiglio chieggio:
se partirmi di qui senza far frutto,
o pur seguir tanto l'impresa deggio,
che prigion Carlo meco abbi condutto;
o come insieme io salvi il nostro seggio,
e questo imperial lasci distrutto.
S'alcun di voi sa dir, priego nol taccia,
acciò si trovi il meglio, e quel si faccia. -

Così disse Agramante; e volse gli occhi
al re di Spagna, che gli sedea appresso,
come mostrando di voler che tocchi
di quel c'ha detto, la risposta ad esso.
E quel, poi che surgendo ebbe i ginocchi
per riverenza, e così il capo flesso,
nel suo onorato seggio si raccolse;
indi la lingua a tai parole sciolse:

- O bene o mal che la Fama ci apporti,
signor, di sempre accrescere ha in usanza.
Perciò non sarà mai che io mi sconforti,
o mai più del dover pigli baldanza
per casi o buoni o rei, che sieno sorti:
ma sempre avrò di par tema e speranza
che esser debban minori, e non del modo
che a noi per tante lingue venir odo.

E tanto men prestar gli debbo fede,
quanto più al verisimile s'oppone.
Or se gli è verisimile si vede,
che abbia con tanto numer di persone
posto ne la pugnace Africa il piede
un re di sì lontana regione,
traversando l'arene a cui Cambise
con male augurio il popul suo commise.

Crederò ben, che sian gli Arabi scesi
da le montagne, ed abbian dato il guasto,
e saccheggiato, e morti uomini e presi,
ove trovato avran poco contrasto;
e che Branzardo che di quei paesi
luogotenente e viceré è rimasto,
per le decine scriva le migliaia,
acciò la scusa sua più degna paia.

Vo' concedergli ancor che sieno i Nubi
per miracol dal ciel forse piovuti:
o forse ascosi venner ne le nubi;
poi che non fur mai per camin veduti.
Temi tu che tal gente Africa rubi,
se ben di più soccorso non l'aiuti?
Il tuo presidio avria ben trista pelle,
quando temesse un populo sì imbelle.

Ma se tu mandi ancor che poche navi,
pur che si veggan gli stendardi tuoi,
non scioglieran di qua sì tosto i cavi,
che fuggiranno nei confini suoi
questi, o sien Nubi o sieno Arabi ignavi,
ai quali il ritrovarti qui con noi,
separato pel mar da la tua terra,
ha dato ardir di romperti la guerra.

Or piglia il tempo che, per esser senza
il suo nipote Carlo, hai di vendetta:
poi che Orlando non c'è, far resistenza
non ti può alcun de la nimica setta.
Se per non veder lasci, o negligenza,
l'onorata vittoria che t'aspetta,
volterà il calvo, ove ora il crin ne mostra,
con molto danno e lunga infamia nostra. -

Con questo ed altri detti accortamente
l'Ispano persuader vuol nel concilio
che non esca di Francia questa gente,
fin che Carlo non sia spinto in esilio.
Ma il re Sobrin, che vide apertamente
il camino a che andava il re Marsilio,
che più per l'util proprio queste cose,
che pel commun dicea, così rispose:

- Quando io ti confortava a stare in pace,
fosse io stato, signor, falso indovino;
o tu, se io dovea pure esser verace,
creduto avessi al tuo fedel Sobrino,
e non più tosto a Rodomonte audace,
a Marbalusto, a Alzirdo e a Martasino,
li quali ora vorrei qui avere a fronte:
ma vorrei più degli altri Rodomonte,

per rinfacciargli che volea di Francia
far quel che si faria d'un fragil vetro,
e in cielo e ne lo 'nferno la tua lancia
seguire, anzi lasciarsela di dietro;
poi nel bisogno si gratta la pancia
ne l'ozio immerso abominoso e tetro:
ed io, che per predirti il vero allora
codardo detto fui, son teco ancora;

e sarò sempremai, fin che io finisca
questa vita che ancor che d'anni grave,
porsi incontra ogni dì per te s'arrisca
a qualunque di Francia più nome have.
Né sarà alcun, sia chi si vuol, che ardisca
di dir che l'opre mie mai fosser prave:
e non han più di me fatto, né tanto,
molti che si donar di me più vanto.

Dico così, per dimostrar che quello
che io dissi allora, e che ti voglio or dire,
né da viltade vien né da cor fello,
ma d'amor vero e da fedel servire.
Io ti conforto che al paterno ostello,
più tosto che tu pòi, vogli redire;
che poco saggio si può dir colui
che perde il suo per acquistar l'altrui.

S'acquisto c'è, tu il sai. Trentadui fummo
re tuoi vassalli a uscir teco del porto:
or, se di nuovo il conto ne rassummo,
c'è a pena il terzo, e tutto il resto è morto.
Che non ne cadan più, piaccia a Dio summo:
ma se tu vuoi seguir, temo di corto,
che non ne rimarrà quarto né quinto;
e il miser popul tuo fia tutto estinto.

Che Orlando non ci sia, ne aiuta; che ove
siàn pochi, forse alcun non ci saria.
Ma per questo il periglio non rimuove,
se ben prolunga nostra sorte ria.
Ecci Rinaldo, che per molte prove
mostra che non minor d'Orlando sia:
c'è il suo lignaggio e tutti i paladini,
timore eterno a' nostri Saracini.

Ed hanno appresso quel secondo Marte
(ben che i nimici al mio dispetto lodo),
io dico il valoroso Brandimarte,
non men d'Orlando ad ogni prova sodo;
del qual provata ho la virtude in parte,
parte ne veggo all'altrui spese ed odo.
Poi son più dì che non c'è Orlando stato;
e più perduto abbiàn che guadagnato.

Se per adietro abbiàn perduto, io temo
che da qui inanzi perderen più in grosso.
Del nostro campo Mandricardo è scemo:
Gradasso il suo soccorso n'ha rimosso:
Marfisa n'ha lasciata al punto estremo,
e così il re d' Algier, di cui dir posso
che, se fosse fedel come gagliardo,
poco uopo era Gradasso o Mandricardo.

Ove sono a noi tolti questi aiuti,
e tante mila son dei nostri morti;
e quei che a venir han, son già venuti,
né s'aspetta altro legno che n'apporti:
quattro son giunti a Carlo, non tenuti
manco d'Orlando o di Rinaldo forti;
e con ragion; che da qui sino a Battro
potresti mal trovar tali altri quattro.

Non so se sai chi sia Guidon Selvaggio
e Sansonetto e i figli d'Oliviero.
Di questi fo più stima e più tema aggio,
che d'ogni altro lor duca e cavalliero
che di Lamagna o d'altro stran linguaggio
sia contra noi per aiutar l'Impero:
ben che importa anco assai la gente nuova
che a' nostri danni in campo si ritrova.

Quante volte uscirai alla campagna,
tanto avrai la peggiore, o sarai rotto.
Se spesso perdé il campo Africa e Spagna,
quando siàn stati sedici per otto,
che sarà poi che Italia e che Lamagna
con Francia è unita, e il populo anglo e scotto,
e che sei contra dodici saranno?
Che altro si può sperar, che biasmo e danno?

La gente qui, là perdi a un tempo il regno,
s'in questa impresa più duri ostinato;
ove, s'al ritornar muti disegno,
l'avanzo di noi servi con lo stato.
Lasciar Marsilio è di te caso indegno,
che ognun te ne terrebbe molto ingrato:
ma c'è rimedio, far con Carlo pace;
che a lui deve piacer, se a te pur piace.

Pur se ti par che non ci sia il tuo onore,
se tu, che prima offeso sei, la chiedi;
e la battaglia più ti sta nel core,
che, come sia fin qui successa, vedi;
studia almen di restarne vincitore:
il che forse averrà, se tu mi credi;
se d'ogni tua querela a un cavalliero
darai l'assunto, e se quel fia Ruggiero.

Io il so, e tu il sai che Ruggier nostro è tale,
che già da solo a sol con l'arme in mano
non men d'Orlando o di Rinaldo vale,
né d'alcun altro cavallier cristiano.
Ma se tu vuoi far guerra universale,
ancor che il valor suo sia sopraumano,
egli però non sarà più che un solo,
ed avrà di par suoi contra uno stuolo.

A me par, s'a te par, che a dir si mandi
al re cristian, che per finir le liti,
e perché cessi il sangue che tu spandi
ognor de' suoi, egli de' tuo' infiniti;
che contra un tuo guerrier tu gli domandi
che metta in campo uno dei suoi più arditi;
e faccian questi duo tutta la guerra,
fin che l'un vinca, e l'altro resti in terra:

con patto, che qual d'essi perde, faccia
che il suo re all'altro re tributo dia.
Questa condizion non credo spiaccia
a Carlo, ancor che sul vantaggio sia.
Mi fido sì ne le robuste braccia
poi di Ruggier, che vincitor ne fia;
e ragion tanta è da la nostra parte,
che vincerà, s'avesse incontra Marte. -

Con questi ed altri più efficaci detti
fece Sobrin sì che il partito ottenne;
e gli interpreti fur quel giorno eletti,
e quel dì a Carlo l'imbasciata venne.
Carlo che avea tanti guerrier perfetti,
vinta per sé quella battaglia tenne,
di cui l'impresa al buon Rinaldo diede,
in che avea, dopo Orlando, maggior fede.

Di questo accordo lieto parimente
l'uno esercito e l'altro si godea;
che il travaglio del corpo e de la mente
tutti avea stanchi e a tutti rincrescea.
Ognun di riposare il rimanente
de la sua vita disegnato avea;
ognun maledicea l'ire e i furori
che a risse e a gare avean lor desti i cori.

Rinaldo che esaltar molto si vede,
che Carlo in lui di quel che tanto pesa,
via più che in tutti gli altri, ha avuto fede,
lieto si mette all'onorata impresa.
Ruggier non stima; e veramente crede
che contra sé non potrà far difesa:
che suo pari esser possa non gli è aviso,
se ben in campo ha Mandricardo ucciso.

Ruggier da l'altra parte, ancor che molto
onor gli sia che il suo re l'abbia eletto,
e pel miglior di tutti i buoni tolto,
a cui commetta un sì importante effetto;
pur mostra affanno e gran mestizia in volto,
non per paura che gli turbi il petto;
che non che un sol Rinaldo, ma non teme
se fosse con Rinaldo Orlando insieme:

ma perché vede esser di lui sorella
la sua cara e fidissima consorte
che ognor scriver do stimula e martella,
come colei che è ingiuriata forte.
Or s'alle vecchie offese aggiunge quella
d'entrare in campo a porle il frate a morte,
se la farà, d'amante, così odiosa,
che a placarla mai più fia dura cosa.

Se tacito Ruggier s'affligge ed ange
de la battaglia che mal grado prende,
la sua cara moglier lacrima e piange,
come la nuova indi a poche ore intende.
Batte il bel petto, e l'auree chiome frange,
e le guance innocenti irriga e offende;
e chiama con ramarichi e querele
Ruggiero ingrato, e il suo destin crudele.

D'ogni fin che sortisca la contesa,
a lei non può venir altro che doglia.
Che abbia a morir Ruggiero in questa impresa,
pensar non vuol; che par che il cor le toglia.
Quando anco, per punir più d'una offesa,
la ruina di Francia Cristo voglia,
oltre che sarà morto il suo fratello,
seguirà un danno a lei più acerbo e fello:

che non potrà, se non con biasmo e scorno,
e nimicizia di tutta sua gente,
fare al marito suo mai più ritorno,
sì che lo sappia ognun publicamente,
come s'avea, pensando notte e giorno,
più volte disegnato ne la mente:
e tra lor era la promessa tale,
che il ritrarsi e il pentir più poco vale.

Ma quella usata ne le cose avverse
di non mancarle di soccorsi fidi,
dico Melissa maga, non sofferse
udirne il pianto e i dolorosi gridi;
e venne a consolarla, e le proferse,
quando ne fosse il tempo, alti sussidi,
e disturbar quella pugna futura
di che ella piange e si pon tanta cura.

Rinaldo intanto e l'inclito Ruggiero
apparechiavan l'arme alla tenzone,
di cui dovea l'eletta al cavalliero
che del romano Imperio era campione:
e come quel, che poi che il buon destriero
perdé Baiardo, andò sempre pedone,
si elesse a piè, coperto a piastra e a maglia,
con l'azza e col pugnal far la battaglia.

O fosse caso, o fosse pur ricordo
di Malagigi suo provido e saggio,
che sapea quanto Balisarda ingordo
il taglio avea di fare all'arme oltraggio;
combatter senza spada fur d'accordo
l'uno e l'altro guerrier, come detto aggio.
Del luogo s'accordar presso alle mura
de l'antiquo Arli, in una gran pianura.

A pena avea la vigilante Aurora
da l'ostel di Titon fuor messo il capo,
per dare al giorno terminato, e all'ora
che era prefissa alla battaglia, capo;
quando di qua e di là vennero fuora
i deputati; e questi in ciascun capo
degli steccati i padiglion tiraro,
appresso ai quali ambi un altar fermaro.

Non molto dopo, istrutto a schiera a schiera,
si vide uscir l'esercito pagano.
In mezzo armato e suntuoso v'era
di barbarica pompa il re africano;
e s'un baio corsier di chioma nera,
di fronte bianca, e di duo piè balzano,
a par a par con lui venìa Ruggiero,
a cui servir non è Marsilio altiero.

L'elmo, che dianzi con travaglio tanto
trasse di testa al re di Tartaria,
l'elmo, che celebrato in maggior canto
portò il troiano Ettòr mill'anni pria,
gli porta il re Marsilio a canto a canto:
altri principi ed altra baronia
s'hanno partite l'altr'arme fra loro,
ricche di gioie e ben fregiate d'oro.

Da l'altra parte fuor dei gran ripari
re Carlo uscì con la sua gente d'arme,
con gli ordini medesmi e modi pari
che terria se venisse al fatto d'arme.
Cingonlo intorno i suoi famosi pari;
e Rinaldo è con lui con tutte l'arme,
fuor che l'elmo che fu del re Mambrino,
che porta Ugier Danese paladino.

E di due azze ha il duca Namo l'una,
e l'altra Salamon re di Bretagna.
Carlo da un lato i suoi tutti raguna;
da l'altro son quei d'Africa e di Spagna.
Nel mezzo non appar persona alcuna:
voto riman gran spazio di campagna,
che per bando commune a chi vi sale,
eccetto ai duo guerrieri, è capitale.

Poi che de l'arme la seconda eletta
si diè al campion del populo pagano,
duo sacerdoti, l'un de l'una setta,
l'altro de l'altra, uscir coi libri in mano.
In quel del nostro è la vita perfetta
scritta di Cristo; e l'altro è l'Alcorano.
Con quel de l'Evangelio si fe' inante
l'imperator, con l'altro il re Agramante.

Giunto Carlo all'altar che statuito
i suoi gli aveano, al ciel levò le palme,
e disse: - O Dio, c'hai di morir patito
per redimer da morte le nostr'alme;
o Donna, il cui valor fu sì gradito,
che Dio prese da te l'umane salme,
e nove mesi fu nel tuo santo alvo,
sempre serbando il fior virgineo salvo:

siatemi testimoni, che io prometto
per me e per ogni mia successione
al re Agramante, ed a chi dopo eletto
sarà al governo di sua regione,
dar venti some ogni anno d'oro schietto,
s'oggi qui riman vinto il mio campione;
e che io prometto subito la triegua
incominciar, che poi perpetua segua:

e se 'n ciò manco, subito s'accenda
la formidabil ira d'ambidui,
la qual me solo e i miei figliuoli offenda,
non alcun altro che sia qui con nui;
sì che in brevissima ora si comprenda
che sia il mancar de la promessa a vui. -
Così dicendo, Carlo sul Vangelo
tenea la mano, e gli occhi fissi al cielo.

Si levan quindi, e poi vanno all'altare
che riccamente avean pagani adorno;
ove giurò Agramante, che oltre al mare
con l'esercito suo faria ritorno,
ed a Carlo daria tributo pare,
se restasse Ruggier vinto quel giorno;
e perpetua tra lor triegua saria,
coi patti che avea Carlo detti pria.

E similmente con parlar non basso,
chiamando in testimonio il gran Maumette,
sul libro che in man tiene il suo papasso,
ciò che detto ha, tutto osservar promette.
Poi del campo si partono a gran passo,
e tra i suoi l'uno e l'altro si rimette:
poi quel par di campioni a giurar venne;
e il giuramento lor questo contenne:

Ruggier promette, se de la tenzone
il suo re viene o manda a disturbarlo,
che né suo guerrier più, né suo barone
esser mai vuol, ma darsi tutto a Carlo.
Giura Rinaldo ancor, che se cagione
sarà del suo signor quindi levarlo,
fin che non resti vinto egli o Ruggiero,
si farà d'Agramante cavalliero.

Poi che le cerimonie finite hanno,
si ritorna ciascun da la sua parte;
né v'indugiano molto, che lor danno
le chiare trombe segno al fiero marte.
Or gli animosi a ritrovar si vanno,
con senno i passi dispensando ed arte.
Ecco si vede incominciar l'assalto,
sonar il ferro, or girar basso, or alto.

Or inanzi col calce, or col martello
accennan quando al capo e quando al piede,
con tal destrezza e con modo sì snello,
che ogni credenza il raccontarlo eccede.
Ruggier che combattea contro il fratello
di chi la misera alma gli possiede,
a ferir lo venìa con tal riguardo,
che stimato ne fu manco gagliardo.

Era a parar, più che a ferire, intento,
e non sapea egli stesso il suo desire:
spegner Rinaldo saria malcontento,
né vorria volentieri egli morire.
Ma ecco giunto al termine mi sento,
ove convien l'istoria diferire.
Ne l'altro canto il resto intenderete,
s'udir ne l'altro canto mi vorrete.





CANTO TRENTANOVESIMO


L'affanno di Ruggier ben veramente
è sopra ogn'altro duro, acerbo e forte,
di cui travaglia il corpo, e più la mente,
poi che di due fuggir non può una morte;
o da Rinaldo, se di lui possente
fia meno, o se fia più, da la consorte:
che se il fratel le uccide, sa che incorre
ne l'odio suo, che più che morte aborre.

Rinaldo, che non ha simil pensiero,
in tutti i modi alla vittoria aspira:
mena de l'azza dispettoso e fiero;
quando alle braccia e quando al capo mira.
Volteggiando con l'asta il buon Ruggiero
ribatte il colpo, e quinci e quindi gìra;
e se percuote pur, disegna loco
ove possa a Rinaldo nuocer poco.

Alla più parte dei signor pagani
troppo par disegual esser la zuffa:
troppo è Ruggier pigro a menar le mani,
troppo Rinaldo il giovine ribuffa.
Smarrito in faccia il re degli Africani
mira l'assalto, e ne sospira e sbuffa:
ed accusa Sobrin, da cui procede
tutto l'error, che il mal consiglio diede.

Melissa in questo tempo, che era fonte
di quanto sappia incantatore o mago,
avea cangiata la feminil fronte,
e del gran re d'Algier presa l'imago:
sembrava al viso, ai gesti Rodomonte,
e parea armata di pelle di drago;
e tal lo scudo e tal la spada al fianco
avea, quale usava egli, e nulla manco.

Spinse il demonio inanzi al mesto figlio
del re Troiano, in forma di cavallo;
e con gran voce e con turbato ciglio
disse: - Signor, questo è pur troppo fallo,
che un giovene inesperto a far periglio,
contra un sì forte e sì famoso Gallo
abbiate eletto in cosa di tal sorte,
che il regno e l'onor d'Africa n'importe.

Non si lassi seguir questa battaglia,
che ne sarebbe in troppo detrimento.
Su Rodomonte sia, né ve ne caglia,
l'avere il patto rotto e il giuramento.
Dimostri ognun come sua spada taglia:
poi che io ci sono, ognun di voi val cento. -
Poté questo parlar sì in Agramante,
che senza più pensar si cacciò inante.

Il creder d'aver seco il re d'Algieri
fece che si curò poco del patto;
e non avria di mille cavallieri
giunti in suo aiuto sì gran stima fatto.
Perciò lance abbassar, spronar destrieri
di qua di là veduto fu in un tratto.
Melissa, poi che con sue finte larve
la battaglia attaccò, subito sparve.

I duo campion che vedeno turbarsi
contra ogni accordo, contra ogni promessa,
senza più l'un con l'altro travagliarsi,
anzi ogni ingiuria avendosi rimessa,
fede si dàn né qua né là impacciarsi,
fin che la cosa non sia meglio espressa,
chi stato sia che i patti ha rotto inante,
o il vecchio Carlo, o il giovene Agramante.

E replican con nuovi giuramenti
d'esser nimici a chi mancò di fede.
Sozzopra se ne van tutte le genti:
chi porta inanzi e chi ritorna il piede.
Chi sia fra i vili, e chi tra i più valenti
in un atto medesimo si vede:
son tutti parimente al correr presti;
ma quei corrono inanzi, e indietro questi.

Come levrier che la fugace fera
correre intorno ed aggirarsi mira,
né può con gli altri cani andare in schiera,
che il cacciator lo tien, si strugge d'ira,
si tormenta, s'affligge e si dispera,
schiattisce indarno, e si dibatte e tira;
così sdegnosa infin allora stata
Marfisa era quel dì con la cognata.

Fin a quell'ora avean quel dì vedute
sì ricche prede in spazioso piano;
e che fosser dal patto ritenute
di non poter seguirle e porvi mano,
ramaricate s'erano e dolute,
e n'avean molto sospirato invano.
Or che i patti e le triegue vider rotte,
liete saltar ne l'africane frotte.

Marfisa cacciò l'asta per lo petto
al primo che scontrò, due braccia dietro:
poi trasse il brando, e in men che non l'ho detto,
spezzò quattro elmi, che sembrar di vetro.
Bradamante non fe' minore effetto;
ma l'asta d'or tenne diverso metro:
tutti quei che toccò, per terra mise;
duo tanti fur, né però alcuno uccise.

Questo sì presso l'una all'altra fero,
che testimonie se ne fur tra loro;
poi si scostaro, ed a ferir si diero,
ove le trasse l'ira, il popul Moro.
Chi potrà conto aver d'ogni guerriero
che a terra mandi quella lancia d'oro?
o d'ogni testa che tronca o divisa
sia da la orribil spada di Marfisa?

Come al soffiar de' più benigni venti,
quando Apennin scuopre l'erbose spalle,
muovonsi a par duo turbidi torrenti
che nel cader fan poi diverso calle;
svellono i sassi e gli arbori eminenti
da l'alte ripe, e portan ne la valle
le biade e i campi; e quasi a gara fanno
a chi far può nel suo camin più danno:

così le due magnanime guerriere,
scorrendo il campo per diversa strada,
gran strage fan ne l'africane schiere,
l'una con l'asta, e l'altra con la spada.
Tiene Agramante a pena alle bandiere
la gente sua, che in fuga non ne vada.
Invan domanda, invan volge la fronte;
né può saper che sia di Rodomonte.

A conforto di lui rotto avea il patto
(così credea) che fu solennemente,
i dei chiamando in testimonio, fatto;
poi s'era dileguato sì repente.
Né Sobrin vede ancor: Sobrin ritratto
in Arli s'era, e dettosi innocente;
perché di quel pergiuro aspra vendetta
sopra Agramante il dì medesmo aspetta.

Marsilio anco è fuggito ne la terra:
sì la religion gli preme il core.
Perciò male Agramante il passo serra
a quei che mena Carlo imperatore,
d'Italia, di Lamagna e d'Inghilterra,
che tutte gente son d'alto valore;
ed hanno i paladin sparsi tra loro,
come le gemme in un riccamo d'oro:

e presso ai paladini alcun perfetto
quanto esser possa al mondo cavalliero,
Guidon Selvaggio, l'intrepido petto,
e i duo famosi figli d'Oliviero.
Io non voglio ridir, che io l'ho già detto,
di quel par di donzelle ardito e fiero.
Questi uccidean di genti saracine
tanto, che non v'è numero né fine.

Ma differendo questa pugna alquanto,
io vo' passar senza navilio il mare.
Non ho con quei di Francia da far tanto,
che io non m'abbia d'Astolfo a ricordare.
La grazia che gli diè l'apostol santo
io v'ho già detto, e detto aver mi pare,
che il re Branzardo e il re de l'Algazera
per girli incontra armasse ogni sua schiera.

Furon di quei che aver poteano in fretta,
le schiere di tutta Africa raccolte,
non men d'inferma età che di perfetta;
quasi che ancor le femine fur tolte.
Agramante ostinato alla vendetta
avea già vota l'Africa due volte.
Poche genti rimase erano, e quelle
esercito facean timido e imbelle.

Ben lo mostrar; che gli nimici a pena
vider lontan, che se n'andaron rotti.
Astolfo, come pecore, li mena
dinanzi ai suoi di guerreggiar più dotti,
e fa restarne la campagna piena:
pochi a Biserta se ne son ridotti.
Prigion rimase Bucifar gagliardo;
salvossi ne la terra il re Branzardo,

via più dolente sol di Bucifaro,
che se tutto perduto avesse il resto.
Biserta è grande, e farle gran riparo
bisogna, e senza lui mal può far questo:
poterlo riscattar molto avria caro.
Mentre vi pensa e ne sta afflitto e mesto,
gli viene in mente come tien prigione
già molti mesi il paladin Dudone.

Lo prese sotto a Monaco in riviera
il re di Sarza nel primo passaggio.
Da indi in qua prigion sempre stato era
Dudon che del Danese fu lignaggio.
Mutar costui col re de l'Algazera
pensò Branzardo, e ne mandò messaggio
al capitan de' Nubi, perché intese
per vera spia, che egli era Astolfo inglese.

Essendo Astolfo paladin, comprende
che dee aver caro un paladino sciorre.
Il gentil duca, come il caso intende,
col re Branzardo in un voler concorre.
Liberato Dudon, grazie ne rende
al duca, e seco si mette a disporre
le cose che appertengono alla guerra,
così quelle da mar, come da terra.

Avendo Astolfo esercito infinito
da non gli far sette Afriche difesa;
e rammentando come fu ammonito
dal santo vecchio che gli diè l'impresa
di tor Provenza e d'Acquamorta il lito
di man di Saracin che l'avean presa;
d'una gran turba fece nuova eletta,
quella che al mar gli parve manco inetta.

Ed avendosi piene ambe le palme,
quanto potean capir, di varie fronde
a lauri, a cedri tolte, a olive, a palme,
venne sul mare, e le gittò ne l'onde.
Oh felici, e dal ciel ben dilette alme!
Grazia che Dio raro a' mortali infonde!
Oh stupendo miracolo che nacque
di quelle frondi, come fur ne l'acque!

Crebbero in quantità fuor d'ogni stima;
si feron curve e grosse e lunghe e gravi;
le vene che attraverso aveano prima,
mutaro in dure spranghe e in grosse travi:
e rimanendo acute inver la cima,
tutte in un tratto diventaro navi
di differenti qualitadi, e tante,
quante raccolte fur da varie piante.

Miracol fu veder le fronde sparte
produr fuste, galee, navi da gabbia.
Fu mirabile ancor, che vele e sarte
e remi avean, quanto alcun legno n'abbia.
Non mancò al duca poi chi avesse l'arte
di governarsi alla ventosa rabbia;
che di Sardi e di Corsi non remoti,
nocchier, padron, pennesi ebbe e piloti.

Quelli che entraro in mar, contati foro
ventiseimila, e gente d'ogni sorte.
Dudon andò per capitano loro,
cavallier saggio, e in terra e in acqua forte.
Stava l'armata ancora al lito moro,
miglior vento aspettando, che la porte,
quando un navilio giunse a quella riva,
che di presi guerrier carco veniva.

Portava quei che al periglioso ponte,
ove alla giostre il campo era sì stretto,
pigliato avea l'audace Rodomonte,
come più volte io v'ho di sopra detto.
Il cognato tra questi era del conte,
e il fedel Brandimarte e Sansonetto,
ed altri ancor, che dir non mi bisogna,
d'Alemagna, d'Italia e di Guascogna.

Quivi il nocchier, che ancor non s'era accorto
degli inimici, entrò con la galea,
lasciando molte miglia a dietro il porto
d'Algieri, ove calar prima volea,
per un vento gagliardo che era sorto,
e spinto oltre il dover la poppa avea.
Venir tra i suoi credette e in loco fido,
come vien Progne al suo loquace nido.

Ma come poi l'imperiale augello,
i gigli d'oro e i pardi vide appresso,
restò pallido in faccia, come quello
che il piede incauto d'improviso ha messo
sopra il serpente venenoso e fello,
dal pigro sonno in mezzo l'erbe oppresso;
che spaventato e smorto si ritira,
fuggendo quel, che è pien di tosco e d'ira.

Già non poté fuggir quindi il nocchiero,
né tener seppe i prigion suoi di piatto.
Con Brandimarte fu, con Oliviero,
con Sansonetto e con molti altri tratto
ove dal duca e dal figliuol d'Uggiero
fu lieto viso agli suo' amici fatto;
e per mercede lui che li condusse,
volson che condannato al remo fusse.

Come io vi dico, dal figliuol d'Otone
i cavallier cristian furon ben visti,
e di mensa onorati al padiglione,
d'arme e di ciò che bisognò provisti.
Per amor d'essi differì Dudone
l'andata sua; che non minori acquisti
di ragionar con tai baroni estima,
che d'esser gito uno o duo giorni prima.

In che stato, in che termine si trove
e Francia e Carlo, istruzion vera ebbe;
e dove più sicuramente, e dove,
per far miglior effetto, calar debbe.
Mentre da lor venìa intendendo nuove,
s'udì un rumor che tuttavia più crebbe;
e un dar all'arme ne seguì sì fiero,
che fece a tutti far più d'un pensiero.

Il duca Astolfo e la compagnia bella,
che ragionando insieme si trovaro,
in un momento armati furo e in sella,
e verso il maggior grido in fretta andaro,
di qua di là cercando pur novella
di quel romore; e in loco capitaro,
ove videro un uom tanto feroce,
che nudo e solo a tutto il campo nuoce.

Menava un suo baston di legno in volta,
che era sì duro e sì grave e sì fermo,
che declinando quel, facea ogni volta
cader in terra un uom peggio che infermo.
Già a più di cento avea la vita tolta;
né più se gli facea riparo o schermo,
se non tirando di lontan saette:
d'appresso non è alcun già che l'aspette.

Dudone, Astolfo, Brandimarte, essendo
corsi in fretta al romore, ed Oliviero,
de la gran forza e del valor stupendo
stavan maravigliosi di quel fiero;
quando venir s'un palafren correndo
videro una donzella in vestir nero,
che corse a Brandimarte e salutollo,
e gli alzò a un tempo ambe le braccia al collo.

Questa era Fiordiligi, che sì acceso
avea d'amor per Brandimarte il core,
che quando al ponte stretto il lasciò preso,
vicina ad impazzar fu di dolore.
Di là dal mare era passata, inteso
avendo dal pagan che ne fu autore,
che mandato con molti cavallieri
era prigion ne la città d'Algieri.

Quando fu per passare, avea trovato
a Marsilia una nave di Levante,
che un vecchio cavalliero avea portato
de la famiglia del re Monodante;
il qual molte province avea cercato,
quando per mar, quando per terra errante,
per trovar Brandimarte; che nuova ebbe
tra via di lui, che in Francia il troverebbe.

Ed ella, conosciuto che Bardino
era costui, Bardino che rapito
al padre Brandimarte piccolino,
ed a Rocca Silvana avea notrito,
e la cagione intesa del camino,
seco fatto l'avea scioglier dal lito,
avendogli narrato in che maniera
Brandimarte passato in Africa era.

Tosto che furo a terra, udir le nuove,
che assediata d'Astolfo era Biserta:
che seco Brandimarte si ritrove
udito avean, ma non per cosa certa.
Or Fiordiligi in tal fretta si muove,
come lo vede, che ben mostra aperta
quella allegrezza che i precessi guai
le fero la maggior che avesse mai.

Il gentil cavallier, non men giocondo
di veder la diletta e fida moglie
che amava più che cosa altra del mondo,
l'abraccia e stringe e dolcemente accoglie:
né per saziare al primo né al secondo
né al terzo bacio era l'accese voglie;
se non che alzando gli occhi ebbe veduto
Bardin che con la donna era venuto.

Stese le mani, ed abbracciar lo volle,
e insieme domandar perché venìa;
ma di poterlo far tempo gli tolle
il campo che in disordine fuggia
dinanzi a quel baston che il nudo folle
menava intorno, e gli facea dar via.
Fiordiligi mirò quel nudo in fronte,
e gridò a Brandimarte: - Eccovi il conte! -

Astolfo tutto a un tempo, che era quivi,
che questo Orlando fosse, ebbe palese
per alcun segno che dai vecchi divi
su nel terrestre paradiso intese.
Altrimente restavan tutti privi
di cognizion di quel signor cortese;
che per lungo sprezzarsi, come stolto,
avea di fera, più che d'uomo, il volto.

Astolfo per pietà che gli traffisse
il petto e il cor, si volse lacrimando;
ed a Dudon (che gli era appresso) disse,
ed indi ad Oliviero: - Eccovi Orlando! -
Quei gli occhi alquanto e le palpèbre fisse
tenendo in lui, l'andar raffigurando;
e il ritrovarlo in tal calamitade,
gli empì di meraviglie e di pietade.

Piangeano quei signor per la più parte:
sì lor ne dolse, e lor ne 'ncrebbe tanto.
- Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte
di risanarlo, e non di fargli il pianto. -
E saltò a piedi, e così Brandimarte,
Sansonetto, Oliviero e Dudon santo;
e s'aventaro al nipote di Carlo
tutti in un tempo; che volean pigliarlo.

Orlando che si vide fare il cerchio,
menò il baston da disperato e folle;
ed a Dudon che si facea coperchio
al capo de lo scudo ed entrar volle,
fe' sentir che era grave di soperchio:
e se non che Olivier col brando tolle
parte del colpo, avria il bastone ingiusto
rotto lo scudo, l'elmo, il capo e il busto.

Lo scudo roppe solo, e su l'elmetto
tempestò sì, che Dudon cadde in terra.
Menò la spada a un tempo Sansonetto;
e del baston più di duo braccia afferra
con valor tal, che tutto il taglia netto.
Brandimarte che addosso se gli serra,
gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe
le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe.

Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi
da sé l'Inglese fe' cader riverso:
non fa però che Brandimarte il lassi,
che con più forza l'ha preso a traverso.
Ad Olivier che troppo inanzi fassi,
menò un pugno sì duro e sì perverso,
che lo fe' cader pallido ed esangue,
e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue.

E se non era l'elmo più che buono,
che avea Olivier, l'avria quel pugno ucciso:
cadde però, come se fatto dono
avesse de lo spirto al paradiso.
Dudone e Astolfo che levati sono,
ben che Dudone abbia gonfiato il viso,
e Sansonetto che il bel colpo ha fatto,
adosso a Orlando son tutti in un tratto.

Dudon con gran vigor dietro l'abbraccia,
pur tentando col piè farlo cadere:
Astolfo e gli altri gli han prese le braccia,
né lo puon tutti insieme anco tenere.
C'ha visto toro a cui si dia la caccia,
e che alle orecchie abbia le zanne fiere,
correr mugliando, e trarre ovunque corre
i cani seco, e non potersi sciorre;

imagini che Orlando fosse tale,
che tutti quei guerrier seco traea.
In quel tempo Olivier di terra sale,
là dove steso il gran pugno l'avea;
e visto che così si potea male
far di lui quel che Astolfo far volea,
si pensò un modo, ed ad effetto il messe,
di far cader Orlando, e gli successe.

Si fe' quivi arrecar più d'una fune,
e con nodi correnti adattò presto;
ed alle gambe ed alle braccia alcune
fe' porre al conte, ed a traverso il resto.
Di quelle i capi poi partì in commune,
e li diede a tenere a quello e a questo.
Per quella via che maniscalco atterra
cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra.

Come egli è in terra, gli son tutti adosso,
e gli legan più forte e piedi e mani.
Assai di qua di là s'è Orlando scosso,
ma sono i suoi risforzi tutti vani.
Commanda Astolfo che sia quindi mosso,
che dice voler far che si risani.
Dudon che è grande, il leva in su le schene,
e porta al mar sopra l'estreme arene.

Lo fa lavar Astolfo sette volte;
e sette volte sotto acqua l'attuffa;
sì che dal viso e da le membra stolte
leva la brutta rugine e la muffa:
poi con certe erbe, a questo effetto colte,
la bocca chiuder fa, che soffia e buffa;
che non volea che avesse altro meato
onde spirar, che per lo naso, il fiato.

Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d'Orlando era rinchiuso;
e quello in modo appropinquogli al naso,
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il votò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso;
e ne' suoi bei discorsi l'intelletto
rivenne, più che mai lucido e netto.

Come chi da noioso e grave sonno,
ove o vedere abominevol forme
di mostri che non son, né che esser ponno,
o gli par cosa far strana ed enorme,
ancor si maraviglia, poi che donno
è fatto de' suoi sensi, e che non dorme;
così, poi che fu Orlando d'error tratto,
restò maraviglioso e stupefatto.

E Brandimarte, e il fratel d'Aldabella,
e quel che il senno in capo gli ridusse,
pur pensando riguarda, e non favella,
come egli quivi e quando si condusse.
Girava gli occhi in questa parte e in quella,
né sapea imaginar dove si fusse.
Si maraviglia che nudo si vede,
e tante funi ha da le spalle al piede.

Poi disse, come già disse Sileno
a quei che lo legar nel cavo speco:
"Solvite me," con viso sì sereno,
con guardo sì men de l'usato bieco,
che fu slegato; e de' panni che avieno
fatti arrecar participaron seco,
consolandolo tutti del dolore,
che lo premea, di quel passato errore.

Poi che fu all'esser primo ritornato
Orlando più che mai saggio e virile,
d'amor si trovò insieme liberato;
sì che colei, che sì bella e gentile
gli parve dianzi, e che avea tanto amato,
non stima più se non per cosa vile.
Ogni suo studio, ogni disio rivolse
a racquistar quanto già amor gli tolse.

Narrò Bardino intanto a Brandimarte,
che morto era il suo padre Monodante;
e che a chiamarlo al regno egli da parte
veniva prima del fratel Gigliante,
poi de le genti che abitan le sparte
isole in mare, e l'ultime in Levante;
di che non era un altro regno al mondo
sì ricco, populoso, o sì giocondo.

Disse, tra più ragion che dovea farlo,
che dolce cosa era la patria; e quando
si disponesse di voler gustarlo,
avria poi sempre in odio andare errando.
Brandimarte rispose voler Carlo
servir per tutta questa guerra e Orlando;
e se potea vederne il fin, che poi
penseria meglio sopra i casi suoi.

Il dì seguente la sua armata spinse
verso Provenza il figlio del Danese.
Indi Orlando col duca si ristrinse,
ed in che stato era la guerra, intese:
tutta Biserta poi d'assedio cinse,
dando però l'onore al duca inglese
d'ogni vittoria; ma quel duca il tutto
facea, come dal conte venìa istrutto.

Che ordine abbian tra lor, come s'assaglia
la gran Biserta, e da che lato e quando,
come fu presa alla prima battaglia,
chi ne l'onor parte ebbe con Orlando,
s'io non vi séguito ora, non vi caglia;
che io non me ne vo molto dilungando.
In questo mezzo di saper vi piaccia,
come dai Franchi i Mori hanno la caccia.

Fu quasi il re Agramante abbandonato
nel pericol maggior di quella guerra;
che con molti pagani era tornato
Marsilio e il re Sobrin dentro alla terra,
poi su l'armata è questo e quel montato,
che dubbio avean di non salvarsi in terra;
e duci e cavallier del popul Moro
molti seguito avean l'esempio loro.

Pure Agramante la pugna sostiene;
e quando finalmente più non puote,
volta le spalle, e la via dritta tiene
alle porte non troppo indi remote.
Rabican dietro in gran fretta gli viene,
che Bradamante stimola e percuote:
d'ucciderlo era disiosa molto;
che tante volte il suo Ruggier le ha tolto.

Il medesmo desir Marfisa avea,
per far del padre suo tarda vendetta;
e con gli sproni, quanto più potea,
facea il destrier sentir che ella avea fretta.
Ma né l'una né l'altra vi giungea
sì a tempo, che la via fosse intercetta
al re d'entrar ne la città serrata,
ed indi poi salvarsi in su l'armata.

Come due belle e generose parde
che fuor del lascio sien di pari uscite,
poscia che i cervi o le capre gagliarde
indarno aver si veggano seguite,
vergognandosi quasi, che fur tarde,
sdegnose se ne tornano e pentite;
così tornar le due donzelle, quando
videro il pagan salvo, sospirando.

Non però si fermar; ma ne la frotta
degli altri che fuggivano, cacciarsi,
di qua di là facendo ad ogni botta
molti cader senza mai più levarsi.
A mal partito era la gente rotta,
che per fuggir non potea ancor salvarsi;
che Agramante avea fatto per suo scampo
chiuder la porta che uscia verso il campo,

e fatto sopra il Rodano tagliare
i ponti tutti. Ah sfortunata plebe,
che dove del tiranno utile appare,
sempre è in conto di pecore e di zebe!
Chi s'affoga nel fiume e chi nel mare,
chi sanguinose fa di sé le glebe.
Molti perir, pochi restar prigioni;
che pochi a farsi taglia erano buoni.

De la gran moltitudine che uccisa
fu da ogni parte in questa ultima guerra
(ben che la cosa non fu ugual divisa;
che assai più andar dei Saracin sotterra
per man di Bradamante e di Marfisa),
se ne vede ancor segno in quella terra;
che presso ad Arli, ove il Rodano stagna,
piena di sepolture è la campagna.

Fatto avea intanto il re Agramante sciorre
e ritirar in alto i legni gravi,
lasciando alcuni, e i più leggieri, a torre
quei che volean salvarsi in su le navi.
Vi ste' duo dì per chi fuggia raccorre,
e perché venti eran contrari e pravi.
Fece lor dar le vele il terzo giorno;
che in Africa credea di far ritorno.

Il re Marsilio che sta in gran paura
che alla sua Spagna il fio pagar non tocche,
e la tempesta orribilmente oscura
sopra suoi campi all'ultimo non scocche;
si fe' porre a Valenza, e con gran cura
cominciò a riparar castella e rocche,
e preparar la guerra che fu poi
la sua ruina e degli amici suoi.

Verso Africa Agramante alzò le vele
de' legni male armati, e voti quasi;
d'uomini voti, e pieni di querele,
perche in Francia i tre quarti eran rimasi.
Chi chiama il re superbo, chi crudele,
chi stolto; e come avviene in simil casi,
tutti gli voglion mal ne' lor secreti;
ma timor n'hanno, e stan per forza cheti.

Pur duo talora o tre schiudon le labbia,
che amici sono, e che tra lor s'han fede,
e sfogano la colera e la rabbia;
e il misero Agramante ancor si crede
che ognun gli porti amore, e pietà gli abbia:
e questo gli intervien, perché non vede
mai visi se non finti, e mai non ode
se non adulazion, menzogne e frode.

Erasi consigliato il re africano
di non smontar nel porto di Biserta,
però che avea del popul nubiano,
che quel lito tenea, novella certa;
ma tenersi di sopra sì lontano,
che non fosse acre la discesa ed erta;
mettersi in terra, e ritornare al dritto
a dar soccorso al suo populo afflitto.

Ma il suo fiero destin che non risponde
a quella intenzion provida e saggia,
vuol che l'armata che nacque di fronde
miracolosamente ne la spiaggia,
e vien solcando inverso Francia l'onde,
con questa ad incontrar di notte s'aggia,
a nubiloso tempo, oscuro e tristo,
perché sia in più disordine sprovisto.

Non ha avuto Agramante ancora spia,
che Astolfo mandi una armata sì grossa;
né creduto anco a chi il dicesse, avria,
che cento navi un ramuscel far possa:
e vien senza temer che intorno sia
che contra lui s'ardisca di far mossa;
né pone guardie né veletta in gabbia,
che di ciò che si scuopre avisar abbia.

Sì che i navili che d'Astolfo avuti
avea Dudon, di buona gente armati,
e che la sera avean questi veduti,
ed alla volta lor s'eran drizzati,
assalir gli nimici sproveduti,
gittaro i ferri, e sonsi incatenati,
poi che al parlar certificati foro,
che erano Mori e gli nimici loro.

Ne l'arrivar i gran navili fenno
(spirando il vento a' lor desir secondo),
nei Saracin con tale impeto denno,
che molti legni ne cacciaro al fondo.
Poi cominciaro oprar le mani e il senno,
e ferro e fuoco e sassi di gran pondo
tirar con tanta e sì fiera tempesta,
che mai non ebbe il mar simile a questa.

Quei di Dudone, a cui possanza e ardire
più del solito è lor dato di sopra
(che venuto era il tempo di punire
i Saracin di più d'una mal'opra),
sanno appresso e lontan sì ben ferire,
che non trova Agramante ove si cuopra.
Gli cade sopra un nembo di saette;
da lato ha spade e graffi e picche e accette.

D'alto cader sente gran sassi e gravi
da machine cacciati e da tormenti;
e prore e poppe fraccassar de navi,
ed aprire usci al mar larghi e patenti;
e il maggior danno è de l'incendi pravi,
a nascer presti, ad ammorzarsi lenti.
La sfortunata ciurma si vuol torre
del gran periglio, e via più ognor vi corre.

Altri che il ferro e l'inimico caccia,
nel mar si getta, e vi s'affoga e resta:
altri che muove a tempo piedi e braccia,
va per salvarsi o in quella barca o in questa;
ma quella, grave oltre il dover, lo scaccia,
e la man, per salir troppo molesta,
fa restare attaccata ne la sponda:
ritorna il resto a far sanguigna l'onda.

Altri che spera in mar salvar la vita,
o perderlavi almen con minor pena,
poi che notando non ritrova aita,
e mancar sente l'animo e la lena,
alla vorace fiamma c'ha fuggita,
la tema di annegarsi anco rimena:
s'abbraccia a un legno che arde, e per timore
c'ha di due morte, in ambe se ne muore.

Altri per tema di spiedo o d'accetta
che vede appresso, al mar ricorre invano,
perché dietro gli vien pietra o saetta
che non lo lascia andar troppo lontano.
Ma saria forse, mentre che diletta
il mio cantar, consiglio utile e sano
di finirlo, più tosto che seguire
tanto, che v'annoiasse il troppo dire.





CANTO QUARANTESIMO


Lungo sarebbe, se i diversi casi
volessi dir di quel naval conflitto;
e raccontarlo a voi mi parria quasi,
magnanimo figliuol d'Ercole invitto,
portar, come si dice, a Samo vasi,
nottole Atene, e crocodili a Egitto;
che quanto per udita io ve ne parlo,
Signor, miraste, e feste altrui mirarlo.

Ebbe lungo spettacolo il fedele
vostro popul la notte e il dì che stette,
come in teatro, l'inimiche vele
mirando in Po tra ferro e fuoco astrette.
Che gridi udir si possano e querele,
che onde veder di sangue umano infette,
per quanti modi in tal pugna si muora,
vedeste, e a molti il dimostraste allora.

Nol vide io già, che era sei giorni inanti,
mutando ogn'ora altre vetture, corso
con molta fretta e molta ai piedi santi
del gran Pastore a domandar soccorso:
poi né cavalli bisognar né fanti;
che intanto al Leon d'or l'artiglio e il morso
fu da voi rotto sì, che più molesto
non l'ho sentito da quel giorno a questo.

Ma Alfonsin Trotto il qual si trovò in fatto,
Annibal e Pier Moro e Afranio e Alberto,
e tre Ariosti, e il Bagno e il Zerbinatto
tanto me ne contar, che io ne fui certo:
me ne chiarir poi le bandiere affatto,
vistone al tempio il gran numero offerto,
e quindice galee che a queste rive
con mille legni star vidi captive.

Chi vide quelli incendi e quei naufragi,
le tante uccisioni e sì diverse,
che, vendicando i nostri arsi palagi,
fin che fu preso ogni navilio, ferse;
potrà, veder le morti anco e i disagi
che il miser popul d'Africa sofferse
col re Agramante in mezzo l'onde salse,
la scura notte che Dudon l'assalse.

Era la notte, e non si vedea lume,
quando s'incominciar l'aspre contese:
ma poi che il zolfo e la pece e il bitume
sparso in gran copia, ha prore e sponde accese,
e la vorace fiamma arde e consume
le navi e le galee poco difese;
sì chiaramente ognun si vedea intorno,
che la notte parea mutata in giorno.

Onde Agramante che per l'aer scuro,
non avea l'inimico in sì gran stima,
né aver contrasto si credea sì duro,
che, resistendo, al fin non lo reprima;
poi che rimosse le tenèbre furo,
e vide quel che non credeva in prima,
che le navi nimiche eran duo tante,
fece pensier diverso a quel d'avante.

Smonta con pochi, ove in più lieve barca
ha Brigliadoro e l'altre cose care.
Tra legno e legno taciturno varca,
fin che si trova in più sicuro mare
da' suoi lontan, che Dudon preme e carca,
e mena a condizioni acri ed amare.
Gli arde il foco, il mar sorbe, il ferro strugge:
egli che n'è cagion, via se ne fugge.

Fugge Agramante ed ha con lui Sobrino,
con cui si duol di non gli aver creduto,
quando previde con occhio divino,
e il mal gli annunziò, che or gli è avvenuto.
Ma torniamo ad Orlando paladino,
che, prima che Biserta abbia altro aiuto,
consiglia Astolfo che la getti in terra,
sì che a Francia mai più non faccia guerra.

E così fu publicamente detto
che il campo in arme al terzo dì sia istrutto.
Molti navili Astolfo a questo effetto
tenuti avea, né Dudon n'ebbe il tutto;
di quai diede il governo a Sansonetto,
sì buon guerrier al mar come all'asciutto:
e quel si pose, in su l'ancore sorto,
contra a Biserta, un miglio appresso al porto.

Come veri cristiani Astolfo e Orlando,
che senza Dio non vanno a rischio alcuno,
ne l'esercito fan publico bando,
che sieno orazion fatte e digiuno;
e che si trovi il terzo giorno, quando
si darà il segno, apparecchiato ognuno
per espugnar Biserta, che data hanno,
vinta che s'abbia, a fuoco e a saccomanno.

E così, poi che le astinenze e i voti
devotamente celebrati foro,
parenti, amici, e gli altri insieme noti
si cominciaro a convitar tra loro.
Dato restauro a' corpi esausti e voti,
abbracciandosi insieme lacrimoro,
tra loro usando i modi e le parole
che tra i più cari al dipartir si suole.

Dentro a Biserta i sacerdoti santi
supplicando col populo dolente,
battonsi il petto, e con dirotti pianti
chiamano il lor Macon che nulla sente.
Quante vigilie, quante offerte, quanti
doni promessi son privatamente!
quanto in publico templi, statue, altari,
memoria eterna de' lor casi amari!

E poi che dal Cadì fu benedetto,
prese il populo l'arme, e tornò al muro.
Ancor giacea col suo Titon nel letto
la bella Aurora, ed era il cielo oscuro,
quando Astolfo da un canto, e Sansonetto
da un altro, armati agli ordini lor furo:
e poi che il segno che diè il conte udiro,
Biserta con grande impeto assaliro.

Avea Biserta da duo canti il mare,
sedea dagli altri duo nel lito asciutto.
Con fabrica eccellente e singulare
fu antiquamente il suo muro costrutto.
Poco altro ha che l'aiuti o la ripare;
che poi che il re Branzardo fu ridutto
dentro da quella, pochi mastri, e poco
poté aver tempo a riparare il loco.

Astolfo dà l'assunto al re de' Neri,
che faccia a' merli tanto nocumento
con falariche, fonde e con arcieri,
che levi d'affacciarsi ogni ardimento;
sì che passin pedoni e cavallieri
fin sotto la muraglia a salvamento,
che vengon, chi di pietre e chi di travi,
chi d'asce e chi d'altra materia gravi.

Chi questa cosa e chi quell'altra getta
dentro alla fossa, e vien di mano in mano;
di cui l'acqua il dì inanzi fu intercetta,
sì che in più parti si scopria il pantano.
Ella fu piena ed atturata in fretta,
e fatto uguale insin al muro il piano.
Astolfo, Orlando ed Olivier procura
di far salir i fanti in su le mura.

I Nubi d'ogni indugio impazienti,
da la speranza del guadagno tratti,
non mirando a' pericoli imminenti,
coperti da testuggini e da gatti,
con arieti e loro altri istrumenti
a forar torri, e porte rompere atti,
tosto si fero alla città vicini;
né trovaro sprovisti i Saracini:

che ferro e fuoco e merli e tetti gravi
cader facendo a guisa di tempeste,
per forza aprian le tavole e le travi
de le machine in lor danno conteste.
Ne l'aria oscura e nei principi pravi
molto patir le battezzate teste;
ma poi che il sole uscì del ricco albergo,
voltò Fortuna ai Saracini il tergo.

Da tutti i canti risforzar l'assalto
fe' il conte Orlando e da mare e da terra.
Sansonetto che avea l'armata in alto,
entrò nel porto e s'accostò alla terra;
e con frombe e con archi facea d'alto,
e con vari tormenti estrema guerra;
e facea insieme espedir lance e scale,
ogni apparecchio e munizion navale.

Facea Oliviero, Orlando e Brandimarte,
e quel che fu sì dianzi in aria ardito,
aspra e fiera battaglia da la parte
che lungi al mare era più dentro al lito.
Ciascun d'essi venìa con una parte
de l'oste che s'avean quadripartito.
Quale a mur, quale a porte, e quale altrove,
tutti davan di sé lucide prove.

Il valor di ciascun meglio si puote
veder così, che se fosser confusi:
chi sia degno di premio e chi di note,
appare inanzi a mill'occhi non chiusi.
Torri di legno trannosi con ruote,
e gli elefanti altre ne portano usi,
che su lor dossi così in alto vanno,
che i merli sotto a molto spazio stanno.

Vien Brandimarte, e pon la scala a' muri,
e sale, e di salir altri conforta:
lo seguon molti intrepidi e sicuri;
che non può dubitar chi l'ha in sua scorta.
Non è chi miri, o chi mirar si curi,
se quella scala il gran peso comporta.
Sol Brandimarte agli nimici attende;
pugnando sale, e al fine un merlo prende.

E con mano e con piè quivi s'attacca,
salta sui merli, e mena il brando in volta,
urta, riversa e fende e fora e ammacca,
e di sé mostra esperienza molta.
Ma tutto a un tempo la scala si fiacca,
che troppa soma e di soperchio ha tolta:
e for che Brandimarte, giù nel fosso
vanno sozzopra, e l'uno all'altro adosso.

Per ciò non perde il cavallier l'ardire,
né pensa riportare a dietro il piede;
ben che de' suoi non vede alcun seguire,
ben che berzaglio alla città si vede.
Pregavan molti (e non volse egli udire)
che ritornasse; ma dentro si diede:
dico che giù ne la città d'un salto
dal muro entrò, che trenta braccia era alto.

Come trovato avesse o piume o paglia,
presse il duro terren senza alcun danno;
e quei c'ha intorno affrappa e fora e taglia,
come s'affrappa e taglia e fora il panno.
Or contra questi or contra quei si scaglia;
e quelli e questi in fuga se ne vanno.
Pensano quei di fuor, che l'han veduto
dentro saltar, che tardo fia ogni aiuto.

Per tutto il campo alto rumor si spande
di voce in voce, e il mormorio e il bisbiglio.
La vaga Fama intorno si fa grande,
e narra, ed accrescendo va il periglio.
Ove era Orlando (perché da più bande
si dava assalto), ove d'Otone il figlio,
ove Olivier, quella volando venne,
senza posar mai le veloci penne.

Questi guerrier, e più di tutti Orlando,
che amano Brandimarte e l'hanno in pregio,
udendo che se van troppo indugiando,
perderanno un compagno così egregio,
piglian le scale, e qua e là montando,
mostrano a gara animo altiero e regio,
con sì audace sembiante e sì gagliardo,
che i nimici tremar fan con lo sguardo.

Come nel mar che per tempesta freme,
assaglion l'acque il temerario legno,
che or da la prora, or da le parti estreme
cercano entrar con rabbia e con isdegno;
il pallido nocchier sospira e geme,
che aiutar deve, e non ha cor né ingegno;
una onda viene al fin, che occupa il tutto,
e dove quella entrò, segue ogni flutto:

così dipoi che ebbono presi i muri
questi tre primi, fu sì largo il passo,
che gli altri ormai seguir ponno sicuri,
che mille scale hanno fermate al basso.
Aveano intanto gli arieti duri
rotto in più lochi, e con sì gran fraccasso,
che si poteva in più che in una parte
soccorrer l'animoso Brandimarte.

Con quel furor che il re de' fiumi altiero,
quando rompe talvolta argini e sponde,
e che nei campi Ocnei s'apre il sentiero,
e i grassi solchi e le biade feconde,
e con le sue capanne il gregge intero,
e coi cani i pastor porta ne l'onde;
guizzano i pesci agli olmi in su la cima,
ove solean volar gli augelli in prima:

con quel furor l'impetuosa gente,
là dove avea in più parti il muro rotto,
entrò col ferro e con la face ardente
a distruggere il popul mal condotto.
Omicidio, rapina e man violente
nel sangue e ne l'aver, trasse di botto
la ricca e trionfal città a ruina,
che fu di tutta l'Africa regina.

D'uomini morti pieno era per tutto;
e de le innumerabili ferite
fatto era un stagno più scuro e più brutto
di quel che cinge la città di Dite.
Di casa in casa un lungo incendio indutto
ardea palagi, portici e meschite.
Di pianti e d'urli e di battuti petti
suonano i voti e depredati tetti.

I vincitori uscir de le funeste
porte vedeansi di gran preda onusti,
chi con bei vasi e chi con ricche veste,
chi con rapiti argenti a' dei vetusti:
chi traea i figli, e chi le madri meste:
fur fatti stupri e mille altri atti ingiusti,
dei quali Orlando una gran parte intese,
né lo poté vietar, né il duca inglese.

Fu Bucifar de l'Algazera morto
con esso un colpo da Olivier gagliardo.
Perduta ogni speranza, ogni conforto,
s'uccise di sua mano il re Branzardo,
con tre ferite, onde morì di corto,
fu preso Folvo dal duca dal Pardo.
Questi eran tre che al suo partir lasciato
avea Agramante a guardia de lo stato.

Agramante che intanto avea deserta
l'armata, e con Sobrin n'era fuggito,
pianse da lungi e sospirò Biserta,
veduto sì gran fiamma arder sul lito.
Poi più d'appresso ebbe novella certa
come de la sua terra il caso era ito:
e d'uccider se stesso in pensier venne,
e lo facea; ma il re Sobrin lo tenne.

Dicea Sobrin: - Che più vittoria lieta,
signor, potrebbe il tuo inimico avere,
che la tua morte udire, onde quieta
si speraria poi l'Africa godere?
Questo contento il viver tuo gli vieta:
quindi avrà cagion sempre di temere.
Sa ben che lungamente Africa sua
esser non può, se non per morte tua.

Tutti i sudditi tuoi, morendo, privi
de la speranza, un ben che sol ne resta.
Spero che n'abbi a liberar, se vivi,
e trar d'affanno e ritornarne in festa.
So che, se muori, siàn sempre captivi,
Africa sempre tributaria e mesta.
Dunque, s'in util tuo viver non vuoi,
vivi, signor, per non far danno ai tuoi.

Dal soldano d'Egitto, tuo vicino,
certo esser puoi d'aver danari e gente:
malvolentieri il figlio di Pipino
in Africa vedrà tanto potente.
Verrà con ogni sforzo Norandino
per ritornarti in regno, il tuo parente:
Armeni, Turchi, Persi, Arabi e Medi,
tutti in soccorso avrai, se tu li chiedi. -

Con tali e simil detti il vecchio accorto
studia tornare il suo signore in speme
di racquistarsi l'Africa di corto;
ma nel suo cor forse il contrario teme:
sa ben quanto è a mal termine e a mal porto,
e come spesso invan sospira e geme
chiunque il regno suo si lascia torre,
e per soccorso a' barbari ricorre.

Annibal e Iugurta di ciò foro
buon testimoni, ed altri al tempo antico:
al tempo nostro Ludovico il Moro,
dato in poter d'un altro Ludovico.
Vostro fratello Alfonso da costoro
ben ebbe esempio (a voi, Signor mio, dico),
che sempre ha riputato pazzo espresso
chi più si fida in altri che in se stesso.

E però ne la guerra che gli mnosse
del pontifice irato un duro sdegno,
ancor che ne le deboli sue posse
non potessi egli far molto disegno,
e chi lo difendea, d'Italia fosse
spinto, e n'avesse il suo nimico il regno;
né per minacce mai né per promesse
s'indusse che lo stato altrui cedesse.

Il re Agramante all'oriente avea
volta la prora, e s'era spinto in alto,
quando da terra una tempesta rea
mosse da banda impetuoso assalto.
Il nocchier che al governo vi sedea:
- Io veggo (disse alzando gli occhi ad alto)
una procella apparecchiar sì grave,
che contrastar non le potrà la nave.

S'attendete, signori, al mio consiglio,
qui da man manca ha un'isola vicina,
a cui mi par che abbiamo a dar di piglio,
fin che passi il furor de la marina. -
Consentì il re Agramante; e di periglio
uscì, pigliando la spiaggia mancina,
che per salute de' nocchier giace
tra gli Afri e di Vulcan l'alta fornace.

D'abitazioni è l'isoletta vota,
piena d'umil mortelle e di ginepri,
ioconda solitudine e remota
a cervi, a daini, a capriuoli, a lepri;
e fuor che a piscatori, è poco nota,
ove sovente a rimondati vepri
sospendon, per seccar, l'umide reti:
dormeno intanto i pesci in mar quieti.

Quivi trovar che s'era un altro legno,
cacciato da fortuna, già ridutto:
il gran guerrier che in Sericana ha regno,
levato d'Arli, avea quivi condutto.
Con modo riverente e di sé degno
l'un re con l'altro s'abbracciò all'asciutto;
che erano amici, e poco inanzi furo
compagni d'arme al parigino muro.

Con molto dispiacer Gradasso intese
del re Agramante le fortune avverse:
poi confortollo, e come re cortese,
con la propria persona se gli offerse:
ma che egli andasse all'infedel paese
d'Egitto, per aiuto, non sofferse.
- Che vi sia (disse) periglioso gire,
dovria Pompeio i profugi ammonire.

E perché detto m'hai che con l'aiuto
degli Etiopi, sudditi al Senapo,
Astolfo a torti l'Africa è venuto,
e che arsa ha la città che n'era capo;
e che Orlando è con lui, che diminuto
poco inanzi di senno aveva il capo;
mi pare al tutto un ottimo rimedio
aver pensato a farti uscir di tedio.

Io piglierò per amor tuo l'impresa
d'entrar col conte a singular certame.
Contra me so che non avrà difesa,
se tutto fosse di ferro o di rame.
Morto lui, stimo la cristiana Chiesa,
quel che l'agnelle il lupo che abbia fame.
Ho poi pensato (e mi fia cosa lieve)
di fare i Nubi uscir d'Africa in breve.

Farò che gli altri Nubi che da loro
il Nilo parte e la diversa legge,
e gli Arabi e i Macrobi, questi d'oro
ricchi e di gente, e quei d'equino gregge,
Persi e Caldei (perché tutti costoro
con altri molti il mio scettro corregge);
farò che in Nubia lor faran tal guerra,
che non si fermeran ne la tua terra. -

Al re Agramante assai parve oportuna
del re Gradasso la seconda offerta;
e si chiamò obligato alla Fortuna,
che l'avea tratto all'isola deserta:
ma non vuol torre a condizione alcuna,
se racquistar credesse indi Biserta,
che battaglia per lui Gradasso prenda;
che 'n ciò gli par che l'onor troppo offenda.

- S'a disfidar s'ha Orlando, son quell'io
(rispose) a cui la pugna più conviene:
e pronto vi sarò; poi faccia Dio
di me, come gli pare, o male o bene. -
- Facciàn (disse Gradasso) al modo mio,
a un nuovo modo che in pensier mi viene:
questa battaglia pigliamo ambedui
incontra Orlando, e un altro sia con lui. -

- Pur che io non resti fuor, non me ne lagno
(disse Agramante), o sia primo o secondo:
ben so che in arme ritrovar compagno
di te miglior non si può in tutto il mondo. -
- Ed io (disse Sobrin) dove rimagno?
E se vecchio vi paio, vi rispondo
che io debbo esser più esperto, e nel periglio
presso alla forza è buono aver consiglio. -

D'una vecchiezza valida e robusta
era Sobrino, e di famosa prova;
e dice che in vigor l'età vetusta
si sente pari alla già verde e nuova.
Stimata fu la sua domanda giusta;
e senza indugio un messo si ritrova,
il qual si mandi agli africani lidi,
e da lor parte il conte Orlando sfidi;

che s'abbia a ritrovar con numer pare
di cavallieri armati in Lipadusa.
Una isoletta è questa, che dal mare
medesmo che li cinge, è circonfusa.
Non cessa il messo a vela e a remi andare,
come quel che prestezza al bisogno usa,
che fu a Biserta; e trovò Orlando quivi,
che a suoi le spoglie dividea e i captivi.

Lo 'nvito di Gradasso e d'Agramante
e di Sobrino in publico fu espresso,
tanto giocondo al principe d'Anglante,
che d'ampli doni onorar fece il messo.
Avea dai suoi compagni udito inante,
che Durindana al fianco s'avea messo
il re Gradasso: onde egli, per desire
di racquistarla, in India volea gire,

stimando non aver Gradasso altrove,
poi che udì che di Francia era partito.
Or più vicin gli è offerto luogo, dove
spera che il suo gli fia restituito.
Il bel corno d'Almonte anco lo muove
ad accettar sì volentier lo 'nvito,
e Brigliador non men; che sapea in mano
esser venuti al figlio di Troiano.

Per compagno s'elegge alla battaglia
il fedel Brandimarte e il suo cognato.
Provato ha quanto l'uno e l'altro vaglia;
sa che da trambi è sommamente amato.
Buon destrier, buona piastra e buona maglia,
e spade cerca e lance in ogni lato
a sé e a' compagni: che sappiate parme,
che nessun d'essi avea le solite arme.

Orlando (come io v'ho detto più volte)
de le sue sparse per furor la terra:
agli altri ha Rodomonte le lor tolte,
che or alta torre in ripa un fiume serra.
Non se ne può per Africa aver molte;
sì perché in Francia avea tratto alla guerra
il re Agramante ciò che era di buono,
sì perché poche in Africa ne sono.

Ciò che di ruginoso e di brunito
aver si può, fa ragunare Orlando;
e coi compagni intanto va pel lito
de la futura pugna ragionando.
Gli avvien che essendo fuor del campo uscito
più di tre miglia, e gli occhi al mare alzando,
vide calar con le vele alte un legno
verso il lito african senza ritegno.

Senza nocchieri e senza naviganti,
sol come il vento e sua fortuna il mena,
venìa con le vele alte il legno avanti,
tanto che se ritenne in su l'arena.
Ma prima che di questo più vi canti,
l'amor che a Ruggier porto mi rimena
alla sua istoria, e vuol che io vi racconte
di lui e del guerrier di Chiaramonte.

Di questi duo guerrier dissi che tratti
s'erano fuor del marziale agone,
viste convenzion rompere e patti,
e turbarsi ogni squadra e legione.
Chi prima i giuramenti abbia disfatti,
e stato sia di tanto mal cagione,
o l'imperator Carlo, o il re Agramante,
studian saper da chi lor passa avante.

Un servitor intanto di Ruggiero,
che era fedele e pratico ed astuto,
né pel conflitto dei duo campi fiero
avea di vista il patron mai perduto,
venne a trovarlo, e la spada e il destriero
gli diede, perché a' suoi fosse in aiuto.
Montò Ruggiero e la sua spada tolse,
ma ne la zuffa entrar non però volse.

Quindi si parte; ma prima rinuova
la convenzion che con Rinaldo avea;
che se pergiuro il suo Agramante trova,
lo lascierà con la sua setta rea.
Per quel giorno Ruggier fare altra prova
d'arme non volse; ma solo attendea
a fermar questo e quello, e a domandarlo
chi prima roppe, o il re Agramante, o Carlo.

Ode da tutto il mondo, che la parte
del re Agramante fu, che roppe prima.
Ruggiero ama Agramante, e se si parte
da lui per questo, error non lieve stima.
Fur le gente africane e rotte e sparte
(questo ho già detto inanzi), e da la cima
de la volubil ruota tratte al fondo,
come piacque a colei che aggira il mondo.

Tra sé volve Ruggiero e fa discorso,
se restar deve, o il suo signor seguire.
Gli pon l'amor de la sua donna un morso
per non lasciarlo in Africa più gire:
lo volta e gira, ed a contrario corso
lo sprona, e lo minaccia di punire,
se l' patto e il giuramento non tien saldo,
che fatto avea col paladin Rinaldo.

Non men da l'altra parte sferza e sprona
la vigilante e stimulosa cura,
che s'Agramante in quel caso abbandona,
a viltà gli sia ascritto ed a paura.
Se del restar la causa parrà buona
a molti, a molti ad accettar fia dura.
Molti diran che non si de' osservare
quel che era ingiusto e illicito a giurare.

Tutto quel giorno e la notte seguente
stette solingo, e così l'altro giorno,
pur travagliando la dubbiosa mente,
se partir deve o far quivi soggiorno.
Pel signor suo conclude finalmente
di fargli dietro in Africa ritorno.
Potea in lui molto il coniugale amore,
ma vi potea più il debito e l'onore.

Torna verso Arli; che trovarvi spera
l'armata ancor, che in Africa il trasporti:
né legno in mar né dentro alla rivera,
né Saracini vede, se non morti.
Seco al partire ogni legno che v'era
trasse Agramante, e il resto arse nei porti.
Fallitogli il pensier, prese il camino
verso Marsilia pel lito marino.

A qualche legno pensa dar di piglio,
che a prieghi o forza il porti all'altra riva.
Già v'era giunto del Danese il figlio
con l'armata de' barbari captiva.
Non si avrebbe potuto un gran di miglio
gittar ne l'acqua: tanto la copriva
la spessa moltitudine de navi,
di vincitori e di prigioni, gravi.

Le navi de' pagani, che avanzaro
dal fuoco e dal naufragio quella notte,
eccetto poche che in fuga n'andaro,
tutte a Marsilia avea Dudon condotte.
Sette di quei che in Africa regnaro,
che, poi che le lor genti vider rotte,
con sette legni lor s'eran renduti,
stavan dolenti, lacrimosi e muti.

Era Dudon sopra la spiaggia uscito,
che a trovar Carlo andar volea quel giorno;
e de' captivi e de lor spoglie ordito
con lunga pompa avea un trionfo adorno.
Eran tutti i prigion stesi nel lito,
e i Nubi vincitori allegri intorno,
che faceano del nome di Dudone
intorno risonar la regione.

Venne in speranza di lontan Ruggiero,
che questa fosse armata d'Agramante;
e, per saperne il vero, urtò il destriero:
ma riconobbe, come fu più inante,
il re de Nasamona prigionero,
Bambirago, Agricalte e Farurante,
Manilardo e Balastro e Rimedonte,
che piangendo tenean bassa la fronte.

Ruggier che gli ama, sofferir non puote
che stian ne la miseria in che li trova.
Quivi sa che a venir con le man vote,
senza usar forza, il pregar poco giova.
La lancia abbassa, e chi li tien percuote;
e fa del suo valor l'usata prova;
stringe la spada, e in un piccol momento
ne fa cadere intorno più di cento.

Dudone ode il rumor, la strage vede
che fa Ruggier, ma chi sia non conosce.
Vede i suoi c'hanno in fuga volto il piede
con gran timor, con pianto e con angosce.
Presto il destrier, lo scudo e l'elmo chiede;
che già avea armato e petto e braccia e cosce:
salta a cavallo e si fa dar la lancia,
e non oblia che è paladin di Francia.

Grida che si ritiri ognun da canto,
spinge il cavallo e fa sentir gli sproni.
Ruggier cent'altri n'avea uccisi intanto,
e gran speranza dato a quei prigioni:
e come venir vide Dudon santo
solo a cavallo, e gli altri esser pedoni,
stimò che capo e che signor lor fosse;
e contra lui con gran desir si mosse.

Già mosso prima era Dudon; ma quando
senza lancia Ruggier vide venire,
lunge da sé la sua gittò, sdegnando
con tal vantaggio il cavallier ferire.
Ruggiero, al cortese atto riguardando,
disse fra sé: - Costui non può mentire,
che uno non sia di quei guerrier perfetti
che paladin di Francia sono detti.

S'impetrar lo potrò, vo' che il suo nome,
inanzi che segua altro, mi palese; -
e così domandollo: e seppe come
era Dudon figliuol d'Uggier danese.
Dudon gravò Ruggier poi d'ugual some,
e parimente lo trovò cortese.
Poi che i nomi tra lor s'ebbono detti,
si disfidaro, e vennero agli effetti.

Avea Dudon quella ferrata mazza
che in mille imprese gli diè eterno onore:
con essa mostra ben che egli è di razza
di quel Danese pien d'alto valore.
La spada che apre ogni elmo, ogni corazza,
di che non era al mondo la migliore,
trasse Ruggiero, e fece paragone
di sua virtude al paladin Dudone.

Ma perché in mente ognora avea di meno
offender la sua donna, che potea;
ed era certo, se spargea il terreno
del sangue di costui, che la offendea
(de le case di Francia istrutto a pieno,
la madre di Dudone esser sapea
Armelina sorella di Beatrice,
che era di Bradamante genitrice):

per questo mai di punta non gli trasse,
e di taglio rarissimo ferìa.
Schermiasi, ovunque la mazza calasse,
or ribattendo, or dandole la via.
Crede Turpin che per Ruggier restasse,
che Dudon morto in pochi colpi avria:
né mai, qualunque volta si scoperse,
ferir, se non di piatto, lo sofferse.

Di piatto usar potea, come di taglio,
Ruggier la spada sua che avea gran schena;
e quivi a strano giuoco di sonaglio
sopra Dudon con tanta forza mena,
che spesso agli occhi gli pon tal barbaglio,
che si ritien di non cadere a pena.
Ma per esser più grato a chi mi ascolta,
io differisco il canto a un'altra volta.



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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 21.22.40

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