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L'ORLANDO FURIOSO

Luodovico Ariosto

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CANTO UNDICESIMO


Quantunque debil freno a mezzo il corso
animoso destrier spesso raccolga,
raro è però che di ragione il morso
libidinosa furia a dietro volga,
quando il piacere ha in pronto; a guisa d'orso
che dal mel non sì tosto si distolga,
poi che gli n'è venuto odore al naso,
o qualche stilla ne gustò sul vaso.

Qual ragion fia che il buon Ruggier raffrene,
sì che non voglia ora pigliar diletto
d'Angelica gentil che nuda tiene
nel solitario e commodo boschetto?
Di Bradamante più non gli soviene,
che tanto aver solea fissa nel petto:
e se gli ne sovien pur come prima,
pazzo è se questa ancor non prezza e stima;

con la qual non saria stato quel crudo
Zenocrate di lui più continente.
Gittato avea Ruggier l'asta e lo scudo,
e si traea l'altre arme impaziente;
quando abbassando pel bel corpo ignudo
la donna gli occhi vergognosamente,
si vide in dito il prezioso annello
che già le tolse ad Albracca Brunello.

Questo è l'annel che ella portò già in Francia
la prima volta che fe' quel camino
col fratel suo, che v'arrecò la lancia,
la qual fu poi d'Astolfo paladino.
Con questo fe' gli incanti uscire in ciancia
di Malagigi al petron di Merlino;
con questo Orlando ed altri una matina
tolse di servitù di Dragontina;

con questo uscì invisibil de la torre
dove l'avea richiusa un vecchio rio.
A che voglio io tutte sue prove accorre,
se le sapete voi così come io?
Brunel sin nel giron lel venne a torre;
che Agramante d'averlo ebbe disio.
Da indi in qua sempre Fortuna a sdegno
ebbe costei, fin che le tolse il regno.

Or che sel vede, come ho detto, in mano,
sì di stupore e d'allegrezza è piena,
che quasi dubbia di sognarsi invano,
agli occhi, alla man sua dà fede a pena.
Del dito se lo leva, e a mano a mano
sel chiude in bocca: e in men che non balena,
così dagli occhi di Ruggier si cela,
come fa il sol quando la nube il vela.

Ruggier pur d'ogn'intorno riguardava,
e s'aggirava a cerco come un matto;
ma poi che de l'annel si ricordava,
scornato vi rimase e stupefatto:
e la sua inavvertenza bestemiava,
e la donna accusava di quello atto
ingrato e discortese, che renduto
in ricompensa gli era del suo aiuto.

- Ingrata damigella, è questo quello
guiderdone (dicea), che tu mi rendi?
che più tosto involar vogli l'annello,
che averlo in don? Perché da me nol prendi?
Non pur quel, ma lo scudo e il destrier snello
e me ti dono, e come vuoi mi spendi;
sol che il bel viso tuo non mi nascondi.
Io so, crudel, che m'odi, e non rispondi. -

Così dicendo, intorno alla fontana
brancolando n'andava come cieco.
Oh quante volte abbracciò l'aria vana,
sperando la donzella abbracciar seco!
Quella, che s'era già fatta lontana,
mai non cessò d'andar, che giunse a un speco
che sotto un monte era capace e grande,
dove al bisogno suo trovò vivande.

Quivi un vecchio pastor, che di cavalle
un grande armento avea, facea soggiorno.
Le iumente pascean giù per la valle
le tenere erbe ai freschi rivi intorno.
Di qua di là da l'antro erano stalle,
dove fuggìano il sol del mezzo giorno.
Angelica quel dì lunga dimora
là dentro fece, e non fu vista ancora.

E circa il vespro, poi che rifrescossi,
e le fu aviso esser posata assai,
in certi drappi rozzi aviluppossi,
dissimil troppo ai portamenti gai,
che verdi, gialli, persi, azzurri e rossi
ebbe, e di quante fogge furon mai.
Non le può tor però tanto umil gonna,
che bella non rassembri e nobil donna.

Taccia chi loda Fillide, o Neera,
o Amarilli, o Galatea fugace;
che d'esse alcuna sì bella non era,
Titiro e Melibeo, con vostra pace.
La bella donna tra' fuor de la schiera
de le iumente una che più le piace.
Allora allora se le fece inante
un pensier di tornarsene in Levante.

Ruggiero intanto, poi che ebbe gran pezzo
indarno atteso s'ella si scopriva,
e che s'avide del suo error da sezzo,
che non era vicina e non l'udiva;
dove lasciato avea il cavallo, avezzo
in cielo e in terra, a rimontar veniva:
e ritrovò che s'avea tratto il morso,
e salia in aria a più libero corso.

Fu grave e mala aggiunta all'altro danno
vedersi anco restar senza l'augello.
Questo, non men che il feminile inganno,
gli preme al cor; ma più che questo e quello,
gli preme e fa sentir noioso affanno
l'aver perduto il prezioso annello;
per le virtù non tanto che in lui sono,
quanto che fu de la sua donna dono.

Oltremodo dolente si ripose
indosso l'arme, e lo scudo alle spalle;
dal mar slungossi, e per le piaggie erbose
prese il camin verso una larga valle,
dove per mezzo all'alte selve ombrose
vide il più largo e il più segnato calle.
Non molto va, che a destra, ove più folta
è quella selva, un gran strepito ascolta.

Strepito ascolta e spaventevol suono
d'arme percosse insieme; onde s'affretta
tra pianta e pianta, e trova dui, che sono
a gran battaglia in poca piazza e stretta.
Non s'hanno alcun riguardo né perdono,
per far, non so di che, dura vendetta.
L'uno è gigante, alla sembianza fiero;
ardito l'altro e franco cavalliero.

E questo con lo scudo e con la spada,
di qua di là saltando, si difende,
perché la mazza sopra non gli cada,
con che il gigante a due man sempre offende.
Giace morto il cavallo in su la strada.
Ruggier si ferma, e alla battaglia attende;
e tosto inchina l'animo, e disia
che vincitore il cavallier ne sia.

Non che per questo gli dia alcun aiuto;
ma si tira da parte, e sta a vedere.
Ecco col baston grave il più membruto
sopra l'elmo a due man del minor fere.
De la percossa è il cavallier caduto:
l'altro, che il vide attonito giacere,
per dargli morte l'elmo gli dislaccia;
e fa sì che Ruggier lo vede in faccia.

Vede Ruggier de la sua dolce e bella
e carissima donna Bradamante
scoperto il viso; e lei vede esser quella
a cui dar morte vuol l'empio gigante:
sì che a battaglia subito l'appella,
e con la spada nuda si fa inante:
na quel, che nuova pugna non attende,
la donna tramortita in braccio prende;

e se l'arreca in spalla, e via la porta,
come lupo talor piccolo agnello,
o l'aquila portar ne l'ugna torta
suole o colombo o simile altro augello.
Vede Ruggier quanto il suo aiuto importa,
e vien correndo a più poter; ma quello
con tanta fretta i lunghi passi mena,
che con gli occhi Ruggier lo segue a pena.

Così correndo l'uno, e seguitando
l'altro, per un sentiero ombroso e fosco,
che sempre si venìa più dilatando,
in un gran prato uscir fuor di quel bosco.
Non più di questo; che io ritorno a Orlando,
che il fulgur che portò già il re Cimosco,
avea gittato in mar nel maggior fondo,
acciò mai più non si trovasse al mondo.

Ma poco ci giovò: che il nimico empio
de l'umana natura, il qual del telo
fu l'inventor, che ebbe da quel l'esempio,
che apre le nubi e in terra vien dal cielo;
con quasi non minor di quello scempio
che ci diè quando Eva ingannò col melo,
lo fece ritrovar da un negromante,
al tempo de' nostri avi, o poco inante.

La machina infernal, di più di cento
passi d'acqua ove stè ascosa molt'anni,
al sommo tratta per incantamento,
prima portata fu tra gli Alamanni;
li quali uno ed un altro esperimento
facendone, e il demonio a' nostri danni
assuttigliando lor via più la mente,
ne ritrovaro l'uso finalmente.

Italia e Francia e tutte l'altre bande
del mondo han poi la crudele arte appresa.
Alcuno il bronzo in cave forme spande,
che liquefatto ha la fornace accesa;
bùgia altri il ferro; e chi picciol, chi grande
il vaso forma, che più e meno pesa:
e qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual semplice cannon, qual cannon doppio;

qual sagra, qual falcon, qual colubrina
sento nomar, come al suo autor più agrada;
che il ferro spezza, e i marmi apre e ruina,
e ovunque passa si fa dar la strada.
Rendi, miser soldato, alla fucina
per tutte l'arme c'hai, fin alla spada;
e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;
che senza, io so, non toccherai stipendi.

Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l'arme è senza onore;
per te è il valore e la virtù ridutta,
che spesso par del buono il rio migliore:
non più la gagliardia, non più l'ardire
per te può in campo al paragon venire.

Per te son giti ed anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
che il mondo, ma più Italia ha messo in pianti;
che s'io v'ho detto, il detto mio non erra,
che ben fu il più crudele e il più di quanti
mai furo al mondo ingegni empi e maligni,
che imaginò sì abominosi ordigni.

E crederò che Dio, perché vendetta
ne sia in eterno, nel profondo chiuda
del cieco abisso quella maladetta
anima, appresso al maladetto Giuda.
Ma seguitiamo il cavallier che in fretta
brama trovarsi all'isola d'Ebuda,
dove le belle donne e delicate
son per vivanda a un marin mostro date.

Ma quanto avea più fretta il paladino,
tanto parea che men l'avesse il vento.
Spiri o dal lato destro o dal mancino,
o ne le poppe, sempre è così lento,
che si può far con lui poco camino;
e rimanea talvolta in tutto spento:
soffia talor sì averso, che gli è forza
o di tornare, o d'ir girando all'orza.

Fu volontà di Dio che non venisse
prima che il re d'Ibernia in quella parte,
acciò con più facilità seguisse
quel che udir vi farò fra poche carte.
Sopra l'isola sorti, Orlando disse
al suo nochiero: - Or qui potrai fermarte,
e il battel darmi; che portar mi voglio
senz'altra compagnia sopra lo scoglio.

E voglio la maggior gomona meco,
e l'ancora maggior che abbi sul legno:
io ti farò veder perché l'arreco,
se con quel mostro ad affrontar mi vegno. -
Gittar fe' in mare il palischermo seco,
con tutto quel che era atto al suo disegno.
Tutte l'arme lasciò, fuor che la spada;
e vêr lo scoglio, sol, prese la strada.

Si tira i remi al petto, e tien le spalle
volte alla parte ove discender vuole;
a guisa che del mare o de la valle
uscendo al lito, il salso granchio suole.
Era ne l'ora che le chiome gialle
la bella Aurora avea spiegate al Sole,
mezzo scoperto ancora e mezzo ascoso,
non senza sdegno di Titon geloso.

Fattosi appresso al nudo scoglio, quanto
potria gagliarda man gittare un sasso,
gli pare udire e non udire un pianto;
sì all'orecchie gli vien debole e lasso.
Tutto si volta sul sinistro canto;
e posto gli occhi appresso all'onde al basso,
vede una donna, nuda come nacque,
legata a un tronco; e i piè le bagnan l'acque.

Perché gli è ancor lontana, e perché china
la faccia tien, non ben chi sia discerne.
Tira in fretta ambi i remi, e s'avicina
con gran disio di plù notizia averne.
Ma muggiar sente in questo la marina,
e rimbombar le selve e le caverne:
gonfiansi l'onde; ed ecco il mostro appare,
che sotto il petto ha quasi ascoso il mare.

Come d'oscura valle umida ascende
nube di pioggia e di tempesta pregna,
che più che cieca notte si distende
per tutto il mondo, e par che il giorno spegna;
così nuota la fera, e del mar prende
tanto, che si può dir che tutto il tegna:
fremono l'onde. Orlando in sé raccolto,
la mira altier, né cangia cor né volto.

E come quel che avea il pensier ben fermo
di quanto volea far, si mosse ratto;
e perché alla donzella essere schermo,
e la fera assalir potesse a un tratto,
entrò fra l'orca e lei col palischermo,
nel fodero lasciando il brando piatto:
l'ancora con la gomona in man prese;
poi con gran cor l'orribil mostro attese.

Tosto che l'orca s'accostò, e scoperse
nel schifo Orlando con poco intervallo,
per ingiottirlo tanta bocca aperse,
che entrato un uomo vi saria a cavallo.
Si spinse Orlando inanzi, e se gli immerse
con quella ancora in gola, e s'io non fallo,
col battello anco; e l'ancora attaccolle
e nel palato e ne la lingua molle:

sì che né più si puon calar di sopra,
né alzar di sotto le mascelle orrende.
Così chi ne le mine il ferro adopra,
la terra, ovunque si fa via, suspende,
che subita ruina non lo cuopra,
mentre malcauto al suo lavoro intende.
Da un amo all'altro l'ancora è tanto alta,
che non v'arriva Orlando, se non salta.

Messo il puntello, e fattosi sicuro
che il mostro più serrar non può la bocca,
stringe la spada, e per quel antro oscuro
di qua e di là con tagli e punte tocca.
Come si può, poi che son dentro al muro
giunti i nimici, ben difender rocca;
così difender l'orca si potea
dal paladin che ne la gola avea.

Dal dolor vinta, or sopra il mar si lancia,
e mostra i fianchi e le scagliose schene;
or dentro vi s'attuffa, e con la pancia
muove dal fondo e fa salir l'arene.
Sentendo l'acqua il cavallier di Francia,
che troppo abonda, a nuoto fuor ne viene:
lascia l'ancora fitta, e in mano prende
la fune che da l'ancora depende.

E con quella ne vien nuotando in fretta
verso lo scoglio; ove fermato il piede,
tira l'ancora a sé, che in bocca stretta
con le due punte il brutto mostro fiede.
L'orca a seguire il canape è costretta
da quella forza che ogni forza eccede,
da quella forza che più in una scossa
tira, che in dieci un argano far possa.

Come toro selvatico che al corno
gittar si senta un improvviso laccio,
salta di qua di là, s'aggira intorno,
si colca e lieva, e non può uscir d'impaccio;
così fuor del suo antico almo soggiorno
l'orca tratta per forza di quel braccio,
con mille guizzi e mille strane ruote
segue la fune, e scior non se ne puote.

Di bocca il sangue in tanta copia fonde,
che questo oggi il mar Rosso si può dire,
dove in tal guisa ella percuote l'onde,
che insino al fondo le vedreste aprire;
ed or ne bagna il cielo, e il lume asconde
del chiaro sol: tanto le fa salire.
Rimbombano al rumor che intorno s'ode,
le selve, i monti e le lontane prode.

Fuor de la grotta il vecchio Proteo, quando
ode tanto rumor, sopra il mare esce;
e visto entrare e uscir de l'orca Orlando,
e al lito trar sì smisurato pesce,
fugge per l'alto oceano, obliando
lo sparso gregge: e sì il tumulto cresce,
che fatto al carro i suoi delfini porre,
quel dì Nettuno in Etiopia corre.

Con Melicerta in collo Ino piangendo,
e le Nereide coi capelli sparsi,
Glauci e Tritoni, e gli altri, non sappiendo
dove, chi qua chi là van per salvarsi.
Orlando al lito trasse il pesce orrendo,
col qual non bisognò più affaticarsi;
che pel travaglio e per l'avuta pena,
prima morì, che fosse in su l'arena.

De l'isola non pochi erano corsi
a riguardar quella battaglia strana;
i quai da vana religion rimorsi,
così sant'opra riputar profana:
e dicean che sarebbe un nuovo torsi
Proteo nimico, e attizzar l'ira insana,
da farli porre il marin gregge in terra,
e tutta rinovar l'antica guerra;

e che meglio sarà di chieder pace
prima all'offeso dio, che peggio accada;
e questo si farà, quando l'audace
gittato in mare a placar Proteo vada.
Come dà fuoco l'una a l'altra face,
e tosto alluma tutta una contrada,
così d'un cor ne l'altro si difonde
l'ira che Orlando vuol gittar ne l'onde.

Chi d'una fromba e chi d'un arco armato,
chi d'asta, chi di spada, al lito scende;
e dinanzi e di dietro e d'ogni lato,
lontano e appresso, a più poter l'offende.
Di sì bestiale insulto e troppo ingrato
gran meraviglia il paladin si prende:
pel mostro ucciso ingiuria far si vede,
dove aver ne sperò gloria e mercede.

Ma come l'orso suol, che per le fiere
menato sia da Rusci o da Lituani,
passando per la via, poco temere
l'importuno abbaiar di picciol cani,
che pur non se li degna di vedere;
così poco temea di quei villani
il paladin, che con un soffio solo
ne potrà fracassar tutto lo stuolo.

E ben si fece far subito piazza
che lor si volse, e Durindana prese.
S'avea creduto quella gente pazza
che le dovesse far poche contese,
quando né indosso gli vedea corazza,
né scudo in braccio, né alcun altro arnese;
ma non sapea che dal capo alle piante
dura la pelle avea più che diamante.

Quel che d'Orlando agli altri far non lece,
di far degli altri a lui già non è tolto.
Trenta n'uccise, e furo in tutto diece
botte, o se più, non le passò di molto.
Tosto intorno sgombrar l'arena fece;
e per slegar la donna era già volto,
quando nuovo tumulto e nuovo grido
fe' risuonar da un'altra parte il lido.

Mentre avea il paladin da questa banda
così tenuto i barbari impediti,
eran senza contrasto quei d'Irlanda
da più parte ne l'isola saliti;
e spenta ogni pietà, strage nefanda
di quel popul facean per tutti i liti:
fosse iustizia, o fosse crudeltade,
né sesso riguardavano né etade.

Nessun ripar fan gli isolani, o poco;
parte, che accolti son troppo improviso,
parte, che poca gente ha il picciol loco,
e quella poca è di nessun aviso.
L'aver fu messo a sacco; messo fuoco
fu ne le case: il populo fu ucciso:
le mura fur tutte adeguate al suolo:
non fu lasciato vivo un capo solo.

Orlando, come gli appertenga nulla
l'alto rumor, le strida e la ruina,
viene a colei che su la pietra brulla
avea da divorar l'orca marina.
Guarda, e gli par conoscer la fanciulla;
e più gli pare, e più che s'avicina:
gli pare Olimpia: ed era Olimpia certo,
che di sua fede ebbe sì iniquo merto.

Misera Olimpia! a cui dopo lo scorno
che gli fe' Amore, anco Fortuna cruda
mandò i corsari (e fu il medesmo giorno),
che la portaro all'isola d'Ebuda.
Riconosce ella Orlando nel ritorno
che fa allo scoglio: ma perche ella è nuda,
tien basso il capo; e non che non gli parli,
ma gli occhi non ardisce al viso alzarli.

Orlando domandò che iniqua sorte
l'avesse fatta all'isola venire
di là dove lasciata col consorte
lieta l'avea, quanto si può più dire.
- Non so (disse ella) s'io v'ho, che la morte
voi mi schivaste, grazie a riferire,
o da dolermi che per voi non sia
oggi finita la miseria mia.

Io v'ho da ringraziar che una maniera
di morir mi schivaste troppo enorme;
che troppo saria enorme, se la fera
nel brutto ventre avesse avuto a porme.
Ma già non vi ringrazio che io non pera;
che morte sol può di miseria torme:
ben vi ringrazierò, se da voi darmi
quella vedrò, che d'ogni duol può trarmi. -

Poi con gran pianto seguitò, dicendo
come lo sposo suo l'avea tradita;
che la lasciò su l'isola dormendo,
donde ella poi fu dai corsar rapita.
E mentre ella parlava, rivolgendo
s'andava in quella guisa che scolpita
o dipinta è Diana ne la fonte,
che getta l'acqua ad Ateone in fronte;

che, quanto può, nasconde il petto e il ventre,
più liberal dei fianchi e de le rene.
Brama Orlando che in porto il suo legno entre;
che lei, che sciolta avea da le catene,
vorria coprir d'alcuna veste. Or mentre
che a questo è intento, Oberto sopraviene,
Oberto il re d'Ibernia, che avea inteso
che il marin mostro era sul lito steso;

E che nuotando un cavallier era ito
a porgli in gola un'ancora assai grave;
e che l'avea così tirato al lito,
come si suol tirar contr'acqua nave.
Oberto, per veder se riferito
colui da chi l'ha inteso, il vero gli have,
se ne vien quivi; e la sua gente intanto
arde e distrugge Ebuda in ogni canto.

Il re d'Ibernia, ancor che fosse Orlando,
di sangue tinto, e d'acqua molle e brutto,
brutto del sangue che si trasse quando
uscì de l'orca in che era entrato tutto,
pel conte l'andò pur raffigurando;
tanto più che ne l'animo avea indutto,
tosto che del valor sentì la nuova,
che altri che Orlando non faria tal pruova.

Lo conoscea, perche era stato infante
d'onore in Francia, e se n'era partito
per pigliar la corona, l'anno inante,
del padre suo che era di vita uscito.
Tante volte veduto, e tante e tante
gli avea parlato, che era in infinito.
Lo corse ad abbracciare e a fargli festa,
trattasi la celata che avea in testa.

Non meno Orlando di veder contento
si mostrò il re, che il re di veder lui.
Poi che furo a iterar l'abbracciamento
una o due volte tornati amendui,
narrò ad Oberto Orlando il tradimento
che fu fatto alla giovane, e da cui
fatto le fu; dal perfido Bireno,
che via d'ogn'altro lo dovea far meno.

Le prove gli narrò, che tante volte
ella d'amarlo dimostrato avea:
come i parenti e le sustanze tolte
le furo, e al fin per lui morir volea;
e che esso testimonio era di molte,
e renderne buon conto ne potea.
Mentre parlava, i begli occhi sereni
de la donna di lagrime eran pieni.

Era il bel viso suo, quale esser suole
da primavera alcuna volta il cielo,
quando la pioggia cade, e a un tempo il sole
si sgombra intorno il nubiloso velo.
E come il rosignuol dolci carole
mena nei rami alor del verde stelo,
così alle belle lagrime le piume
si bagna Amore, e gode al chiaro lume.

E ne la face de' begli occhi accende
l'aurato strale, e nel ruscello amorza,
che tra vermigli e bianchi fiori scende:
e temprato che l'ha, tira di forza
contra il garzon, che né scudo difende,
né maglia doppia, né ferrigna scorza;
che mentre sta a mirar gli occhi e le chiome,
si sente il cor ferito, e non sa come.

Le bellezze d'Olimpia eran di quelle
che son più rare: e non la fronte sola,
gli occhi e le guance e le chiome avea belle,
la bocca, il naso, gli omeri e la gola;
ma discendendo giù da le mammelle,
le parti che solea coprir la stola,
fur di tanta eccellenza, che anteporse
a quante n'avea il mondo potean forse.

Vinceano di candor le nievi intatte,
ed eran più che avorio a toccar molli:
le poppe ritondette parean latte
che fuor dei giunchi allora allora tolli.
Spazio fra lor tal discendea, qual fatte
esser veggiàn fra picciolini colli
l'ombrose valli, in sua stagione amene,
che il verno abbia di nieve allora piene.

I rilevati fianchi e le belle anche,
e netto più che specchio il ventre piano,
pareano fatti, e quelle coscie bianche,
da Fidia a torno, o da più dotta mano.
Di quelle parti debbovi dir anche,
che pur celare ella bramava invano?
Dirò insomma, che in lei dal capo al piede,
quant'esser può beltà, tutta si vede.

Se fosse stata ne le valli Idee
vista dal Pastor frigio, io non so quanto
Vener, sebben vincea quell'altre dee,
portato avesse di bellezza il vanto:
né forso ito saria ne le Amiclee
contrade esso a violar l'ospizio santo;
ma detto avria: - Con Menelao ti resta,
Elena pur; che altra io non vo' che questa. -

E se fosse costei stata a Crotone,
quando Zeusi l'imagine far volse,
che por dovea nel tempio di Iunone,
e tante belle nude insieme accolse;
e che, per una farne in perfezione,
da chi una parte e da chi un'altra tolse:
non avea da torre altra che costei;
che tutte le bellezze erano in lei.

Io non credo che mai Bireno, nudo
vedesse quel bel corpo; che io son certo
che stato non saria mai così crudo,
che l'avesse lasciata in quel deserto.
Che Oberto se n'accende, io vi concludo,
tanto che il fuoco non può star coperto.
Si studia consolarla, e darle speme
che uscirà in bene il mal che ora la preme:

e le promette andar seco in Olanda;
né fin che ne lo stato la rimetta,
e che abbia fatto iusta e memoranda
di quel periuro e traditor vendetta,
non cesserà con ciò che possa Irlanda,
e lo farà quanto potrà più in fretta.
Cercare intanto in quelle case e in queste
facea di gonne e di feminee veste.

Bisogno non sarà, per trovar gonne,
che a cercar fuor de l'isola si mande;
che ogni dì se n'avea da quelle donne
che de l'avido mostro eran vivande.
Non fe' molto cercar, che ritrovonne
di varie fogge Oberto copia grande;
e fe' vestir Olimpia, e ben gli increbbe
non la poter vestir come vorrebbe.

Ma né sì bella seta o sì fin'oro
mai Fiorentini industri tesser fenno;
né chi ricama fece mai lavoro,
postovi tempo, diligenza e senno,
che potesse a costui parer decoro,
se lo fêsse Minerva o il dio di Lenno,
e degno di coprir sì belle membre,
che forza è ad or ad or se ne rimembre.

Per più rispetti il paladino molto
si dimostrò di questo amor contento:
che oltre che il re non lascerebbe asciolto
Bireno andar di tanto tradimento,
sarebbe anche esso per tal mezzo tolto
di grave e di noioso impedimento,
quivi non per Olimpia, ma venuto
per dar, se v'era, alla sua donna aiuto.

Che ella non v'era si chiarì di corto,
ma già non si chiarì se v'era stata;
perché ogn'uomo ne l'isola era morto,
né un sol rimaso di sì gran brigata.
Il dì seguente si partir del porto,
e tutti insieme andaro in una armata.
Con loro andò in Irlanda il paladino;
che fu per gire in Francia il suo camino.

A pena un giorno si fermò in Irlanda;
non valser preghi a far che più vi stesse:
Amor, che dietro alla sua donna il manda,
di fermarvisi più non gli concesse.
Quindi si parte; e prima raccomanda
Olimpia al re, che servi le promesse:
ben che non bisognasse; che gli attenne
molto più, che di far non si convenne.

Così fra pochi dì gente raccolse;
e fatto lega col re d'Inghilterra
e con l'altro di Scozia, gli ritolse
Olanda, e in Frisa non gli lasciò terra;
ed a ribellione anco gli volse
la sua Selandia: e non finì la guerra,
che gli diè morte; né però fu tale
la pena, che al delitto andasse eguale.

Olimpia Oberto si pigliò per moglie,
e di contessa la fe' gran regina.
Ma ritorniamo al paladin che scioglie
nel mar le vele, e notte e dì camina;
poi nel medesmo porto le raccoglie,
donde pria le spiegò ne la marina:
e sul suo Brigliadoro armato salse,
e lasciò dietro i venti e l'onde salse.

Credo che il resto di quel verno cose
facesse degne di tenerne conto;
ma fur sin a quel tempo sì nascose,
che non è colpa mia s'or non le conto;
perché Orlando a far l'opre virtuose,
più che a narrarle poi, sempre era pronto:
né mai fu alcun de li suoi fatti espresso,
se non quando ebbe i testimoni appresso.

Passò il resto del verno così cheto,
che di lui non si seppe cosa vera:
ma poi che il sol ne l'animal discreto
che portò Friso, illuminò la sfera,
e Zefiro tornò soave e lieto
a rimenar la dolce primavera;
d'Orlando usciron le mirabil pruove
coi vaghi fiori e con l'erbette nuove.

Di piano in monte, e di campagna in lido,
pien di travaglio e di dolor ne gìa;
quando all'entrar d'un bosco, un lungo grido,
un alto duol l'orecchie gli ferìa.
Spinge il cavallo, e piglia il brando fido,
e donde viene il suon, ratto s'invia:
ma diferisco un'altra volta a dire
quel che seguì, se mi vorrete udire.





CANTO DODICESIMO.


Cerere, poi che da la madre Idea
tornando in fretta alla solinga valle,
là dove calca la montagna Etnea
al fulminato Encelado le spalle,
la figlia non trovò dove l'avea
lasciata fuor d'ogni segnato calle;
fatto che ebbe alle guance, al petto, ai crini
e agli occhi danno, al fin svelse duo pini;

e nel fuoco gli accese di Vulcano,
e diè lor non potere esser mai spenti:
e portandosi questi uno per mano
sul carro che tiravan dui serpenti,
cercò le selve, i campi, il monte, il piano,
le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti,
la terra e il mare; e poi che tutto il mondo
cercò di sopra, andò al tartareo fondo.

S'in poter fosse stato Orlando pare
all'Eleusina dea, come in disio,
non avria, per Angelica cercare,
lasciato o selva o campo o stagno o rio
o valle o monte o piano o terra o mare,
il cielo e il fondo de l'eterno oblio;
ma poi che il carro e i draghi non avea,
la gìa cercando al meglio che potea.

L'ha cercata per Francia: or s'apparecchia
per Italia cercarla e per Lamagna,
per la nuova Castiglia e per la vecchia,
e poi passare in Libia il mar di Spagna.
Mentre pensa così, sente all'orecchia
una voce venir, che par che piagna:
si spinge inanzi; e sopra un gran destriero
trottar si vede innanzi un cavalliero,

che porta in braccio e su l'arcion davante
per forza una mestissima donzella.
Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante
di gran dolore; ed in soccorso appella
il valoroso principe d'Anglante;
che come mira alla giovane bella,
gli par colei, per cui la notte e il giorno
cercato Francia avea dentro e d'intorno.

Non dico che ella fosse, ma parea
Angelica gentil che egli tant'ama.
Egli, che la sua donna e la sua dea
vede portar sì addolorata e grama,
spinto da l'ira e da la furia rea,
con voce orrenda il cavallier richiama;
richiama il cavalliero e gli minaccia,
e Brigliadoro a tutta briglia caccia.

Non resta quel fellon, né gli risponde,
all'alta preda, al gran guadagno intento,
e sì ratto ne va per quelle fronde,
che saria tardo a seguitarlo il vento.
L'un fugge, e l'altro caccia; e le profonde
selve s'odon sonar d'alto lamento.
Correndo usciro in un gran prato; e quello
avea nel mezzo un grande e ricco ostello.

Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d'oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né più il guerrier, né la donzella mira.

Subito smonta, e fulminando passa
dove più dentro il bel tetto s'alloggia:
corre di qua, corre di là, né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d'ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l'opra.

D'oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.
Di su di giù va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n'ha portato il bel viso leggiadro.

E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante ed altri cavallieri
vi ritrovò, che andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.

Tutti cercando il van, tutti gli dànno
colpa di furto alcun che lor fatt'abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
che abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d'altro l'accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.

Orlando, poi che quattro volte e sei
tutto cercato ebbe il palazzo strano,
disse fra sé: - Qui dimorar potrei,
gittare il tempo e la fatica invano:
e potria il ladro aver tratta costei
da un'altra uscita, e molto esser lontano. -
Con tal pensiero uscì nel verde prato,
dal qual tutto il palazzo era aggirato.

Mentre circonda la casa silvestra,
tenendo pur a terra il viso chino,
per veder s'orma appare, o da man destra
o da sinistra, di nuovo camino;
si sente richiamar da una finestra:
e leva gli occhi; e quel parlar divino
gli pare udire, e par che miri il viso,
che l'ha da quel che fu, tanto diviso.

Pargli Angelica udir, che supplicando
e piangendo gli dica: - Aita, aita!
la mia virginità ti raccomando
più che l'anima mia, più che la vita.
Dunque in presenza del mio caro Orlando
da questo ladro mi sarà rapita?
più tosto di tua man dammi la morte,
che venir lasci a sì infelice sorte. -

Queste parole una ed un'altra volta
fanno Orlando tornar per ogni stanza,
con passione e con fatica molta,
ma temperata pur d'alta speranza.
Talor si ferma, ed una voce ascolta,
che di quella d'Angelica ha sembianza
(e s'egli è da una parte, suona altronde),
che chieggia aiuto; e non sa trovar donde.

Ma tornando a Ruggier, che io lasciai quando
dissi che per sentiero ombroso e fosco
il gigante e la donna seguitando,
in un gran prato uscito era del bosco;
io dico che arrivò qui dove Orlando
dianzi arrivò, se il loco riconosco.
Dentro la porta il gran gigante passa:
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa.

Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le logge mira;
né più il gigante né la donna vede,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di su di giù va molte volte e riede;
né gli succede mai quel che desira:
né si sa imaginar dove sì tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.

Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giù camere e logge e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
che non ne cerchi fin sotto le scale.
Con speme al fin che sian ne le propinque
selve, si parte: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe' ritornar anco.

Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei che andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.

Questo era un nuovo e disusato incanto
che avea composto Atlante di Carena,
perché Ruggier fosse occupato tanto
in quel travaglio, in quella dolce pena,
che il mal'influsso n'andasse da canto,
l'influsso che a morir giovene il mena.
Dopo il castel d'acciar, che nulla giova,
e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova.

Non pur costui, ma tutti gli altri ancora,
che di valore in Francia han maggior fama,
acciò che di lor man Ruggier non mora,
condurre Atlante in questo incanto trama.
E mentre fa lor far quivi dimora,
perché di cibo non patischin brama,
sì ben fornito avea tutto il palagio,
che donne e cavallier vi stanno ad agio.

Ma torniamo ad Angelica, che seco
avendo quell'annel mirabil tanto,
che in bocca a veder lei fa l'occhio cieco,
nel dito, l'assicura da l'incanto;
e ritrovato nel montano speco
cibo avendo e cavalla e veste e quanto
le fu bisogno, avea fatto disegno
di ritornare in India al suo bel regno.

Orlando volentieri o Sacripante
voluto avrebbe in compania: non che ella
più caro avesse l'un che l'altro amante;
anzi di par fu a' lor disii ribella:
ma dovendo, per girsene in Levante,
passar tante città, tante castella,
di compagnia bisogno avea e di guida,
né potea aver con altri la più fida.

Or l'uno or l'altro andò molto cercando,
prima che indizio ne trovasse o spia,
quando in cittade, e quando in ville, e quando
in alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna al fin là dove il conte Orlando,
Ferraù e Sacripante era, la invia,
con Ruggier, con Gradasso ed altri molti
che v'avea Atlante in strano intrico avolti.

Quivi entra, che veder non la può il mago,
e cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e trova Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello ostello.
Vede come, fingendo la sua immago,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor, molto rivolve
nel suo pensier, né ben se ne risolve.

Non sa stimar chi sia per lei migliore,
il conte Orlando o il re dei fier Circassi.
Orlando la potrà con più valore
meglio salvar nei perigliosi passi:
ma se sua guida il fa, sel fa signore;
che ella non vede come poi l'abbassi,
qualunque volta, di lui sazia, farlo
voglia minore, o in Francia rimandarlo.

Ma il Circasso depor, quando le piaccia,
potrà, se ben l'avesse posto in cielo.
Questa sola cagion vuol che ella il faccia
sua scorta, e mostri avergli fede e zelo.
L'annel trasse di bocca, e di sua faccia
levò dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
che Orlando e Ferraù le sopravenne.

Le sopravenne Ferraù ed Orlando;
che l'uno e l'altro parimente giva
di su di giù, dentro e di fuor cercando
del gran palazzo lei, che era lor diva.
Corser di par tutti alla donna, quando
nessuno incantamento gli impediva:
perché l'annel che ella si pose in mano,
fece d'Atlante ogni disegno vano.

L'usbergo indosso aveano e l'elmo in testa
dui di questi guerrier, dei quali io canto;
né notte o dì, dopo che entraro in questa
stanza, l'aveano mai messi da canto;
che facile a portar, come la vesta,
era lor, perché in uso l'avean tanto.
Ferraù il terzo era anco armato, eccetto
che non avea né volea avere elmetto,

fin che quel non avea, che il paladino
tolse Orlando al fratel del re Troiano;
che allora lo giurò, che l'elmo fino
cercò de l'Argalia nel fiume invano:
e se ben quivi Orlando ebbe vicino,
né però Ferraù pose in lui mano;
avenne, che conoscersi tra loro
non si poter, mentre là dentro foro.

Era così incantato quello albergo,
che insieme riconoscer non poteansi.
Né notte mai né dì, spada né usbergo
né scudo pur dal braccio rimoveansi.
I lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi da l'arcion, pasceansi
in una stanza, che presso all'uscita,
d'orzo e di paglia sempre era fornita.

Atlante riparar non sa né puote,
che in sella non rimontino i guerrieri
per correr dietro alle vermiglie gote,
all'auree chiome ed a' begli occhi neri
de la donzella, che in fuga percuote
la sua iumenta, perché volentieri
non vede li tre amanti in compagnia,
che forse tolti un dopo l'altro avria.

E poi che dilungati dal palagio
gli ebbe sì, che temer più non dovea
che contra lor l'incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea;
l'annel che le schivò più d'un disagio,
tra le rosate labra si chiudea:
donde lor sparve subito dagli occhi,
e gli lasciò come insensati e sciocchi.

Come che fosse il suo primier disegno
di voler seco Orlando o Sacripante,
che a ritornar l'avessero nel regno
di Galafron ne l'ultimo Levante;
le vennero amendua subito a sdegno,
e si mutò di voglia in uno istante:
e senza più obligarsi o a questo o a quello,
pensò bastar per amendua il suo annello.

Volgon pel bosco or quinci or quindi in fretta
quelli scherniti la stupida faccia;
come il cane talor, se gli è intercetta
o lepre o volpe, a cui dava la caccia,
che d'improviso in qualche tana stretta
o in folta macchia o in un fosso si caccia.
Di lor si ride Angelica proterva,
che non è vista, e i lor progressi osserva.

Per mezzo il bosco appar sol una strada:
credono i cavallier che la donzella
inanzi a lor per quella se ne vada;
che non se ne può andar, se non per quella.
Orlando corre, e Ferraù non bada,
né Sacripante men sprona e puntella.
Angelica la briglia più ritiene,
e dietro lor con minor fretta viene.

Giunti che fur, correndo, ove i sentieri
a perder si venian ne la foresta,
e cominciar per l'erba i cavallieri
a riguardar se vi trovavan pesta;
Ferraù, che potea fra quanti altieri
mai fosser, gir con la corona in testa,
si volse con mal viso agli altri dui,
e gridò lor: - Dove venite vui?

Tornate a dietro, o pigliate altra via,
se non volete rimaner qui morti:
né in amar né in seguir la donna mia
si creda alcun, che compagnia comporti. -
Disse Orlando al Circasso: - Che potria
più dir costui, s'ambi ci avesse scorti
per le più vili e timide puttane
che da conocchie mai traesser lane?

Poi volto a Ferraù, disse: - Uom bestiale,
s'io non guardassi che senza elmo sei,
di quel c'hai detto, s'hai ben detto o male,
senz'altra indugia accorger ti farei. -
Disse il Spagnuol: - Di quel che a me non cale,
perché pigliarne tu cura ti dei?
Io sol contra ambidui per far son buono
quel che detto ho, senza elmo come sono. -

- Deh (disse Orlando al re di Circassia),
in mio servigio a costui l'elmo presta,
tanto che io gli abbia tratta la pazzia;
che altra non vidi mai simile a questa. -
Rispose il re: - Chi più pazzo saria?
Ma se ti par pur la domanda onesta,
prestagli il tuo; che io non sarò men atto,
che tu sia forse, a castigare un matto. -

Soggiunse Ferraù: - Sciocchi voi, quasi
che, se mi fosse il portar elmo a grado,
voi senza non ne fosse già rimasi;
che tolti i vostri avrei, vostro mal grado.
Ma per narrarvi in parte li miei casi,
per voto così senza me ne vado,
ed anderò, fin che io non ho quel fino
che porta in capo Orlando paladino. -

- Dunque (rispose sorridente il conte)
ti pensi a capo nudo esser bastante
far ad Orlando quel che in Aspramonte
egli già fece al figlio d'Agolante?
Anzi credo io, se tel vedessi a fronte,
ne tremeresti dal capo alle piante;
non che volessi l'elmo, ma daresti
l'altre arme a lui di patto, che tu vesti. -

Il vantator Spagnuol disse: - Già molte
fiate e molte ho così Orlando astretto,
che facilmente l'arme gli avrei tolte,
quante indosso n'avea, non che l'elmetto;
e s'io nol feci, occorrono alle volte
pensier che prima non s'aveano in petto:
non n'ebbi, già fu, voglia; or l'aggio, e spero
che mi potrà succeder di leggiero. -

Non potè aver più pazienza Orlando
e gridò: - Mentitor, brutto marrano,
in che paese ti trovasti, e quando,
a poter più di me con l'arme in mano?
Quel paladin, di che ti vai vantando,
son io, che ti pensavi esser lontano.
Or vedi se tu puoi l'elmo levarme,
o s'io son buon per torre a te l'altre arme.

Né da te voglio un minimo vantaggio. -
Così dicendo, l'elmo si disciolse,
e lo suspese a un ramuscel di faggio;
e quasi a un tempo Durindana tolse.
Ferraù non perdè di ciò il coraggio:
trasse la spada, e in atto si raccolse,
onde con essa e col levato scudo
potesse ricoprirsi il capo nudo.

Così li duo guerrieri incominciaro,
lor cavalli aggirando, a volteggiarsi;
e dove l'arme si giungeano, e raro
era più il ferro, col ferro a tentarsi.
Non era in tutto il mondo un altro paro
che più di questo avessi ad accoppiarsi:
pari eran di vigor, pari d'ardire;
né l'un né l'altro si potea ferire.

Che abbiate, Signor mio, già inteso estimo,
che Ferraù per tutto era fatato,
fuor che là dove l'alimento primo
piglia il bambin nel ventre ancor serrato:
e fin che del sepolcro il tetro limo
la faccia gli coperse, il luogo armato
usò portar, dove era il dubbio, sempre
di sette piastre fatte a buone tempre.

Era ugualmente il principe d'Anglante
tutto fatato, fuor che in una parte:
ferito esser potea sotto le piante;
ma le guardò con ogni studio ed arte.
Duro era il resto lor più che diamante
(se la fama dal ver non si diparte);
e l'uno e l'altro andò, più per ornato
che per bisogno, alle sue imprese armato.

S'incrudelisce e inaspra la battaglia,
d'orrore in vista e di spavento piena.
Ferraù, quando punge e quando taglia,
né mena botta che non vada piena:
ogni colpo d'Orlando o piastra o maglia
e schioda e rompe ed apre e a straccio mena.
Angelica invisibile lor pon mente,
sola a tanto spettacolo presente.

Intanto il re di Circassia, stimando
che poco inanzi Angelica corresse,
poi che attaccati Ferraù ed Orlando
vide restar, per quella via si messe,
che si credea che la donzella, quando
da lor disparve, seguitata avesse:
sì che a quella battaglia la figliuola
di Galafron fu testimonia sola.

Poi che, orribil come era e spaventosa,
l'ebbe da parte ella mirata alquanto,
e che le parve assai pericolosa
così da l'un come da l'altro canto;
di veder novità voluntarosa,
disegnò l'elmo tor, per mirar quanto
fariano i duo guerrier, vistosel tolto;
ben con pensier di non tenerlo molto.

Ha ben di darlo al conte intenzione;
na se ne vuole in prima pigliar gioco.
L'elmo dispicca, e in grembio se lo pone,
e sta a mirare i cavallieri un poco.
Di poi si parte, e non fa lor sermone;
e lontana era un pezzo da quel loco,
prima che alcun di lor v'avesse mente:
sì l'uno e l'altro era ne l'ira ardente.

Ma Ferraù, che prima v'ebbe gli occhi,
si dispiccò da Orlando, e disse a lui:
- Deh come n'ha da male accorti e sciocchi
trattati il cavallier che era con nui!
Che premio fia che al vincitor più tocchi,
se il bel elmo involato n'ha costui? -
Ritrassi Orlando, e gli occhi al ramo gira:
non vede l'elmo, e tutto avampa d'ira.

E nel parer di Ferraù concorse,
che il cavallier che dianzi era con loro
se lo portasse; onde la briglia torse,
e fe' sentir gli sproni a Brigliadoro.
Ferraù che del campo il vide torse,
gli venne dietro; e poi che giunti foro
dove ne l'erba appar l'orma novella
che avea fatto il Circasso e la donzella,

prese la strada alla sinistra il conte
verso una valle, ove il Circasso era ito:
si tenne Ferraù più presso al monte,
dove il sentiero Angelica avea trito.
Angelica in quel mezzo ad una fonte
giunta era, ombrosa e di giocondo sito,
che ognun che passa, alle fresche ombre invita,
né, senza ber, mai lascia far partita.

Angelica si ferma alle chiare onde,
non pensando che alcun le sopravegna;
e per lo sacro annel che la nasconde,
non può temer che caso rio le avegna.
A prima giunta in su l'erbose sponde
del rivo l'elmo a un ramuscel consegna;
poi cerca, ove nel bosco è miglior frasca,
la iumenta legar, perché si pasca.

Il cavallier di Spagna, che venuto
era per l'orme, alla fontana giunge.
Non l'ha sì tosto Angelica veduto,
che gli dispare, e la cavalla punge.
L'elmo, che sopra l'erba era caduto,
ritor non può, che troppo resta lunge.
Come il pagan d'Angelica s'accorse,
tosto vêr lei pien di letizia corse.

Gli sparve, come io dico, ella davante,
come fantasma al dipartir del sonno.
Cercando egli la va per quelle piante
né i miseri occhi più veder la ponno.
Bestemiando Macone e Trivigante,
e di sua legge ogni maestro e donno,
ritornò Ferraù verso la fonte,
u' ne l'erba giacea l'elmo del conte.

Lo riconobbe, tosto che mirollo,
per lettere che avea scritte ne l'orlo;
che dicean dove Orlando guadagnollo,
e come e quando, ed a chi fe' deporlo.
Armossene il pagano il capo e il collo,
che non lasciò, pel duol che avea, di torlo;
pel duol che avea di quella che gli sparve,
come sparir soglion notturne larve.

Poi che allacciato s'ha il buon elmo in testa,
aviso gli è, che a contentarsi a pieno,
sol ritrovare Angelica gli resta,
che gli appar e dispar come baleno.
Per lei tutta cercò l'alta foresta:
e poi che ogni speranza venne meno
di più poterne ritrovar vestigi,
tornò al campo spagnuol verso Parigi;

temperando il dolor che gli ardea il petto,
di non aver sì gran disir sfogato,
col refrigerio di portar l'elmetto
che fu d'Orlando, come avea giurato.
Dal conte, poi che il certo gli fu detto,
fu lungamente Ferraù cercato;
né fin quel dì dal capo gli lo sciolse,
che fra duo ponti la vita gli tolse.

Angelica invisibile e soletta
via se ne va, ma con turbata fronte;
che de l'elmo le duol, che troppa fretta
le avea fatto lasciar presso alla fonte.
- Per voler far quel che a me far non spetta
(tra sé dicea), levato ho l'elmo al conte:
questo, pel primo merito, è assai buono
di quanto a lui pur ubligata sono.

Con buona intenzione (e sallo Idio),
ben che diverso e tristo effetto segua,
io levai l'elmo: e solo il pensier mio
fu di ridur quella battaglia a triegua;
e non che per mio mezzo il suo disio
questo brutto Spagnuol oggi consegua. -
Così di sé s'andava lamentando
d'aver de l'elmo suo privato Orlando.

Sdegnata e malcontenta la via prese,
che le parea miglior, verso Oriente.
Più volte ascosa andò, talor palese,
secondo era oportuno, infra la gente.
Dopo molto veder molto paese,
giunse in un bosco, dove iniquamente
fra duo compagni morti un giovinetto
trovò, che era ferito in mezzo il petto.

Ma non dirò d'Angelica or più inante;
che molte cose ho da narrarvi prima:
né sono a Ferraù né a Sacripante,
sin a gran pezzo per donar più rima.
Da lor mi leva il principe d'Anglante,
che di sé vuol che inanzi agli altri esprima
le fatiche e gli affanni che sostenne
nel gran disio, di che a fin mai non venne.

Alla prima città che egli ritruova
(perché d'andare occulto avea gran cura)
si pone in capo una barbuta nuova,
senza mirar s'ha debil tempra o dura:
sia qual si vuol, poco gli nuoce o giova;
sì ne la fatagion si rassicura.
Così coperto seguita l'inchiesta;
né notte, o giorno, o pioggia, o sol l'arresta.

Era ne l'ora, che trae i cavalli
Febo del mar con rugiadoso pelo,
e l'Aurora di fior vermigli e gialli
venìa spargendo d'ogn'intorno il cielo;
e lasciato le stelle aveano i balli,
e per partirsi postosi già il velo:
quando appresso a Parigi un dì passando,
mostrò di sua virtù gran segno Orlando.

In dua squadre incontrossi: e Manilardo
ne reggea l'una, il Saracin canuto,
re di Norizia, già fiero e gagliardo,
or miglior di consiglio che d'aiuto;
guidava l'altra sotto il suo stendardo
il re di Tremisen, che era tenuto
tra gli Africani cavallier perfetto:
Alzirdo fu, da chi il conobbe, detto.

Questi con l'altro esercito pagano
quella invernata avean fatto soggiorno,
chi presso alla città, chi più lontano,
tutti alle ville o alle castella intorno:
che avendo speso il re Agramante invano,
per espugnar Parigi, più d'un giorno,
volse tentar l'assedio finalmente,
poi che pigliar non lo potea altrimente.

E per far questo avea gente infinita;
che oltre a quella che con lui giunt'era,
e quella che di Spagna avea seguita
del re Marsilio la real bandiera
molta di Francia n'avea al soldo unita;
che da Parigi insino alla riviera
d'Arli, con parte di Guascogna (eccetto
alcune rocche) avea tutto suggetto.

Or cominciando i trepidi ruscelli
a sciorre il freddo giaccio in tiepide onde,
e i prati di nuove erbe, e gli arbuscelli
a rivestirsi di tenera fronde;
ragunò il re Agramante tutti quelli
che seguian le fortune sue seconde,
per farsi rassegnar l'armata torma;
indi alle cose sue dar miglior forma.

A questo effetto il re di Tremisenne
con quel de la Norizia ne venìa,
per là giungere a tempo, ove si tenne
poi conto d'ogni squadra o buona o ria.
Orlando a caso ad incontrar si venne
(come io v'ho detto) in questa compagnia,
cercando pur colei, come egli era uso,
che nel carcer d'Amor lo tenea chiuso.

Come Alzirdo appressar vide quel conte
che di valor non avea pari al mondo,
in tal sembiante, in sì superba fronte,
che il dio de l'arme a lui parea secondo;
restò stupito alle fattezze conte,
al fiero sguardo, al viso furibondo:
e lo stimò guerrier d'alta prodezza;
ma ebbe del provar troppa vaghezza.

Era giovane Alzirdo, ed arrogante
per molta forza, e per gran cor pregiato.
Per giostrar spinse il suo cavallo inante:
meglio per lui, se fosse in schiera stato;
che ne lo scontro il principe d'Anglante
lo fe' cader per mezzo il cor passato.
Giva in fuga il destrier di timor pieno,
che su non v'era chi reggesse il freno.

Levasi un grido subito ed orrendo,
che d'ogn'intorno n'ha l'aria ripiena,
come si vede il giovene, cadendo,
spicciar il sangue di sì larga vena.
La turba verso il conte vien fremendo
disordinata, e tagli e punte mena;
ma quella è più, che con pennuti dardi
tempesta il fior dei cavallier gagliardi.

Con qual rumor la setolosa frotta
correr da monti suole o da campagne,
se il lupo uscito di nascosa grotta,
o l'orso sceso alle minor montagne,
un tener porco preso abbia talotta,
che con grugnito e gran stridor si lagne;
con tal lo stuol barbarico era mosso
verso il conte, gridando: - Addosso, addosso! -

Lance, saette e spade ebbe l'usbergo
a un tempo mille, e lo scudo altretante:
chi gli percuote con la mazza il tergo,
chi minaccia da lato, e chi davante.
Ma quel, che al timor mai non diede albergo,
estima la vil turba e l'arme tante,
quel che dentro alla mandra, all'aer cupo,
il numer de l'agnelle estimi il lupo.

Nuda avea in man quella fulminea spada
che posti ha tanti Saracini a morte:
dunque chi vuol di quanta turba cada
tenere il conto, ha impresa dura e forte.
Rossa di sangue già correa la strada,
capace a pena a tante genti morte;
perché né targa né capel difende
la fatal Durindana, ove discende,

né vesta piena di cotone, o tele
che circondino il capo in mille vòlti.
Non pur per l'aria gemiti e querele,
ma volan braccia e spalle e capi sciolti.
Pel campo errando va Morte crudele
in molti, vari, e tutti orribil volti;
e tra sé dice: - In man d'Orlando valci
Durindana per cento de mie falci. -

Una percossa a pena l'altra aspetta.
Ben tosto cominciar tutti a fuggire;
e quando prima ne veniano in fretta
(perche era sol, credeanselo inghiottire),
non è chi per levarsi de la stretta
l'amico aspetti, e cerchi insieme gire:
chi fugge a piedi in qua, chi colà sprona;
nessun domanda se la strada è buona.

Virtude andava intorno con lo speglio
che fa veder ne l'anima ogni ruga:
nessun vi si mirò, se non un veglio
a cui il sangue l'età, non l'ardir, sciuga.
Vide costui quanto il morir sia meglio,
che con suo disonor mettersi in fuga:
dico il re di Norizia; onde la lancia
arrestò contra il paladin di Francia.

E la roppe alla penna de lo scudo
del fiero conte, che nulla si mosse.
Egli che avea alla posta il brando nudo,
re Manilardo al trapassar percosse.
Fortuna l'aiutò; che il ferro crudo
in man d'Orlando al venir giù voltosse:
tirare i colpi a filo ognor non lece;
ma pur di sella stramazzar lo fece.

Stordito de l'arcion quel re stramazza:
non si rivolge Orlando a rivederlo;
che gli altri taglia, tronca, fende, amazza;
a tutti pare in su le spalle averlo.
Come per l'aria, ove han sì larga piazza,
fuggon li storni da l'audace smerlo,
così di quella squadra ormai disfatta
altri cade, altri fugge, altri s'appiatta.

Non cessò pria la sanguinosa spada,
che fu di viva gente il campo voto.
Orlando è in dubbio a ripigliar la strada,
ben che gli sia tutto il paese noto.
O da man destra o da sinistra vada,
il pensier da l'andar sempre è remoto:
d'Angelica cercar, fuor che ove sia,
teme, e di far sempre contraria via.

Il suo camin (di lei chiedendo spesso)
or per li campi or per le selve tenne:
e sì come era uscito di se stesso,
uscì di strada; e a piè d'un monte venne,
dove la notte fuor d'un sasso fesso
lontan vide un splendor batter le penne.
Orlando al sasso per veder s'accosta,
se quivi fosse Angelica reposta.

Come nel bosco de l'umil ginepre,
o ne la stoppia alla campagna aperta,
quando si cerca la paurosa lepre
per traversati solchi e per via incerta,
si va ad ogni cespuglio, ad ogni vepre,
se per ventura vi fosse coperta;
così cercava Orlando con gran pena
la donna sua, dove speranza il mena.

Verso quel raggio andando in fretta il conte,
giunse ove ne la selva si diffonde
da l'angusto spiraglio di quel monte,
che una capace grotta in sé nasconde;
e trova inanzi ne la prima fronte
spine e virgulti, come mura e sponde,
per celar quei che ne la grotta stanno,
da chi far lor cercasse oltraggio e danno.

Di giorno ritrovata non sarebbe,
ma la facea di notte il lume aperta.
Orlando pensa ben quel che esser debbe;
pur vuol saper la cosa anco più certa.
Poi che legato fuor Brigliadoro ebbe,
tacito viene alla grotta coperta:
e fra li spessi rami ne la buca
entra, senza chiamar chi l'introduca.

Scende la tomba molti gradi al basso,
dove la viva gente sta sepolta.
Era non poco spazioso il sasso
tagliato a punte di scarpelli in volta;
né di luce diurna in tutto casso,
ben che l'entrata non ne dava molta;
ma ve ne venìa assai da una finestra
che sporgea in un pertugio da man destra.

In mezzo la spelonca, appresso a un fuoco,
era una donna di giocondo viso;
quindici anni passar dovea di poco,
quanto fu al conte, al primo sguardo, aviso:
ed era bella sì, che facea il loco
salvatico parere un paradiso;
ben che avea gli occhi di lacrime pregni,
del cor dolente manifesti segni.

V'era una vecchia; e facean gran contese
(come uso feminil spesso esser suole),
ma come il conte ne la grotta scese,
finiron le dispùte e le parole.
Orlando a salutarle fu cortese
(come con donne sempre esser si vuole),
ed elle si levaro immantinente,
e lui risalutar benignamente.

Gli è ver che si smarriro in faccia alquanto,
come improviso udiron quella voce,
e insieme entrare armato tutto quanto
vider là dentro un uom tanto feroce.
Orlando domandò qual fosse tanto
scortese, ingiusto, barbaro ed atroce,
che ne la grotta tenesse sepolto
un sì gentile ed amoroso volto.

La vergine a fatica gli rispose,
interrotta da fervidi signiozzi,
che dai coralli e da le preziose
perle uscir fanno i dolci accenti mozzi.
Le lacrime scendean tra gigli e rose,
là dove avien che alcuna se n'inghiozzi.
Piacciavi udir ne l'altro canto il resto,
Signor, che tempo è ormai di finir questo.





CANTO TREDICESIMO.


Ben furo aventurosi i cavallieri
che erano a quella età, che nei valloni,
ne le scure spelonche e boschi fieri,
tane di serpi, d'orsi e di leoni,
trovavan quel che nei palazzi altieri
a pena or trovar puon giudici buoni:
donne, che ne la lor più fresca etade
sien degne d'aver titol di beltade.

Di sopra vi narrai che ne la grotta
avea trovato Orlando una donzella,
e che la dimandò che ivi condotta
l'avesse: or seguitando, dico che ella,
poi che più d'un signiozzo l'ha interrotta,
con dolce e suavissima favella
al conte fa le sue sciagure note,
con quella brevità che meglio puote.

- Ben che io sia certa (dice), o cavalliero,
che io porterò del mio parlar supplizio,
perché a colui che qui m'ha chiusa, spero
che costei ne darà subito indizio;
pur son disposta non celarti il vero,
e vada la mia vita in precipizio.
E che aspettar poss'io da lui più gioia,
che il si disponga un dì voler che io muoia?

Isabella sono io, che figlia fui
del re mal fortunato di Gallizia.
Ben dissi fui; che or non son più di lui,
ma di dolor, d'affanno e di mestizia.
Colpa d'Amor; che io non saprei di cui
dolermi più che de la sua nequizia,
che dolcemente nei principi applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.

Già mi vivea di mia sorte felice,
gentil, giovane, ricca, onesta e bella:
vile e povera or sono, or infelice;
e s'altra è peggior sorte, io sono in quella.
Ma voglio sappi la prima radice
che produsse quel mal che mi flagella;
e ben che aiuto poi da te non esca,
poco non mi parrà, che te n'incresca.

Mio patre fe' in Baiona alcune giostre,
esser denno oggimai dodici mesi.
Trasse la fama ne le terre nostre
cavallieri a giostrar di più paesi.
Fra gli altri (o sia che Amor così mi mostre,
o che virtù pur se stessa palesi)
mi parve da lodar Zerbino solo,
che del gran re di Scozia era figliuolo.

Il qual poi che far pruove in campo vidi
miracolose di cavalleria,
fui presa del suo amore; e non m'avidi,
che io mi conobbi più non esser mia.
E pur, ben che il suo amor così mi guidi,
mi giova sempre avere in fantasia
che io non misi il mio core in luogo immondo,
ma nel più degno e bel che oggi sia al mondo.

Zerbino di bellezza e di valore
sopra tutti i signori era eminente.
Mostrammi, e credo mi portasse amore,
e che di me non fosse meno ardente.
Non ci mancò chi del commune ardore
interprete fra noi fosse sovente,
poi che di vista ancor fummo disgiunti;
che gli animi restar sempre congiunti.

Però che dato fine alla gran festa,
Il mio Zerbino in Scozia fe' ritorno.
Se sai che cosa è amor, ben sai che mesta
restai, di lui pensando notte e giorno;
ed era certa che non men molesta
fiamma intorno al suo cor facea soggiorno.
Egli non fece al suo disio più schermi,
se non che cercò via di seco avermi.

E perché vieta la diversa fede
(essendo egli cristiano, io saracina)
che al mio padre per moglie non mi chiede,
per furto indi levarmi si destina.
Fuor de la ricca mia patria, che siede
tra verdi campi allato alla marina,
aveva un bel giardin sopra una riva,
che colli intorno e tutto il mar scopriva.

Gli parve il luogo a fornir ciò disposto,
che la diversa religion ci vieta;
e mi fa saper l'ordine che posto
avea di far la nostra vita lieta.
Appresso a Santa Marta avea nascosto
con gente armata una galea secreta,
in guardia d'Odorico di Biscaglia,
in mare e in terra mastro di battaglia.

Né potendo in persona far l'effetto,
perche egli allora era dal padre antico
a dar soccorso al re di Framcia astretto,
manderia in vece sua questo Odorico,
che fra tutti i fedeli amici eletto
s'avea pel più fedele e pel più amico:
e bene esser dovea, se i benefici
sempre hanno forza d'acquistar gli amici.

Verria costui sopra un navilio armato,
al terminato tempo indi a levarmi.
E così venne il giorno disiato,
che dentro il mio giardin lasciai trovarmi.
Odorico la notte, accompagnato
di gente valorosa all'acqua e all'armi,
smontò ad un fiume alla città vicino,
e venne chetamente al mio giardino.

Quindi fui tratta alla galea spalmata,
prima che la città n'avesse avisi.
De la famiglia ignuda e disarmata
altri fuggiro, altri restaro uccisi,
parte captiva meco fu menata.
Così da la mia terra io mi divisi,
con quanto gaudio non ti potrei dire,
sperando in breve il mio Zerbin fruire.

Voltati sopra Mongia eramo a pena,
quando ci assalse alla sinistra sponda
un vento che turbò l'aria serena,
e turbò il mare, e al ciel gli levò l'onda.
Salta un maestro che a traverso mena,
e cresce ad ora ad ora, e soprabonda;
e cresce e soprabonda con tal forza,
che val poco alternar poggia con orza.

Non giova calar vele, e l'arbor sopra
corsia legar, né ruinar castella;
che ci veggian mal grado portar sopra
acuti scogli, appresso alla Rocella.
Se non ci aiuta quel che sta di sopra,
ci spinge in terra la crudel procella.
Il vento rio ne caccia in maggior fretta,
che d'arco mai non si aventò saetta.

Vide il periglio il Biscaglino, e a quello
usò un rimedio che fallir suol spesso:
ebbe ricorso subito al battello;
calossi, e me calar fece con esso.
Sceser dui altri, e ne scendea un drappello,
se i primi scesi l'avesser concesso;
ma con le spade li tenner discosto,
tagliar la fune, e ci allargammo tosto.

Fummo gittati a salvamento al lito
noi che nel palischermo eramo scesi;
periron gli altri col legno sdrucito;
in preda al mare andar tutti gli arnesi.
All'eterna Bontade, all'infinito
Amor, rendendo grazie, le man stesi,
che non m'avessi dal furor marino
lasciato tor di riveder Zerbino.

Come che io avessi sopra il legno e vesti
lasciato e gioie e l'altre cose care,
pur che la speme di Zerbin mi resti,
contenta son che s'abbi il resto il mare.
Non sono, ove scendemo, i liti pesti
d'alcun sentier, né intorno albergo appare;
ma solo il monte, al qual mai sempre fiede
l'ombroso capo il vento, e il mare il piede.

Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre
d'ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale,
mutò con triste e disoneste tempre
mio conforto in dolor, mio bene in male;
che quell'amico, in chi Zerbin si crede,
di desire arse, ed agghiacciò di fede.

O che m'avesse in mar bramata ancora,
né fosse stato a dimostrarlo ardito,
o cominciassi il desiderio allora
che l'agio v'ebbe dal solingo lito;
disegnò quivi senza più dimora
condurre a fin l'ingordo suo appetito;
ma prima da sé torre un de li dui
che nel battel campati eran con nui.

Quell'era omo di Scozia, Almonio detto,
che mostrava a Zerbin portar gran fede;
e commendato per guerrier perfetto
da lui fu, quando ad Odorico il diede.
Disse a costui, che biasmo era e difetto,
se mi traeano alla Rocella a piede;
e lo pregò che inanti volesse ire
a farmi incontra alcun ronzin venire.

Almonio, che di ciò nulla temea,
immantinente inanzi il camin piglia
alla città che il bosco ci ascondea,
e non era lontana oltra sei miglia.
Odorico scoprir sua voglia rea
all'altro finalmente si consiglia;
sì perché tor non se lo sa d'appresso,
sì perché avea gran confidenza in esso.

Era Corebo di Bilbao nomato
quel di che io parlo, che con noi rimase;
che da fanciullo picciolo allevato
s'era con lui ne le medesme case.
Poter con lui communicar l'ingrato
pensiero il traditor si persuase,
sperando che ad amar saria più presto
il piacer de l'amico, che l'onesto.

Corebo, che gentile era e cortese,
non lo potè ascoltar senza gran sdegno:
lo chiamò traditore, e gli contese
con parole e con fatti il rio disegno.
Grande ira all'uno e all'altro il core accese,
e con le spade nude ne fer segno.
Al trar de' ferri, io fui da la paura
volta a fuggir per l'alta selva oscura.

Odorico, che maestro era di guerra,
in pochi colpi a tal vantaggio venne,
che per morto lasciò Corebo in terra,
e per le mie vestigie il camin tenne.
Prestògli Amor (se il mio creder non erra),
acciò potesse giungermi, le penne;
e gli insegnò molte lusinghe e prieghi,
con che ad amarlo e compiacer mi pieghi.

Ma tutto è indarno; che fermata e certa
più tosto era a morir, che a satisfarli.
Poi che ogni priego, ogni lusinga esperta
ebbe e minacce, e non potean giovarli,
si ridusse alla forza a faccia aperta.
Nulla mi val che supplicando parli
de la fé che avea in lui Zerbino avuta,
e che io ne le sue man m'era creduta.

Poi che gittar mi vidi i prieghi invano,
né mi sperare altronde altro soccorso,
e che più sempre cupido e villano
a me venìa, come famelico orso;
io mi difesi con piedi e con mano,
ed adopra'vi sin a l'ugne e il morso:
pela'gli il mento, e gli graffiai la pelle,
con stridi che n'andavano alle stelle.

Non so se fosse caso, o li miei gridi
che si doveano udir lungi una lega,
o pur che usati sian correre ai lidi
quando navilio alcun si rompe o anniega;
sopra il monte una turba apparir vidi,
e questa al mare e verso noi si piega.
Come la vede il Biscaglin venire,
lascia l'impresa, e voltasi a fuggire.

Contra quel disleal mi fu adiutrice
questa turba, signor; ma a quella image
che sovente in proverbio il vulgo dice:
cader de la padella ne le brage.
Gli è ver che io non son stata sì infelice,
né le lor menti ancor tanto malvage,
che abbino violata mia persona:
non che sia in lor virtù, né cosa buona.

Ma perché se mi serban, come io sono,
vergine, speran vendermi più molto.
Finito è il mese ottavo e viene il nono,
che fu il mio vivo corpo qui sepolto.
Del mio Zerbino ogni speme abbandono;
che già, per quanto ho da lor detti accolto,
m'han promessa e venduta a un mercadante,
che portare al soldan mi de' in Levante. -

Così parlava la gentil donzella;
e spesso con signiozzi e con sospiri
interrompea l'angelica favella,
da muovere a pietade aspidi e tiri.
Mentre sua doglia così rinovella,
o forse disacerba i suoi martiri,
da venti uomini entrar ne la spelonca,
armati chi di spiedo e chi di ronca.

Il primo d'essi, uom di spietato viso,
ha solo un occhio, e sguardo scuro e bieco;
l'altro, d'un colpo che gli avea reciso
il naso e la mascella, è fatto cieco.
Costui vedendo il cavalliero assiso
con la vergine bella entro allo speco,
volto a' compagni, disse: - Ecco augel nuovo,
a cui non tesi, e ne la rete il truovo. -

Poi disse al conte: - Uomo non vidi mai
più commodo di te, né più opportuno.
Non so se ti se' apposto, o se lo sai
perché te l'abbia forse detto alcuno,
che sì bell'arme io desiava assai,
e questo tuo leggiadro abito bruno.
Venuto a tempo veramente sei,
per riparare agli bisogni miei. -

Sorrise amaramente, in piè salito,
Orlando, e fe' risposta al mascalzone:
- Io ti venderò l'arme ad un partito
che non ha mercadante in sua ragione. -
Del fuoco, che avea appresso, indi rapito
pien di fuoco e di fumo uno stizzone,
trasse, e percosse il malandrino a caso,
dove confina con le ciglia il naso.

Lo stizzone ambe le palpebre colse,
ma maggior danno fe' ne la sinistra;
che quella parte misera gli tolse,
che de la luce sola, era ministra.
Né d'acciecarlo contentar si volse
il colpo fier, s'ancor non lo registra
tra quelli spirti che con suoi compagni
fa star Chiron dentro ai bollenti stagni.

Ne la spelonca una gran mensa siede
grossa duo palmi, e spaziosa in quadro,
che sopra un mal pulito e grosso piede,
cape con tutta la famiglia il ladro.
Con quell'agevolezza che si vede
gittar la canna lo Spagnuol leggiadro,
Orlando il grave desco da sé scaglia
dove ristretta insieme è la canaglia.

A chiil petto, a chiil ventre, a chi la testa,
a chi rompe le gambe, a chi le braccia;
di che altri muore, altri storpiato resta:
chi meno è offeso, di fuggir procaccia.
Così talvolta un grave sasso pesta
e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia,
gittato sopra un gran drapel di biscie,
che dopo il verno al sol si goda e liscie.

Nascono casi, e non saprei dir quanti:
una muore, una parte senza coda,
un'altra non si può muover davanti,
e il deretano indarno aggira e snoda;
un'altra, che ebbe più propizi i santi,
striscia fra l'erbe, e va serpendo a proda.
Il colpo orribil fu, ma non mirando,
poi che lo fece il valoroso Orlando.

Quei che la mensa o nulla o poco offese
(e Turpin scrive a punto che fur sette),
ai piedi raccomandan sue difese:
ma ne l'uscita il paladin si mette;
e poi che presi gli ha senza contese,
le man lor lega con la fune istrette,
con una fune al suo bisogno destra,
che ritrovò ne la casa silvestra.

Poi li trascina fuor de la spelonca,
dove facea grande ombra un vecchio sorbo.
Orlando con la spada i rami tronca,
e quelli attacca per vivanda al corbo.
Non bisognò catena in capo adonca;
che per purgare il mondo di quel morbo,
l'arbor medesmo gli uncini prestolli,
con che pel mento Orlando ivi attaccolli.

La donna vecchia, amica a' malandrini,
poi che restar tutti li vide estinti,
fuggì piangendo e con le mani ai crini,
per selve e boscherecci labirinti.
Dopo aspri e malagevoli camini,
a gravi passi e dal timor sospinti,
in ripa un fiume in un guerrier scontrosse;
ma diferisco a ricontar chi fosse:

e torno all'altra, che si raccomanda
al paladin che non la lasci sola;
e dice di seguirlo in ogni banda.
Cortesemente Orlando la consola;
e quindi, poi che uscì con la ghirlanda
di rose adorna e di purpurea stola
la bianca Aurora al solito camino,
partì con Isabella il paladino.

Senza trovar cosa che degna sia
d'istoria, molti giorni insieme andaro;
e finalmente un cavallier per via,
che prigione era tratto, riscontraro.
chi fosse, dirò poi; che or me ne svia
tal, di chi udir non vi sarà men caro:
la figliuola d'Amon, la qual lasciai
languida dianzi in amorosi guai.

La bella donna, disiando invano
che a lei facesse il suo Ruggier ritorno,
stava a Marsilia, ove allo stuol pagano
dava da travagliar quasi ogni giorno;
il qual scorrea, rubando in monte e in piano,
per Linguadoca e per Provenza intorno:
ed ella ben facea l'ufficio vero
di savio duca e d'ottimo guerriero.

Standosi quivi, e di gran spazio essendo
passato il tempo che tornare a lei
il suo Ruggier dovea, né lo vedendo,
vivea in timor di mille casi rei.
Un dì fra gli altri, che di ciò piangendo
stava solinga, le arrivò colei
che portò ne l'annel la medicina
che sanò il cor che avea ferito Alcina.

Come a sé ritornar senza il suo amante,
dopo si lungo termine, la vede,
resta pallida e smorta, e sì tremante,
che non ha forza di tenersi in piede:
ma la maga gentil le va davante
ridendo, poi che del timor s'avede;
e con viso giocondo la conforta,
qual aver suol chi buone nuove apporta.

- Non temer (disse) di Ruggier, donzella,
che è vivo e sano, e come suol, t'adora;
ma non è già in sua libertà; che quella
pur gli ha levata il tuo nemico ancora:
ed è bisogno che tu monti in sella,
se brami averlo, e che mi segui or ora;
che se mi segui, io t'aprirò la via
donde per te Ruggier libero fia. -

E seguitò, narrandole di quello
magico error che gli avea ordito Atlante:
che simulando d'essa il viso bello,
che captiva parea del rio gigante,
tratto l'avea ne l'incantato ostello,
dove sparito poi gli era davante;
e come tarda con simile inganno
le donne e i cavallier che di là vanno.

A tutti par, l'incantator mirando,
mirar quel che per sé brama ciascuno,
donna, scudier, compagno, amico; quando
il desiderio uman non è tutto uno.
Quindi il palagio van tutti cercando
con lungo affanno, senza frutto alcuno;
e tanta è la speranza e il gran disire
del ritrovar, che non ne san partire.

Come tu giungi (disse) in quella parte
che giace presso all'incantata stanza,
verrà l'incantatore a ritrovarte,
che terrà di Ruggiero ogni sembianza;
e ti farà parer con sua mal'arte,
che ivi lo vinca alcun di più possanza,
acciò che tu per aiutarlo vada
dove con gli altri poi ti tenga a bada.

Acciò l'inganni, in che son tanti e tanti
caduti, non ti colgan, sie avertita,
che se ben di Ruggier viso e sembianti
ti parrà di veder, che chieggia aita,
non gli dar fede tu; ma, come avanti
ti vien, fagli lasciar l'indegna vita:
né dubitar perciò che Ruggier muoia,
ma ben colui che ti dà tanta noia.

Ti parrà duro assai, ben lo conosco,
uccidere un che sembri il tuo Ruggiero:
pur non dar fede all'occhio tuo, che losco
farà l'incanto, e celeragli il vero.
Fermati, pria che io ti conduca al bosco,
sì che poi non si cangi il tuo pensiero;
che sempre di Ruggier rimarrai priva,
se lasci per viltà che il mago viva. -

La valorosa giovane, con questa
intenzion che il fraudolente uccida,
a pigliar l'arme ed a seguire è presta
Melissa; che sa ben quanto l'è fida.
Quella, or per terren culto, or per foresta,
a gran giornate e in gran fretta la guida,
cercando alleviarle tuttavia
con parlar grato la noiosa via.

E più di tutti i bei ragionamenti,
spesso le ripetea che uscir di lei
e di Ruggier doveano gli eccellenti
principi e gloriosi semidei.
Come a Melissa fossino presenti
tutti i secreti degli eterni dei,
tutte le cose ella sapea predire,
che avean per molti seculi a venire.

- Deh, come, o prudentissima mia scorta
(dicea a la maga l'inclita donzella),
molti anni prima tu m'hai fatta accorta
di tanta mia viril progenie bella;
così d'alcuna donna mi conforta,
che di mia stirpe sia, s'alcuna in quella
metter si può tra belle e virtuose. -
E la cortese maga le rispose:

- Da te uscir veggio le pudiche donne,
madri d'imperatori e di gran regi,
reparatrici e solide colonne
di case illustri e di domìni egregi;
che men degne non son ne le lor gonne,
che in arme i cavallier, di sommi pregi,
di pietà, di gran cor, di gran prudenza,
di somma e incomparabil continenza.

E s'io avrò da narrarti di ciascuna
che ne la stirpe tua sia d'onor degna,
troppo sarà; che io non ne veggio alcuna
che passar con silenzio mi convegna.
Ma ti farò, tra mille, scelta d'una
o di due coppie, acciò che a fin ne vegna.
Ne la spelonca perché nol dicesti?
che l'imagini ancor vedute avresti.

De la tua chiara stirpe uscirà quella
d'opere illustri e di bei studi amica,
che io non so ben se più leggiadra e bella
mi debba dire, o più saggia e pudica,
liberale e magnanima Isabella,
che del bel lume suo dì e notte aprica
farà la terra che sul Menzo siede,
a cui la madre d'Ocno il nome diede:

dove onorato e splendido certame
avrà col suo dignissimo consorte,
chi di lor più le virtù prezzi ed ame,
e chi meglio apra a cortesia le porte.
S'un narrerà che al Taro e nel Reame
fu a liberar da' Galli Italia forte;
l'altra dirà: - Sol perché casta visse
Penelope, non fu minor d'Ulisse. -

Gran cose e molte in brevi detti accolgo
di questa donna e più dietro ne lasso,
che in quelli dì che io mi levai dal volgo,
mi fe' chiare Merlin dal cavo sasso.
E s'in questo gran mar la vela sciolgo,
di lunga Tifi in navigar trapasso.
Conchiudo in somma, che ella avrà, per dono,
de la virtù e del ciel, ciò che è di buono.

Seco avrà la sorella Beatrice,
a cui si converrà tal nome a punto:
che essa non sol del ben che qua giù lice,
per quel che viverà, toccherà il punto;
ma avrà forza di far seco felice,
fra tutti i ricchi duci, il suo congiunto,
il qual, come ella poi lascerà il mondo,
così de l'infelici andrà nel fondo.

E Moro e Sforza e Viscontei colubri,
lei viva, formidabili saranno
da l'iperboree nievi ai lidi rubri,
da l'Indo ai monti che al tuo mar via danno:
lei morta, andran col regno degli Insubri,
e con grave di tutta Italia danno,
in servitute; e fia stimata, senza
costei, ventura la somma prudenza.

Vi saranno altre ancor, che avranno il nome
medesmo, e nasceran molt'anni prima:
di che una s'ornerà le sacre chiome
de la corona di Pannonia opima;
un'altra, poi che le terrene some
lasciate avrà, fia ne l'ausonio clima
collocata nel numer de le dive,
ed avrà incensi e imagini votive.

De l'altre tacerò; che, come ho detto,
lungo sarebbe a ragionar di tante;
ben che per sé ciascuna abbia suggetto
degno, che eroica e chiara tuba cante.
Le Bianche, le Lucrezie io terrò in petto,
e le Costanze e l'altre, che di quante
splendide case Italia reggeranno,
reparatrici e madri ad esser hanno.

Più che altre fosser mai, le tue famiglie
saran ne le lor donne aventurose;
non dico in quella più de le lor figlie,
che ne l'alta onestà de le lor spose.
E acciò da te notizia anco si piglie
di questa parte che Merlin mi espose,
forse perche io il dovessi a te ridire,
ho di parlarne non poco desire.

E dirò prima di Ricciarda, degno
esempio di fortezza e d'onestade:
vedova rimarrà, giovane, a sdegno
di Fortuna; il che spesso ai buoni accade.
I figli, privi del paterno regno,
esuli andar vedrà in strane contrade,
fanciulli in man degli aversari loro;
ma infine avrà il suo male amplo ristoro.

De l'alta stirpe d'Aragone antica
non tacerò la splendida regina,
di cui né saggia sì, né sì pudica
veggio istoria lodar greca o latina,
né a cui Fortuna più si mostri amica:
poi che sarà da la Bontà divina
elletta madre a parturir la bella
progenie, Alfonso, Ippolito e Isabella.

Costei sarà la saggia Leonora,
che nel tuo felice arbore s'inesta.
Che ti dirò de la seconda nuora,
succeditrice prossima di questa?
Lucrezia Borgia, di cui d'ora in ora
le beltà, la virtù, la fama onesta
e la fortuna crescerà, non meno
che giovin pianta in morbido terreno.

Qual lo stagno all'argento, il rame all'oro,
il campestre papavero alla rosa,
pallido salce al sempre verde alloro,
dipinto vetro a gemma preziosa;
tal a costei, che ancor non nata onoro,
sarà ciascuna insino a qui famosa
di singular beltà, di gran prudenza,
e d'ogni altra lodevole eccellenza.

E sopra tutti gli altri incliti pregi
che le saranno e a viva e a morta dati,
si loderà che di costumi regi
Ercole e gli altri figli avrà dotati,
e dato gran principio ai ricchi fregi
di che poi s'orneranno in toga e armati;
perché l'odor non se ne va sì in fretta,
che in nuovo vaso, o buono o rio, si metta.

Non voglio che in silenzio anco Renata
di Francia, nuora di costei, rimagna,
di Luigi il duodecimo re nata,
e de l'eterna gloria di Bretagna.
Ogni virtù che in donna mai sia stata,
di poi che il fuoco scalda e l'acqua bagna,
e gira intorno il cielo, insieme tutta
per Renata adornar veggio ridutta.

Lungo sarà che d'Alda di Sansogna
narri, o de la contessa di Celano,
o di Bianca Maria di Catalogna,
o de la figlia del re sicigliano,
o de la bella Lippa da Bologna,
e d'altre; che s'io vo' di mano in mano
venirtene dicendo le gran lode,
entro in un alto mar che non ha prode. -

Poi che le raccontò la maggior parte
de la futura stirpe a suo grand'agio,
più volte e più le replicò de l'arte
che avea tratto Ruggier dentro al palagio.
Melissa si fermò, poi che fu in parte
vicina al luogo del vecchio malvagio;
e non le parve di venir più inante,
acciò veduta non fosse da Atlante.

E la donzella di nuovo consiglia
di quel che mille volte ormai l'ha detto.
La lascia sola; e quella oltre a dua miglia
non cavalcò per un sentiero istretto,
che vide quel che al suo Ruggier simiglia;
e dui giganti di crudele aspetto
intorno avea, che lo stringean sì forte,
che era vicino esser condotto a morte.

Come la donna in tal periglio vede
colui che di Ruggiero ha tutti i segni,
subito cangia in sospizion la fede,
subito oblia tutti i suoi bei disegni.
Che sia in odio a Melissa Ruggier crede,
per nuova ingiuria e non intesi sdegni,
e cerchi far con disusata trama
che sia morto da lei che così l'ama.

Seco dicea: - Non è Ruggier costui,
che col cor sempre, ed or con gli occhi veggio?
e s'or non veggio e non conosco lui,
che mai veder o mai conoscer deggio?
perché voglio io de la credenza altrui
che la veduta mia giudichi peggio?
Che senza gli occhi ancor, sol per se stesso
può il cor sentir se gli è lontano o appresso. -

Mentre che così pensa, ode la voce
che le par di Ruggier, chieder soccorso;
e vede quello a un tempo, che veloce
sprona il cavallo e gli ralenta il morso,
e l'un nemico e l'altro suo feroce,
che lo segue e lo caccia a tutto corso.
Di lor seguir la donna non rimase,
che si condusse all'incantate case.

De le quai non più tosto entrò le porte,
che fu sommersa nel commune errore.
Lo cercò tutto per vie dritte e torte
invan di su e di giù, dentro e di fuore;
né cessa notte o dì, tanto era forte
l'incanto: e fatto avea l'incantatore,
che Ruggier vede sempre e gli favella,
né Ruggier lei, né lui riconosce ella.

Ma lasciàn Bradamante, e non v'incresca
udir che così resti in quello incanto;
che quando sarà il tempo che ella n'esca,
la farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come raccende il gusto il mutar esca,
così mi par che la mia istoria, quanto
or qua or là più variata sia,
meno a chi l'udirà noiosa fia.

Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela che io lavoro.
E però non vi spiaccia d'ascoltarme,
come fuor de le stanze il popul Moro
davanti al re Agramante ha preso l'arme,
che, molto minacciando ai Gigli d'oro,
lo fa assembrare ad una mostra nuova,
per saper quanta gente si ritruova.

Perche oltre i cavallieri, oltre i pedoni
che al numero sottratti erano in copia,
mancavan capitani, e pur de' buoni,
e di Spagna e di Libia e d'Etiopia,
e le diverse squadre e le nazioni
givano errando senza guida propia;
per dare e capo ed ordine a ciascuna,
tutto il campo alla mostra si raguna.

In supplimento de le turbe uccise
ne le battaglie e ne' fieri conflitti,
l'un signore in Ispagna, e l'altro mise
in Africa, ove molti n'eran scritti;
e tutti alli lor ordini divise,
e sotto i duci lor gli ebbe diritti.
Differirò, Signor, con grazia vostra,
ne l'altro canto l'ordine e la mostra.





CANTO QUATTORDICESIMO.


Nei molti assalti e nei crudel conflitti,
che avuti avea con Francia, Africa e Spagna,
morti erano infiniti, e derelitti
al lupo, al corvo, all'aquila griffagna;
e ben che i Franchi fossero più afflitti,
che tutta avean perduta la campagna;
più si doleano i Saracin, per molti
principi e gran baron che eran lor tolti.

Ebbon vittorie così sanguinose,
che lor poco avanzò di che allegrarsi.
E se alle antique le moderne cose,
invitto Alfonso, denno assimigliarsi;
la gran vittoria, onde alle virtuose
opere vostre può la gloria darsi,
di che aver sempre lacrimose ciglia
Ravenna debbe, a queste s'assimiglia:

quando cedendo Morini e Picardi,
l'esercito normando e l'aquitano,
voi nel mezzo assaliste gli stendardi
del quasi vincitor nimico ispano,
seguendo voi quei gioveni gagliardi,
che meritar con valorosa mano
quel dì da voi, per onorati doni,
l'else indorate e gli indorati sproni.

Con sì animosi petti che vi foro
vicini o poco lungi al gran periglio,
crollaste sì le ricche Giande d'oro,
sì rompeste il baston giallo e vermiglio,
che a voi si deve il trionfale alloro,
che non fu guasto né sfiorato il Giglio.
D'un'altra fronde v'orna anco la chioma
l'aver serbato il suo Fabrizio a Roma.

La gran Colonna del nome romano,
che voi prendeste, e che servaste intera,
vi dà più onor che se di vostra mano
fosse caduta la milizia fiera,
quanta n'ingrassa il campo ravegnano,
e quanta se n'andò senza bandiera
d'Aragon, di Castiglia e di Navarra,
veduto non giovar spiedi né carra.

Quella vittoria fu più di conforto,
che d'allegrezza; perché troppo pesa
contra la gioia nostra il veder morto
il capitan di Francia e de l'impresa;
e seco avere una procella absorto
tanti principi illustri, che a difesa
dei regni lor, dei lor confederati,
di qua da le fredd'Alpi eran passati.

Nostra salute, nostra vita in questa
vittoria suscitata si conosce,
che difende che il verno e la tempesta
di Giove irato sopra noi non crosce:
ma né goder potiam, né farne festa,
sentendo i gran ramarichi e l'angosce,
che in veste bruna e lacrimosa guancia
le vedovelle fan per tutta Francia.

Bisogna che proveggia il re Luigi
di nuovi capitani alle sue squadre,
che per onor de l'aurea Fiordaligi
castighino le man rapaci e ladre,
che suore, e frati e bianchi e neri e bigi
violato hanno, e sposa e figlia e madre;
gittato in terra Cristo in sacramento,
per torgli un tabernaculo d'argento.

O misera Ravenna, t'era meglio
che al vincitor non fêssi resistenza;
far che a te fosse inanzi Brescia speglio,
che tu lo fossi a Arimino e a Faenza.
Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio,
che insegni a questi tuoi più continenza,
e conti lor quanti per simil torti
stati ne sian per tutta Italia morti.

Come di capitani bisogna ora
che il re di Francia al campo suo proveggia,
così Marsilio ed Agramante allora,
per dar buon reggimento alla sua greggia,
dai lochi dove il verno fe' dimora,
vuol che in campagna all'ordine si veggia;
perché vedendo ove bisogno sia,
guida e governo ad ogni schiera dia.

Marsilio prima, e poi fece Agramante
passar la gente sua schiera per schiera.
I Catalani a tutti gli altri inante
di Dorifebo van con la bandiera.
Dopo vien, senza il suo re Folvirante,
che per man di Rinaldo già morto era,
la gente di Navarra; e lo re ispano
halle dato Isolier per capitano.

Balugante del popul di Leone,
Grandonio cura degli Algarbi piglia;
il fratel di Marsilio, Falsirone,
ha seco armata la minor Castiglia.
Seguon di Madarasso il gonfalone
quei che lasciato han Malaga e Siviglia,
dal mar di Gade a Cordova feconda
le verdi ripe ovunque il Beti inonda.

Stordilano e Tesira e Baricondo,
l'un dopo l'altro, mostra la sua gente:
Granata al primo, Ulisbona al secondo,
e Maiorica al terzo è ubidiente.
Fu d'Ulisbona re (tolto dal mondo
Larbin) Tesira, di Larbin parente.
Poi vien Galizia, che sua guida, in vece
di Maricoldo, Serpentino fece.

Quei di Tolledo e quei di Calatrava,
di che ebbe Sinagon già la bandiera,
con tutta quella gente che si lava
in Guadiana e bee de la riviera,
l'audace Matalista governava;
Bianzardin quei d'Asturga in una schiera
con quei di Salamanca e di Piagenza,
d'Avila, di Zamora e di Palenza.

Di quei di Saragosa e de la corte
del re Marsilio ha Ferraù il governo:
tutta la gente è ben armata e forte.
In questi è Malgarino, Balinverno,
Malzarise e Morgante, che una sorte
avea fatto abitar paese esterno;
che, poi che i regni lor lor furon tolti,
gli avea Marsilio in corte sua raccolti.

In questa è di Marsilio il gran bastardo,
Follicon d'Almeria, con Doriconte,
Bavarte e Largalifa ed Analardo,
ed Archidante il sagontino conte,
e Lamirante e Langhiran gagliardo,
e Malagur che avea l'astuzie pronte,
ed altri ed altri, di quai penso, dove
tempo sarà, di far veder le pruove.

Poi che passò l'esercito di Spagna
con bella mostra inanzi al re Agramante,
con la sua squadra apparve alla campagna
il re d'Oran, che quasi era gigante.
L'altra che vien, per Martasin si lagna,
il qual morto le fu da Bradamante;
e si duol che una femina si vanti
d'aver ucciso il re de' Garamanti.

Segue la terza schiera di Marmonda,
che Argosto morto abbandonò in Guascogna:
a questa un capo, come alla seconda
e come anco alla quarta, dar bisogna.
Quantunque il re Agramante non abonda
di capitani, pur ne finge e sogna:
dunque Buraldo, Ormida, Arganio elesse,
e dove uopo ne fu, guida li messe.

Diede ad Arganio quei di Libicana,
che piangean morto il negro Dudrinasso.
Guida Brunello i suoi di Tingitana,
con viso nubiloso e ciglio basso;
che, poi che ne la selva non lontana
dal castel che ebbe Atlante in cima al sasso,
gli fu tolto l'annel da Bradamante,
caduto era in disgrazia al re Agramante:

e se il fratel di Ferraù, Isoliero,
che a l'arbore legato ritrovollo,
non facea fede inanzi al re del vero,
avrebbe dato in su le forche un crollo.
Mutò, a' prieghi di molti, il re pensiero,
già avendo fatto porgli il laccio al collo:
gli lo fece levar, ma riserbarlo
pel primo error; che poi giurò impiccarlo:

sì che avea causa di venir Brunello
col viso mesto e con la testa china.
Seguia poi Farurante, e dietro a quello
eran cavalli e fanti di Maurina.
Venìa Libanio appresso, il re novello:
la gente era con lui di Constantina;
però che la corona e il baston d'oro
gli ha dato il re, che fu di Pinadoro.

Con la gente d'Esperia Soridano,
e Dorilon ne vien con quei di Setta;
ne vien coi Nasamoni Puliano.
Quelli d'Amonia il re Agricalte affretta;
Malabuferso quelli di Fizano.
Da Finadurro è l'altra squadra retta,
che di Canaria viene e di Marocco;
Balastro ha quei che fur del re Tardocco.

Due squadre, una di Mulga, una d'Arzilla,
seguono: e questa ha il suo signore antico;
quella n'è priva; e però il re sortilla,
e diella a Corineo suo fido amico.
E così de la gente d'Almansilla,
che ebbe Tanfirion, fe' re Caico;
diè quella di Getulia a Rimedonte.
Poi vien con quei di Cosca Balinfronte.

Quell'altra schiera è la gente di Bolga:
suo re è Clarindo, e già fu Mirabaldo.
Vien Baliverzo, il qual vuò che tu tolga
di tutto il gregge pel maggior ribaldo.
Non credo in tutto il campo si disciolga
bandiera che abbia esercito più saldo
de l'altra, con che segue il re Sobrino,
né più di lui prudente Saracino.

Quei di Bellamarina, che Gualciotto
solea guidare, or guida il re d'Algieri
Rodomonte, e di Sarza, che condotto
di nuovo avea pedoni e cavallieri;
che mentre il sol fu nubiloso sotto
il gran centauro e i corni orridi e fieri,
fu in Africa mandato da Agramante,
onde venuto era tre giorni inante.

Non avea il campo d'Africa più forte,
né Saracin più audace di costui:
e più temean le parigine porte,
ed avean più cagion di temer lui,
che Marsilio, Agramante e la gran corte
che avea seguito in Francia questi dui:
e più d'ogni altro che facesse mostra,
era nimico de la fede nostra.

Vien Prusione, il re de l'Alvaracchie;
poi quel de la Zumara, Dardinello.
Non so s'abbiano o nottole o cornacchie,
o altro manco ed importuno augello,
il qual dai tetti e da le fronde gracchie
futuro mal, predetto a questo e a quello,
che fissa in ciel nel dì seguente è l'ora
che l'uno e l'altro in quella pugna muora.

In campo non aveano altri a venire,
che quei di Tremisenne e di Norizia;
né si vedea alla mostra comparire
il segno lor, né dar di sé notizia.
Non sapendo Agramante che si dire,
né che pensar di questa lor pigrizia,
uno scudiero al fin gli fu condutto
del re di Tremisen, che narrò il tutto.

E gli narrò che Alzirdo e Manilardo
con molti altri de' suoi giaceano al campo.
- Signor (diss'egli), il cavallier gagliardo
che ucciso ha i nostri, ucciso avria il tuo campo,
se fosse stato a torsi via più tardo
di me, che a pena ancor così ne scampo.
Fa quel de' cavallieri e de' pedoni,
che il lupo fa di capre e di montoni. -

Era venuto pochi giorni avante
nel campo del re d'Africa un signore;
né in Ponente era, né in tutto Levante,
di più forza di lui, né di più core.
Gli facea grande onore il re Agramante,
per esser costui figlio e successore
in Tartaria del re Agrican gagliardo:
suo nome era il feroce Mandricardo.

Per molti chiari gesti era famoso,
e di sua fama tutto il mondo empìa;
ma lo facea più d'altro glorioso,
che al castel de la fata di Soria
l'usbergo avea acquistato luminoso
che Ettor troian portò mille anni pria,
per strana e formidabile aventura,
che il ragionarne pur mette paura.

Trovandosi costui dunque presente
a quel parlar, alzò l'ardita faccia;
e si dispose andare immantinente,
per trovar quel guerrier, dietro alla traccia.
Ritenne occulto il suo pensiero in mente,
o sia perché d'alcun stima non faccia,
o perché tema, se il pensier palesa,
che un altro inanzi a lui pigli l'impresa.

Allo scudier fe' dimandar come era
la sopravesta di quel cavalliero.
Colui rispose: - Quella è tutta nera,
lo scudo nero, e non ha alcun cimiero. -
E fu, Signor, la sua risposta vera,
perché lasciato Orlando avea il quartiero;
che come dentro l'animo era in doglia,
così imbrunir di fuor volse la spoglia.

Marsilio a Mandricardo avea donato
un destrier baio a scorza di castagna,
con gambe e chiome nere; ed era nato
di frisa madre e d'un villan di Spagna.
Sopra vi salta Mandricardo armato,
e galoppando va per la campagna;
e giura non tornare a quelle schiere
se non truova il campion da l'arme nere.

Molta incontrò de la paurosa gente
che da le man d'Orlando era fuggita,
chi del figliuol, chi del fratel dolente,
che inanzi agli occhi suoi perdè la vita.
Ancora la codarda e trista mente
ne la pallida faccia era sculpita;
ancor, per la paura che avuta hanno,
pallidi, muti ed insensati vanno.

Non fe' lungo camin, che venne dove
crudel spettaculo ebbe ed inumano,
ma testimonio alle mirabil pruove
che fur raconte inanzi al re africano.
Or mira questi, or quelli morti, e muove,
e vuol le piaghe misurar con mano,
mosso da strana invidia che egli porta
al cavallier che avea la gente morta.

Come lupo o mastin che ultimo giugne
al bue lasciato morto da' villani,
che truova sol le corna, l'ossa e l'ugne,
del resto son sfamati augelli e cani;
riguarda invano il teschio che non ugne:
così fa il crudel barbaro in que' piani.
Per duol bestemmia, e mostra invidia immensa,
che venne tardi e così ricca mensa.

Quel giorno e mezzo l'altro segue incerto
il cavallier dal negro, e ne domanda.
Ecco vede un pratel d'ombre coperto,
che sì d'un alto fiume si ghirlanda,
che lascia a pena un breve spazio aperto,
dove l'acqua si torce ad altra banda.
Un simil luogo con girevol onda
sotto Ocricoli il Tevere circonda.

Dove entrar si potea, con l'arme indosso
stavano molti cavallieri armati.
Chiede il pagan, chi gli avea in stuol sì grosso,
ed a che effetto insieme ivi adunati.
Gli fe' risposta il capitano, mosso
dal signoril sembiante e da' fregiati
d'oro e di gemme arnesi di gran pregio,
che lo mostravan cavalliero egregio.

- Dal nostro re siàn (disse) di Granata
chiamati in compagnia de la figliuola,
la quale al re di Sarza ha maritata,
ben che di ciò la fama ancor non vola.
Come appresso la sera racchetata
la cicaletta sia, che or s'ode sola,
avanti al padre fra l'ispane torme
la condurremo: intanto ella si dorme. -

Colui, che tutto il mondo vilipende,
disegna di veder tosto la pruova,
se quella gente o bene o mal difende
la donna, alla cui guardia si ritruova.
Disse: - Costei, per quanto se n'intende,
è bella; e di saperlo ora mi giova.
A lei mi mena, o falla qui venire;
che altrove mi convien subito gire. -

- Esser per certo dei pazzo solenne, -
rispose il Granatin, né più gli disse.
Ma il Tartaro a ferir tosto lo venne
con l'asta bassa, e il petto gli trafisse;
che la corazza il colpo non sostenne,
e forza fu che morto in terra gisse.
L'asta ricovra il figlio d'Agricane,
perché altro da ferir non gli rimane.

Non porta spada né baston; che quando
l'arme acquistò, che fu d'Ettor troiano,
perché trovò che lor mancava il brando,
gli convenne giurar (né giurò invano)
che fin che non togliea quella d'Orlando,
mai non porrebbe ad altra spada mano:
Durindana che Almonte ebbe in gran stima,
e Orlando or porta, Ettor portava prima.

Grande è l'ardir del Tartaro, che vada
con disvantaggio tal contra coloro,
gridando: - Chi mi vuol vietar la strada? -
E con la lancia si cacciò tra loro.
Chi l'asta abbassa, e chi tra' fuor la spada;
e d'ogn'intorno subito gli foro.
Egli ne fece morir una frotta,
prima che quella lancia fosse rotta.

Rotta che se la vede, il gran troncone
che resta intero, ad ambe mani afferra;
e fa morir con quel tante persone,
che non fu vista mai più crudel guerra.
Come tra' Filistei l'ebreo Sansone
con la mascella che levò di terra,
scudi spezza, elmi schiaccia, e un colpo spesso
spenge i cavalli ai cavallieri appresso.

Correno a morte que' miseri a gara,
né perché cada l'un, l'altro andar cessa;
che la maniera del morire, amara
lor par più assai che non è morte istessa.
Patir non ponno che la vita cara
tolta lor sia da un pezzo d'asta fessa,
e sieno sotto alle picchiate strane
a morir giunti, come biscie o rane.

Ma poi che a spese lor si furo accorti
che male in ogni guisa era morire,
sendo già presso alli duo terzi morti,
tutto l'avanzo cominciò a fuggire.
Come del proprio aver via se gli porti,
il Saracin crudel non può patire
che alcun di quella turba sbigottita
da lui partir si debba con la vita.

Come in palude asciutta dura poco
stridula canna, o in campo àrrida stoppia
contra il soffio di borea e contra il fuoco
che il cauto agricultore insieme accoppia,
quando la vaga fiamma occupa il loco,
e scorre per li solchi, e stride e scoppia;
così costor contra la furia accesa
di Mandricardo fan poca difesa.

Poscia che egli restar vede l'entrata,
che mal guardata fu, senza custode;
per la via che di nuovo era segnata
ne l'erba, e al suono dei ramarchi che ode,
viene a veder la donna di Granata,
se di bellezze è pari alle sue lode:
passa tra i corpi de la gente morta,
dove gli dà, torcendo, il fiume porta.

E Doralice in mezzo il prato vede
(che così nome la donzella avea),
la qual, suffolta da l'antico piede
d'un frassino silvestre, si dolea.
Il pianto, come un rivo che succede
di viva vena, nel bel sen cadea;
e nel bel viso si vedea che insieme
de l'altrui mal si duole, e del suo teme.

Crebbe il timor, come venir lo vide
di sangue brutto e con faccia empia e oscura,
eil grido sin al ciel l'aria divide,
di sé e de la sua gente per paura;
che, oltre i cavallier, v'erano guide,
che de la bella infante aveano cura,
maturi vecchi, e assai donne e donzelle
del regno di Granata, e le più belle.

Come il Tartaro vede quel bel viso
che non ha paragone in tutta Spagna,
e c'ha nel pianto (or che esser de' nel riso?)
tesa d'Amor l'inestricabil ragna;
non sa se vive in terra o in paradiso:
né de la sua vittoria altro guadagna,
se non che in man de la sua prigioniera
si dà prigione, e non sa in qual maniera.

A lei però non si concede tanto,
che del travaglio suo le doni il frutto;
ben che piangendo ella dimostri, quanto
possa donna mostrar, dolore e lutto.
Egli, sperando volgerle quel pianto
in sommo gaudio, era disposto al tutto
menarla seco; e sopra un bianco ubino
montar la fece, e tornò al suo camino.

Donne e donzelle e vecchi ed altra gente,
che eran con lei venuti di Granata,
tutti licenziò benignamente,
dicendo: - Assai da me fia accompagnata;
io mastro, io balia, io le sarò sergente
in tutti i suoi bisogni: a Dio brigata. -
Così, non gli possendo far riparo,
piangendo e sospirando se n'andaro;

tra lor dicendo: - Quanto doloroso
ne sarà il padre, come il caso intenda!
quanta ira, quanto duol ne avrà il suo sposo!
oh come ne farà vendetta orrenda!
Deh, perché a tempo tanto bisognoso
non è qui presso a far che costui renda
il sangue illustre del re Stordilano,
prima che se lo porti più lontano? -

De la gran preda il Tartaro contento,
che fortuna e valor gli ha posta inanzi,
di trovar quel dal negro vestimento
non par che abbia la fretta che avea dianzi.
Correva dianzi: or viene adagio e lento;
e pensa tuttavia dove si stanzi,
dove ritruovi alcun commodo loco,
per esalar tanto amoroso foco.

Tuttavolta conforta Doralice,
che avea di pianto e gli occhi e il viso molle:
compone e finge molte cose, e dice
che per fama gran tempo ben le volle;
e che la patria, e il suo regno felice
che il nome di grandezza agli altri tolle,
lasciò, non per vedere o Spagna o Francia,
ma sol per contemplar sua bella guancia.

- Se per amar, l'uom debbe essere amato,
merito il vostro amor; che v'ho amat'io:
se per stirpe, di me chi è meglio nato?
cheil possente Agrican fu il padre mio:
se per ricchezza, chi ha di me più stato?
che di dominio io cedo solo a Dio:
se per valor, credo oggi aver esperto
che esser amato per valore io merto. -

Queste parole ed altre assai, che Amore
a Mandricardo di sua bocca ditta,
van dolcemente a consolar il core
de la donzella di paura afflitta.
Il timor cessa, e poi cessa il dolore
che le avea quasi l'anima trafitta.
Ella comincia con più pazienza
a dar più grata al nuovo amante udienza;

poi con risposte più benigne molto
a mostrarsegli affabile e cortese,
e non negargli di fermar nel volto
talor le luci di pietade accese:
onde il pagan, che da lo stral fu colto
altre volte d'Amor, certezza prese,
non che speranza, che la donna bella
non saria a' suo' desir sempre ribella.

Con questa compagnia lieto e gioioso,
che sì gli satisfà, sì gli diletta,
essendo presso all'ora che a riposo
la fredda notte ogni animale alletta,
vedendo il sol già basso e mezzo ascoso,
comminciò a cavalcar con maggior fretta;
tanto che udì sonar zuffoli e canne,
e vide poi fumar ville e capanne.

Erano pastorali alloggiamenti,
miglior stanza e più commoda, che bella.
Quivi il guardian cortese degli armenti
onorò il cavalliero e la donzella,
tanto che si chiamar da lui contenti;
che non pur per cittadi e per castella,
ma per tuguri ancora e per fenili
spesso si trovan gli uomini gentili.

Quel che fosse dipoi fatto all'oscuro
tra Doralice e il figlio d'Agricane,
a punto racontar non m'assicuro;
sì che al giudicio di ciascun rimane.
Creder si può che ben d'accordo furo;
che si levar più allegri la dimane,
e Doralice ringraziò il pastore,
che nel suo albergo le avea fatto onore.

Indi d'uno in un altro luogo errando,
si ritrovaro al fin sopra un bel fiume
che con silenzio al mar va declinando,
e se vada o se stia, mal si prosume;
limpido e chiaro sì, che in lui mirando,
senza contesa al fondo porta il lume.
In ripa a quello, a una fresca ombra e bella,
trovar dui cavallieri e una donzella.

Or l'alta fantasia, che un sentier solo
non vuol che iosegua ognor, quindi mi guida,
e mi ritorna ove il moresco stuolo
assorda di rumor Francia e di grida,
d'intorno il padiglione ove il figliuolo
del re Troiano il santo Impero sfida,
e Rodomonte audace se gli vanta
arder Parigi e spianar Roma santa.

Venuto ad Agramante era all'orecchio,
che già l'Inglesi avean passato il mare:
però Marsilio e il re del Garbo vecchio
e gli altri capitan fece chiamare.
Consiglian tutti a far grande apparecchio,
sì che Parigi possino espugnare.
Ponno esser certi che più non s'espugna,
se nol fan prima che l'aiuto giugna.

Già scale innumerabili per questo
da' luoghi intorno avea fatto raccorre,
ed asse e travi, e vimine contesto,
che lo poteano a diversi usi porre;
e navi e ponti: e più facea che il resto,
il primo e il secondo ordine disporre
a dar l'assalto; ed egli vuol venire
tra quei che la città denno assalire.

L'imperatore il dì che il dì precesse
de la battaglia, fe' dentro a Parigi
per tutto celebrare uffici e messe
a preti, a frati bianchi, neri e bigi;
e le gente che dianzi eran confesse,
e di man tolte agli inimici stigi,
tutti communicar, non altramente
che avessino a morir il dì seguente.

Ed egli tra baroni e paladini,
principi ed oratori, al maggior tempio
con molta religione a quei divini
atti intervenne, e ne diè agli altri esempio.
Con le man giunte e gli occhi al ciel supini,
disse: - Signor, ben che io sia iniquo ed empio,
non voglia tua bontà, pel mio fallire,
che il tuo popul fedele abbia a patire.

E se gli è tuo voler che egli patisca,
e che abbia il nostro error degni supplici,
almeno la punizion si differisca
sì, che per man non sia de' tuoi nemici;
che quando lor d'uccider noi sortisca,
che nome avemo pur d'esser tuo' amici,
i pagani diran che nulla puoi,
che perir lasci i partigiani tuoi.

E per un che ti sia fatto ribelle,
cento ti si faran per tutto il mondo;
tal che la legge falsa di Babelle
caccerà la tua fede e porrà al fondo.
Difendi queste genti, che son quelle
che il tuo sepulcro hanno purgato e mondo
da' brutti cani, e la tua santa Chiesa
con li vicari suoi spesso difesa.

So che i meriti nostri atti non sono
a satisfare al debito d'un'oncia;
né devemo sperar da te perdono,
se riguardiamo a nostra vita sconcia:
ma se vi aggiugni di tua grazia il dono,
nostra ragion fia ragguagliata e concia;
né del tuo aiuto disperar possiamo,
qualor di tua pietà ci ricordiamo. -

Così dicea l'imperator devoto,
con umiltade e contrizion di core.
Giunse altri prieghi e convenevol voto
al gran bisogno e all'alto suo splendore.
Non fu il caldo pregar d'effetto voto;
però che il genio suo, l'angel migliore,
i prieghi tolse e spiegò al ciel le penne,
ed a narrare al Salvator li venne.

E furo altri infiniti in quello instante
da tali messagger portati a Dio;
che come gli ascoltar l'anime sante,
dipinte di pietade il viso pio,
tutte miraro il sempiterno Amante,
e gli mostraro il commun lor disio,
che la giusta orazion fosse esaudita
del populo cristian che chiede aita.

E la Bontà ineffabile, che invano
non fu pregata mai da cor fedele,
leva gli occhi pietosi, e fa con mano
cenno che venga a sé l'angel Michele.
- Va (gli disse) all'esercito cristiano
che dianzi in Picardia calò le vele,
e al muro di Parigi l'appresenta
sì, che il campo nimico non lo senta.

Truova prima il Silenzio, e da mia parte
gli dio che teco a questa impresa venga;
che egli ben proveder con ottima arte
saprà di quanto proveder convenga.
Fornito questo, subito va in parte
dove il suo seggio la Discordia tenga:
dille che l'esca e il fucil seco prenda,
e nel campo de' Mori il fuoco accenda;

e tra quei che vi son detti più forti
sparga tante zizzanie e tante liti,
che combattano insieme; ed altri morti,
altri ne sieno presi, altri feriti,
e fuor del campo altri lo sdegno porti
sì che il lor re poco di lor s'aiti. -
Non replica a tal detto altra parola
il benedetto augel, ma dal ciel vola.

Dovunque drizza Michel angel l'ale,
fuggon le nubi, e torna il ciel sereno.
Gli gira intorno un aureo cerchio, quale
veggiàn di notte lampeggiar baleno.
Seco pensa tra via, dove si cale
il celeste corrier per fallir meno
a trovar quel nimico di parole,
a cui la prima commission far vuole.

Vien scorrendo ov'egli abiti, ov'egli usi;
e se accordaro infin tutti i pensieri,
che de frati e de monachi rinchiusi
lo può trovare in chiese e in monasteri,
dove sono i parlari in modo esclusi,
che il Silenzio, ove cantano i salteri,
ove dormeno, ove hanno la piatanza,
e finalmente è scritto in ogni stanza.

Credendo quivi ritrovarlo, mosse
con maggior fretta le dorate penne;
e di veder che ancor Pace vi fosse,
Quiete e Carità, sicuro tenne.
Ma da la opinion sua ritrovosse
tosto ingannato, che nel chiostro venne:
non è Silenzio quivi; e gli fu ditto
che non v'abita più, fuor che in iscritto.

Né Pietà, né Quiete, né Umiltade,
né quivi Amor, né quivi Pace mira.
Ben vi fur già, ma ne l'antiqua etade;
che le cacciar Gola, Avarizia ed Ira,
Superbia, Invidia, Inerzia e Crudeltade.
Di tanta novità l'angel si ammira:
andò guardando quella brutta schiera,
e vide che anco la Discordia v'era.

Quella che gli avea detto il Padre eterno,
dopo il Silenzio, che trovar dovesse.
Pensato avea di far la via d'Averno,
che si credea che tra' dannati stesse;
e ritrovolla in questo nuovo inferno
(che il crederia?) tra santi uffici e messe.
Par di strano a Michel che ella vi sia,
che per trovar credea di far gran via.

La conobbe al vestir di color cento,
fatto a liste inequali ed infinite,
che or la cuoprono or no; che i passi e il vento
le giano aprendo, che erano sdrucite.
I crini avea qual d'oro e qual d'argento,
e neri e bigi, e aver pareano lite;
altri in treccia, altri in nastro eran raccolti,
molti alle spalle, alcuni al petto sciolti.

Di citatorie piene e di libelli,
d'esamine e di carte di procure
avea le mani e il seno, e gran fastelli
di chiose, di consigli e di letture;
per cui le facultà de' poverelli
non sono mai ne le città sicure.
Aveva dietro e dinanzi e d'ambi i lati,
notai, procuratori ed avocati.

La chiama a sé Michele, e le commanda
che tra i più forti Saracini scenda,
e cagion truovi, che con memoranda
ruina insieme a guerreggiar gli accenda.
Poi del Silenzio nuova le domanda:
facilmente esser può che essa n'intenda,
sì come quella che accendendo fochi
di qua e di là, va per diversi lochi.

Rispose la Discordia: - Io non ho a mente
in alcun loco averlo mai veduto:
udito l'ho ben nominar sovente,
e molto commendarlo per astuto.
Ma la Fraude, una qui di nostra gente,
che compagnia talvolta gli ha tenuto,
penso che dir te ne saprà novella; -
e verso una alzò il dito, e disse: - È quella. -

Avea piacevol viso, abito onesto,
un umil volger d'occhi, un andar grave,
un parlar sì benigno e sì modesto,
che parea Gabriel che dicesse: Ave.
Era brutta e deforme in tutto il resto:
ma nascondea queste fattezze prave
con lungo abito e largo; e sotto quello,
attosicato avea sempre il coltello.

Domanda a costei l'angelo, che via
debba tener, sì che il Silenzio truove.
Disse la Fraude: - Già costui solia
fra virtudi abitare, e non altrove,
con Benedetto e con quelli d'Elia
ne le badie, quando erano ancor nuove:
fe' ne le scuole assai de la sua vita
al tempo di Pitagora e d'Archita.

Mancati quei filosofi e quei santi
che lo solean tener pel camin ritto,
dagli onesti costumi che avea inanti,
fece alle sceleraggini tragitto.
Cominciò andar la notte con gli amanti,
indi coi ladri, e fare ogni delitto.
Molto col Tradimento egli dimora:
veduto l'ho con l'Omicidio ancora.

Con quei che falsan le monete ha usanza
di ripararsi in qualche buca scura.
Così spesso compagni muta e stanza,
che il ritrovarlo ti saria ventura;
ma pur ho d'insegnartelo speranza:
se d'arrivare a mezza notte hai cura
alla casa del Sonno, senza fallo
potrai (che quivi dorme) ritrovallo. -

Ben che soglia la Fraude esser bugiarda,
pur è tanto il suo dir simile al vero,
che l'angelo le crede; indi non tarda
a volarsene fuor del monastero.
Tempra il batter de l'ale, e studia e guarda
giungere in tempo al fin del suo sentiero,
che alla casa del Sonno, che ben dove
era sapea, questo Silenzio truove.

Giace in Arabia una valletta amena,
lontana da cittadi e da villaggi,
che all'ombra di duo monti è tutta piena
d'antiqui abeti e di robusti faggi.
Il sole indarno il chiaro dì vi mena;
che non vi può mai penetrar coi raggi,
sì gli è la via da folti rami tronca:
e quivi entra sotterra una spelonca.

Sotto la negra selva una capace
e spaziosa grotta entra nel sasso,
di cui la fronte l'edera seguace
tutta aggirando va con storto passo.
In questo albergo il grave Sonno giace;
l'Ozio da un canto corpulento e grasso,
da l'altro la Pigrizia in terra siede,
che non può andare, e mal reggersi in piede.

Lo smemorato Oblio sta su la porta:
non lascia entrar, né riconosce alcuno;
non ascolta imbasciata, né riporta;
e parimente tien cacciato ognuno.
Il Silenzio va intorno, e fa la scorta:
ha le scarpe di feltro, e il mantel bruno;
ed a quanti n'incontra, di lontano,
che non debban venir, cenna con mano.

Se gli accosta all'orecchio e pianamente
l'angel gli dice: - Dio vuol che tu guidi
a Parigi Rinaldo con la gente
che per dar, mena, al suo signor sussidi:
ma che lo facci tanto chetamente,
che alcun de' Saracin non oda i gridi;
sì che più tosto che ritruovi il calle
la Fama d'avisar, gli abbia alle spalle. -

Altrimente il Silenzio non rispose,
che col capo accennando che faria;
e dietro ubidiente se gli pose;
e furo al primo volo in Picardia.
Michel mosse le squadre coraggiose,
e fe' lor breve un gran tratto di via;
sì che in un dì a Parigi le condusse,
né alcun s'avide che miracol fusse.

Discorreva il Silenzio, e tuttavolta,
e dinanzi alle squadre e d'ogn'intorno
facea girare un'alta nebbia in volta,
ed avea chiaro ogn'altra parte il giorno;
e non lasciava questa nebbia folta,
che s'udisse di fuor tromba né corno:
poi n'andò tra' pagani, e menò seco
un non so che, che ognun fe' sordo e cieco.

Mentre Rinaldo in tal fretta venìa,
che ben parea da l'angelo condotto,
e con silenzio tal, che non s'udia
nel campo saracin farsene motto;
il re Agramante avea la fanteria
messo ne' borghi di Parigi, e sotto
le minacciate mura in su la fossa,
per far quel dì l'estremo di sua possa.

Chi può contar l'esercito che mosso
questo dì contro Carlo ha il re Agramante,
conterà ancora in su l'ombroso dosso
del silvoso Apennin tutte le piante;
dirà quante onde, quando è il mar più grosso,
bagnano i piedi al mauritano Atlante;
e per quanti occhi il ciel le furtive opre
degli amatori a mezza notte scuopre.

Le campane si sentono a martello
di spessi colpi e spaventosi tocche;
si vede molto, in questo tempio e in quello,
alzar di mano e dimenar di bocche.
Se il tesoro paresse a Dio sì bello,
come alle nostre openioni sciocche,
questo era il dì che il santo consistoro
fatto avria in terra ogni sua statua d'oro.

S'odon ramaricare i vecchi giusti,
che s'erano serbati in quelli affanni,
e nominar felici i sacri busti
composti in terra già molti e molt'anni.
Ma gli animosi gioveni robusti
che miran poco i lor propinqui danni,
sprezzando le ragion de' più maturi,
di qua di là vanno correndo a' muri.

Quivi erano baroni e paladini,
re, duci, cavallier, marchesi e conti,
soldati forestieri e cittadini,
per Cristo e pel suo onore a morir pronti;
che per uscire adosso ai Saracini,
pregan l'imperator che abbassi i ponti.
Gode egli di veder l'animo audace,
ma di lasciarli uscir non li compiace.

E li dispone in oportuni lochi,
per impedire ai barbari la via:
là si contenta che ne vadan pochi,
qua non basta una grossa compagnia;
alcuni han cura maneggiare i fuochi,
le machine altri, ove bisogno sia.
Carlo di qua di là non sta mai fermo:
va soccorrendo, e fa per tutto schermo.

Siede Parigi in una gran pianura,
ne l'ombilico a Francia, anzi nel core;
gli passa la riviera entro le mura,
e corre, ed esce in altra parte fuore.
Ma fa un'isola prima, e v'assicura
de la città una parte, e la migliore;
l'altre due (che in tre parti è la gran terra)
di fuor la fossa, e dentro il fiume serra.

Alla città, che molte miglia gira,
da molte parti si può dar battaglia:
ma perché sol da un canto assalir mira,
né volentier l'esercito sbarraglia,
oltre il fiume Agramante si ritira
verso ponente, acciò che quindi assaglia;
però che né cittade né campagna
ha dietro, se non sua, fin alla Spagna.

Dovunque intorno il gran muro circonda,
gran munizioni avea già Carlo fatte,
fortificando d'argine ogni sponda
con scannafossi dentro e case matte;
onde entra ne la terra, onde esce l'onda,
grossissime catene aveva tratte;
ma fece, più che altrove, provedere
là dove avea più causa di temere.

Con occhi d'Argo il figlio di Pipino
previde ove assalir dovea Agramante;
e non fece disegno il Saracino,
a cui non fosse riparato inante.
Con Ferraù, Isoliero, Serpentino,
Grandonio, Falsirone e Balugante,
e con ciò che di Spagna avea menato,
restò Marsilio alla campagna armato.

Sobrin gli era a man manca in ripa a Senna,
con Pulian, con Dardinel d'Almonte,
col re d'Oran, che esser gigante accenna,
lungo sei braccia dai piedi alla fronte.
Deh perché a muover men son io la penna,
che quelle genti a muover l'arme pronte?
che il re di Sarza, pien d'ira e di sdegno,
grida e bestemmia e non può star più a segno.

Come assalire o vasi pastorali,
o le dolci reliquie de' convivi
soglion con rauco suon di stridule ali
le impronte mosche a' caldi giorni estivi;
come li storni a rosseggianti pali
vanno de mature uve: così quivi,
empiendo il ciel di grida e di rumori,
veniano a dare il fiero assalto i Mori.

L'esercito cristian sopra le mura
con lance, spade e scure e pietre e fuoco
difende la città senza paura,
e il barbarico orgoglio estima poco;
e dove Morte uno ed un altro fura,
non è chi per viltà ricusi il loco.
Tornano i Saracin giù ne le fosse
a furia di ferite e di percosse.

Non ferro solamente vi s'adopra,
ma grossi massi, e merli integri e saldi,
e muri dispiccati con molt'opra,
tetti di torri, e gran pezzi di spaldi.
L'acque bollenti che vengon di sopra,
portano a' Mori insupportabil caldi;
e male a questa pioggia si resiste,
che entra per gli elmi, e fa acciecar le viste.

E questa più nocea che il ferro quasi:
or che de' far la nebbia di calcine?
or che doveano far li ardenti vasi
con olio e zolfo e peci e trementine?
I cerchi in munizion non son rimasi,
che d'ogn'intorno hanno di fiamma il crine:
questi, scagliati per diverse bande,
mettono a' Saracini aspre ghirlande.

Intanto il re di Sarza avea cacciato
sotto le mura la schiera seconda,
da Buraldo, da Ormida accompagnato,
quel Garamante, e questo di Marmonda.
Clarindo e Soridan gli sono allato,
né par che il re di Setta si nasconda;
segue il re di Marocco e quel di Cosca,
ciascun perché il valor suo si conosca.

Ne la bandiera, che è tutta vermiglia,
Rodomonte di Sarza il leon spiega,
che la feroce bocca ad una briglia
che gli pon la sua donna, aprir non niega.
Al leon sé medesimo assimiglia;
e per la donna che lo frena e lega,
la bella Doralice ha figurata,
figlia di Stordilan re di Granata:

quella che tolto avea, come io narrava,
re Mandricardo, e dissi dove e a cui.
Era costei che Rodomonte amava
più cheil suo regno e più che gli occhi sui;
e cortesia e valor per lei mostrava,
non già sapendo che era in forza altrui:
se saputo l'avesse, allora allora
fatto avria quel che fe' quel giorno ancora.

Sono appoggiate a un tempo mille scale,
che non han men di dua per ogni grado.
Spinge il secondo quel che inanzi sale;
che il terzo lui montar fa suo mal grado.
Chi per virtù, chi per paura vale:
convien che ognun per forza entri nel guado;
che qualunche s'adagia, il re d'Algiere,
Rodomonte crudele, uccide o fere.

Ognun dunque si sforza di salire
tra il fuoco e le ruine in su le mura.
Ma tutti gli altri guardano, se aprire
veggiano passo ove sia poca cura:
sol Rodomonte sprezza di venire,
se non dove la via meno è sicura.
Dove nel caso disperato e rio
gli altri fan voti, egli bestemmia Dio.

Armato era d'un forte duro usbergo,
che fu di drago una scagliosa pelle.
Di questo già si cinse il petto e il tergo
quello avol suo che edificò Babelle,
e si pensò cacciar de l'aureo albergo,
e torre a Dio il governo de le stelle:
l'elmo e lo scudo fece far perfetto,
e il brando insieme; e solo a questo effetto.

Rodomonte non già men di Nembrotte
indomito, superbo e furibondo,
che d'ire al ciel non tarderebbe a notte,
quando la strada si trovasse al mondo,
quivi non sta a mirar s'intere o rotte
sieno le mura, o s'abbia l'acqua fondo:
passa la fossa, anzi la corre e vola,
ne l'acqua e nel pantan fin alla gola.

Di fango brutto, e molle d'acqua vanne
tra il foco e i sassi e gli archi e le balestre,
come andar suol tra le palustri canne
de la nostra Mallea porco silvestre,
che col petto, col grifo e con le zanne
fa, dovunque si volge, ample finestre.
Con lo scudo alto il Saracin sicuro
ne vien sprezzando il ciel, non che quel muro.

Non sì tosto all'asciutto è Rodomonte,
che giunto si sentì su le bertresche,
che dentro alla muraglia facean ponte
capace e largo alle squadre francesche.
Or si vede spezzar più d'una fronte,
far chieriche maggior de le fratesche,
braccia e capi volare; e ne la fossa
cader da' muri una fiumana rossa.

Getta il pagan lo scudo, e a duo man prende
la crudel spada, e giunge il duca Arnolfo.
Costui venìa di là dove discende
l'acqua del Reno nel salato golfo.
Quel miser contra lui non si difende
meglio che faccia contra il fuoco il zolfo;
e cade in terra, e dà l'ultimo crollo,
dal capo fesso un palmo sotto il collo.

Uccide di rovescio in una volta
Anselmo, Oldrado, Spineloccio e Prando:
il luogo stretto e la gran turba folta
fece girar sì pienamente il brando.
Fu la prima metade a Fiandra tolta,
l'altra scemata al populo normando.
Divise appresso da la fronte al petto,
ed indi al ventre, il maganzese Orghetto.

Getta da' merli Andropono e Moschino
giù ne la fossa: il primo è sacerdote;
non adora il secondo altro che il vino,
e le bigonce a un sorso n'ha già vuote.
Come veneno e sangue viperino
l'acque fuggia quanto fuggir si puote:
or quivi muore; e quel che più l'annoia,
è il sentir che nell'acqua se ne muoia.

Tagliò in due parti il provenzal Luigi,
e passò il petto al tolosano Arnaldo.
Di Torse Oberto, Claudio, Ugo e Dionigi
mandar lo spirto fuor col sangue caldo;
e presso a questi, quattro da Parigi,
Gualtiero, Satallone, Odo ed Ambaldo,
ed altri molti: ed io non saprei come
di tutti nominar la patria e il nome.

La turba dietro a Rodomonte presta
le scale appoggia, e monta in più d'un loco.
Quivi non fanno i Parigin più testa;
che la prima difesa lor val poco.
San ben che agli nemici assai più resta
dentro da fare, e non l'avran da gioco;
perché tra il muro e l'argine secondo
discende il fosso orribile e profondo.

Oltra che i nostri facciano difesa
dal basso all'alto, e mostrino valore;
nuova gente succede alla contesa
sopra l'erta pendice interiore,
che fa con lance e con saette offesa
alla gran moltitudine di fuore,
che credo ben, che saria stata meno,
se non v'era il figliuol del re Ulieno.

Egli questi conforta, e quei riprende,
e lor mal grado inanzi se gli caccia:
ad altri il petto, ad altri il capo fende,
che per fuggir veggia voltar la faccia.
Molti ne spinge ed urta; alcuni prende
pei capelli, pel collo e per le braccia:
e sozzopra là giù tanti ne getta,
che quella fossa a capir tutti è stretta.

Mentre lo stuol de' barbari si cala,
anzi trabocca al periglioso fondo,
ed indi cerca per diversa scala
di salir sopra l'argine secondo;
il re di Sarza (come avesse un'ala
per ciascun de' suoi membri) levò il pondo
di sì gran corpo e con tant'arme indosso,
e netto si lanciò di là dal fosso.

Poco era men di trenta piedi, o tanto,
ed egli il passò destro come un veltro,
e fece nel cader strepito, quanto
avesse avuto sotto i piedi il feltro:
ed a questo ed a quello affrappa il manto,
come sien l'arme di tenero peltro,
e non di ferro, anzi pur sien di scorza:
tal la sua spada, e tanta è la sua forza!

In questo tempo i nostri, da chi tese
l'insidie son ne la cava profonda,
che v'han scope e fascine in copia stese,
intorno a quai di molta pece abonda
(né però alcuna si vede palese,
ben che n'è piena l'una e l'altra sponda
dal fondo cupo insino all'orlo quasi),
e senza fin v'hanno appiattati vasi,

qual con salnitro, qual con oglio, quale
con zolfo, qual con altra simil esca;
i nostri in questo tempo, perché male
ai Saracini il folle ardir riesca,
che eran nel fosso, e per diverse scale
credean montar su l'ultima bertresca;
udito il segno da oportuni lochi,
di qua e di là fenno avampare i fochi.

Tornò la fiamma sparsa tutta in una,
che tra una ripa e l'altra ha il tutto pieno;
e tanto ascende in alto, che alla luna
può d'appresso asciugar l'umido seno.
Sopra si volve oscura nebbia e bruna,
che il sole adombra, e spegne ogni sereno.
Sentesi un scoppio in un perpetuo suono,
simile a un grande e spaventoso tuono.

Aspro concento, orribile armonia
d'alte querele, d'ululi e di strida
de la misera gente che peria
nel fondo per cagion de la sua guida,
istranamente concordar s'udia
col fiero suon de la fiamma omicida.
Non più, Signor, non più di questo canto;
che io son già rauco e vo' posarmi alquanto.





CANTO QUINDICESIMO.


Fu il vincer sempremai laudabil cosa,
vincasi o per fortuna o per ingegno:
gli è ver che la vittoria sanguinosa
spesso far suole il capitan men degno;
e quella eternamente è gloriosa,
e dei divini onori arriva al segno,
quando servando i suoi senza alcun danno,
si fa che gli inimici in rotta vanno.

La vostra, Signor mio, fu degna loda,
quando al Leone, in mar tanto feroce,
che avea occupata l'una e l'altra proda
del Po, da Francolin sin alla foce,
faceste sì, che ancor che ruggir l'oda,
s'io vedrò voi, non tremerò alla voce.
Come vincer si de', ne dimostraste;
che uccideste i nemici, e noi salvaste.

Questo il pagan, troppo in suo danno audace,
non seppe far; che i suoi nel fosso spinse,
dove la fiamma subita e vorace
non perdonò ad alcun, ma tutti estinse.
A tanti non saria stato capace
tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse,
restrinse i corpi e in polve li ridusse,
acciò che abile a tutti il luogo fusse.

Undicimila ed otto sopra venti
si ritrovar ne l'affocata buca,
che v'erano discesi malcontenti;
ma così volle il poco saggio duca.
Quivi fra tanto lume or sono spenti,
e la vorace fiamma li manuca:
e Rodomonte, causa del mal loro,
se ne va esente da tanto martoro:

che tra' nemici alla ripa più interna
era passato d'un mirabil salto.
Se con gli altri scendea ne la caverna,
questo era ben il fin d'ogni suo assalto.
Rivolge gli occhi a quella valle inferna;
e quando vede il fuoco andar tant'alto,
e di sua gente il pianto ode e lo strido,
bestemmia il ciel con spaventoso grido.

Intanto il re Agramante mosso avea
impetuoso assalto ad una porta;
che, mentre la crudel battaglia ardea
quivi ove è tanta gente afflitta e morta,
quella sprovista forse esser credea
di guardia, che bastasse alla sua scorta.
Seco era il re d'Arzilla Bambirago,
e Baliverzo, d'ogni vizio vago;

e Corineo di Mulga, e Prusione,
il ricco re dell'Isole beate;
Malabuferso che la regione
tien di Fizan, sotto continua estate;
altri signori, ed altre assai persone
esperte ne la guerra e bene armate;
e molti ancor senza valore e nudi,
che il cor non s'armerian con mille scudi.

Trovò tutto il contrario al suo pensiero
in questa parte il re de' Saracini:
perché in persona il capo de l'Impero
v'era, re Carlo, e de' suoi paladini,
re Salamone ed il danese Ugiero,
ed ambo i Guidi ed ambo gli Angelini,
e il duca di Bavera e Ganelone,
e Berlengier e Avolio e Avino e Otone;

gente infinita poi di minor conto,
de' Franchi, de' Tedeschi e de' Lombardi,
presente il suo signor, ciascuno pronto
a farsi riputar fra i più gagliardi.
Di questo altrove io vo' rendervi conto;
che ad un gran duca è forza che io riguardi,
il qual mi grida, e di lontano accenna,
e priega che io nol lasci ne la penna.

Gli è tempo che io ritorni ove lasciai
l'aventuroso Astolfo d'Inghilterra,
che il lungo esilio avendo in odio ormai,
di desiderio ardea de la sua terra;
come gli n'avea data pur assai
speme colei che Alcina vinse in guerra.
Ella di rimandarvilo avea cura
per la via più espedita e più sicura.

E così una galea fu apparechiata,
di che miglior mai non solcò marina;
e perché ha dubbio per tutta fiata,
che non gli turbi il suo viaggio Alcina,
vuol Logistilla che con forte armata
Andronica ne vada e Sofrosina,
tanto che nel mar d'Arabi, o nel golfo
de' Persi, giunga a salvamento Astolfo.

Più tosto vuol che volteggiando rada
gli Sciti e gli Indi e i regni nabatei,
e torni poi per così lunga strada
a ritrovar i Persi e gli Eritrei;
che per quel boreal pelago vada,
che turban sempre iniqui venti e rei,
e sì, qualche stagion, pover di sole,
che starne senza alcuni mesi suole.

La fata, poi che vide acconcio il tutto,
diede licenza al duca di partire,
avendol prima ammaestrato e istrutto
di cose assai, che fôra lungo a dire;
e per schivar che non sia più ridutto
per arte maga, onde non possa uscire,
un bello ed util libro gli avea dato,
che per suo amore avesse ognora allato.

Come l'uom riparar debba agli incanti
mostra il libretto che costei gli diede:
dove ne tratta o più dietro o più inanti,
per rubrica e per indice si vede.
Un altro don gli fece ancor, che quanti
doni fur mai, di gran vantaggio eccede:
e questo fu d'orribil suono un corno,
che fa fugire ognun che l'ode intorno.

Dico che il corno è di sì orribil suono,
che ovunque s'oda, fa fuggir la gente:
non può trovarsi al mondo un cor sì buono,
che possa non fuggir come lo sente:
rumor di vento e di termuoto, e il tuono,
a par del suon di questo, era niente.
Con molto riferir di grazie, prese
da la fata licenza il buono Inglese.

Lasciando il porto e l'onde più tranquille,
con felice aura che alla poppa spira,
sopra le ricche e populose ville
de l'odorifera India il duca gira,
scoprendo a destra ed a sinistra mille
isole sparse; e tanto va, che mira
la terra di Tomaso, onde il nocchiero
più a tramontana poi volge il sentiero.

Quasi radendo l'aurea Chersonesso,
la bella armata il gran pelago frange:
e costeggiando i ricchi liti, spesso
vede come nel mar biancheggi il Gange;
e Traprobane vede e Cori appresso;
e vede il mar che fra i duo liti s'ange.
Dopo gran via furo a Cochino, e quindi
usciro fuor dei termini degli Indi.

Scorrendo il duca il mar con sì fedele
e sì sicura scorta, intender vuole,
e ne domanda Andronica, se de le
parti c'han nome dal cader del sole,
mai legno alcun che vada a remi e a vele,
nel mare orientale apparir suole;
e s'andar può senza toccar mai terra,
chi d'India scioglia, in Francia o in Inghilterra.

- Tu déi sapere (Andronica risponde)
che d'ogn'intorno il mar la terra abbraccia;
e van l'una ne l'altra tutte l'onde,
sia dove bolle o dove il mar s'aggiaccia;
ma perché qui davante si difonde,
e sotto il mezzodì molto si caccia
la terra d'Etiopia, alcuno ha detto
che a Nettuno ir più inanzi ivi è interdetto.

Per questo del nostro indico levante
nave non è che per Europa scioglia;
né si muove d'Europa navigante
che in queste nostre parti arrivar voglia.
Il ritrovarsi questa terra avante,
e questi e quelli al ritornare invoglia;
che credono, veggendola sì lunga,
che con l'altro emisperio si congiunga.

Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire
da l'estreme contrade di ponente
nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la strada ignota infin al dì presente:
altri volteggiar l'Africa, e seguire
tanto la costa de la negra gente,
che passino quel segno onde ritorno
fa il sole a noi, lasciando il Capricorno;

e ritrovar del lungo tratto il fine,
che questo fa parer dui mar diversi;
e scorrer tutti i liti e le vicine
isole d'Indi, d'Arabi e di Persi:
altri lasciar le destre e le mancine
rive che due per opra Erculea fersi;
e del sole imitando il camin tondo,
ritrovar nuove terre e nuovo mondo.

Veggio la santa croce, e veggio i segni
imperial nel verde lito eretti:
veggio altri a guardia dei battuti legni,
altri all'acquisto del paese eletti:
veggio da dieci cacciar mille, e i regni
di là da l'India ad Aragon suggetti;
e veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque vanno, aver per tutto vinto.

Dio vuol che ascosa antiquamente questa
strada sia stata, e ancor gran tempo stia;
né che prima si sappia, che la sesta
e la settima età passata sia:
e serba a farla al tempo manifesta,
che vorrà porre il mondo a monarchia,
sotto il più saggio imperatore e giusto,
che sia stato o sarà mai dopo Augusto.

Del sangue d'Austria e d'Aragon io veggio
nascer sul Reno alla sinistra riva
un principe, al valor del qual pareggio
nessun valor, di cui si parli o scriva.
Astrea veggio per lui riposta in seggio,
anzi di morta ritornata viva;
e le virtù che cacciò il mondo, quando
lei cacciò ancora, uscir per lui di bando.

Per questi merti la Bontà suprema
non solamente di quel grande impero
ha disegnato che abbia diadema
che ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo;
ma d'ogni terra e quinci e quindi estrema,
che mai né al sol né all'anno apre il sentiero:
e vuol che sotto a questo imperatore
solo un ovile sia, solo un pastore.

E perche abbian più facile successo
gli ordini in cielo eternamente scritti,
gli pon la somma Providenza appresso
in mare e in terra capitani invitti.
Veggio Hernando Cortese, il qualo ha messo
nuove città sotto i cesarei editti,
e regni in Oriente sì remoti,
che a noi, che siamo in India, non son noti.

Veggio Prosper Colonna, e di Pescara
veggio un marchese, e veggio dopo loro
un giovene del Vasto, che fan cara
parer la bella Italia ai Gigli d'oro:
veggio che entrare inanzi si prepara
quel terzo agli altri a guadagnar l'alloro:
come buon corridor che ultimo lassa
le mosse, e giunge, e inanzi a tutti passa.

Veggio tanto il valor, veggio la fede
tanta d'Alfonso (che il suo nome è questo),
che in così acerba età, che non eccede
dopo il vigesimo anno ancora il sesto,
l'imperator l'esercito gli crede,
il qual salvando, salvar non che il resto,
ma farsi tutto il mondo ubidiente
con questo capitan sarà possente.

Come con questi, ovunque andar per terra
si possa, accrescerà l'imperio antico;
così per tutto il mar, che in mezzo serra
di là l'Europa e di qua l'Afro aprico,
sarà vittorioso in ogni guerra,
poi che Andrea Doria s'avrà fatto amico.
Questo è quel Doria che fa dai pirati
sicuro il vostro mar per tutti i lati.

Non fu Pompeio a par di costui degno,
se ben vinse e cacciò tutti i corsari;
Però che quelli al più possente regno
che fosse mai, non poteano esser pari:
ma questo Doria, sol col proprio ingegno
e proprie forze purgherà quei mari;
sì che da Calpe al Nilo, ovunque s'oda
il nome suo, tremar veggio ogni proda.

Sotto la fede entrar, sotto la scorta
di questo capitan di che io ti parlo,
veggio in Italia, ove da lui la porta
gli sarà aperta, alla corona Carlo.
Veggio che il premio che di ciò riporta,
non tien per sé, ma fa alla patria darlo:
con prieghi ottien che in libertà la metta,
dove altri a sé l'avria forse suggetta.

Questa pietà, che egli alla patria mostra,
è degna di più onor d'ogni battaglia
che in Francia o in Spagna o ne la terra vostra
vincesse Iulio, o in Africa o in Tessaglia.
Né il grande Ottavio, né chi seco giostra
di par, Antonio, in più onoranza saglia
pei gesti suoi; che ogni lor laude amorza
l'avere usato alla lor patria forza.

Questi ed ogn'altro che la patria tenta
di libera far serva, si arrosisca;
né dove il nome d'Andrea Doria senta,
di levar gli occhi in viso d'uomo ardisca.
Veggio Carlo che il premio gli augumenta;
che oltre quel che in commun vuol che fruisca,
gli dà la ricca terra che ai Normandi
sarà principio a farli in Puglia grandi.

A questo capitan non pur cortese
il magnanimo Carlo ha da mostrarsi,
ma a quanti avrà ne le cesaree imprese
del sangue lor non ritrovati scarsi.
D'aver città, d'aver tutto un paese
donato a un suo fedel, più ralegrarsi
lo veggio, e a tutti quei che ne son degni,
che d'acquistar nuov'altri imperi e regni. -

Così de le vittorie, le qual, poi
che un gran numero d'anni sarà corso,
daranno a Carlo i capitani suoi,
facea col duca Andronica discorso:
e la compagna intanto ai venti eoi
viene allentando e raccogliendo il morso;
e fa che or questo or quel propizio l'esce,
e come vuol li minuisce e cresce.

Veduto aveano intanto il mar de' Persi
come in sì largo spazio si dilaghi;
onde vicini in pochi giorni fersi
al golfo che nomar gli antiqui Maghi.
Quivi pigliaro il porto, e fur conversi
con la poppa alla ripa i legni vaghi;
quindi sicur d'Alcina e di sua guerra,
Astolfo il suo camin prese per terra.

Passò per più d'un campo e più d'un bosco,
per più d'un monte e per più d'una valle;
ove ebbe spesso, all'aer chiaro e al fosco,
i ladroni or inanzi or alle spalle.
Vide leoni, e draghi pien di tosco,
ed altre fere attraversarsi il calle;
ma non sì tosto avea la bocca al corno,
che spaventati gli fuggian d'intorno.

Vien per l'Arabia che è detta Felice,
ricca di mirra e d'odorato incenso,
che per suo albergo l'unica fenice
eletto s'ha di tutto il mondo immenso;
fin che l'onda trovò vendicatrice
già d'Israel, che per divin consenso
Faraone sommerse e tutti i suoi:
e poi venne alla terra degli Eroi.

Lungo il fiume Traiano egli cavalca
su quel destrier che al mondo è senza pare,
che tanto leggiermente e corre e valca,
che ne l'arena l'orma non n'appare:
l'erba non pur, non pur la nieve calca;
coi piedi asciutti andar potria sul mare;
e sì si stende al corso, e sì s'affretta,
che passa e vento e folgore e saetta.

Questo è il destrier che fu de l'Argalia,
che di fiamma e di vento era concetto;
e senza fieno e biada, si nutria
de l'aria pura, e Rabican fu detto.
Venne, suguendo il Duca la sua via,
dove dà il Nilo a quel fiume ricetto;
e prima che giugnesse in su la foce,
vide un legno venire a sé veloce.

Naviga in su la poppa uno eremita
con bianca barba, a mezzo il petto lunga,
che sopra il legno il paladino invita,
e: - Figliuol mio (gli grida da la lunga),
se non t'è in odio la tua propria vita,
se non brami che morte oggi ti giunga,
venir ti piaccia su quest'altra arena;
che a morir quella via dritto ti mena.

Tu non andrai più che sei miglia inante,
che troverai la saguinosa stanza
dove s'alberga un orribil gigante
che d'otto piedi ogni statura avanza.
Non abbia cavallier né viandante
di partirsi da lui, vivo, speranza:
che altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia,
molti ne squarta, e vivo alcun ne 'ngoia.

Piacer, fra tanta crudeltà, si prende
d'una rete che egli ha, molto ben fatta:
poco lontana al tetto suo la tende,
e ne la trita polve in modo appiatta,
che chi prima nol sa, non la comprende,
tanto è sottil, tanto egli ben l'adatta:
e con tai gridi i peregrin minaccia,
che spaventati dentro ve li caccia.

E con gran risa, aviluppati in quella
se li strascina sotto il suo coperto;
né cavallier riguarda né donzella,
o sia di grande o sia di picciol merto:
e mangiata la carne, e la cervella
succhiate e il sangue, dà l'ossa al deserto;
e de l'umane pelli intorno intorno
fa il suo palazzo orribilmente adorno.

Prendi quest'altra via, prendila, figlio,
che fin al mar ti fia tutta sicura. -
- Io ti ringrazio, padre, del consiglio
(rispose il cavallier senza paura),
ma non istimo per l'onor periglio,
di che assai più che de la vita ho cura.
Per far che io passi, invan tu parli meco;
anzi vo al dritto a ritrovar lo speco.

Fuggendo, posso con disnor salvarmi;
ma tal salute ho più che morte a schivo.
S'io vi vo, al peggio che potrà incontrarmi,
fra molti resterò di vita privo;
ma quando Dio così mi drizzi l'armi,
che colui morto, ed io rimanga vivo,
sicura a mille renderò la via:
sì che l'util maggior che il danno fia.

Metto all'incontro la morte d'un solo
alla salute di gente infinita. -
- Vattene in pace (rispose), figliuolo;
Dio mandi in difension de la tua vita
l'arcangelo Michel dal sommo polo: -
e benedillo il semplice eremita.
Astolfo lungo il Nil tenne la strada,
sperando più nel suon che ne la spada.

Giace tra l'alto fiume e la palude
picciol sentier nell'arenosa riva:
la solitaria casa lo richiude,
d'umanitade e di commercio priva.
Son fisse intorno teste e membra nude
de l'infelice gente che v'arriva.
Non v'è finestra, non v'è merlo alcuno,
onde penderne almen non si veggia uno.

Qual ne le alpine ville o ne' castelli
suol cacciator che gran perigli ha scorsi,
su le porte attaccar l'irsute pelli,
l'orride zampe e i grossi capi d'orsi;
tal dimostrava il fier gigante quelli
che di maggior virtù gli erano occorsi.
D'altri infiniti sparse appaion l'ossa;
ed è di sangue uman piena ogni fossa.

Stassi Caligorante in su la porta;
che così ha nome il dispietato mostro
che orna la sua magion di gente morta,
come alcun suol di panni d'oro o d'ostro.
Costui per gaudio a pena si comporta,
come il duca lontan se gli è dimostro;
che eran duo mesi, e il terzo ne venìa,
che non fu cavallier per quella via.

Vêr la palude, che era scura e folta
di verdi canne, in gran fretta ne viene;
che disegnato avea correre in volta,
e uscir al paladin dietro alle schene;
che ne la rete, che tenea sepolta
sotto la polve, di cacciarlo ha spene,
come avea fatto gli altri peregrini
che quivi tratto avean lor rei destini.

Come venire il paladin lo vede,
ferma il destrier, non senza gran sospetto
che vada in quelli lacci a dar del piede,
di che il buon vecchiarel gli avea predetto.
Quivi il soccorso del suo corno chiede,
e quel sonando fa l'usato effetto:
nel cor fere il gigante che l'ascolta,
di tal timor, che a dietro i passi volta.

Astolfo suona, e tuttavolta bada;
che gli par sempre che la rete scocchi.
Fugge il fellon, né vede ove si vada;
che, come il core, avea perduti gli occhi.
Tanta è la tema, che non sa far strada,
che ne li propri aguati non trabocchi:
va ne la rete; e quella si disserra,
tutto l'annoda, e lo distende in terra.

Astolfo, che andar giù vede il gran peso,
già sicuro per sé, v'accorre in fretta;
e con la spada in man, d'arcion disceso,
va per far di mill'anime vendetta.
Poi gli par che s'uccide un che sia preso,
viltà, più che virtù, ne sarà detta;
che legate le braccia, i piedi e il collo
gli vede sì, che non può dare un crollo.

Avea la rete già fatta Vulcano
di sottil fil d'acciar, ma con tal arte,
che saria stata ogni fatica invano
per ismagliarne la più debol parte;
ed era quella che già piedi e mano
avea legate a Venere ed a Marte.
La fe' il geloso, e non ad altro effetto,
che per pigliarli insieme ambi nel letto.

Mercurio al fabbro poi la rete invola;
che Cloride pigliar con essa vuole,
Cloride bella che per l'aria vola
dietro all'Aurora, all'apparir del sole,
e dal raccolto lembo de la stola
gigli spargendo va, rose e viole.
Mercurio tanto questa ninfa attese,
che con la rete in aria un dì la prese.

Dove entra in mare il gran fiume etiopo,
par che la dea presa volando fosse.
Poi nei tempio d'Anubide a Canopo
la rete molti seculi serbosse.
Caligorante tremila anni dopo,
di là, dove era sacra, la rimosse:
se ne portò la rete il ladrone empio,
ed arse la cittade, e rubò il tempio.

Quivi adattolla in modo in su l'arena,
che tutti quei che avean da lui la caccia
vi davan dentro; ed era tocca a pena,
che lor legava e collo e piedi e braccia.
Di questa levò Astolfo una catena,
e le man dietro a quel fellon n'allaccia;
le braccia e il petto in guisa gli ne fascia,
che non può sciorsi: indi levar lo lascia,

dagli altri nodi avendol sciolto prima,
che era tornato uman più che donzella.
Di trarlo seco e di mostrarlo stima
per ville, per cittadi e per castella.
Vuol la rete anco aver, di che né lima
né martel fece mai cosa più bella:
ne fa somier colui che alla catena
con pompa trionfal dietro si mena.

L'elmo e lo scudo anche a portar gli diede,
come a valletto, e seguitò il camino,
di gaudio empiendo, ovunque metta il piede,
che ir possa ormai sicuro il peregrino.
Astolfo se ne va tanto, che vede
che ai sepolcri di Memfi è già vicino,
Memfi per le piramidi famoso:
vede all'incontro il Cairo populoso.

Tutto il popul correndo si traea
per vedere il gigante smisurato.
- Come è possibil (l'un l'altro dicea)
che quel piccolo il grande abbia legato? -
Astolfo a pena inanzi andar potea,
tanto la calca il preme da ogni lato:
e come cavallier d'alto valore
ognun l'ammira, e gli fa grande onore.

Non era grande il Cairo così allora,
come se ne ragiona a nostra etade:
che il populo capir, che vi dimora,
non puon diciottomila gran contrade;
e che le case hanno tre palchi, e ancora
ne dormono infiniti in su le strade;
e che il soldano v'abita un castello
mirabil di grandezza, e ricco e bello;

e che quindicimila suoi vasalli,
che son cristiani rinegati tutti,
con mogli, con famiglie e con cavalli
ha sotto un tetto sol quivi ridutti.
Astolfo veder vuole ove s'avalli,
e quanto il Nilo entri nei salsi flutti
a Damiata; che avea quivi inteso,
qualunque passa restar morto o preso.

Però che in ripa al Nilo in su la foce
si ripara un ladron dentro una torre,
che a paesani e a peregrini nuoce,
e fin al Cairo, ognun rubando scorre.
Non gli può alcun resistere; ed ha voce
che l'uom gli cerca invan la vita torre:
centomila ferite egli ha già avuto,
né ucciderlo però mai s'è potuto.

Per veder se può far rompere il filo
alla Parca di lui, sì che non viva,
Astolfo viene a ritrovare Orrilo
(così avea nome), e a Damiata arriva;
ed indi passa ove entra in mare il Nilo,
e vede la gran torre in su la riva,
dove s'alberga l'anima incantata
che d'un folletto nacque e d'una fata.

Quivi ritruova che crudel battaglia
era tra Orrilo e dui guerrieri accesa.
Orrilo è solo; e sì que' dui travaglia,
che a gran fatica gli puon far difesa:
e quando in arme l'uno e l'altro vaglia,
a tutto il mondo la fama palesa.
Questi erano i dui figli d'Oliviero,
Grifone il bianco ed Aquilante il nero.

Gli è ver che il negromante venuto era
alla battaglia con vantaggio grande;
che seco tratto in campo avea una fera,
la qual si truova solo in quelle bande:
vive sul lito e dentro alla rivera;
e i corpi umani son le sue vivande,
de le persone misere ed incaute
de viandanti e d'infelici naute.

La bestia ne l'arena appresso al porto
per man dei duo fratei morta giacea;
e per questo ad Orril non si fa torto,
s'a un tempo l'uno e l'altro gli nocea.
Più volte l'han smembrato e non mai morto,
né, per smembrarlo, uccider si potea;
che se tagliato o mano o gamba gli era,
la rapiccava, che parea di cera.

Or fin a' denti il capo gli divide
Grifone, or Aquilante fin al petto.
Egli dei colpi lor sempre si ride:
s'adiran essi, che non hanno effetto.
Chi mai d'alto cader l'argento vide,
che gli alchimisti hanno mercurio detto,
e sparger e raccor tutti i suo' membri,
sentendo di costui, se ne rimembri.

Se gli spiccano il capo, Orrilo scende,
né cessa brancolar fin che lo truovi;
ed or pel crine ed or pel naso il prende,
lo salda al collo, e non so con che chiovi.
Piglial talor Grifone, e il braccio stende,
nel fiume il getta, e non par che anco giovi;
che nuota Orrilo al fondo come un pesce,
e col suo capo salvo alla ripa esce.

Due belle donne onestamente ornate,
l'una vestita a bianco e l'altra a nero,
che de la pugna causa erano state,
stavano a riguardar l'assalto fiero.
Queste eran quelle due benigne fate
che avean notriti i figli d'Oliviero,
poi che li trasson teneri citelli
dai curvi artigli di duo grandi augelli,

che rapiti gli avevano a Gismonda,
e portati lontan dal suo paese.
Ma non bisogna in ciò che io mi diffonda,
che a tutto il mondo è l'istoria palese;
ben che l'autor nel padre si confonda,
che un per un altro (io non so come) prese.
Or la battaglia i duo gioveni fanno,
che le due donne ambi pregati n'hanno.

Era in quel clima già sparito il giorno,
all'isole ancor alto di Fortuna;
l'ombre avean tolto ogni vedere a torno
sotto l'incerta e mal compresa luna;
quando alla rocca Orril fece ritorno,
poi che alla bianca e alla sorella bruna
piacque di differir l'aspra battaglia
fin che il sol nuovo all'orizzonte saglia.

Astolfo, che Grifone ed Aquilante,
ed all'insegne e più al ferir gagliardo,
riconosciuto avea gran pezzo inante,
lor non fu altiero a salutar né tardo.
Essi vedendo che quel che il gigante
traea legato, era il baron dal pardo
(che così in corte era quel duca detto),
raccolser lui con non minore affetto.

Le donne a riposare i cavallieri
menaro a un lor palagio indi vicino.
Donzelle incontra vennero e scudieri
con torchi accesi, a mezzo del camino.
Diero a chi n'ebbe cura i lor destrieri,
trassonsi l'arme; e dentro un bel giardino
trovar che apparechiata era la cena
ad una fonte limpida ed amena.

Fan legare il gigante alla verdura
Con un'altra catena molto grossa
ad una quercia di molt'anni dura,
che non si romperà per una scossa;
e da dieci sergenti averne cura,
che la notte discior non se ne possa,
ed assalirli, e forse far lor danno,
mentre sicuri e senza guardia stanno.

All'abondante e sontuosa mensa,
dove il manco piacer fur le vivande,
del ragionar gran parte si dispensa
sopra d'Orrilo e del miracol grande,
che quasi par un sogno a chi vi pensa,
che or capo or braccio a terra se gli mande,
ed egli lo raccolga e lo raggiugna,
e più feroce ognor torni alla pugna.

Astolfo nel suo libro avea già letto
(quel che agli incanti riparare insegna)
che ad Orril non trarrà l'alma del petto
fin che un crine fatal nel capo tegna;
ma, se lo svelle o tronca, fia costretto
che suo mal grado fuor l'alma ne vegna.
Questo ne dice il libro; ma non come
conosca il crine in così folte chiome.

Non men de la vittoria si godea,
che se n'avesse Astolfo già la palma;
come chi speme in pochi colpi avea
svellere il crine al negromante e l'alma.
Però di quella impresa promettea
tor su gli omeri suoi tutta la salma:
Orril farà morir, quando non spiaccia
ai duo fratei, che egli la pugna faccia.

Ma quei gli danno volentier l'impresa,
certi che debbia affaticarsi invano.
Era già l'altra aurora in cielo ascesa,
quando calò dai muri Orrilo al piano.
Tra il duca e lui fu la battaglia accesa:
la mazza l'un, l'altro ha la spada in mano.
Di mille attende Astolfo un colpo trarne,
che lo spirto gli sciolga da la carne.

Or cader gli fa il pugno con la mazza,
or l'uno or l'altro braccio con la mano;
quando taglia a traverso la corazza,
e quando il va troncando a brano a brano:
ma ricogliendo sempre de la piazza
va le sue membra Orrilo, e si fa sano.
S'in cento pezzi ben l'avesse fatto,
redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto.

Al fin di mille colpi un gli ne colse
sopra le spalle ai termini del mento:
la testa e l'elmo dal capo gli tolse,
né fu d'Orrilo a dismontar più lento.
La sanguinosa chioma in man s'avolse,
e risalse a cavallo in un momento;
e la portò correndo incontra il Nilo,
che riaver non la potesse Orrilo.

Quel sciocco, che del fatto non s'accorse,
per la polve cercando iva la testa:
ma come intese il corridor via torse,
portare il capo suo per la foresta;
immantinente al suo destrier ricorse,
sopra vi sale, e di seguir non resta.
Volea gridare: - Aspetta, volta, volta! -
ma gli avea il duca già la bocca tolta.

Pur, che non gli ha tolto anco le calcagna
si riconforta, e segue a tutta briglia.
Dietro il lascia gran spazio di campagna
quel Rabican che corre a maraviglia.
Astolfo intanto per la cuticagna
va da la nuca fin sopra le ciglia
cercando in fretta, se il crine fatale
conoscer può, che Orril tiene immortale.

Fra tanti e innumerabili capelli,
un più de l'altro non si stende o torce:
qual dunque Astolfo sceglierà di quelli,
che per dar morte al rio ladron raccorce?
- Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: -
né si trovando aver rasoi né force,
ricorse immantinente alla sua spada,
che taglia sì, che si può dir che rada.

E tenendo quel capo per lo naso,
dietro e dinanzi lo dischioma tutto.
Trovò fra gli altri quel fatale a caso:
si fece il viso allor pallido e brutto,
travolse gli occhi, e dimostrò all'occaso,
per manifesti segni, esser condutto;
e il busto che seguia troncato al collo,
di sella cadde, e diè l'ultimo crollo.

Astolfo, ove le donne e i cavallieri
lasciato avea, tornò col capo in mano,
che tutti avea di morte i segni veri,
e mostrò il tronco ove giacea lontano.
Non so ben se lo vider volentieri,
ancor che gli mostrasser viso umano;
che la intercetta lor vittoria forse
d'invidia ai duo germani il petto morse.

Né che tal fin quella battuglia avesse,
credo più fosse alle due donne grato.
Queste, perché più in lungo si traesse
de' duo fratelli il doloroso fato
che in Francia par che in breve esser dovesse,
con loro Orrilo avean quivi azzuffato,
con speme di tenerli tanto a bada,
che la trista influenza se ne vada.

Tosto che il castellan di Damiata
certificossi che era morto Orrilo,
la columba lasciò, che avea legata
sotto l'ala la lettera col filo.
Quella andò al Cairo; ed indi fu lasciata
un'altra altrove, come quivi è stilo:
sì che in pochissime ore andò l'aviso
per tutto Egitto, che era Orrilo ucciso.

Il duca, come al fin trasse l'impresa,
confortò molto i nobili garzoni,
ben che da sé v'avean la voglia intesa,
né bisognavan stimuli né sproni,
che per difender de la santa Chiesa
e del romano Imperio le ragioni,
lasciasser le battaglie d'Oriente,
e cercassino onor ne la lor gente.

Così Grifone ed Aquilante tolse
ciascuno da la sua donna licenza;
le quali, ancor che lor ne 'ncrebbe e dolse,
non vi seppon però far resistenza.
Con essi Astolfo a man destra si volse;
che si deliberar far riverenza
ai santi luoghi ove Dio in carne visse,
prima che verso Francia si venisse.

Potuto avrian pigliar la via mancina,
che era più dilettevole e più piana,
e mai non si scostar da la marina;
ma per la destra andaro orrida e strana,
perché l'alta città di Palestina
per questa sei giornate è men lontana.
Acqua si truova ed erba in questa via:
di tutti gli altri ben v'è carestia.

Sì che prima che entrassero in viaggio,
ciò che lor bisognò, fecion raccorre,
e carcar sul gigante il carriaggio,
che avria portato in collo anco una torre.
Al finir del camino aspro e selvaggio,
da l'alto monte alla lor vista occorre
la santa terra, ove il superno Amore
lavò col proprio sangue il nostro errore.

Trovano in su l'entrar de la cittade
un giovene gentil, lor conoscente,
Sansonetto da Meca, oltre l'etade,
che era nel primo fior, molto prudente;
d'alta cavalleria, d'alta bontade
famoso, e riverito fra la gente.
Orlando lo converse a nostra fede,
e di sua man battesmo anco gli diede.

Quivi lo trovan che disegna a fronte
del calife d'Egitto una fortezza;
e circondar vuole il Calvario monte
di muro di duo miglia di lunghezza.
Da lui raccolti fur con quella fronte
che può d'interno amor dar più chiarezza,
e dentro accompagnati, e con grande agio
fatti alloggiar nel suo real palagio.

Avea in governo egli la terra, e in vece
di Carlo vi reggea l'imperio giusto.
Il duca Astolfo a costui dono fece
di quel sì grande e smisurato busto,
che a portar pesi gli varrà per diece
bestie da soma, tanto era robusto.
Diegli Astolfo il gigante, e diegli appresso
la rete che in sua forza l'avea messo.

Sansonetto all'incontro al duca diede
per la spada una cinta ricca e bella;
e diede spron per l'uno e l'altro piede,
che d'oro avean la fibbia e la girella;
che esser del cavallier stati si crede,
che liberò dal drago la donzella:
al Zaffo avuti con molt'altro arnese
Sansonetto gli avea, quando lo prese.

Purgati de lor colpe a un monasterio
che dava di sé odor di buoni esempi,
de la passion di Cristo ogni misterio
contemplando n'andar per tutti i tempi
che or con eterno obbrobrio e vituperio
agli cristiani usurpano i Mori empi.
L'Europa è in arme, e di far guerra agogna
in ogni parte, fuor che ove bisogna.

Mentre avean quivi l'animo divoto,
a perdonanze e a cerimonie intenti,
un peregrin di Grecia, a Grifon noto,
novelle gli arrecò gravi e pungenti,
dal suo primo disegno e lungo voto
troppo diverse e troppo differenti;
e quelle il petto gli infiammaron tanto,
che gli scacciar l'orazion da canto.

Amava il cavallier, per sua sciagura,
una donna che avea nome Orrigille:
di più bel volto e di miglior statura
non se ne sceglierebbe una fra mille;
ma disleale e di sì rea natura,
che potresti cercar cittadi e ville,
la terra ferma e l'isole del mare,
né credo che una le trovassi pare.

Ne la città di Costantin lasciata
grave l'avea di febbre acuta e fiera.
Or quando rivederla alla tornata
più che mai bella, e di goderla spera,
ode il meschin, che in Antiochia andata
dietro un suo nuovo amante ella se n'era,
non le parendo ormai di più patire
che abbia in sì fresca età sola a dormire.

Da indi in qua che ebbe la trista nuova,
sospirava Grifon notte e dì sempre.
Ogni piacer che agli altri aggrada e giova,
par che a costui più l'animo distempre:
pensilo ognun, ne li cui danni pruova
Amor, se li suoi strali han buone tempre.
Ed era grave sopra ogni martire,
che il mal che avea si vergognava a dire.

Questo, perché mille fiate inante
già ripreso l'avea di quello amore,
di lui più saggio, il fratello Aquilante,
e cercato colei trargli del core,
colei che al suo giudicio era di quante
femine rie si trovin la peggiore.
Grifon l'escusa, se il fratel la danna;
e le più volte il parer proprio inganna.

Però fece pensier, senza parlarne
con Aquilante, girsene soletto
sin dentro d'Antiochia, e quindi trarne
colei che tratto il cor gli avea del petto;
trovar colui che gli l'ha tolta, e farne
vendetta tal, che ne sia sempre detto.
Dirò, come ad effetto il pensier messe,
nell'altro canto, e ciò che ne successe.





CANTO SEDICESIMO.


Gravi pene in amor si provan molte,
di che patito io n'ho la maggior parte,
e quelle in danno mio sì ben raccolte,
che io ne posso parlar come per arte.
Però s'io dico e s'ho detto altre volte,
e quando in voce e quando in vive carte,
che un mal sia lieve, un altro acerbo e fiero,
date credenza al mio giudicio vero.

Io dico e dissi, e dirò fin che io viva,
che chi si truova in degno laccio preso,
se ben di sé vede sua donna schiva,
se in tutto aversa al suo desire acceso;
se bene Amor d'ogni mercede il priva,
poscia che il tempo e la fatica ha speso;
pur che altamente abbia locato il core,
pianger non de', se ben languisce e muore.

Pianger de' quel che già sia fatto servo
di duo vaghi occhi e d'una bella treccia,
sotto cui si nasconda un cor protervo,
che poco puro abbia con molta feccia.
Vorria il miser fuggire; e come cervo
ferito, ovunque va, porta la freccia:
ha di se stesso e del suo amor vergogna,
né l'osa dire, e invan sanarsi agogna.

In questo caso è il giovene Grifone,
che non si può emendare, e il suo error vede,
vede quanto vilmente il suo cor pone
in Orrigille iniqua e senza fede;
pur dal mal uso è vinta la ragione,
e pur l'arbitrio all'appetito cede:
perfida sia quantunque, ingrata e ria,
sforzato è di cercar dove ella sia.

Dico, la bella istoria ripigliando,
che uscì de la città secretamente,
né parlarne s'ardì col fratel, quando
ripreso invan da lui ne fu sovente.
Verso Rama, a sinistra declinando,
prese la via più piana e più corrente.
Fu in sei giorni a Damasco di Soria;
indi verso Antiochia se ne gìa.

Scontrò presso a Damasco il cavalliero
a cui donato aveva Orrigille il core:
e convenian di rei costumi in vero,
come ben si convien l'erba col fiore;
che l'uno e l'altro era di cor leggiero,
perfido l'uno e l'altro e traditore;
e copria l'uno e l'altro il suo difetto,
con danno altrui, sotto cortese aspetto.

Come io vi dico, il cavallier venìa
s'un gran destrier con molta pompa armato:
la perfida Orrigille in compagnia,
in un vestire azzur d'oro fregiato,
e duo valletti, donde si servia
a portar elmo e scudo, aveva allato;
come quel che volea con bella mostra
comparire in Damasco ad una giostra.

Una splendida festa che bandire
fece il re di Damasco in quelli giorni,
era cagion di far quivi venire
i cavallier quanto potean più adorni.
Tosto che la puttana comparire
vede Grifon, ne teme oltraggi e scorni:
sa che l'amante suo non è sì forte,
che contra lui l'abbia a campar da morte.

Ma sì come audacissima e scaltrita,
ancor che tutta di paura trema,
s'acconcia il viso, e sì la voce aita,
che non appar in lei segno di tema.
Col drudo avendo già l'astuzia ordita,
corre, e fingendo una letizia estrema,
verso Grifon l'aperte braccia tende,
lo stringe al collo, e gran pezzo ne pende.

Dopo, accordando affettuosi gesti
alla suavità de le parole,
dicea piangendo: - Signor mio, son questi
debiti premi a chi t'adora e cole?
che sola senza te già un anno resti,
e va per l'altro, e ancor non te ne duole?
E s'io stava aspettare il suo ritorno,
non so se mai veduto avrei quel giorno!

Quando aspettava che di Nicosia,
dove tu te n'andasti alla gran corte,
tornassi a me che con la febbre ria
lasciata avevi in dubbio de la morte,
intesi che passato eri in Soria:
il che a patir mi fu sì duro e forte,
che non sapendo come io ti seguissi,
quasi il cor di man propria mi traffissi.

Ma Fortuna di me con doppio dono
mostra d'aver, quel che non hai tu, cura:
mandommi il fratel mio, col quale io sono
sin qui venuta del mio onor sicura;
ed or mi manda questo incontro buono
di te, che io stimo sopra ogni aventura:
e bene a tempo il fa; che più tardando,
morta sarei, te, signor mio, bramando. -

E seguitò la donna fraudolente,
di cui l'opere fur più che di volpe,
la sua querela così astutamente,
che riversò in Grifon tutte le colpe.
Gli fa stimar colui, non che parente,
ma che d'un padre seco abbia ossa e polpe:
e con tal modo sa tesser gli inganni,
che men verace par Luca e Giovanni.

Non pur di sua perfidia non riprende
Grifon la donna iniqua più che bella;
non pur vendetta di colui non prende,
che fatto s'era adultero di quella:
ma gli par far assai, se si difende
che tutto il biasmo in lui non riversi ella;
e come fosse suo cognato vero,
d'accarezzar non cessa il cavalliero.

E con lui se ne vien verso le porte
di Damasco, e da lui sente tra via,
che là dentro dovea splendida corte
tenere il ricco re de la Soria;
e che ognun quivi, di qualunque sorte,
o sia cristiano, o d'altra legge sia,
dentro e di fuori ha la città sicura
per tutto il tempo che la festa dura.

Non però son di seguitar sì intento
l'istoria de la perfida Orrigille,
che a' giorni suoi non pur un tradimento
fatto agli amanti avea, ma mille e mille;
che io non ritorni a riveder dugento
mila persone, o più de le scintille
del fuoco stuzzicato, ove alle mura
di Parigi facean danno e paura.

Io vi lasciai, come assaltato avea
Agramante una porta de la terra,
che trovar senza guardia si credea:
né più riparo altrove il passo serra;
perché in persona Carlo la tenea,
ed avea seco i mastri de la guerra,
duo Guidi, duo Angelini; uno Angeliero,
Avino, Avolio, Otone e Berlingiero.

Inanzi a Carlo, inanzi al re Agramante
l'un stuolo e l'altro si vuol far vedere,
ove gran loda, ove mercé abondante
si può acquistar, facendo il suo dovere.
I Mori non però fer pruove tante,
che par ristoro al danno abbiano avere;
perché ve ne restar morti parecchi,
che agli altri fur di folle audacia specchi.

Grandine sembran le spesse saette
dal muro sopra gli nimici sparte.
Il grido insin al ciel paura mette,
che fa la nostra e la contraria parte.
Ma Carlo un poco ed Agramante aspette;
che io vo' cantar de l'africano Marte,
Rodomonte terribile ed orrendo,
che va per mezzo la città correndo.

Non so, Signor, se più vi ricordiate,
di questo Saracin tanto sicuro,
che morte le sue genti avea lasciate
tra il secondo riparo e il primo muro,
da la rapace fiamma devorate,
che non fu mai spettacolo più oscuro.
Dissi che entrò d'un salto ne la terra
sopra la fossa che la cinge e serra.

Quando fu noto il Saracino atroce
all'arme istrane, alla scagliosa pelle,
là dove i vecchi e il popul men feroce
tendean l'orecchie a tutte le novelle,
levossi un pianto, un grido, un'alta voce,
con un batter di man che andò alle stelle;
e chi poté fuggir non vi rimase,
per serrarsi ne' templi e ne le case.

Ma questo a pochi il brando rio conciede,
che intorno ruota il Saracin robusto.
Qui fa restar con mezza gamba un piede,
là fa un capo sbalzar lungi dal busto;
l'un tagliare a traverso se gli vede,
dal capo all'anche un altro fender giusto:
e di tanti che uccide, fere e caccia,
non se gli vede alcun segnare in faccia.

Quel che la tigre de l'armento imbelle
ne' campi ircani o là vicino al Gange,
o il lupo de le capre e de l'agnelle
nel monte che Tifeo sotto si frange;
quivi il crudel pagan facea di quelle
non dirò squadre, non dirò falange,
ma vulgo e populazzo voglio dire,
degno, prima che nasca, di morire.

Non ne trova un che veder possa in fronte,
fra tanti che ne taglia, fora e svena.
Per quella strada che vien dritto al ponte
di san Michel, sì popolata e piena,
corre il fiero e terribil Rodomonte,
e la sanguigna spada a cerco mena:
non riguarda né al servo né al signore,
né al giusto ha più pietà che al peccatore.

Religion non giova al sacerdote,
né la innocenza al pargoletto giova:
per sereni occhi o per vermiglie gote
mercé né donna né donzella truova:
la vecchiezza si caccia e si percuote;
né quivi il Saracin fa maggior pruova
di gran valor, che di gran crudeltade;
che non discerne sesso, ordine, etade.

Non pur nel sangue uman l'ira si stende
de l'empio re, capo e signor degli empi,
ma contra i tetti ancor, sì che n'incende
le belle case e i profanati tempi.
Le case eran, per quel che se n'intende,
quasi tutte di legno in quelli tempi:
e ben creder si può; che in Parigi ora
de le diece le sei son così ancora.

Non par, quantunque il fuoco ogni cosa arda,
che sì grande odio ancor saziar si possa.
Dove s'aggrappi con le mani, guarda,
sì che ruini un tetto ad ogni scossa.
Signor, avete a creder che bombarda
mai non vedeste a Padova sì grossa,
che tanto muro possa far cadere,
quanto fa in una scossa il re d'Algiere.

Mentre quivi col ferro il maledetto
e con le fiamme facea tanta guerra,
se di fuor Agramante avesse astretto,
perduta era quel dì tutta la terra.
ma non v'ebbe agio; che gli fu interdetto
dal paladin che venìa d'Inghilterra
col populo alle spalle inglese e scotto,
dal Silenzio e da l'angelo condotto.

Dio volse che all'entrar che Rodomonte
fe' ne la terra, e tanto fuoco accese,
che presso ai muri il fior di Chiaramonte,
Rinaldo, giunse, e seco il campo inglese.
Tre leghe sopra avea gittato il ponte,
e torte vie da man sinistra prese;
che disegnando i barbari assalire,
il fiume non l'avesse ad impedire.

Mandato avea seimila fanti arcieri
sotto l'altiera insegna d'Odoardo,
e duomila cavalli, e più, leggieri
dietro alla guida d'Ariman gagliardo;
e mandati gli avea per li sentieri
che vanno e vengon dritto al mar picardo,
che a porta San Martino e San Dionigi
entrassero a soccorso di Parigi.

I cariaggi e gli altri impedimenti
con lor fece drizzar per questa strada.
Egli con tutto il resto de le genti
più sopra andò girando la contrada.
Seco avean navi e ponti ed argumenti
da passar Senna che non ben si guada.
Passato ognuno, e dietro i ponti rotti,
ne le lor schiere ordinò Inglesi e Scotti.

Ma prima quei baroni e capitani
Rinaldo intorno avendosi ridutti,
sopra la riva che alta era dai piani
sì, che poteano udirlo e veder tutti,
disse: - Signor, ben a levar le mani
avete a Dio, che qui v'abbia condutti,
acciò, dopo un brevissimo sudore,
sopra ogni nazion vi doni onore.

Per voi saran dui principi salvati,
se levate l'assedio a quelle porte:
il vostro re, che voi sete ubligati
da servitù difendere e da morte;
ed uno imperator de' più lodati
che mai tenuto al mondo abbiano corte;
e con loro altri re, duci e marchesi,
signori e cavallier di più paesi.

Sì che, salvando una città, non soli
Parigini ubligati vi saranno,
che molto più che per li propri duoli,
timidi, afflitti e sbigottiti stanno
per le lor mogli e per li lor figliuoli
che a un medesmo pericolo seco hanno,
e per le sante vergini richiuse,
che oggi non sien dei voti lor deluse:

dico, salvando voi questa cittade,
v'ubligate non solo i Parigini,
ma d'ogn'intorno tutte le contrade.
Non parlo sol dei populi vicini;
ma non è terra per Cristianitade,
che non abbia qua dentro cittadini:
sì che, vincendo, avete da tenere
che più che Francia v'abbia obligo avere.

Se donavan gli antiqui una corona
a chi salvasse a un cittadin la vita,
or che degna mercede a voi si dona,
salvando multitudine infinita?
Ma se da invidia o da viltà sì buona
e sì santa opra rimarrà impedita,
credetemi che prese quelle mura,
né Italia né Lamagna anco è sicura;

né qualunque altra parte ove s'adori
quel che volse per noi pender sul legno.
Né voi crediate aver lontani i Mori,
né che pel mar sia forte il vostro regno:
che s'altre volte quelli, uscendo fuori
di Zibeltaro e de l'Erculeo segno,
riportar prede da l'isole vostre,
che faranno or, s'avran le terre nostre?

Ma quando ancor nessuno onor, nessuno
util v'inanimasse a questa impresa,
commun debito è ben soccorrer l'uno
l'altro, che militiàn sotto una Chiesa.
Che io non vi dia rotti i nemici, alcuno
non sia chi tema, e con poca contesa;
che gente male esperta tutta parmi,
senza possanza, senza cor, senz'armi. -

Poté con queste e con miglior ragioni,
con parlare espedito e chiara voce
eccitar quei magnanimi baroni
Rinaldo, e quello esercito feroce:
e fu, com'è in proverbio, aggiunger sproni
al buon corsier che già ne va veloce.
Finito il ragionar, fece le schiere
muover pian pian sotto le lor bandiere.

Senza strepito alcun, senza rumore
fa il tripartito esercito venire:
lungo il fiume a Zerbin dona l'onore
di dover prima i barbari assalire;
e fa quelli d'Irlanda con maggiore
volger di via più tra campagna gire;
e i cavallieri e i fanti d'Inghilterra
col duca di Lincastro in mezzo serra.

Drizzati che gli ha tutti al lor camino,
cavalca il paladin lungo la riva,
e passa inanzi al buon duca Zerbino
e a tutto il campo che con lui veniva;
tanto che al re d'Orano e al re Sobrino
e agli altri lor compagni soprarriva,
che mezzo miglio appresso a quei di Spagna
guardavan da quel canto la campagna.

L'esercito cristian che con sì fida
e sì sicura scorta era venuto,
che ebbe il Silenzio e l'angelo per guida,
non poté ormai patir più di star muto.
Sentiti gli nimici, alzò le grida,
e de le trombe udir fe' il suono arguto:
e con l'alto rumor che arrivò al cielo,
mandò ne l'ossa a' Saracini il gelo.

Rinaldo inanzi agli altri il destrier punge;
e con la lancia per cacciarla in resta
lascia gli Scotti un tratto d'arco lunge,
che ogni indugio a ferir sì lo molesta.
Come groppo di vento talor giunge,
che si tra' dietro un'orrida tempesta,
tal fuor di squadra il cavallier gagliardo
venìa spronando il corridor Baiardo.

Al comparir del paladin di Francia,
dan segno i Mori alle future angosce:
tremare a tutti in man vedi la lancia,
i piedi in staffa, e ne l'arcion le cosce.
Re Puliano sol non muta guancia,
che questo esser Rinaldo non conosce;
né pensando trovar sì duro intoppo,
gli muove il destrier contra di galoppo:

e su la lancia nel partir si stringe,
e tutta in sé raccoglie la persona;
poi con ambo gli sproni il destrier spinge,
e le redine inanzi gli abandona.
Da l'altra parte il suo valor non finge,
e mostra in fatti quel che in nome suona,
quanto abbia nel giostrare e grazia ed arte,
il figliuolo d'Amone, anzi di Marte.

Furo al segnar degli aspri colpi, pari,
che si posero i ferri ambi alla testa:
ma furo in arme ed in virtù dispari,
che l'un via passa, e l'altro morto resta.
Bisognan di valor segni più chiari,
che por con leggiadria la lancia in resta:
ma fortuna anco più bisogna assai;
che senza, val virtù raro o non mai.

La buona lancia il paladin racquista,
e verso il re d'Oran ratto si spicca,
che la persona avea povera e trista
di cor, ma d'ossa e di gran polpe ricca.
Questo por tra bei colpi si può in lista,
ben che in fondo allo scudo gli l'appicca:
e chi non vuol lodarlo, abbialo escuso,
perché non si potea giunger più in suso.

Non lo ritien lo scudo, che non entre,
ben che fuor sia d'acciar, dentro di palma;
e che da quel gran corpo uscir pel ventre
non faccia l'inequale e piccola alma.
Il destrier che portar si credea, mentre
durasse il lungo dì, sì grave salma,
riferì in mente sua grazie a Rinaldo,
che a quello incontro gli schivò un gran caldo.

Rotta l'asta, Rinaldo il destrier volta
tanto legger, che fa sembrar che abbia ale;
e dove la più stretta e maggior folta
stiparsi vede, impetuoso assale.
Mena Fusberta sanguinosa in volta
che fa l'arme parer di vetro frale:
tempra di ferro il suo tagliar non schiva,
che non vada a trovar la carne viva.

Ritrovar poche tempre e pochi ferri
può la tagliente spada, ove s'incappi,
ma targhe, altre di cuoio, altre di cerri,
giupe trapunte e attorcigliati drappi.
Giusto è ben dunque che Rinaldo atterri
qualunque assale, e fori e squarci e affrappi;
che non più si difende da sua spada,
che erba da falce, o da tempesta biada.

La prima schiera era già messa in rotta,
quando Zerbin con l'antiguardia arriva.
Il cavallier inanzi alla gran frotta
con la lancia arrestata ne veniva.
La gente sotto il suo pennon condotta,
con non minor fierezza lo seguiva:
tanti lupi parean, tanti leoni
che andassero assalir capre o montoni.

Spinse a un tempo ciascuno il suo cavallo,
poi che fur presso; e sparì immantinente
quel breve spazio, quel poco intervallo
che si vedea fra l'una e l'altra gente.
Non fu sentito mai più strano ballo;
che ferian gli Scozzesi solamente:
solamente i pagani eran distrutti,
come sol per morir fosser condutti.

Parve più freddo ogni pagan che ghiaccio;
parve ogni Scotto più che fiamma caldo.
I Mori si credean che avere il braccio
dovesse ogni cristian, che ebbe Rinaldo.
Mosse Sobrino i suoi schierati avaccio,
senza aspettar che lo 'nvitasse araldo:
de l'altra squadra questa era migliore
di capitano, d'arme e di valore.

D'Africa v'era la men trista gente;
ben che né questa ancor gran prezzo vaglia.
Dardinel la sua mosse incontinente,
e male armata, e peggio usa in battaglia;
ben che egli in capo avea l'elmo lucente,
e tutto era coperto a piastra e a maglia.
Io credo che la quarta miglior sia,
con la qual Isolier dietro venìa.

Trasone intanto, il buon duca di Marra,
che ritrovarsi all'alta impresa gode,
ai cavallieri suoi leva la sbarra,
e seco invita alle famose lode,
poi che Isolier con quelli di Navarra
entrar ne la battaglia vede ed ode.
Poi mosse Ariodante la sua schiera,
che nuovo duca d'Albania fatt'era.

L'alto rumor de le sonore trombe,
de' timpani e de' barbari stromenti,
giunti al continuo suon d'archi, di frombe,
di machine, di ruote e di tormenti;
e quel di che più par che il ciel ribombe,
gridi, tumulti, gemiti e lamenti;
rendeno un alto suon che a quel s'accorda,
con che i vicin, cadendo, il Nilo assorda.

Grande ombra d'ogn'intorno il cielo involve,
nata dal saettar de li duo campi;
l'alito, il fumo del sudor, la polve
par che ne l'aria oscura nebbia stampi.
Or qua l'un campo, or l'altro là si volve:
vedresti or come un segua, or come scampi;
ed ivi alcuno, o non troppo diviso,
rimaner morto ove ha il nimico ucciso.

Dove una squadra per stanchezza è mossa,
un'altra si fa tosto andare inanti.
Di qua di là la gente d'arme ingrossa:
là cavallieri, e qua si metton fanti.
La terra che sostien l'assalto, è rossa:
mutato ha il verde ne' sanguigni manti;
e dov'erano i fiori azzurri e gialli,
giaceno uccisi or gli uomini e i cavalli.

Zerbin facea le più mirabil pruove
che mai facesse di sua età garzone:
l'esercito pagan che 'ntorno piove,
taglia ed uccide e mena a destruzione.
Ariodante alle sue genti nuove
mostra di sua virtù gran paragone;
e dà di sé timore e meraviglia
a quelli di Navarra e di Castiglia.

Chelindo e Mosco, i duo figli bastardi
del morto Calabrun re d'Aragona,
ed un che reputato fra' gagliardi
era, Calamidor da Barcelona,
s'avean lasciato a dietro gli stendardi;
e credendo acquistar gloria e corona
per uccider Zerbin, gli furo adosso;
e ne' fianchi il destrier gli hanno percosso.

Passato da tre lance il destrier morto
cade; ma il buon Zerbin subito è in piede;
che a quei che al suo cavallo han fatto torto,
per vendicarlo va dove gli vede:
e prima a Mosco, al giovene inaccorto,
che gli sta sopra, e di pigliar sel crede,
mena di punta, e lo passa nel fianco,
e fuor di sella il caccia freddo e bianco.

Poi che si vide tor, come di furto,
Chelindo il fratel suo, di furor pieno
venne a Zerbino, e pensò dargli d'urto;
ma gli prese egli il corridor pel freno:
trasselo in terra, onde non è mai surto,
e non mangiò mai più biada né fieno;
che Zerbin sì gran forza a un colpo mise,
che lui col suo signor d'un taglio uccise.

Come Calamidor quel colpo mira,
volta la briglia per levarsi in fretta;
ma Zerbin dietro un gran fendente tira,
dicendo: - Traditore, aspetta, aspetta! -
Non va la botta ove n'andò la mira,
non che però lontana vi si metta;
lui non poté arrivar, ma il destrier prese
sopra la groppa, e in terra lo distese.

Colui lascia il cavallo, e via carpone
va per campar, ma poco gli successe;
che venne caso che il duca Trasone
gli passò sopra, e col peso l'oppresse.
Ariodante e Lurcanio si pone
dove Zerbino è fra le genti spesse;
e seco hanno altri e cavallieri e conti,
che fanno ogn'opra che Zerbin rimonti.

Menava Ariodante il brando in giro,
e ben lo seppe Artalico e Margano;
ma molto più Etearco e Casimiro
la possanza sentir di quella mano:
i primi duo feriti se ne giro,
rimaser gli altri duo morti sul piano.
Lurcanio fa veder quanto sia forte;
che fere, urta, riversa e mette a morte.

Non crediate, Signor, che fra campagna
pugna minor che presso al fiume sia,
né che a dietro l'esercito rimagna,
che di Lincastro il buon duca seguia.
Le bandiere assalì questo di Spagna,
e molto ben di par la cosa gìa;
che fanti, cavallieri e capitani
di qua e di là sapean menar le mani.

Dinanzi vien Oldrado e Fieramonte,
un duca di Glocestra, un d'Eborace;
con lor Ricardo, di Varvecia conte,
e di Chiarenza il duca, Enrigo audace.
Han Matalista e Follicone a fronte,
e Baricondo ed ogni lor seguace.
Tiene il primo Almeria, tiene il secondo
Granata, tien Maiorca Baricondo.

La fiera pugna un pezzo andò di pare,
che vi si discernea poco vantaggio.
Vedeasi or l'uno or l'altro ire e tornare,
come le biade al ventolin di maggio,
o come sopra il lito un mobil mare
or viene or va, né mai tiene un viaggio.
Poi che fortuna ebbe scherzato un pezzo,
dannosa ai Mori ritornò da sezzo.

Tutto in un tempo il duca di Glocestra
a Matalista fa votar l'arcione;
ferito a un tempo ne la spalla destra
Fieramonte riversa Follicone:
e l'un pagano e l'altro si sequestra,
e tra gli Inglesi se ne va prigione.
E Baricondo a un tempo riman senza
vita per man del duca di Chiarenza.

Indi i pagani tanto a spaventarsi,
indi i fedeli a pigliar tanto ardire,
che quei non facean altro che ritrarsi
e partirsi da l'ordine e fuggire,
e questi andar inanzi ed avanzarsi
sempre terreno, e spingere e seguire:
e se non vi giungea chi lor dié aiuto,
il campo da quel lato era perduto.

Ma Ferraù, che sin qui mai non s'era
dal re Marsilio suo troppo disgiunto,
quando vide fuggir quella bandiera,
e l'esercito suo mezzo consunto,
spronò il cavallo, e dove ardea più fiera
la battaglia, lo spinse; e arrivò a punto
che vide dal destrier cadere in terra
col capo fesso Olimpio da la Serra;

un giovinetto che col dolce canto,
concorde al suon de la cornuta cetra,
d'intenerire un cor si dava vanto,
ancor che fosse più duro che pietra.
Felice lui, se contentar di tanto
onor sapeasi, e scudo, arco e faretra
aver in odio, e scimitarra e lancia,
che lo fecer morir giovine in Francia!

Quando lo vide Ferraù cadere,
che solea amarlo e avere in molta estima,
si sente di lui sol via più dolere,
che di mill'altri che periron prima:
e sopra chi l'uccise in modo fere,
che gli divide l'elmo da la cima
per la fronte, per gli occhi e per la faccia,
per mezzo il petto, e morto a terra il caccia.

Ne qui s'indugia; e il brando intorno ruota,
che ogni elmo rompe, ogni lorica smaglia;
a chi segna la fronte, a chi la gota,
ad altri il capo, ad altri il braccio taglia;
or questo or quel di sangue e d'alma vota:
e ferma da quel canto la battaglia,
onde la spaventata ignobil frotta
senza ordine fuggia spezzata e rotta.

Entrò ne la battaglia il re Agramante,
d'uccider gente e di far pruove vago;
e seco ha Baliverzo, Farurante,
Prusion, Soridano e Bambirago.
Poi son le genti senza nome tante,
che del lor sangue oggi faranno un lago,
che meglio conterei ciascuna foglia,
quando l'autunno gli arbori ne spoglia.

Agramante dal muro una gran banda
di fanti avendo e di cavalli tolta,
col re di Feza subito li manda,
che dietro ai padiglion piglin la volta,
e vadano ad opporsi a quei d'Irlanda,
le cui squadre vedea con fretta molta,
dopo gran giri e larghi avolgimenti,
venir per occupar gli alloggiamenti.

Fu il re di Feza ad esequir ben presto;
che ogni tardar troppo nociuto avria.
Raguna intanto il re Agramante il resto;
parte le squadre, e alla battaglia invia.
Egli va al fiume; che gli par che in questo
luogo del suo venir bisogno sia:
e da quel canto un messo era venuto
del re Sobrino a domandare aiuto.

Menava in una squadra più di mezzo
il campo dietro; e sol del gran rumore
tremar gli Scotti, e tanto fu il ribrezzo,
che abbandonavan l'ordine e l'onore.
Zerbin, Lurcanio e Ariodante in mezzo
vi restar soli incontra a quel furore;
e Zerbin, che era a pié, vi peria forse,
mail buon Rinaldo a tempo se n'accorse.

Altrove intanto il paladin s'avea
fatto inanzi fuggir cento bandiere.
Or che l'orecchie la novella rea
del gran periglio di Zerbin gli fere,
che a piedi fra la gente cirenea
lasciato solo aveano le sue schiere,
volta il cavallo, e dove il campo scotto
vede fuggir, prende la via di botto.

Dove gli Scotti ritornar fuggendo
vede, s'appara, e grida: - Or dove andate?
perché tanta viltade in voi comprendo,
che a sì vil gente il campo abbandonate?
Ecco le spoglie, de le quali intendo
che esser dovean le vostre chiese ornate.
Oh che laude, oh che gloria, che il figliuolo
del vostro re si lasci a piedi e solo! -

D'un suo scudier una grossa asta afferra,
e vede Prusion poco lontano,
re d'Alvaracchie, e adosso se gli serra,
e de l'arcion lo porta morto al piano.
Morto Agricalte e Bambirago atterra:
dopo fere aspramante Soridano;
e come gli altri l'avria messo a morte,
se nel ferir la lancia era più forte.

Stringe Fusberta, poi che l'asta è rotta,
e tocca Serpentin, quel da la Stella.
Fatate l'arme avea, ma quella botta
pur tramortito il manda fuor di sella.
E così al duca de la gente scotta
fa piazza intorno spaziosa e bella;
sì che senza contesa un destrier puote
salir di quei che vanno a selle vote.

E ben si ritrovò salito a tempo,
che forse nol facea, se più tardava:
perché Agramante e Dardinello a un tempo,
Sobrin col re Balastro v'arrivava.
Ma egli, che montato era per tempo,
di qua e di là col brando s'aggirava,
mandando or questo or quel giù ne l'inferno
a dar notizia del viver moderno.

Il buon Rinaldo, il quale a porre in terra
i più dannosi avea sempre riguardo,
la spada contra il re Agramante afferra,
che troppo gli parea fiero e gagliardo
(facea egli sol più che mille altri guerra);
e se gli spinse adosso con Baiardo:
lo fere a un tempo ed urta di traverso,
sì che lui col destrier manda riverso.

Mentre di fuor con sì crudel battaglia,
odio, rabbia, furor l'un l'altro offende,
Rodomonte in Parigi il popul taglia,
le belle case e i sacri templi accende.
Carlo, che in altra parte si travaglia,
questo non vede, e nulla ancor ne 'ntende:
Odoardo raccoglie ed Arimanno
ne la città, col lor popul britanno.

A lui venne un scudier pallido in volto,
che potea a pena trar del petto il fiato.
- Ahimè! signor, ahimè - replica molto,
prima che abbia a dir altro incominciato:
- Oggi il romano Imperio, oggi è sepolto;
oggi ha il suo popul Cristo abandonato:
il demonio dal cielo è piovuto oggi,
perché in questa città più non s'alloggi.

Satanasso (perche altri esser non puote)
strugge e ruina la città infelice.
Volgiti e mira le fumose ruote
de la rovente fiamma predatrice;
ascolta il pianto che nel ciel percuote;
e faccian fede a quel che il servo dice.
Un solo è quel che a ferro e a fuoco strugge
la bella terra, e inanzi ognun gli fugge. -

Quale è colui che prima oda il tumulto,
e de le sacre squille il batter spesso,
che vegga il fuoco a nessun altro occulto,
che a sé, che più gli tocca, e gli è più presso;
tal è il re Carlo, udendo il nuovo insulto,
e conoscendol poi con l'occhio istesso:
onde lo sforzo di sua miglior gente
al grido drizza e al gran rumor che sente.

Dei paladini e dei guerrier più degni
Carlo si chiama dietro una gran parte,
e vêr la piazza fa drizzare i segni;
che il pagan s'era tratto in quella parte.
Ode il rumor, vede gli orribil segni
di crudeltà, l'umane membra sparte.
Ora non più: ritorni un'altra volta
chi voluntier la bella istoria ascolta.





CANTO DICIASSETTESIMO.


Il giusto Dio, quando i peccati nostri
hanno di remission passato il segno,
acciò che la giustizia sua dimostri
uguale alla pietà, spesso dà regno
a tiranni atrocissimi ed a mostri,
e dà lor forza e di mal fare ingegno.
Per questo Mario e Silla pose al mondo,
e duo Neroni e Caio furibondo,

Domiziano e l'ultimo Antonino;
e tolse da la immonda e bassa plebe,
ed esaltò all'imperio Massimino;
e nascer prima fe' Creonte a Tebe;
e dié Mezenzio al populo Agilino,
che fe' di sangue uman grasse le glebe;
e diede Italia a tempi men remoti
in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti.

Che d'Atila dirò? che de l'iniquo
Ezzellin da Roman? che d'aItri cento?
che dopo un lungo andar sempre in obliquo,
ne manda Dio per pena e per tormento.
Di questo abbiàn non pur al tempo antiquo,
ma ancora al nostro, chiaro esperimento,
quando a noi, greggi inutili e malnati,
ha dato per guardian lupi arrabbiati:

a cui non par che abbi a bastar lor fame,
che abbi il lor ventre a capir tanta carne;
e chiaman lupi di più ingorde brame
da boschi oltramontani a divorarne.
Di Trasimeno l'insepulto ossame
e di Canne e di Trebia poco parne
verso quel che le ripe e i campi ingrassa,
dov'Ada e Mella e Ronco e Tarro passa.

Or Dio consente che noi siàn puniti
da populi di noi forse peggiori,
per li multiplicati ed infiniti
nostri nefandi, obbrobriosi errori.
Tempo verrà che a depredar lor liti
andremo noi, se mai saren migliori,
e che i peccati lor giungano al segno,
che l'eterna Bontà muovano a sdegno.

Doveano allora aver gli eccessi loro
di Dio turbata la serena fronte,
che scórse ogni lor luogo il Turco e il Moro
con stupri, uccision, rapine ed onte:
ma più di tutti gli altri danni, foro
gravati dal furor di Rodomonte.
Dissi che ebbe di lui la nuova Carlo,
e che 'n piazza venia per ritrovarlo.

Vede tra via la gente sua troncata,
arsi i palazzi, e ruinati i templi,
gran parte de la terra desolata;
mai non si vider sì crudeli esempli.
- Dove fuggite, turba spaventata?
Non è tra voi chi il danno suo contempli?
Che città, che refugio più vi resta,
quando si perda sì vilmente questa?

Dunque un uom solo in vostra terra preso,
cinto di mura onde non può fuggire,
si partirà che non l'avrete offeso,
quando tutti v'avrà fatto morire? -
Così Carlo dicea, che d'ira acceso
tanta vergogna non potea patire.
E giunse dove inanti alla gran corte
vide il pagan por la sua gente a morte.

Quivi gran parte era del populazzo,
sperandovi trovare aiuto, ascesa;
perché forte di mura era il palazzo,
con munizion da far lunga difesa.
Rodomonte, d'orgoglio e d'ira pazzo,
solo s'avea tutta la piazza presa:
e l'una man, che prezza il mondo poco,
ruota la spada, e l'altra getta il fuoco.

E de la regal casa, alta e sublime,
percuote e risuonar fa le gran porte.
Gettan le turbe da le eccelse cime
e merli e torri, e si metton per morte.
Guastare i tetti non è alcun che stime;
e legne e pietre vanno ad una sorte,
lastre e colonne, e le dorate travi
che furo in prezzo agli lor padri e agli avi.

Sta su la porta il re d'Algier, lucente
di chiaro acciar che il capo gli arma e il busto,
come uscito di tenebre serpente,
poi c'ha lasciato ogni squalor vetusto,
del nuovo scoglio altiero, e che si sente
ringiovenito e più che mai robusto:
tre lingue vibra, ed ha negli occhi foco;
dovunque passa, ogn'animal dà loco.

Non sasso, merlo, trave, arco o balestra,
né ciò che sopra il Saracin percuote,
ponno allentar la sanguinosa destra
che la gran porta taglia, spezza e scuote:
e dentro fatto v'ha tanta finestra,
che ben vedere e veduto esser puote
dai visi impressi di color di morte,
che tutta piena quivi hanno la corte.

Suonar per gli alti e spaziosi tetti
s'odono gridi e feminil lamenti:
l'afflitte donne, percotendo i petti,
corron per casa pallide e dolenti;
e abbraccian gli usci e i geniali letti
che tosto hanno a lasciare a strane genti.
Tratta la cosa era in periglio tanto,
quando il re giunse, e suoi baroni accanto.

Carlo si volse a quelle man robuste
che ebbe altre volte a gran bisogni pronte.
- Non sète quelli voi, che meco fuste
contra Agolante (disse) in Aspramonte?
Sono le forze vostre ora sì fruste,
che, s'uccideste lui, Troiano e Almonte
con centomila, or ne temete un solo
pur di quel sangue e pur di quello stuolo?

Perché debbo vedere in voi fortezza
ora minor che io la vedessi allora?
Mostrate a questo can vostra prodezza,
a questo can che gli uomini devora.
Un magnanimo cor morte non prezza,
presta o tarda che sia, pur che ben muora.
Ma dubitar non posso ove voi sète,
che fatto sempre vincitor m'avete. -

Al fin de le parole urta il destriero,
con l'asta bassa, al Saracino adosso.
Mossesi a un tratto il paladino Ugiero,
a un tempo Namo ed Ulivier si è mosso,
Avino, Avolio, Otone e Berlingiero,
che un senza l'altro mai veder non posso:
e ferir tutti sopra a Rodomonte
e nel petto e nei fianchi e ne la fronte.

Ma lasciamo, per Dio, Signore, ormai
di parlar d'ira e di cantar di morte;
e sia per questa volta detto assai
del Saracin non men crudel che forte:
che tempo è ritornar dov'io lasciai
Grifon, giunto a Damasco in su le porte
con Orrigille perfida, e con quello
che adulter era, e non di lei fratello.

De le più ricche terre di Levante,
de le più populose e meglio ornate
si dice esser Damasco, che distante
siede a Ierusalem sette giornate,
in un piano fruttifero e abondante,
non men giocondo il verno, che l'estate.
A questa terra il primo raggio tolle
de la nascente aurora un vicin colle.

Per la città duo fiumi cristallini
vanno inaffiando per diversi rivi
un numero infinito di giardini,
non mai di fior, non mai di fronde privi.
Dicesi ancor, che macinar molini
potrian far l'acque lanfe che son quivi;
e chi va per le vie vi sente, fuore
di tutte quelle case, uscire odore.

Tutta coperta è la strada maestra
di panni di diversi color lieti;
e d'odorifera erba, e di silvestra
fronda la terra e tutte le pareti.
Adorna era ogni porta, ogni finestra
di finissimi drappi e di tapeti,
ma più di belle e ben ornate donne
di ricche gemme e di superbe gonne.

Vedeasi celebrar dentr'alle porte,
in molti lochi, solazzevol balli;
il popul, per le vie, di miglior sorte
maneggiar ben guarniti e bei cavalli:
facea più bel veder la ricca corte
de' signor, de' baroni e de' vasalli,
con ciò che d'India e d'eritree maremme
di perle aver si può, d'oro e di gemme.

Venia Grifone e la sua compagnia
mirando e quinci e quindi il tutto ad agio,
quando fermolli un cavalliero in via,
e gli fece smontare a un suo palagio;
e per l'usanza e per sua cortesia
di nulla lasciò lor patir disagio.
Li fe' nel bagno entrar, poi con serena
fronte gli accolse a sontuosa cena.

E narrò lor come il re Norandino,
re di Damasco e di tutta Soria,
fatto avea il paesano e il peregrino
che ordine avesse di cavalleria,
alla giostra invitar, che al matutino
del dì sequente in piazza si faria;
e che s'avean valor pari al sembiante,
potrian mostrarlo senza andar più inante.

Ancor che quivi non venne Grifone
a questo effetto, pur lo 'nvito tenne;
che qual volta se n'abbia occasione,
mostrar virtude mai non disconvenne.
Interrogollo poi de la cagione
di quella festa, e s'ella era solenne
usata ogn'anno, o pure impresa nuova
del re che i suoi veder volesse in pruova.

Rispose il cavallier: - La bella festa
s'ha da far sempre ad ogni quarta luna:
de l'altre che verran, la prima è questa:
ancora non se n'è fatta più alcuna.
Sarà in memoria che salvò la testa
il re in tal giorno da una gran fortuna,
dopo che quattro mesi in doglie e 'n pianti
sempre era stato, e con la morte inanti.

Ma per dirvi la cosa pienamente,
il nostro re, che Norandin s'appella,
molti e molt'anni ha avuto il core ardente
de la leggiadra e sopra ogn'altra bella
figlia del re di Cipro: e finalmente
avutala per moglie, iva con quella,
con cavallieri e donne in compagnia;
e dritto avea il camin verso Soria.

Ma poi che fummo tratti a piene vele
lungi dal porto nel Carpazio iniquo,
la tempesta saltò tanto crudele,
che sbigottì sin al padrone antiquo.
Tre dì e tre notti andammo errando ne le
minacciose onde per camino obliquo.
Uscimo al fin nel lito stanchi e molli,
tra freschi rivi, ombrosi e verdi colli.

Piantare i padiglioni, e le cortine
fra gli arbori tirar facemo lieti.
S'apparechiano i fuochi e le cucine;
le mense d'altra parte in su tapeti.
Intanto il re cercando alle vicine
valli era andato e a' boschi più secreti,
se ritrovasse capre o daini o cervi;
e l'arco gli portar dietro duo servi.

Mentre aspettamo, in gran piacer sedendo,
che da cacciar ritorni il signor nostro,
vedemo l'Orco a noi venir correndo
lungo il lito del mar, terribil mostro.
Dio vi guardi, signor, che il viso orrendo
de l'Orco agli occhi mai vi sia dimostro:
meglio è per fama aver notizia d'esso,
che andargli, si che lo veggiate, appresso.

Non gli può comparir quanto sia lungo,
sì smisuratamente è tutto grosso.
In luogo d'occhi, di color di fungo
sotto la fronte ha duo coccole d'osso.
Verso noi vien (come vi dico) lungo
il lito, e par che un monticel sia mosso.
Mostra le zanne fuor, come fa il porco;
ha lungo il naso, il sen bavoso e sporco.

Correndo viene, e il muso a guisa porta
che il bracco suol, quando entra in su la traccia.
Tutti che lo veggiam, con faccia smorta
in fuga andamo ove il timor ne caccia.
Poco il veder lui cieco ne conforta,
quando, fiutando sol, par che più faccia,
che altri non fa, che abbia odorato e lume:
e bisogno al fuggire eran le piume.

Corron chi qua chi là; ma poco lece
da lui fuggir, veloce più che il Noto.
Di quaranta persone, a pena diece
sopra il navilio si salvaro a nuoto.
Sotto il braccio un fastel d'alcuni fece,
né il grembio si lasciò né il seno voto;
un suo capace zaino empissene anco,
che gli pendea, come a pastor, dal fianco.

Portòci alla sua tana il mostro cieco,
cavata in lito al mar dentr'uno scoglio.
Di marmo così bianco è quello speco,
come esser soglia ancor non scritto foglio.
Quivi abitava una matrona seco,
di dolor piena in vista e di cordoglio;
ed avea in compagnia donne e donzelle
d'ogni età, d'ogni sorte, e brutte e belle.

Era presso alla grotta in che egli stava,
quasi alla cima del giogo superno,
un'altra non minor di quella cava,
dove del gregge suo facea governo.
Tanto n'avea, che non si numerava;
e n'era egli il pastor l'estate e il verno.
Ai tempi suoi gli apriva e tenea chiuso,
per spasso che n'avea, più che per uso.

L'umana carne meglio gli sapeva:
e prima il fa veder che all'antro arrivi;
che tre de' nostri giovini che aveva,
tutti li mangia, anzi trangugia vivi.
Viene alla stalla, e un gran sasso ne leva:
ne caccia il gregge, e noi riserra quivi.
Con quel sen va dove il suol far satollo,
sonando una zampogna che avea in collo.

Il signor nostro intanto ritornato
alla marina, il suo danno comprende;
che truova gran silenzio in ogni lato,
voti frascati, padiglioni e tende.
Né sa pensar chi sì l'abbia rubato;
e pien di gran timore al lito scende,
onde i nocchieri suoi vede in disparte
sarpar lor ferri e in opra por le sarte.

Tosto che essi lui veggiono sul lito,
il palischermo mandano a levarlo:
ma non sì tosto ha Norandino udito
de l' Orco che venuto era a rubarlo,
che, senza più pensar, piglia partito,
dovunque andato sia, di seguitarlo.
Vedersi tor Lucina sì gli duole,
che o racquistarla, o non più viver vuole.

Dove vede apparir lungo la sabbia
la fresca orma, ne va con quella fretta
con che lo spinge l'amorosa rabbia,
fin che giunge alla tana che io v'ho detta;
ove con tema la maggior che s'abbia
a patir mai, l'Orco da noi s'aspetta:
ad ogni suono di sentirlo parci,
che affamato ritorni a divorarci.

Quivi Fortuna il re da tempo guida,
che senza l'Orco in casa era la moglie.
Come ella il vede: - Fuggine! (gli grida)
misero te, se l'Orco ti ci coglie! -
- Coglia (disse) o non coglia, o salvi o uccida,
che miserrimo io sia non mi si toglie.
Disir mi mena, e non error di via,
c'ho di morir presso alla moglie mia. -

Poi seguì, dimandandole novella
di quei che prese l'Orco in su la riva;
prima degli altri, di Lucina bella,
se l'avea morta, o la tenea captiva.
La donna umanamente gli favella,
e lo conforta, che Lucina è viva,
e che non è alcun dubbio che ella muora;
che mai femina l'Orco non divora.

- Esser di ciò argumento ti poss'io,
e tutte queste donne che son meco:
né a me né a lor mai l'Orco è stato rio,
pur che non ci scostian da questo speco.
A chi cerca fuggir, pon grave fio;
né pace mai puon ritrovar più seco:
o le sotterra vive, o l'incatena,
o fa star nude al sol sopra l'arena.

Quando oggi egli portò qui la tua gente,
le femine dai maschi non divise;
ma, sì come gli avea, confusamente
dentro a quella spelonca tutti mise.
Sentirà a naso il sesso differente.
Le donne non temer che sieno uccise:
gli uomini, siene certo; ed empieranne
di quattro, il giorno, o sei, l'avide canne.

Di levar lei di qui non ho consiglio
che dar ti possa; e contentar ti puoi
che ne la vita sua non è periglio:
starà qui al ben e al mal che avremo noi.
Ma vattene, per Dio, vattene, figlio,
che l'Orco non ti senta e non t'ingoi.
Tosto che giunge, d'ogn'intorno annasa,
e sente sin a un topo che sia in casa. -

Rispose il re, non si voler partire,
se non vedea la sua Lucina prima;
e che più tosto appresso a lei morire,
che viverne lontan, faceva stima.
Quando vede ella non potergli dire
cosa che il muova da la voglia prima,
per aiutarlo fa nuovo disegno,
e ponvi ogni sua industria, ogni suo ingegno.

Morte avea in casa, e d'ogni tempo appese,
con lor mariti, assai capre ed agnelle,
onde a sé ed alle sue facea le spese;
e dal tetto pendea più d'una pelle.
La donna fe' che il re del grasso prese,
che avea un gran becco intorno alle budelle,
e che se n'unse dal capo alle piante,
fin che l'odor cacciò che egli ebbe inante.

E poi che il tristo puzzo aver le parve,
di che il fetido becco ognora sape,
piglia l'irsuta pelle, e tutto entrarve
lo fe'; che ella è sì grande che lo cape.
Coperto sotto a così strane larve,
facendol gir carpon, seco lo rape
là dove chiuso era d'un sasso grave
de la sua donna il bel viso soave.

Norandino ubidisce; ed alla buca
de la spelonca ad aspettar si mette,
acciò col gregge dentro si conduca;
e fin a sera disiando stette.
Ode la sera il suon de la sambuca,
con che 'nvita a lassar l'umide erbette,
e ritornar le pecore all'albergo
il fier pastor che lor venìa da tergo.

Pensate voi se gli tremava il core,
quando l'Orco sentì che ritornava,
e che il viso crudel pieno d'orrore
vide appressare all'uscio de la cava;
ma poté la pietà più che il timore:
s'ardea, vedete, o se fingendo amava.
Vien l'Orco inanzi, e leva il sasso, ed apre:
Norandino entra fra pecore e capre.

Entrato il gregge, l'Orco a noi descende;
ma prima sopra sé l'uscio si chiude.
Tutti ne va fiutando: al fin duo prende;
che vuol cenar de le lor carni crude.
Al rimembrar di quelle zanne orrende,
non posso far che ancor non trieme e sude.
Partito l'Orco, il re getta la gonna
che avea di becco, e abbraccia la sua donna.

Dove averne piacer deve e conforto,
vedendol quivi, ella n'ha affanno e noia:
lo vede giunto ov'ha da restar morto;
e non può far però che essa non muoia.
- Con tutto il mal (diceagli) che io supporto,
signor, sentia non mediocre gioia,
che ritrovato non t'eri con nui
quando da l'Orco oggi qui tratta fui.

Che se ben il trovarmi ora in procinto
d'uscir di vita m'era acerbo e forte;
pur mi sarei, come è commune istinto,
dogliuta sol de la mia trista sorte:
ma ora, o prima o poi che tu sia estinto,
più mi dorrà la tua che la mia morte. -
E seguitò, mostrando assai più affanno
di quel di Norandin, che del suo danno.

- La speme (disse il re) mi fa venire,
c'ho di salvarti, e tutti questi teco:
e s'io nol posso far, meglio è morire,
che senza te, mio sol, viver poi cieco.
Come io ci venni, mi potrò partire;
e voi tutt'altri ne verrete meco,
se non avrete, come io non ho avuto,
schivo a pigliare odor d'animal bruto. -

La fraude insegnò a noi, che contra il naso
de l'Orco insegnò a lui la moglie d'esso;
di vestirci le pelli, in ogni caso
che egli ne palpi ne l'uscir del fesso.
Poi che di questo ognun fu persuaso;
quanti de l'un, quanti de l'altro sesso
ci ritroviamo, uccidian tanti becchi,
quelli che più fetean, che eran più vecchi.

Ci ungemo i corpi di quel grasso opimo
che ritroviamo all'intestina intorno,
e de l'orride pelli ci vestimo.
Intanto uscì da l'aureo albergo il giorno.
Alla spelonca, come apparve il primo
raggio del sol, fece il pastor ritorno;
e dando spirto alle sonore canne,
chiamò il suo gregge fuor de le capanne.

Tenea la mano al buco de la tana,
acciò col gregge non uscissin noi:
ci prendea al varco; e quando pelo o lana
sentia sul dosso, ne lasciava poi.
Uomini e donne uscimmo per sì strana
strada, coperti dagli irsuti cuoi:
e l'Orco alcun di noi mai non ritenne,
fin che con gran timor Lucina venne.

Lucina, o fosse perche ella non volle
ungersi come noi, che schivo n'ebbe;
o che avesse l'andar più lento e molle,
che l'imitata bestia non avrebbe;
o quando l'Orco la groppa toccolle,
gridasse per la tema che le accrebbe;
o che se le sciogliessero le chiome;
sentita fu, né ben so dirvi come.

Tutti eravam sì intenti al caso nostro,
che non avemmo gli occhi agli altrui fatti.
Io mi rivolsi al grido; e vidi il mostro
che già gli irsuti spogli le avea tratti,
e fattola tornar nel cavo chiostro.
Noi altri dentro a nostre gonne piatti
col gregge andamo ove il pastor ci mena,
tra verdi colli in una piaggia amena.

Quivi attendiamo infin che steso all'ombra
d'un bosco opaco il nasuto Orco dorma.
Chi lungo il mar, chi verso il monte sgombra:
sol Norandin non vuol seguir nostr'orma.
L'amor de la sua donna sì lo 'ngombra,
che alla grotta tornar vuol fra la torma,
né partirsene mai sin alla morte,
se non racquista la fedel consorte:

che quando dianzi avea all'uscir del chiuso
vedutala restar captiva sola,
fu per gittarsi, dal dolor confuso,
spontaneamente al vorace Orco in gola;
e si mosse, e gli corse infino al muso,
né fu lontano a gir sotto la mola:
ma pur lo tenne in mandra la speranza
che avea di trarla ancor di quella stanza.

La sera, quando alla spelonca mena
il gregge l'Orco, e noi fuggiti sente,
e c'ha da rimaner privo di cena,
chiama Lucina d'ogni mal nocente,
e la condanna a star sempre in catena
allo scoperto in sul sasso eminente.
Vedela il re per sua cagion patire,
e si distrugge, e sol non può morire.

Matina e sera l'infelice amante
la può veder come s'affliga e piagna;
che le va misto fra le capre avante,
torni alla stalla o torni alla campagna.
Ella con viso mesto e supplicante
gli accenna che per Dio non vi rimagna,
perché vi sta a gran rischio de la vita,
né però a lei può dare alcuna aita.

Così la moglie ancor de l'Orco priega
il re che se ne vada, ma non giova;
che d'andar mai senza Lucina niega,
e sempre più costante si ritruova.
In questa servitude, in che lo lega
Pietate e Amor, stette con lunga pruova
tanto, che a capitar venne a quel sasso
il figlio d'Agricane e il re Gradasso.

Dove con loro audacia tanto fenno,
che liberaron la bella Lucina;
ben che vi fu aventura più che senno:
e la portar correndo alla marina;
e al padre suo, che quivi era, la denno:
e questo fu ne l'ora matutina,
che Norandin con l'altro gregge stava
a ruminar ne la montana cava.

Ma poi che il giorno aperta fu la sbarra,
e seppe il re la donna esser partita
(che la moglie de l'Orco gli lo narra),
e come a punto era la cosa gita;
grazie a Dio rende, e con voto n'inarra,
che essendo fuor di tal miseria uscita,
faccia che giunga onde per arme possa,
per prieghi o per tesoro, esser riscossa.

Pien di letizia va con l'altra schiera
del simo gregge, e viene ai verdi paschi;
e quivi aspetta fin che all'ombra nera
il mostro per dormir ne l'erba caschi.
Poi ne vien tutto il giorno e tutta sera;
e al fin sicur che l'Orco non lo 'ntaschi,
sopra un navilio monta in Satalia;
e son tre mesi che arrivò in Soria.

In Rodi, in Cipro, e per città e castella
e d'Africa e d'Egitto e di Turchia,
il re cercar fe' di Lucina bella;
né fin l'altr'ieri aver ne poté spia.
L'altr'ier n'ebbe dal suocero novella,
che seco l'avea salva in Nicosia,
dopo che molti dì vento crudele
era stato contrario alle sue vele.

Per allegrezza de la buona nuova
prepara il nostro re la ricca festa;
e vuol che ad ogni quarta luna nuova,
una se n'abbia a far simile a questa:
che la memoria rifrescar gli giova
dei quattro mesi che 'n irsuta vesta
fu tra il gregge de l'Orco; e un giorno, quale
sarà dimane, uscì di tanto male.

Questo che io v'ho narrato, in parte vidi,
in parte udio da chi trovossi al tutto;
dal re, vi dico, che calende ed idi
vi stette, fin che volse in riso il lutto:
e se n'udite mai far altri gridi,
direte a chi gli fa, che mal n'è istrutto. -
Il gentiluomo in tal modo a Grifone
de la festa narrò l'alta cagione.

Un gran pezzo di notte si dispensa
dai cavallieri in tal ragionamento;
e conchiudon che amore e pietà immensa
mostrò quel re con grande esperimento.
Andaron, poi che si levar da mensa,
ove ebbon grato e buono alloggiamento.
Nel seguente matin sereno e chiaro,
al suon de l'allegrezze si destaro.

Vanno scorrendo timpani e trombette,
e ragunando in piazza la cittade.
Or, poi che de cavalli e de carrette
e ribombar de gridi odon le strade,
Grifon le lucide arme si rimette,
che son di quelle che si trovan rade;
che l'avea impenetrabili e incantate
la Fata bianca di sua man temprate.

Quel d'Antiochia, più d'ogn'altro vile,
armossi seco, e compagnia gli tenne.
Preparate avea lor l'oste gentile
nerbose lance, e salde e grosse antenne,
e del suo parentado non umìle
compagnia tolta; e seco in piazza venne;
e scudieri a cavallo, e alcuni a piede,
a tal servigi attissimi, lor diede.

Giunsero in piazza, e trassonsi in disparte,
né pel campo curar far di sé mostra,
per veder meglio il bel popul di Marte,
che ad uno, o a dua, o a tre, veniano in giostra.
Chi con colori accompagnati ad arte
letizia o doglia alla sua donna mostra;
chi nel cimier, chi nel dipinto scudo
disegna Amor, se l'ha benigno o crudo.

Soriani in quel tempo aveano usanza
d'armarsi a questa guisa di Ponente.
Forse ve gli inducea la vicinanza
che de' Franceschi avean continuamente,
che quivi allor reggean la sacra stanza
dove in carne abitò Dio onnipotente;
che ora i superbi e miseri cristiani,
con biasmi lor, lasciano in man de' cani.

Dove abbassar dovrebbono la lancia
in augumento de la santa fede,
tra lor si dan nel petto e ne la pancia
a destruzion del poco che si crede.
Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia,
volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede,
e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto;
che quanto qui cercate è già di Cristo.

Se Cristianissimi esser voi volete,
e voi altri Catolici nomati,
perché di Cristo gli uomini uccidete?
perché de' beni lor son dispogliati?
Perché Ierusalem non riavete,
che tolto è stato a voi da' rinegati?
Perché Costantinopoli e del mondo
la miglior parte occupa il Turco immondo?

Non hai tu, Spagna, l'Africa vicina,
che t'ha via più di questa Italia offesa?
E pur, per dar travaglio alla meschina,
lasci la prima tua sì bella impresa.
O d'ogni vizio fetida sentina,
dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
che ora di questa gente, ora di quella
che già serva ti fu, sei fatta ancella?

Se il dubbio di morir ne le tue tane,
Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida,
e tra noi cerchi o chi ti dia del pane,
o, per uscir d'inopia, chi t'uccida;
le richezze del Turco hai non lontane:
caccial d'Europa, o almen di Grecia snida;
così potrai o del digiuno trarti,
o cader con più merto in quelle parti.

Quel che a te dico, io dico al tuo vicino
tedesco ancor; là le richezze sono,
che vi portò da Roma Costantino:
portonne il meglio, e fe' del resto dono.
Pattolo ed Ermo onde si tra' l'or fino,
Migdonia e Lidia, e quel paese buono
per tante laudi in tante istorie noto,
non è, s'andar vi vuoi, troppo remoto.

Tu, gran Leone, a cui premon le terga
de le chiavi del ciel le gravi some,
non lasciar che nel sonno si sommerga
Italia, se la man l'hai ne le chiome.
Tu sei Pastore; e Dio t'ha quella verga
data a portare, e scelto il fiero nome,
perché tu ruggi, e che le braccia stenda,
sì che dai lupi il grege tuo difenda.

Ma d'un parlar ne l'altro, ove sono ito
si lungi, dal camin che io faceva ora?
Non lo credo però sì aver smarrito,
che io non lo sappia ritrovare ancora.
Io dicea che in Soria si tenea il rito
d'armarsi, che i Franceschi aveano allora:
sì che bella in Damasco era la piazza
di gente armata d'elmo e di corazza.

Le vaghe donne gettano dai palchi
sopra i giostranti fior vermigli e gialli,
mentre essi fanno a suon degli oricalchi
levare a salti ed aggirar cavalli.
Ciascuno, o bene o mal che egli cavalchi,
vuol far quivi vedersi, e sprona e dàlli:
di che altri ne riporta pregio e lode;
mentre altri a riso, e gridar dietro s'ode.

De la giostra era il prezzo un'armatura
che fu donata al re pochi dì inante,
che su la strada ritrovò a ventura,
ritornando d'Armenia, un mercatante.
Il re di nobilissima testura
le sopraveste all'arme aggiunse, e tante
perle vi pose intorno e gemme ed oro,
che la fece valer molto tesoro.

Se conosciute il re quell'arme avesse,
care avute l'avria sopra ogni arnese;
né in premio de la giostra l'avria messe,
come che liberal fosse e cortese.
Lungo saria chi raccontar volesse
chi l'avea sì sprezzate e vilipese,
che 'n mezzo de la strada le lasciasse,
preda chiunque o inanzi o indietro andasse.

Di questo ho da contarvi più di sotto:
or dirò di Grifon, che alla sua giuuta
un paio e più di lance trovò rotto,
menato più d'un taglio e d'una punta.
Dei più cari e più fidi al re fur otto
che quivi insieme avean lega congiunta;
gioveni; in arme pratichi ed industri,
tutti o signori o di famiglie illustri.

Quei rispondean ne la sbarrata piazza
per un dì, ad uno ad uno, a tutto il mondo,
prima con lancia, e poi con spada o mazza,
fin che al re di guardarli era giocondo;
e si foravan spesso la corazza:
per giuoco in somma qui facean, secondo
fan gli nimici capitali, eccetto
che potea il re partirli a suo diletto.

Quel d'Antiochia, un uom senza ragione,
che Martano il codardo nominosse,
come se de la forza di Grifone,
poi che era seco, participe fosse,
audace entrò nel marziale agone;
e poi da canto ad aspettar fermosse,
sin che finisce una battaglia fiera
che tra duo cavallier cominciata era.

Il signor di Seleucia, di quell'uno,
che a sostener l'impresa aveano tolto,
combattendo in quel tempo con Ombruno,
lo ferì d'una punta in mezzo il volto,
sì che l'uccise: e pietà n'ebbe ognuno,
perché buon cavallier lo tenean molto;
ed oltra la bontade, il più cortese
non era stato in tutto quel paese.

Veduto ciò, Martano ebbe paura
che parimente a sé non avvenisse;
e ritornando ne la sua natura,
a pensar cominciò come fugisse.
Grifon, che gli era appresso e n'avea cura,
lo spinse pur, poi che assai fece e disse,
contra un gentil guerrier che s'era mosso,
come si spinge il cane al lupo adosso;

che dieci passi gli va dietro o venti,
e poi si ferma, ed abbaiando guarda
come digrigni i minacciosi denti,
come negli occhi orribil fuoco gli arda.
Quivi ov'erano e principi presenti
e tanta gente nobile e gagliarda,
fuggì lo 'ncontro il timido Martano,
e torse il freno e il capo a destra mano.

Pur la colpa potea dar al cavallo,
chi di scusarlo avesse tolto il peso;
ma con la spada poi fe' sì gran fallo,
che non l'avria Demostene difeso.
Di carta armato par, non di metallo;
sì teme da ogni colpo essere offeso.
Fuggesi al fine, e gli ordini disturba,
ridendo intorno a lui tutta la turba.

Il batter de le mani, il grido intorno
se gli levò del populazzo tutto.
Come lupo cacciato, fe' ritorno
Martano in molta fretta al suo ridutto.
Resta Grifone; e gli par de lo scorno
del suo compagno esser macchiato e brutto:
esser vorrebbe stato in mezzo il foco,
più tosto che trovarsi in questo loco.

Arde nel core, e fuor nel viso avampa,
come sia tutta sua quella vergogna;
perché l'opere sue di quella stampa
vedere aspetta il populo ed agogna:
sì che rifulga chiara più che lampa
sua virtù, questa volta gli bisogna;
che un'oncia, un dito sol d'error che faccia,
per la mala impression parrà sei braccia.

Già la lancia avea tolta su la coscia
Grifon, che errare in arme era poco uso:
spinse il cavallo a tutta briglia, e poscia
che alquanto andato fu, la messe suso,
e portò nel ferire estrema angoscia
al baron di Sidonia, che andò guiso.
Ognun maravigliando in pié si leva;
che il contrario di ciò tutto attendeva.

Tornò Grifon con la medesma antenna,
che 'ntiera e ferma ricovrata avea,
ed in tre pezzi la roppe alla penna
de lo scudo al signor di Lodicea.
Quel per cader tre volte e quattro accenna,
che tutto steso alla groppa giacea:
pur rilevato al fin la spada strinse,
voltò il cavallo, e vêr Grifon si spinse.

Grifon, che il vede in sella, e che non basta
sì fiero incontro perché a terra vada,
dice fra sé: - Quel che non poté l'asta,
in cinque colpi o 'n sei farà la spada. -
E su la tempia subito l'attasta
d'un dritto tal, che par che dal ciel cada;
e un altro gli accompagna e un altro appresso,
tanto che l'ha stordito e in terra messo.

Quivi erano d'Apamia duo germani,
soliti in giostra rimaner di sopra,
Tirse e Corimbo; ed ambo per le mani
del figlio d'Uliver cader sozzopra.
L'uno gli arcion lascia allo scontro vani;
con l'altro messa fu la spada in opra.
Già per commun giudicio si tien certo
che di costui fia de la giostra il merto.

Ne la lizza era entrato Salinterno,
gran diodarro e maliscalco regio,
e che di tutto il regno avea il governo,
e di sua mano era guerriero egregio.
Costui, sdegnoso che un guerriero esterno
debba portar di quella giostra il pregio,
piglia una lancia, e verso Grifon grida,
e molto minacciandolo lo sfida.

Ma quel con un lancion gli fa risposta,
che avea per lo miglior fra dieci eletto,
e per non far error, lo scudo apposta,
e via lo passa e la corazza e il petto:
passa il ferro crudel tra costa e costa,
e fuor pel tergo un palmo esce di netto.
Il colpo, eccetto al re, fu a tutti caro;
che ognuno odiava Salinterno avaro.

Grifone, appresso a questi, in terra getta
duo di Damasco, Ermofilo e Carmondo.
La milizia del re dal primo è retta;
del mar grande almiraglio è quel secondo.
Lascia allo scontro l'un la sella in fretta:
adosso all'altro si riversa il pondo
del rio destrier, che sostener non puote
l'alto valor con che Grifon percuote.

Il signor di Seleucia ancor restava,
miglior guerrier di tutti gli altri sette;
e ben la sua possanza accompagnava
con destrier buono e con arme perfette.
Dove de l'elmo la vista si chiava,
l'asta allo scontro l'uno e l'altro mette;
pur Grifon maggior colpo al pagan diede,
che lo fe' staffeggiar dal manco piede.

Gittaro i tronchi, e si tornaro adosso
pieni di molto ardir coi brandi nudi.
Fu il pagan prima da Grifon percosso
d'un colpo che spezzato avria gli incudi.
Con quel fender si vide e ferro ed osso
d'un che eletto s'avea tra mille scudi;
e se non era doppio e fin l'arnese,
ferìa la coscia ove cadendo scese.

Ferì quel di Seleucia alla visera
Grifone a un tempo; e fu quel colpo tanto,
che l'avria aperta e rotta, se non era
fatta, come l'altr'arme, per incanto.
Gli è un perder tempo che il pagan più fera:
così son l'arme dure in ogni canto:
e 'n più parti Grifon già fessa e rotta
ha l'armatura a lui, né perde botta.

Ognun potea veder quanto di sotto
il signor di Seleucia era a Grifone;
e se partir non li fa il re di botto,
quel che sta peggio, la vita vi pone.
Fe' Norandino alla sua guardia motto
che entrasse a distaccar l'aspra tenzone.
Quindi fu l'uno, e quindi l'altro tratto;
e fu lodato il re di sì buon atto.

Gli otto che dianzi avean col mondo impresa,
e non potuto durar poi contra uno,
avendo mal la parte lor difesa,
usciti eran dal campo ad uno ad uno.
Gli altri che eran venuti a lor contesa,
quivi restar senza contrasto alcuno,
avendo lor Grifon, solo, interrotto
quel che tutti essi avean da far contra otto.

E durò quella festa così poco,
che in men d'un'ora il tutto fatto s'era:
ma Norandin, per far più lungo il giuoco
e per continuarlo infino a sera,
dal palco scese, e fe' sgombrare il loco;
e poi divise in due la grossa schiera,
indi, secondo il sangue e la lor prova,
gli andò accoppiando, e fe' una giostra nova.

Grifone intanto avea fatto ritorno
alla sua stanza pien d'ira e di rabbia
e più gli preme di Martan lo scorno
che non giova l'onor che esso vinto abbia.
Quivi, per tor l'obbrobrio che avea intorno,
Martano adopra le mendaci labbia:
e l'astuta e bugiarda meretrice,
come meglio sapea, gli era adiutrice.

O sì o no che il giovin gli credesse,
pur la scusa accettò, come discreto:
e pel suo meglio allora allora elesse
quindi levarsi tacito e secreto,
per tema che, se il populo vedesse
Martano comparir, non stesse cheto.
Così per una via nascosa e corta
usciro al camin lor fuor de la porta.

Grifone, o che egli o che il cavallo fosse
stanco, o gravasse il sonno pur le ciglia,
al primo albergo che trovar, fermosse,
che non erano andati oltre a dua miglia.
Si trasse l'elmo, e tutto disarmosse,
e trar fece a' cavalli e sella e briglia;
e poi serrossi in camera soletto,
e nudo per dormire entrò nel letto.

Non ebbe così tosto il capo basso,
che chiuse gli occhi, e fu dal sonno oppresso
così profundamente, che mai tasso
né ghiro mai s'addormentò quanto esso.
Martano in tanto ed Orrigille a spasso
entraro in un giardin che era lì appresso;
ed un inganno ordir, che fu il più strano
che mai cadesse in sentimento umano.

Martano disegnò torre il destriero,
i panni e l'arme che Grifon s'ha tratte;
e andare inanzi al re pel cavalliero
che tante pruove avea giostrando fatte.
L'effetto ne seguì, fatto il pensiero:
tolle il destrier più candido che latte,
scudo e cimiero ed arme e sopraveste,
e tutte di Grifon l'insegne veste.

Con gli scudieri e con la donna, dove
era il popolo ancora, in piazza venne;
e giunse a tempo che finian le pruove
di girar spade e d'arrestare antenne.
Commanda il re che il cavallier si truove,
che per cimier avea le bianche penne,
bianche le vesti e bianco il corridore;
che il nome non sapea del vincitore.

Colui che indosso il non suo cuoio aveva,
come l'asino già quel del leone,
chiamato, se n'andò, come attendeva,
a Norandino, in loco di Grifone.
Quel re cortese incontro se gli leva,
l'abbraccia e bacia, e allato se lo pone:
né gli basta onorarlo e dargli loda,
che vuol che il suo valor per tutto s'oda.

E fa gridarlo al suon degli oricalchi
vincitor de la giostra di quel giorno.
L'alta voce ne va per tutti i palchi,
che il nome indegno udir fa d'ogn'intorno.
Seco il re vuol che a par a par cavalchi,
quando al palazzo suo poi fa ritorno;
e di sua grazia tanto gli comparte,
che basteria, se fosse Ercole o Marte.

Bello ed ornato alloggiamento dielli
in corte, ed onorar fece con lui
Orrigille anco; e nobili donzelli
mandò con essa, e cavallieri sui.
Ma tempo è che anco di Grifon favelli,
il qual né dal compagno né d'altrui
temendo inganno, addormentato s'era,
né mai si risvegliò fin alla sera.

Poi che fu desto, e che de l'ora tarda
s'accorse, uscì di camera con fretta,
dove il falso cognato e la bugiarda
Orrigille lasciò con l'altra setta;
e quando non gli truova, e che riguarda
non v'esser l'arme né i panni, sospetta;
ma il veder poi più sospettoso il fece
l'insegne del compagno in quella vece.

Sopravien l'oste, e di colui l'informa
che già gran pezzo, di bianche arme adorno,
con la donna e col resto de la torma
avea ne la città fatto ritorno.
Truova Grifone a poco a poco l'orma
che ascosa gli avea Amor fin a quel giorno;
e con suo gran dolor vede esser quello
adulter d'Orrigille, e non fratello.

Di sua sciocchezza indarno ora si duole,
che avendo il ver dal peregrino udito,
lasciato mutar s'abbia alle parole
di chi l'avea più volte già tradito.
Vendicar si potea, né seppe; or vuole
l'inimico punir, che gli è fuggito;
ed è costretto con troppo gran fallo
a tor di quel vil uom l'arme e il cavallo.

Eragli meglio andar senz'arme e nudo,
che porsi indosso la corazza indegna,
o che imbracciar l'abominato scudo,
o por su l'elmo la beffata insegna;
ma per seguir la meretrice e il drudo,
ragione in lui pari al disio non regna.
A tempo venne alla città, che ancora
il giorno avea quasi di vivo un'ora.

Presso alla porta ove Grifon venìa,
siede a sinistra un splendido castello,
che, più che forte e che a guerre atto sia,
di ricche stanze è accommodato e bello.
I re, i signori, i primi di Soria
con alte donne in un gentil drappello
celebravano quivi in loggia amena
la real sontuosa e lieta cena.

La bella loggia sopra il muro usciva
con l'alta rocca fuor de la cittade;
e lungo tratto di lontan scopriva
i larghi campi e le diverse strade.
Or che Grifon verso la porta arriva
con quell'arme d'obbrobrio e di viltade,
fu con non troppa aventurosa sorte
dal re veduto e da tutta la corte:

e riputato quel di che avea insegna,
mosse le donne e i cavallieri a riso.
Il vil Martano, come quel che regna
in gran favor, dopo il re è il primo assiso,
e presso a lui la donna di sé degna;
dai quali Norandin con lieto viso
volse saper chi fosse quel codardo
che così avea al suo onor poco riguardo;

che dopo una sì trista e brutta pruova,
con tanta fronte or gli tornava inante.
Dicea: - Questa mi par cosa assai nuova,
che essendo voi guerrier degno e prestante,
costui compagno abbiate, che non truova,
di viltà, pari in terra di Levante.
Il fate forse per mostrar maggiore,
per tal contrario, il vostro alto valore.

Ma ben vi giuro per gli eterni dei,
che se non fosse che io riguardo a vui,
la publica ignominia gli farei,
che io soglio fare agli altri pari a lui.
Perpetua ricordanza gli darei,
come ognor di viltà nimico fui.
Ma sappia, s'impunito se ne parte,
grado a voi che il menaste in questa parte. -

Colui che fu de tutti i vizi il vaso,
rispose: - Alto signor, dir non sapria
chi sia costui; che io l'ho trovato a caso,
venendo d'Antiochia, in su la via.
ll suo smnbiante m'avea persuaso
che fosse degno di mia compagnia;
che intesa non n'avea pruova né vista,
se non quella che fece oggi assai trista.

La qual mi spiacque sì, che restò poco,
che per punir l'estrema sua viltade,
non gli facessi allora allora un gioco,
che non toccasse più lance né spade:
ma ebbi, più che a lui, rispetto al loco,
e riverenza a vostra maestade.
Né per me voglio che gli sia guadagno
l'essermi stato un giorno o dua compagno:

di che contaminato anco esser parme;
e sopra il cor mi sarà eterno peso,
se, con vergogna del mestier de l'arme,
io lo vedrò da noi partire illeso:
e meglio che lasciarlo, satisfarme
potrete, se sarà d'un merlo impeso;
e fia lodevol opra e signorile,
perche el sia esempio e specchio ad ogni vile. -

Al detto suo Martano Orrigille have,
senza accennar, confermatrice presta.
- Non son (rispose il re) l'opre sì prave,
che al mio parer v'abbia d'andar la testa.
Voglio per pena del peccato grave,
che sol rinuovi al populo la festa. -
E tosto a un suo baron, che fe' venire,
impose quanto avesse ad esequire.

Quel baron molti armati seco tolse,
ed alla porta de la terra scese;
e quivi con silenzio li raccolse,
e la venuta di Grifone attese:
e ne l'entrar sì d'improviso il colse,
che fra i duo ponti a salvamento il prese;
e lo ritenne con beffe e con scorno
in una oscura stanza insin al giorno.

Il Sole a pena avea il dorato crine
tolto di grembio alla nutrice antica,
e cominciava da le piagge alpine
a cacciar l'ombre e far la cima aprica;
quando temendo il vil Martan che al fine
Grifone ardito la sua causa dica,
e ritorni la colpa ond'era uscita,
tolse licenza, e fece indi partita,

trovando idonia scusa al priego regio,
che non stia allo spettacolo ordinato.
Altri doni gli avea fatto, col pregio
de la non sua vittoria, il signor grato;
e sopra tutto un amplo privilegio,
dov'era d'altri onori al sommo ornato.
Lasciànlo andar; che io vi prometto certo,
che la mercede avrà secondo il merto.

Fu Grifon tratto a gran vergogna in piazza,
quando più si trovò piena di gente.
Gli avean levato l'elmo e la corazza,
e lasciato in farsetto assai vilmente;
e come il conducessero alla mazza,
posto l'avean sopra un carro eminente,
che lento lento tiravan due vacche
da lunga fame attenuate e fiacche.

Venian d'intorno alla ignobil quadriga
vecchie sfacciate e disoneste putte,
di che n'era una ed or un'altra auriga,
e con gran biasmo lo mordeano tutte.
Lo poneano i fanciulli in maggior briga,
che, oltre le parole infami e brutte,
l'avrian coi sassi insino a morte offeso,
se dai più saggi non era difeso.

L'arme che del suo male erano state
cagion, che di lui fer non vero indicio,
da la coda del carro strascinate
patian nel fango debito supplicio.
Le ruote inanzi a un tribunal fermate
gli fero udir de l'altrui maleficio
la sua ignominia, che 'n sugli occhi detta
gli fu, gridando un publico trombetta.

Lo levar quindi, e lo mostrar per tutto
dinanzi a templi, ad officine e a case,
dove alcun nome scelerato e brutto,
che non gli fosse detto, non rimase.
Fuor de la terra all'ultimo cundutto
fu da la turba, che si persuase
bandirlo e cacciare indi a suon di busse,
non conoscendo ben che egli si fusse.

Si tosto a pena gli sferraro i piedi
e liberargli l'una e l'altra mano,
che tor lo scudo ed impugnar gli vedi
la spada, che rigò gran pezzo il piano.
Non ebbe contra sé lance né spiedi;
che senz'arme venìa il populo insano.
Ne l'altro canto diferisco il resto;
che tempo è omai, Signor, di finir questo.





CANTO DICIOTTESIMO.


Magnanimo Signore, ogni vostro atto
ho sempre con ragion laudato e laudo:
ben che col rozzo stil duro e mal atto
gran parte de la gloria vi defraudo.
Ma più de l'altre una virtù m'ha tratto,
a cui col core e con la lingua applaudo;
che s'ognun truova in voi ben grata udienza,
non vi truova però facil credenza.

Spesso in difesa deI biasmato assente
indur vi sento una ed un'altra scusa,
o riserbargli almen, fin che presente
sua causa dica, l'altra orecchia chiusa;
e sempre, prima che dannar la gente,
vederla in faccia, e udir la ragion che usa;
differir anco e giorni e mesi ed anni,
prima che giudicar negli altrui danni.

Se Norandino il simil fatto avesse,
fatto a Grifon non avria quel che fece.
A voi utile e onor sempre successe:
denigrò sua fama egli più che pece.
Per lui sue genti a morte furon messe;
che fe' Grifone in dieci tagli, e in diece
punte che trasse pien d'ira e bizzarro,
che trenta ne cascaro appresso al carro.

Van gli altri in rotta ove il timor li caccia,
chi qua chi là, pei campi e per le strade;
e chi d'entrar ne la città procaccia,
e l'un su l'altro ne la porta cade.
Grifon non fa parole e non minaccia;
ma lasciando lontana ogni pietade,
mena tra il vulgo inerte il ferro intorno,
e gran vendetta fa d'ogni suo scorno.

Di quei che primi giunsero alla porta,
che le piante a levarsi ebbeno pronte,
parte, al bisogno suo molto più accorta
che degli amici, alzò subito il ponte;
piangendo parte, o con la faccia smorta
fuggendo andò senza mai volger fronte,
e ne la terra per tutte le bande
levò grido e tumulto e rumor grande.

Grifon gagliardo duo ne piglia in quella
che il ponte si levò per lor sciagura.
Sparge de l'uno al campo le cervella;
che lo percuote ad una cote dura:
prende l'altro nel petto, e l'arrandella
in mezzo alla città sopra le mura.
Scorse per l'ossa ai terrazzani il gelo,
quando vider colui venir dal cielo.

Fur molti che temer che il fier Grifone
sopra le mura avesse preso un salto.
Non vi sarebbe più confusione,
s'a Damasco il soldan desse l'assalto.
Un muover d'arme, un correr di persone,
e di talacimanni un gridar d'alto,
e di tamburi un suon misto e di trombe
il mondo assorda, e il ciel par ne rimbombe.

Ma voglio a un'altra volta differire
a ricontar ciò che di questo avenne.
Del buon re Carlo mi convien seguire,
che contra Rodomonte in fretta venne,
il qual le genti gli facea morire.
Io vi dissi che al re compagnia tenne
il gran Danese e Namo ed Oliviero
e Avino e Avolio e Otone e Berlingiero.

Otto scontri di lance, che da forza
di tali otto guerrier cacciati foro,
sostenne a un tempo la scagliosa scorza
di che avea armato il petto il crudo Moro.
Come legno si drizza, poi che l'orza
lenta il nochier che crescer sente il Coro,
così presto rizzossi Rodomonte
dai colpi che gittar doveano un monte.

Guido, Ranier, Ricardo, Salamone,
Ganelon traditor, Turpin fedele,
Angioliero, Angiolino, Ughetto, Ivone,
Marco e Matteo dal pian di san Michele,
e gli otto di che dianzi fei menzione,
son tutti intorno al Saracin crudele,
Arimanno e Odoardo d'Inghilterra,
che entrati eran pur dianzi ne la terra.

Non così freme in su lo scoglio alpino
di ben fondata rocca alta parete,
quando il furor di borea o di garbino
svelle dai monti il frassino e l'abete;
come freme d'orgoglio il Saracino,
di sdegno acceso e di sanguigna sete:
e com'a un tempo è il tuono e la saetta,
così l'ira de l'empio e la vendetta.

Mena alla testa a quel che gli è più presso,
che gli è il misero Ughetto di Dordona:
lo pone in terra insino ai denti fesso,
come che l'elmo era di tempra buona.
Percosso fu tutto in un tempo anche esso
da molti colpi in tutta la persona;
ma non gli fan più che all'incude l'ago:
sì duro intorno ha lo scaglioso drago.

Furo tutti i ripar, fu la cittade
d'intorno intorno abandonata tutta;
che la gente alla piazza, dove accade
maggior bisogno, Carlo avea ridutta.
Corre alla piazza da tutte le strade
la turba, a chi il fuggir sì poco frutta.
La persona del re sì i cori accende,
che ognun prend'arme, ognuno animo prende.

Come se dentro a ben rinchiusa gabbia
d'antiqua leonessa usata in guerra,
perche averne piacere il popul abbia,
talvolta il tauro indomito si serra;
i leoncin che veggion per la sabbia
come altiero e mugliando animoso erra,
e veder sì gran corna non son usi,
stanno da parte timidi e confusi:

ma se la fiera madre a quel si lancia,
e ne l'orecchio attacca il crudel dente,
vogliono anche essi insanguinar la guancia,
e vengono in soccorso arditamente;
chi morde al tauro il dosso e chi la pancia:
così contra il pagan fa quella gente.
Da tetti e da finestre e più d'appresso
sopra gli piove un nembo d'arme e spesso.

Dei cavallieri e de la fanteria
tanta è la calca, che a pena vi cape.
La turba che vi vien per ogni via,
v'abbonda ad or ad or spessa come ape;
che quando, disarmata e nuda, sia
più facile a tagliar che torsi o rape,
non la potria, legata a monte a monte,
in venti giorni spenger Rodomonte.

Al pagan, che non sa come ne possa
venir a capo, omai quel gioco incresce.
Poco, per far di mille, o di più, rossa
la terra intorno, il populo discresce.
Il fiato tuttavia più se gli ingrossa,
si che comprende al fin che, se non esce
or c'ha vigore e in tutto il corpo è sano,
vorrà da tempo uscir, che sarà invano.

Rivolge gli occhi orribili, e pon mente
che d'ogn'intorno sta chiusa l'uscita;
ma con ruina d'infinita gente
l'aprirà tosto, e la farà espedita.
Ecco, vibrando la spada tagliente,
che vien quel empio, ove il furor lo 'nvita,
ad assalire il nuovo stuol britanno,
che vi trasse Odoardo ed Arimanno.

Chi ha visto in piazza rompere steccato,
a cui la folta turba ondeggi intorno,
immansueto tauro accaneggiato,
stimulato e percosso tutto il giorno;
che il popul se ne fugge ispaventato,
ed egli or questo or quel leva sul corno:
pensi che tale o più terribil fosse
il crudele African quando si mosse.

Quindici o venti ne tagliò a traverso,
altritanti lasciò del capo tronchi,
ciascun d'un colpo sol dritto o riverso;
che viti o salci par che poti e tronchi.
Tutto di sangue il fier pagano asperso,
lasciando capi fessi e bracci monchi,
e spalle e gambe ed altre membra sparte,
ovunque il passo volga, al fin si parte.

De la piazza si vede in guisa torre,
che non si può notar che abbia paura;
ma tuttavolta col pensier discorre,
dove sia per uscir via più sicura.
Capita al fin dove la Senna corre
sotto all'isola, e va fuor de le mura.
La gente d'arme e il popul fatto audace
lo stringe e incalza, e gir nol lascia in pace.

Qual per le selve nomade o massile
cacciata va la generosa belva,
che ancor fuggendo mostra il cor gentile,
e minacciosa e lenta si rinselva;
tal Rodomonte, in nessun atto vile,
da strana circondato e fiera selva
d'aste e di spade e di volanti dardi,
si tira al fiume a passi lunghi e tardi.

E sì tre volte e più l'ira il sospinse,
che essendone già fuor, vi tornò in mezzo,
ove di sangue la spada ritinse,
e più di cento ne levò di mezzo.
Ma la ragione al fin la rabbia vinse
di non far sì, che a Dio n'andasse il lezzo;
e da la ripa, per miglior consiglio,
si gittò all'acqua, e uscì di gran periglio.

Con tutte l'arme andò per mezzo l'acque,
come s'intorno avesse tante galle.
Africa, in te pare a costui non nacque,
ben che d'Anteo ti vanti e d'Anniballe.
Poi che fu giunto a proda, gli dispiacque,
che si vide restar dopo le spalle
quella città che avea trascorsa tutta,
e non l'avea tutta arsa né distrutta.

E sì lo rode la superbia e l'ira,
che, per tornarvi un'altra volta, guarda,
e di profondo cor geme e sospira,
né vuolne uscir, che non la spiani ed arda.
Ma lungo il fiume, in questa furia, mira
venir chi l'odio estingue e l'ira tarda.
Chi fosse io vi farò ben tosto udire;
ma prima un'altra cosa v'ho da dire.

Io v'ho da dir de la Discordia altiera,
a cui l'angel Michele avea commesso
che a battaglia accendesse e a lite fiera
quei che più forti avea Agramante appresso.
Uscì de' frati la medesma sera,
avendo altrui l'ufficio suo commesso:
lasciò la Fraude a guerreggiare il loco,
fin che tornasse, e a mantenervi il fuoco.

E le parve che andria con più possanza,
se la Superbia ancor seco menasse;
e perché stavan tutte in una stanza,
non fu bisogno che a cercar l'andasse.
La Superbia v'andò, ma non che sanza
la sua vicaria il monaster lasciasse:
per pochi dì che credea starne assente,
lasciò l'Ipocrisia locotenente.

L'implacabil Discordia in compagnia
de la Superbia si messe in camino,
e ritrovò che la medesma via
facea, per gire al campo saracino,
l'afflitta e sconsolata Gelosia;
e venìa seco un nano piccolino,
il qual mandava Doralice bella
al re di Sarza a dar di sé novella.

Quando ella venne a Mandricardo in mano
(che io v'ho già raccontato e come e dove),
tacitamente avea commesso al nano,
che ne portasse a questo re le nuove.
Ella sperò che nol saprebbe invano,
ma che far si vedria mirabil pruove,
per riaverla con crudel vendetta
da quel ladron che gli l'avea intercetta.

La Gelosia quel nano avea trovato;
e la cagion del suo venir compresa,
a caminar se gli era messa allato,
parendo d'aver luogo a questa impresa.
Alla Discordia ritrovar fu grato
la Gelosia; ma più quando ebbe intesa
la cagion del venir, che le potea
molto valere in quel che far volea.

D'inimicar con Rodomonte il figlio
del re Agrican le pare aver suggetto:
troverà a sdegnar gli altri altro consiglio;
a sdegnar questi duo questo è perfetto.
Col nano se ne vien dove l'artiglio
del fier pagano avea Parigi astretto;
e capitaro a punto in su la riva,
quando il crudel del fiume a nuoto usciva.

Tosto che riconobbe Rodomonte
costui de la sua donna esser messaggio,
estinse ogn'ira, e serenò la fronte,
e si sentì brillar dentro il coraggio.
Ogn'altra cosa aspetta che gli conte,
prima che alcuno abbia a lei fatto oltraggio.
Va contra il nano, e lieto gli domanda:
- Che è de la donna nostra? ove ti manda? -

Rispose il nano: - Né più tua né mia
donna dirò quella che è serva altrui.
Ieri scontrammo un cavallier per via,
che ne la tolse, e la menò con lui. -
A quello annunzio entrò la Gelosia,
fredda come aspe, ed abbracciò costui.
Seguita il nano, e narragli in che guisa
un sol l'ha presa, e la sua gente uccisa.

L'acciaio allora la Discordia prese,
e la pietra focaia, e picchiò un poco,
e l'esca sotto la Superbia stese,
e fu attaccato in un momento il fuoco;
e sì di questo l'anima s'accese
del Saracin, che non trovava loco:
sospira e freme con sì orribil faccia,
che gli elementi e tutto il ciel minaccia.

Come la tigre, poi che invan discende
nel voto albergo, e per tutto s'aggira,
e i cari figli all'ultimo comprende
essergli tolti, avampa di tant'ira,
a tanta rabbia, a tal furor s'estende,
che né a monte né a rio né a notte mira;
né lunga via, né grandine raffrena
l'odio che dietro al predator la mena:

così furendo il Saracin bizzarro
si volge al nano, e dice: - Or là t'invia; -
e non aspetta né destrier né carro,
e non fa motto alla sua compagnia.
Va con più fretta che non va il ramarro,
quando il ciel arde, a traversar la via.
Destrier non ha, ma il primo tor disegna,
sia di chi vuol, che ad incontrar lo vegna.

La Discordia che udì questo pensiero,
guardò, ridendo, la Superbia, e disse
che volea gire a trovare un destriero
che gli apportasse altre contese e risse;
e far volea sgombrar tutto il sentiero,
che altro che quello in man non gli venisse:
e già pensato avea dove trovarlo.
Ma costei lascio, e torno a dir di Carlo.

Poi che al partir del Saracin si estinse
Carlo d'intorno il periglioso fuoco,
tutte le genti all'ordine ristrinse.
Lascionne parte in qualche debol loco:
adosso il resto ai Saracini spinse,
per dar lor scacco, e guadagnarsi il giuoco;
e gli mandò per ogni porta fuore,
da San Germano infin a San Vittore.

E commandò che a porta San Marcello,
dov'era gran spianata di campagna,
aspettasse l'un l'altro, e in un drappello
si ragunasse tutta la compagna.
Quindi animando ognuno a far macello
tal, che sempre ricordo ne rimagna,
ai lor ordini andar fe' le bandiere,
e di battaglia dar segno alle schiere.

Il re Agramante in questo mezzo in sella,
mal grado dei cristian, rimesso s'era;
e con l'inamorato d'Isabella
facea battaglia perigliosa e fiera:
col re Sobrin Lurcanio si martella:
Rinaldo incontra avea tutta una schiera;
e con virtude e con fortuna molta
l'urta, l'apre, ruina e mette in volta.

Essendo la battaglia in questo stato,
l'imperatore assalse il retroguardo
dal canto ove Marsilio avea fermato
il fior di Spagna intorno al suo stendardo.
Con fanti in mezzo e cavallieri allato,
re Carlo spinse il suo popul gagliardo
con tal rumor di timpani e di trombe,
che tutto il mondo par che ne rimbombe.

Cominciavan le schiere a ritirarse
de' Saracini, e si sarebbon volte
tutte a fuggir, spezzate, rotte e sparse,
per mai più non potere esser raccolte;
ma il re Grandonio e Falsiron comparse,
che stati in maggior briga eran più volte,
e Balugante e Serpentin feroce,
e Ferraù che lor dicea a gran voce:

- Ah (dicea) valentuomini, ah compagni,
ah fratelli, tenete il luogo vostro.
I nimici faranno opra di ragni,
se non manchiamo noi del dover nostro.
Guardate l'alto onor, gli ampli guadagni
che Fortuna, vincendo, oggi ci ha mostro:
guardate la vergogna e il danno estremo,
che essendo vinti, a patir sempre avremo. -

Tolto in quel tempo una gran lancia avea,
e contra Berlingier venne di botto,
che sopra Largaliffa combattea,
e l'elmo ne la fronte gli avea rotto:
gittollo in terra, e con la spada rea
appresso a lui ne fe' cader forse otto.
Per ogni botta almanco, che disserra,
cader fa sempre un cavalliero in terra.

In altra parte ucciso avea Rinaldo
tanti pagan, che io non potrei contarli.
Dinanzi a lui non stava ordine saldo:
vedreste piazza in tutto il campo darli.
Non men Zerbin, non men Lurcanio è caldo:
per modo fan, che ognun sempre ne parli:
questo di punta avea Balastro ucciso,
e quello a Finadur l'elmo diviso.

L'esercito d'Alzerbe avea il primiero,
che poco inanzi aver solea Tardocco;
l'altro tenea sopra le squadre impero
di Zamor e di Saffi e di Marocco.
- Non è tra gli Africani un cavalliero
che di lancia ferir sappia o di stocco? -
mi si potrebbe dir: ma passo passo
nessun di gloria degno a dietro lasso.

Del re de la Zumara non si scorda
il nobil Dardinel figlio d'Almonte,
che con la lancia Uberto da Mirforda,
Claudio dal Bosco, Elio e Dulfin dal Monte,
e con la spada Anselmo da Stanforda,
e da Londra Raimondo e Pinamonte
getta per terra (ed erano pur forti),
dui storditi, un piagato, e quattro morti.

Ma con tutto il valor che di sé mostra,
non può tener sì ferma la sua gente,
sì ferma, che aspettar voglia la nostra
di numero minor, ma più valente.
Ha più ragion di spada e più di giostra
e d'ogni cosa a guerra appertinente.
Fugge la gente maura, di Zumara,
di Setta, di Marocco e di Canara.

Ma più degli altri fuggon quei d'Alzerbe,
a cui s'oppose il nobil giovinetto;
ed or con prieghi, or con parole acerbe
ripor lor cerca l'animo nel petto.
- S'Almonte meritò che in voi si serbe
di lui memoria, or ne vedrò l'effetto:
io vedrò (dicea lor) se me, suo figlio,
lasciar vorrete in così gran periglio.

State, vi priego per mia verde etade,
in cui solete aver sì larga speme:
deh non vogliate andar per fil di spade,
che in Africa non torni di noi seme.
Per tutto ne saran chiuse le strade,
se non andiam raccolti e stretti insieme:
troppo alto muro e troppo larga fossa
è il monte e il mar, pria che tornar si possa.

Molto è meglio morir qui, che ai supplici
darsi e alla discrezion di questi cani.
State saldi, per Dio, fedeli amici;
che tutti son gli altri rimedi vani.
Non han di noi più vita gli nimici;
più d'un'alma non han, più di due mani. -
Così dicendo, il giovinetto forte
al conte d'Otonlei diede la morte.

Il rimembrare Almonte così accese
l'esercito african che fuggia prima,
che le braccia e le mani in sue difese
meglio, che rivoltar le spalle, estima.
Guglielmo da Burnich era uno Inglese
maggior di tutti, e Dardinello il cima,
e lo pareggia agli altri; e apresso taglia
il capo ad Aramon di Cornovaglia.

Morto cadea questo Aramone a valle;
e v'accorse il fratel per dargli aiuto:
ma Dardinel l'aperse per le spalle
fin giù dove lo stomaco è forcuto.
Poi forò il ventre a Bogio da Vergalle,
e lo mandò del debito assoluto:
avea promesso alla moglier fra sei
mesi, vivendo, di tornare a lei.

Vide non lungi Dardinel gagliardo
venir Lurcanio, che avea in terra messo
Dorchin, passato ne la gola, e Gardo
per mezzo il capo e insin ai denti fesso;
e che Alteo fuggir volse, ma fu tardo,
Alteo che amò quanto il suo core istesso;
che dietro alla collottola gli mise
il fier Lurcanio un colpo che l'uccise.

Piglia una lancia, e va per far vendetta,
dicendo al suo Macon (s'udir lo puote),
che se morto Lurcanio in terra getta,
ne la moschea ne porrà l'arme vote.
Poi traversando la campagna in fretta,
con tanta forza il fianco gli percuote,
che tutto il passa sin all'altra banda;
ed ai suoi, che lo spoglino, commanda.

Non è da domandarmi, se dolere
se ne dovesse Ariodante il frate;
se desiasse di sua man potere
por Dardinel fra l'anime dannate:
ma nol lascian le genti adito avere,
non men de le 'nfedel le battezzate.
Vorria pur vendicarsi, e con la spada
di qua di là spianando va la strada.

Urta, apre, caccia, atterra, taglia e fende
qualunque lo 'mpedisce o gli contrasta.
E Dardinel che quel disire intende,
a volerlo saziar già non sovrasta:
ma la gran moltitudine contende
con questa ancora, e i suoi disegni guasta.
Se' Mori uccide l'un, l'altro non manco
gli Scotti uccide e il campo inglese e il franco.

Fortuna sempremai la via lor tolse,
che per tutto quel dì non s'accozzaro.
A più famosa man serbar l'un volse;
che l'uomo il suo destin fugge di raro.
Ecco Rinaldo a questa strada volse,
perche alla vita d'un non sia riparo:
ecco Rinaldo vien: Fortuna il guida
per dargli onor che Dardinello uccida.

Ma sia per questa volta detto assai
dei gloriosi fatti di Ponente.
Tempo è che io torni ove Grifon lasciai,
che tutto d'ira e di disdegno ardente
facea, con più timor che avesse mai,
tumultuar la sbigottita gente.
Re Norandino a quel rumor corso era
con più di mille armati in una schiera.

Re Norandin con la sua corte armata,
vedendo tutto il populo fuggire,
venne alla porta in battaglia ordinata,
e quella fece alla sua giunta aprire.
Grifone intanto avendo già cacciata
da sé la turba sciocca e senza ardire,
la sprezzata armatura in sua difesa
(qual la si fosse) avea di nuovo presa;

e presso a un tempio ben murato e forte,
che circondato era d'un'alta fossa,
in capo un ponticel si fece forte,
perché chiuderlo in mezzo alcun non possa.
Ecco, gridando e minacciando forte,
fuor de la porta esce una squadra grossa.
L'animoso Grifon non muta loco,
e fa sembiante che ne tema poco.

E poi che avicinar questo drappello
si vide, andò a trovarlo in su la strada;
e molta strage fattane e macello
(che menava a due man sempre la spada),
ricorso avea allo stretto ponticello,
e quindi li tenea non troppo a bada:
di nuovo usciva e di nuovo tornava;
e sempre orribil segno vi lasciava.

Quando di dritto e quando di riverso
getta or pedoni or cavallieri in terra.
Il popul contra lui tutto converso
più e più sempre inaspera la guerra.
Teme Grifone al fin restar sommerso:
sì cresce il mar che d'ogn'intorno il serra;
e ne la spalla e ne la coscia manca
è già ferito, e pur la lena manca.

Ma la virtù, che ai suoi spesso soccorre,
gli fa appo Norandin trovar perdono.
Il re, mentre al tumulto in dubbio corre,
vede che morti già tanti ne sono:
vede le piaghe che di man d'Ettorre
pareano uscite: un testimonio buono,
che dianzi esso avea fatto indegnamente
vergogna a un cavallier molto eccellente.

Poi, come gli è più presso, e vede in fronte
quel che la gente a morte gli ha condutta,
e fattosene avanti orribil monte,
e di quel sangue il fosso e l'acqua brutta;
gli è aviso di veder proprio sul ponte
Orazio sol contra Toscana tutta:
e per suo onore, e perché gli ne 'ncrebbe,
ritrasse i suoi, né gran fatica v'ebbe.

Ed alzando la man nuda e senz'arme,
antico segno di tregua o di pace,
disse a Grifon: - Non so, se non chiamarme
d'avere il torto, e dir che mi dispiace:
ma il mio poco giudicio, e lo istigarme
altrui, cadere in tanto error mi face.
Quel che di fare io mi credea al più vile
guerrier del mondo, ho fatto al più gentile.

E se bene alla ingiuria ed a quell'onta
che oggi fatta ti fu per ignoranza,
l'onor che ti fai qui s'adegua e sconta,
o (per più vero dir) supera e avanza;
la satisfazion ci serà pronta
a tutto mio sapere e mia possanza,
quando io conosca di poter far quella
per oro o per cittadi o per castella.

Chiedimi la metà di questo regno,
che io son per fartene oggi possessore;
che l'alta tua virtù non ti fa degno
di questo sol, ma che io ti doni il core:
e la tua mano in questo mezzo, pegno
di fé mi dona e di perpetuo amore. -
Così dicendo, da cavallo scese,
e vêr Grifon la destra mano stese.

Grifon, vedendo il re fatto benigno
venirgli per gittar le braccia al collo,
lasciò la spada e l'animo maligno,
e sotto l'anche ed umile abbracciollo.
Lo vide il re di due piaghe sanguigno,
e tosto fe' venir chi medicollo;
indi portar ne la cittade adagio,
e riposar nel suo real palagio.

Dove, ferito, alquanti giorni, inante
che si potesse armar, fece soggiorno.
Ma lascio lui, che al suo frate Aquilante
ed ad Astolfo in Palestina torno,
che di Grifon, poi che lasciò le sante
mura, cercare han fatto più d'un giorno
in tutti i lochi in Solima devoti,
e in molti ancor da la città remoti.

Or né l'uno né l'altro è sì indovino,
che di Grifon possa saper che sia:
ma venne lor quel Greco peregrino,
nel ragionare, a caso a darne spia,
dicendo che Orrigille avea il camino
verso Antiochia preso di Soria,
d'un nuovo drudo, che era di quel loco,
di subito arsa e d'improviso fuoco.

Dimandògli Aquilante, se di questo
così notizia avea data a Grifone:
e come l'affermò, s'avisò il resto,
perché fosse partito, e la cagione.
Che Orrigille ha seguito è manifesto
in Antiochia con intenzione
di levarla di man del suo rivale
con gran vendetta e memorabil male.

Non tolerò Aquilante che il fratello
solo e senz'esso a quell'impresa andasse;
e prese l'arme, e venne dietro a quello:
ma prima pregò il duca che tardasse
l'andata in Francia ed al paterno ostello,
fin che esso d'Antiochia ritornasse.
Scende al Zaffo e s'imbarca, che gli pare
e più breve e miglior la via del mare.

Ebbe un ostro-silocco allor possente
tanto nel mare, e sì per lui disposto,
che la terra del Surro il dì seguente
vide e Saffetto, un dopo l'altro tosto.
Passa Barutti e il Zibeletto, e sente
che da man manca gli è Cipro discosto.
A Tortosa da Tripoli, e alla Lizza
e al golfo di Laiazzo il camin drizza.

Quindi a levante fe' il nocchier la fronte
del navilio voltar snello e veloce;
ed a sorger n'andò sopra l'Oronte,
e colse il tempo, e ne pigliò la foce.
Gittar fece Aquilante in terra il ponte,
e n'uscì armato sul destrier feroce;
e contra il fiume il camin dritto tenne,
tanto che in Antiochia se ne venne.

Di quel Martano ivi ebbe ad informarse;
ed udì che a Damasco se n'era ito
con Orrigille, ove una giostra farse
dovea solenne per reale invito.
Tanto d'andargli dietro il desir l'arse,
certo che il suo german l'abbia seguito,
che d'Antiochia anco quel dì si tolle;
ma già per mar più ritornar non volle.

Verso Lidia e Larissa il camin piega:
resta più sopra Aleppe ricca e piena.
Dio, per mostrar che ancor di qua non niega
mercede al bene, ed al contrario pena,
Martano appresso a Mamuga una lega
ad incontrarsi in Aquilante mena.
Martano si facea con bella mostra
portare inanzi il pregio de la giostra.

Pensò Aquilante al primo comparire,
che il vil Martano il suo fratello fosse;
che l'ingannaron l'arme, e quel vestire
candido più che nievi ancor non mosse:
e con quell'oh! che d'allegrezza dire
si suole, incominciò; ma poi cangiosse
tosto di faccia e di parlar, che appresso
s'avide meglio, che non era desso.

Dubitò che per fraude di colei
che era con lui, Grifon gli avesse ucciso;
e: - Dimmi (gli gridò) tu che esser déi
un ladro e un traditor, come n'hai viso,
onde hai quest'arme avute? onde ti sei
sul buon destrier del mio fratello assiso?
Dimmi se il mio fratello è morto o vivo;
come de l'arme e del destrier l'hai privo. -

Quando Orrigille udì l'irata voce,
a dietro il palafren per fuggir volse;
ma di lei fu Aquilante più veloce,
e fecela fermar, volse o non volse.
Martano al minacciar tanto feroce
del cavallier, che sì improviso il colse,
pallido triema, come al vento fronda,
né sa quel che si faccia o che risponda.

Grida Aquilante, e fulminar non resta,
e la spada gli pon dritto alla strozza;
e giurando minaccia che la testa
ad Orrigille e a lui rimarrà mozza,
se tutto il fatto non gli manifesta.
Il mal giunto Martano alquanto ingozza,
e tra sé volve se può sminuire
sua grave colpa, e poi comincia a dire:

- Sappi, signor, che mia sorella è questa,
nata di buona e virtuosa gente,
ben che tenuta in vita disonesta
l'abbia Grifone obbrobriosamente:
e tale infamia essendomi molesta,
né per forza sentendomi possente
di torla a sì grande uom, feci disegno
d'averla per astuzia e per ingegno.

Tenni modo con lei, che avea desire
di ritornare a più lodata vita,
che essendosi Grifon messo a dormire,
chetamente da lui fêsse partita.
Così fece ella; e perché egli a seguire
non n'abbia, ed a turbar la tela ordita,
noi lo lasciammo disarmato e a piedi;
e qua venuti siàn, come tu vedi. -

Poteasi dar di somma astuzia vanto,
che colui facilmente gli credea;
e, fuor che 'n torgli arme e destrier e quanto
tenesse di Grifon, non gli nocea;
se non volea pulir sua scusa tanto,
che la facesse di menzogna rea:
buona era ogn'altra parte, se non quella
che la femina a lui fosse sorella.

Avea Aquilante in Antiochia inteso
essergli concubina, da più genti;
onde gridando, di furore acceso:
- Falsissimo ladron, tu te ne menti! -
un pugno gli tirò di tanto peso,
che ne la gola gli cacciò duo denti:
e senza più contesa, ambe le braccia
gli volge dietro, e d'una fune allaccia;

e parimente fece ad Orrigille,
ben che in sua scusa ella dicesse assai.
Quindi li trasse per casali e ville,
né li lasciò fin a Damasco mai;
e de le miglia mille volte mille
tratti gli avrebbe con pene e con guai,
fin che avesse trovato il suo fratello,
per farne poi come piacesse a quello.

Fece Aquilante lor scudieri e some
seco tornare, ed in Damasco venne,
e trovò di Grifon celebre il nome
per tutta la città batter le penne:
piccoli e grandi, ognun sapea già come
egli era, che sì ben corse l'antenne,
ed a cui tolto fu con falsa mostra
dal compagno la gloria de la giostra.

Il popul tutto al vil Martano infesto,
l'uno all'altro additandolo, lo scuopre.
- Non è (dicean), non è il ribaldo questo,
che si fa laude con l'altrui buone opre?
e la virtù di chi non è ben desto,
con la sua infamia e col suo obbrobrio copre?
Non è l'ingrata femina costei,
la qual tradisce i buoni e aiuta i rei? -

Altri dicean: - Come stan bene insieme
segnati ambi d'un marchio e d'una razza! -
Chi li bestemmia, chi lor dietro freme,
chi grida: - Impicca, abrucia, squarta, amazza! -
La turba per veder s'urta, si preme,
e corre inanzi alle strade, alla piazza.
Venne la nuova al re, che mostrò segno
d'averla cara più che un altro regno.

Senza molti scudier dietro o davante,
come si ritrovò, si mosse in fretta,
e venne ad incontrarsi in Aquilante,
che avea del suo Grifon fatto vendetta;
e quello onora con gentil sembiante,
seco lo 'nvita, e seco lo ricetta;
di suo consenso avendo fatto porre
i duo prigioni in fondo d'una torre.

Andaro insieme ove del letto mosso
Grifon non s'era, poi che fu ferito,
che vedendo il fratel, divenne rosso;
che ben stimò che avea il suo caso udito.
E poi che motteggiando un poco adosso
gli andò Aquilante, messero a partito
di dare a quelli duo iusto martoro,
venuti in man degli avversari loro.

Vuole Aquilante, vuole il re che mille
strazi ne sieno fatti; ma Grifone
(perché non osa dir sol d'Orrigille)
all'uno e all'altro vuol che si perdone.
Disse assai cose, e molto ben ordille;
fugli risposto; or per conclusione
Martano è disegnato in mano al boia,
che abbia a scoparlo, e non però che moia.

Legar lo fanno, e non tra' fiori e l'erba,
e per tutto scopar l'altra matina.
Orrigille captiva si riserba
fin che ritorni la bella Lucina,
al cui saggio parere, o lieve o acerba,
rimetton quei signor la disciplina.
Quivi stette Aquilante a ricrearsi
fin che il fratel fu sano e poté armarsi.

Re Norandin, che temperato e saggio
divenuto era dopo un tanto errore,
non potea non aver sempre il coraggio
di penitenza pieno e di dolore,
d'aver fatto a colui danno ed oltraggio,
che degno di mercede era e d'onore:
sì che dì e notte avea il pensiero intento
par farlo rimaner di sé contento.

E statuì nel publico cospetto
de la città, di tanta ingiuria rea,
con quella maggior gloria che a perfetto
cavallier per un re dar si potea,
di rendergli quel premio che intercetto
con tanto inganno il traditor gli avea:
e perciò fe' bandir per quel paese,
che faria un'altra giostra indi ad un mese.

Di che apparecchio fa tanto solenne,
quanto a pompa real possibil sia:
onde la Fama con veloci penne
portò la nuova per tutta Soria;
ed in Fenicia e in Palestina venne,
e tanto, che ad Astolfo ne diè spia,
il qual col viceré deliberosse
che quella giostra senza lor non fosse.

Per guerrier valoroso e di gran nome
la vera istoria Sansonetto vanta.
Gli diè battesmo Orlando, e Carlo (come
v'ho detto) a governar la Terra Santa.
Astolfo con costui levò le some,
per ritrovarsi ove la Fama canta,
sì che d'intorno n'ha piena ogni orecchia,
che in Damasco la giostra s'apparecchia.

Or cavalcando per quelle contrade
con non lunghi viaggi, agiati e lenti,
per ritrovarsi freschi alla cittade
poi di Damasco il dì de' torniamenti,
scontraro in una croce di due strade
persona che al vestire e a' movimenti
avea sembianza d'uomo, e femin' era,
ne le battaglie a maraviglia fiera.

La vergine Marfisa si nomava,
di tal valor, che con la spada in mano
fece più volte al gran signor di Brava
sudar la fronte e a quel di Montalbano;
e il dì e la notte armata sempre andava
di qua di là cercando in monte e in piano
con cavallieri erranti riscontrarsi,
ed immortale e gloriosa farsi.

Com'ella vide Astolfo e Sansonetto,
che appresso le venian con l'arme indosso,
prodi guerrier le parvero all'aspetto;
che erano ambeduo grandi e di buono osso:
e perché di provarsi avria diletto,
per isfidarli avea il destrier già mosso;
quando, affissando l'occhio più vicino,
conosciuto ebbe il duca paladino.

De la piacevolezza le sovenne
del cavallier, quando al Catai seco era:
e lo chiamò per nome, e non si tenne
la man nel guanto, e alzossi la visiera;
e con gran festa ad abbracciarlo venne,
come che sopra ogn'altra fosse altiera.
Non men da l'altra parte riverente
fu il paladino alla donna eccellente.

Tra lor si domandaron di lor via:
e poi che Astolfo, che prima rispose,
narrò come a Damasco se ne gìa,
dove le genti in arme valorose
avea invitato il re de la Soria
a dimostrar lor opre virtuose;
Marfisa, sempre a far gran pruove accesa,
- Voglio esser con voi (disse) a questa impresa. -

Sommamente ebbe Astolfo grata questa
compagna d'arme, e così Sansonetto.
Furo a Damasco il dì inanzi la festa,
e di fuora nel borgo ebbon ricetto:
e sin all'ora che dal sonno desta
l' Aurora il vecchiarel già suo diletto,
quivi si riposar con maggior agio,
che se smontati fossero al palagio.

E poi che il nuovo sol lucido e chiaro
per tutto sparsi ebbe i fulgenti raggi,
la bella donna e i duo guerrier s'armaro,
mandato avendo alla città messaggi;
che, come tempo fu, lor rapportaro
che per veder spezzar frassini e faggi
re Norandino era venuto al loco
che avea costituito al fiero gioco.

Senza più indugio alla città ne vanno,
e per la via maestra alla gran piazza,
dove aspettando il real segno stanno
quinci e quindi i guerrier di buona razza.
I premi che quel giorno si daranno
a chi vince, è uno stocco ed una mazza
guerniti riccamente, e un destrier, quale
sia convenevol dono a un signor tale.

Avendo Norandin fermo nel core
che, come il primo pregio, il secondo anco,
e d'ambedue le giostre il sommo onore
si debba guadagnar Grifone il bianco;
per dargli tutto quel che uom di valore
dovrebbe aver, né debbe far con manco,
posto con l'arme in questo ultimo pregio
ha stocco e mazza e destrier molto egregio.

L'arme che ne la giostra fatta dianzi
si doveano a Grifon che il tutto vinse,
e che usurpate avea con tristi avanzi
Martano che Grifone esser si finse,
quivi si fece il re pendere inanzi,
e il ben guernito stocco a quelle cinse,
e la mazza all'arcion del destrier messe,
perché Grifon l'un pregio e l'altro avesse.

Ma che sua intenzione avesse effetto
vietò quella magnanima guerriera,
che con Astolfo e col buon Sansonetto
in piazza nuovamente venuta era.
Costei, vedendo l'arme che io v'ho detto,
subito n'ebbe conoscenza vera:
però che già sue furo, e l'ebbe care
quanto si suol le cose ottime e rare;

ben che l'avea lasciate in su la strada
a quella volta che le fur d'impaccio,
quando per riaver sua buona spada
correa dietro a Brunel degno di laccio.
Questa istoria non credo che m'accada
altrimenti narrar; però la taccio.
Da me vi basti intendere a che guisa
quivi trovasse l'arme sue Marfisa.

Intenderete ancor, che come l'ebbe
riconosciute a manifeste note,
per altro che sia al mondo, non le avrebbe
lasciate un dì di sua persona vote.
Se più tenere un modo o un altro debbe
per racquistarle, ella pensar non puote:
ma se gli accosta a un tratto, e la man stende,
e senz'altro rispetto se le prende;

e per la fretta che ella n'ebbe, avenne
che altre ne prese, altre mandonne in terra.
Il re, che troppo offeso se ne tenne,
con uno sguardo sol le mosse guerra;
che il popul, che l'ingiuria non sostenne,
per vendicarlo e lance e spade afferra,
non rammentando ciò che i giorni inanti
nocque il dar noia ai cavallieri erranti.

Né fra vermigli fiori, azzurri e gialli
vago fanciullo alla stagion novella,
né mai si ritrovò fra suoni e balli
più volentieri ornata donna e bella;
che fra strepito d'arme e di cavalli,
e fra punte di lance e di quadrella,
dove si sparga sangue e si dia morte,
costei si truovi, oltre ogni creder forte.

Spinge il cavallo, e ne la turba sciocca
con l'asta bassa impetuosa fere;
e chi nel collo e chi nel petto imbrocca,
e fa con l'urto or questo or quel cadere:
poi con la spada uno ed un altro tocca,
e fa qual senza capo rimanere,
e qual rotto, e qual passato al fianco,
e qual del braccio privo o destro o manco.

L'ardito Astolfo e il forte Sansonetto,
che avean con lei vestita e piastra e maglia,
ben che non venner già per tal effetto,
pur, vedendo attaccata la battaglia,
abbassan la visiera de l'elmetto,
e poi la lancia per quella canaglia;
ed indi van con la tagliente spada
di qua di là facendosi far strada.

I cavallieri di nazion diverse,
che erano per giostrar quivi ridutti,
vedendo l'arme in tal furor converse,
e gli aspettati giuochi in gravi lutti
(che la cagion che avesse di dolerse
la plebe irata non sapeano tutti,
né che al re tanta ingiuria fosse fatta),
stavan con dubbia mente e stupefatta.

Di che altri a favorir la turba venne,
che tardi poi non se ne fu a pentire;
altri, a cui la città più non attenne
che gli stranieri, accorse a dipartire;
altri, più saggio, in man la briglia tenne,
mirando dove questo avesse a uscire.
Di quelli fu Grifone ed Aquilante,
che per vendicar l'arme andaro inante.

Essi vedendo il re che di veneno
avea le luci inebriate e rosse,
ed essendo da molti istrutti a pieno
de la cagion che la discordia mosse,
e parendo a Grifon che sua, non meno
che del re Norandin, l'ingiuria fosse;
s'avean le lance fatte dar con fretta,
e venian fulminando alla vendetta.

Astolfo d'altra parte Rabicano
venìa spronando a tutti gli altri inante,
con l'incantata lancia d'oro in mano,
che al fiero scontro abbatte ogni giostrante.
Ferì con essa e lasciò steso al piano
prima Grifone, e poi trovò Aquilante;
e de lo scudo toccò l'orlo a pena,
che lo gittò riverso in su l'arena.

I cavallier di pregio e di gran pruova
votan le selle inanzi a Sansonetto.
L'uscita de la piazza il popul truova:
il re n'arrabbia d'ira e di dispetto.
Con la prima corazza e con la nuova
Marfisa intanto, e l'uno e l'altro elmetto,
poi che si vide a tutti dare il tergo,
vincitrice venìa verso l'albergo.

Astolfo e Sansonetto non fur lenti
a seguitarla, e seco a ritornarsi
verso la porta (che tutte le genti
gli davan loco), ed al rastrel fermarsi.
Aquilante e Grifon, troppo dolenti
di vedersi a uno incontro riversarsi,
tenean per gran vergogna il capo chino,
né ardian venire inanzi a Norandino.

Presi e montati c'hanno i lor cavalli,
spronano dietro agli nimici in fretta.
Li segue il re con molti suoi vasalli,
tutti pronti o alla morte o alla vendetta.
La sciocca turba grida: - Dàlli dàlli -;
e sta lontana, e le novelle aspetta.
Grifone arriva ove volgean la fronte
i tre compagni, ed avean preso il ponte.

A prima giunta Astolfo raffigura,
che avea quelle medesime divise,
avea il cavallo, avea quella armatura
che ebbe dal dì che Orril fatale uccise.
Né miratol, né posto gli avea cura,
quando in piazza a giostrar seco si mise:
quivi il conobbe e salutollo; e poi
gli domandò de li compagni suoi;

e perché tratto avean quell'arme a terra,
portando al re sì poca riverenza.
Di suoi compagni il duca d'Inghilterra
diede a Grifon non falsa conoscenza:
de l'arme che attaccate avean la guerra,
disse che non n'avea troppa scienza;
ma perché con Marfisa era venuto,
dar le volea con Sansonetto aiuto.

Quivi con Grifon stando il paladino,
viene Aquilante, e lo conosce tosto
che parlar col fratel l'ode vicino,
e il voler cangia, che era mal disposto.
Giungean molti di quei di Norandino,
ma troppo non ardian venire accosto;
e tanto più, vedendo i parlamenti,
stavano cheti, e per udire intenti.

Alcun che intende quivi esser Marfisa,
che tiene al mondo il vanto in esser forte,
volta il cavallo, e Norandino avisa
che s'oggi non vuol perder la sua corte,
proveggia, prima che sia tutta uccisa,
di man trarla a Tesifone e alla Morte;
perché Marfisa veramente è stata,
che l'armatura in piazza gli ha levata.

Come re Norandino ode quel nome
così temuto per tutto Levante,
che facea a molti anco arricciar le chiome,
ben che spesso da lor fosse distante,
è certo che ne debbia venir come
dice quel suo, se non provede inante;
però gli suoi, che già mutata l'ira
hanno in timore, a sé richiama e tira.

Da l'altra parte i figli d'Oliviero
con Sansonetto e col figliuol d'Otone,
supplicando a Marfisa, tanto fero,
che si diè fine alla crudel tenzone.
Marfisa, giunta al re, con viso altiero
disse: - Io non so, signor, con che ragione
vogli quest'arme dar, che tue non sono,
al vincitor de le tue giostre in dono.

Mie sono l'arme, e 'n mezzo de la via
che vien d'Armenia, un giorno le lasciai,
perché seguire a piè mi convenia
un rubator che m'avea offesa assai:
e la mia insegna testimon ne fia,
che qui si vede, se notizia n'hai. -
E la mostrò ne la corazza impressa,
che era in tre parti una corona fessa.

- Gli è ver (rispose il re) che mi fur date,
son pochi dì, da un mercatante armeno;
e se voi me l'avesse domandate,
l'avreste avute, o vostre o no che sièno;
che avenga che a Grifon già l'ho donate,
ho tanta fede in lui, che nondimeno,
acciò a voi darle avessi anche potuto,
volentieri il mio don m'avria renduto.

Non bisogna allegar, per farmi fede
che vostre sien, che tengan vostra insegna:
basti il dirmelo voi; che vi si crede
più che a qual altro testimonio vegna.
Che vostre sian vostr'arme si concede
alla virtù di maggior premio degna.
Or ve l'abbiate, e più non si contenda;
e Grifon maggior premio da me prenda. -

Grifon che poco a cor avea quell'arme,
ma gran disio che il re si satisfaccia,
gli disse: - Assai potete compensarme,
se mi fate saper che io vi compiaccia. -
Tra sé disse Marfisa: - Esser qui parme
l'onor mio in tutto: - e con benigna faccia
volle a Grifon de l'arme esser cortese;
e finalmente in don da lui le prese.

Ne la città con pace e con amore
tornaro, ove le feste raddoppiarsi.
Poi la giostra si fe', di che l'onore
e il pregio Sansonetto fece darsi;
che Astolfo e i duo fratelli e la migliore
di lor, Marfisa, non volson provarsi,
cercando, com'amici e buon compagni,
che Sansonetto il pregio ne guadagni.

Stati che sono in gran piacere e in festa
con Norandino otto giornate o diece,
perché l'amor di Francia gli molesta,
che lasciar senza lor tanto non lece,
tolgon licenza; e Marfisa, che questa
via disiava, compagnia lor fece.
Marfisa avuto avea lungo disire
al paragon dei paladin venire;

e far esperienza se l'effetto
si pareggiava a tanta nominanza.
Lascia un altro in suo loco Sansonetto,
che di Ierusalem regga la stanza.
Or questi cinque in un drappello eletto,
che pochi pari al mondo han di possanza,
licenziati dal re Norandino,
vanno a Tripoli e al mar che v'è vicino.

E quivi una caracca ritrovaro,
che per Ponente mercanzie raguna.
Per loro e pei cavalli s'accordaro
con un vecchio patron che era da Luna.
Mostrava d'ogn'intorno il tempo chiaro,
che avrian per molti dì buona fortuna.
Sciolser dal lito, avendo aria serena,
e di buon vento ogni lor vela piena.

L'isola sacra all'amorosa dea
diede lor sotto un'aria il primo porto,
che non che a offender gli uomini sia rea,
ma stempra il ferro, e quivi è il viver corto.
Cagion n'è un stagno: e certo non dovea
Natura a Famagosta far quel torto
d'appressarvi Costanza acre e maligna,
quando al resto di Cipro è sì benigna.

Il grave odor che la palude esala
non lascia al legno far troppo soggiorno.
Quindi a un greco-levante spiegò ogni ala,
volando da man destra a Cipro intorno,
e surse a Pafo, e pose in terra scala;
e i naviganti uscir nel lito adorno,
chi per merce levar, chi per vedere
la terra d'amor piena e di piacere.

Dal mar sei miglia o sette, a poco a poco
si va salendo inverso il colle ameno.
Mirti e cedri e naranci e lauri il loco,
e mille altri soavi arbori han pieno.
Serpillo e persa e rose e gigli e croco
spargon da l'odorifero terreno
tanta suavità, che in mar sentire
la fa ogni vento che da terra spire.

Da limpida fontana tutta quella
piaggia rigando va un ruscel fecondo.
Ben si può dir che sia di Vener bella
il luogo dilettevole e giocondo;
che v'è ogni donna affatto, ogni donzella
piacevol più che altrove sia nel mondo:
e fa la dea che tutte ardon d'amore,
giovani e vecchie, infino all'ultime ore.

Quivi odono il medesimo che udito
di Lucina e de l'Orco hanno in Soria,
e come di tornare ella a marito
facea nuovo apparecchio in Nicosia.
Quindi il padrone (essendosi espedito,
e spirando buon vento alla sua via)
l'ancore sarpa, e fa girar la proda
verso ponente, ed ogni vela snoda.

Al vento di maestro alzò la nave
le vele all'orza, ed allargossi in alto.
Un ponente-libecchio, che soave
parve a principio e fin che il sol stette alto,
e poi si fe' verso la sera grave,
le leva incontra il mar con fiero assalto,
con tanti tuoni e tanto ardor di lampi,
che par che il ciel si spezzi e tutto avampi.

Stendon le nubi un tenebroso velo
che né sole apparir lascia né stella.
Di sotto il mar, di sopra mugge il cielo,
il vento d'ogn'intorno, e la procella
che di pioggia oscurissima e di gelo
i naviganti miseri flagella:
e la notte più sempre si diffonde
sopra l'irate e formidabil onde.

I naviganti a dimostrare effetto
vanno de l'arte in che lodati sono:
chi discorre fischiando col fraschetto,
e quanto han gli altri a far, mostra col suono;
chi l'ancore apparechia da rispetto,
e chi al mainare e chi alla scotta è buono;
chi il timone, chi l'arbore assicura,
chi la coperta di sgombrare ha cura.

Crebbe il tempo crudel tutta la notte,
caliginosa e più scura che inferno.
Tien per l'alto il padrone, ove men rotte
crede l'onde trovar, dritto il governo;
e volta ad or ad or contra le botte
del mar la proda, e de l'orribil verno,
non senza speme mai che, come aggiorni,
cessi fortuna, o più placabil torni.

Non cessa e non si placa, e più furore
mostra nel giorno, se pur giorno è questo,
che si conosce al numerar de l'ore,
non che per lume già sia manifesto.
Or con minor speranza e più timore
si dà in poter del vento il padron mesto:
volta la poppa all'onde, e il mar crudele
scorrendo se ne va con umil vele.

Mentre Fortuna in mar questi travaglia,
non lascia anco posar quegli altri in terra,
che sono in Francia, ove s'uccide e taglia
coi Saracini il popul d'Inghilterra.
Quivi Rinaldo assale, apre e sbaraglia
le schiere avverse, e le bandiere atterra.
Dissi di lui, che il suo destrier Baiardo
mosso avea contra a Dardinel gagliardo.

Vide Rinaldo il segno del quartiero,
di che superbo era il figliuol d'Almonte;
e lo stimò gagliardo e buon guerriero,
che concorrer d'insegna ardia col conte.
Venne più appresso, e gli parea più vero;
che avea d'intorno uomini uccisi a monte.
- Meglio è (gridò) che prima io svella e spenga
questo mal germe, che maggior divenga. -

Dovunque il viso drizza il paladino,
levasi ognuno, e gli dà larga strada;
né men sgombra il fedel, che il Saracino,
si reverita è la famosa spada.
Rinaldo, fuor che Dardinel meschino,
non vede alcuno, e lui seguir non bada.
Grida: - Fanciullo, gran briga ti diede
chi ti lasciò di questo scudo erede.

Vengo a te per provar, se tu m'attendi,
come ben guardi il quartier rosso e bianco;
che s'ora contra me non lo difendi,
difender contra Orlando il potrai manco. -
Rispose Dardinello: - Or chiaro apprendi
che s'io lo porto, il so difender anco;
e guadagnar più onor, che briga, posso
del paterno quartier candido e rosso.

Perché fanciullo io sia, non creder farme
però fuggire, o che il quartier ti dia:
la vita mi torrai, se mi toi l'arme;
ma spero in Dio che anzi il contrario fia.
Sia quel che vuol, non potrà alcun biasmarme
che mai traligni alla progenie mia. -
Così dicendo, con la spada in mano
assalse il cavallier da Montalbano.

Un timor freddo tutto il sangue oppresse,
che gli Africani aveano intorno al core,
come vider Rinaldo che si messe
con tanta rabbia incontra a quel signore,
con quanta andria un leon che al prato avesse
visto un torel che ancor non senta amore.
Il primo che ferì, fu il Saracino;
ma picchiò invan su l'elmo di Mambrino.

Rise Rinaldo, e disse: - Io vo' tu senta,
s'io so meglio di te trovar la vena. -
Sprona, e a un tempo al destrier la briglia allenta,
e d'una punta con tal forza mena,
d'una punta che al petto gli appresenta,
che gli la fa apparir dietro alla schena.
Quella trasse, al tornar, l'alma col sangue:
di sella il corpo uscì freddo ed esangue.

Come purpureo fior languendo muore,
che il vomere al passar tagliato lassa;
o come carco di superchio umore
il papaver ne l'orto il capo abbassa:
così, giù de la faccia ogni colore
cadendo, Dardinel di vita passa;
passa di vita, e fa passar con lui
l'ardire e la virtù de tutti i sui.

Qual soglion l'acque per umano ingegno
stare ingorgate alcuna volta e chiuse,
che quando lor vien poi rotto il sostegno,
cascano, e van con gran rumor difuse;
tal gli African, che avean qualche ritegno
mentre virtù lor Dardinello infuse,
ne vanno or sparti in questa parte e in quella,
che l'han veduto uscir morto di sella.

Chi vuol fuggir, Rinaldo fuggir lassa,
ed attende a cacciar chi vuol star saldo.
Si cade ovunque Ariodante passa,
che molto va quel dì presso a Rinaldo.
Altri Lionetto, altri Zerbin fracassa,
a gara ognuno a far gran prove caldo.
Carlo fa il suo dover, lo fa Oliviero,
Turpino e Guido e Salamone e Ugiero.

I Mori fur quel giorno in gran periglio
che 'n Pagania non ne tornasse testa;
ma il saggio re di Spagna dà di piglio,
e se ne va con quel che in man gli resta.
Restar in danno tien miglior consiglio,
che tutti i denar perdere e la vesta:
meglio è ritrarsi e salvar qualche schiera,
che, stando, esser cagion che il tutto pèra.

Verso gli alloggiamenti i segni invia,
che eron serrati d'argine e di fossa,
con Stordilan, col re d'Andologia,
col Portughese in una squadra grossa.
Manda a pregar il re di Barbaria,
che si cerchi ritrar meglio che possa;
e se quel giorno la persona e il loco
potrà salvar, non avrà fatto poco.

Quel re che si tenea spacciato al tutto,
né mai credea più riveder Biserta,
che con viso sì orribile e sì brutto
unquanco non avea Fortuna esperta,
s'allegrò che Marsilio avea ridutto
parte del campo in sicurezza certa:
ed a ritrarsi cominciò, e a dar volta
alle bandiere, e fe' sonar raccolta.

Ma la più parte de la gente rotta
né tromba né tambur né segno ascolta:
tanta fu la viltà, tanta la dotta,
che in Senna se ne vide affogar molta.
Il re Agramante vuol ridur la frotta:
seco ha Sobrino, e van scorrendo in volta;
e con lor s'affatica ogni buon duca,
che nei ripari il campo si riduca.

Ma né il re, né Sobrin, né duca alcuno
con prieghi, con minacce, con affanno
ritrar può il terzo, non che io dica ognuno,
dove l'insegne mal seguite vanno.
Morti o fuggiti ne son dua, per uno
che ne rimane, e quel non senza danno:
ferito è chi di dietro e chi davanti;
ma travagliati e lassi tutti quanti.

E con gran tema fin dentro alle porte
dei forti alloggiamenti ebbon la caccia:
ed era lor quel luogo anco mal forte,
con ogni proveder che vi si faccia
(che ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo sapea, quando volgea la faccia),
se non venia la notte tenebrosa,
che staccò il fatto, ed acquetò ogni cosa;

dal Creator accelerata forse,
che de la sua fattura ebbe pietade.
Ondeggiò il sangue per campagna, e corse
come un gran fiume, e dilagò le strade.
Ottantamila corpi numerorse,
che fur quel dì messi per fil di spade.
Villani e lupi uscir poi de le grotte
a dispogliargli e a devorar la notte.

Carlo non torna più dentro alla terra,
ma contra gli nimici fuor s'accampa,
ed in assedio le lor tende serra,
ed alti e spessi fuochi intorno avampa.
Il pagan si provede, e cava terra,
fossi e ripari e bastioni stampa;
va rivedendo, e tien le guardie deste,
né tutta notte mai l'arme si sveste.

Tutta la notte per gli alloggiamenti
dei malsicuri Saracini oppressi
si versan pianti, gemiti e lamenti,
ma quanto più si può, cheti e soppressi.
Altri, perché gli amici hanno e i parenti
lasciati morti, ed altri per se stessi,
che son feriti, e con disagio stanno:
ma più è la tema del futuro danno.

Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d'oscura stirpe nati in Tolomitta;
de' quai l'istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
che alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.

Cloridan, cacciator tutta sua vita,
di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d'oro:
angel parea di quei del sommo coro.

Erano questi duo sopra i ripari
con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che il signor suo non rammenti,
Dardinello d'Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.

Volto al cornpagno, disse: - O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m'incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.

Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà che io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
che io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell'opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra. -

Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perche un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.

Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: - E verrò anche io,
anche io vuo' pormi a sì lodevol pruove,
anche io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s'io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l'arme è meglio molto,
che poi di duol, s'avvien che mi sii tolto. -

Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra' nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l'arme e' carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
- Non son mai da lasciar l'occasioni.
Di questo stuol che il mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l'orecchi in ogni parte poni;
che io m'offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada. -

Così disse egli, e tosto il parlar tenne,
ed entrò dove il dotto Alfeo dormia,
che l'anno inanzi in corte a Carlo venne,
medico e mago e pien d'astrologia:
ma poco a questa volta gli sovenne;
anzi gli disse in tutto la bugia.
Predetto egli s'avea, che d'anni pieno
dovea morire alla sua moglie in seno:

ed or gli ha messo il cauto Saracino
la punta de la spada ne la gola.
Quattro altri uccide appresso all'indovino,
che non han tempo a dire una parola:
menzion dei nomi lor non fa Turpino,
e il lungo andar le lor notizie invola:
dopo essi Palidon da Moncalieri,
che sicuro dormia fra duo destrieri.

Poi se ne vien dove col capo giace
appoggiato al barile il miser Grillo:
avealo voto, e avea creduto in pace
godersi un sonno placido e tranquillo.
Troncògli il capo il Saracino audace:
esce col sangue il vin per uno spillo,
di che n'ha in corpo più d'una bigoncia;
e di ber sogna, e Cloridan lo sconcia.

E presso a Grillo, un Greco ed un Tedesco
spenge in dui colpi, Andropono e Conrado.
che de la notte avean goduto al fresco
gran parte, or con la tazza, ora col dado:
felici, se vegghiar sapeano a desco
fin che de l'Indo il sol passassi il guado.
Ma non potria negli uomini il destino,
se del futuro ognun fosse indovino.

Come impasto leone in stalla piena,
che lunga fame abbia smacrato e asciutto,
uccide, scanna, mangia, a strazio mena
l'infermo gregge in sua balìa condutto;
così il crudel pagan nel sonno svena
la nostra gente, e fa macel per tutto.
La spada di Medoro anco non ebe;
ma si sdegna ferir l'ignobil plebe.

Venuto era ove il duca di Labretto
con una dama sua dormia abbracciato;
e l'un con l'altro si tenea sì stretto,
che non saria tra lor l'aere entrato.
Medoro ad ambi taglia il capo netto.
Oh felice morire! oh dolce fato!
che come erano i corpi, ho così fede
che andar l'alme abbracciate alla lor sede.

Malindo uccise e Ardalico il fratello,
che del conte di Fiandra erano figli;
e l'uno e l'altro cavallier novello
fatto avea Carlo, e aggiunto all'arme i gigli,
perché il giorno amendui d'ostil macello
con gli stocchi tornar vide vermigli:
e terre in Frisa avea promesso loro,
e date avria; ma lo vietò Medoro.

Gli insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l'empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
che impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s'abbia a trovar un che non dorma.

E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.

Quivi dei corpi l'orrida mistura,
che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d'una nube oscura,
a' prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:

- O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
che in cielo, in terra e ne l'inferno mostri
l'alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l'orme;
mostrami ove il mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi. -

La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor che ella s'offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l'un campo e l'altro; e il monte e il pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all'altra mano,

Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d'Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto il viso gli bagnò d'amaro
pianto, che n'avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.

Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perche abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l'odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l'opera pia che quivi il fe' venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l'amata soma che gli ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l'ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l'alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.

E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
- Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto. -

E gittò il carco, perché si pensava
che il suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che il suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L'altro con molta fretta se n'andava,
come l'amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non che una morte.

Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s'abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
che in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.

Era a quel tempo ivi una selva antica,
d'ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s'intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d'averla i duo pagan sì amica,
che abbi a tenerli entro a' suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un'altra volta ad ascoltarlo aspetto.





CANTO DICIANNOVESIMO.


Alcun non può saper da chi sia amato,
quando felice in su la ruota siede:
però c'ha i veri e i finti amici a lato,
che mostran tutti una medesma fede.
Se poi si cangia in tristo il lieto stato,
volta la turba adulatrice il piede;
e quel che di cor ama riman forte,
ed ama il suo signor dopo la morte.

Se, come il viso, si mostrasse il core,
tal ne la corte è grande e gli altri preme,
e tal è in poca grazia al suo signore,
che la lor sorte muteriano insieme.
Questo umil diverria tosto il maggiore:
staria quel grande infra le turbe estreme.
Ma torniamo a Medor fedele e grato,
che 'n vita e in morte ha il suo signore amato.

Cercando già nel più intricato calle
il giovine infelice di salvarsi;
ma il grave peso che avea su le spalle,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non conosce il paese, e la via falle,
e torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s'era
l'altro, che avea la spalla più leggiera.

Cloridan s'è ridutto ove non sente
di chi segue lo strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede assente,
gli pare aver lasciato a dietro il core.
- Deh, come fui (dicea) sì negligente,
deh, come fui sì di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi! -

Così dicendo, ne la torta via
de l'intricata selva si ricaccia;
ed onde era venuto si ravvia,
e torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nimica voce che minaccia:
all' ultimo ode il suo Medoro, e vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.

Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin commanda e grida che sia preso.
L'infelice s'aggira com'un torno,
e quanto può si tien da lor difeso,
or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L'ha riposato al fin su l'erba, quando
regger nol puote, e gli va intorno errando:

come orsa, che l'alpestre cacciatore
ne la pietrosa tana assalita abbia,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
ira la 'nvita e natural furore
a spiegar l'ugne e a insanguinar le labbia;
amor la 'ntenerisce, e la ritira
a riguardare ai figli in mezzo l'ira.

Cloridan, che non sa come l'aiuti,
e che esser vuole a morir seco ancora,
ma non che in morte prima il viver muti,
che via non truovi ove più d'un ne mora;
mette su l'arco un de' suoi strali acuti,
e nascoso con quel sì ben lavora,
che fora ad uno Scotto le cervella,
e senza vita il fa cader di sella.

Volgonsi tutti gli altri a quella banda
ond'era uscito il calamo omicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda,
perché il secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi tirato abbia l'arco, e forte grida,
lo strale arriva e gli passa la gola,
e gli taglia pel mezzo la parola.

Or Zerbin, che era il capitano loro,
non poté a questo aver più pazienza.
Con ira e con furor venne a Medoro,
dicendo: - Ne farai tu penitenza. -
Stese la mano in quella chioma d'oro,
e strascinollo a sé con violenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, e non l'uccise.

Il giovinetto si rivolse a' prieghi,
e disse: - Cavallier, per lo tuo Dio,
non esser sì crudel, che tu mi nieghi
che io sepelisca il corpo del re mio.
Non vo' che altra pietà per me ti pieghi,
né pensi che di vita abbi disio:
ho tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta che al mio signor dia sepultura.

E se pur pascer vòi fiere ed augelli,
che 'n te il furor sia del teban Creonte,
fa lor convito di miei membri, e quelli
sepelir lascia del figliuol d'Almonte. -
Così dicea Medor con modi belli,
e con parole atte a voltare un monte;
e sì commosso già Zerbino avea,
che d'amor tutto e di pietade ardea.

In questo mezzo un cavallier villano,
avendo al suo signor poco rispetto,
ferì con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l'atto crudele e strano;
tanto più, che del colpo il giovinetto
vide cader sì sbigottito e smorto,
che 'n tutto giudicò che fosse morto.

E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: - Invendicato già non fia! -
e pien di mal talento si rivolse
al cavallier che fe' l'impresa ria:
ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi in un momento, e fuggì via.
Cloridan, che Medor vede per terra,
salta del bosco a discoperta guerra.

E getta l'arco, e tutto pien di rabbia
tra gli nimici il ferro intorno gira,
più per morir, che per pensier che egli abbia
di far vendetta che pareggi l'ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir si mira;
e tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.

Seguon gli Scotti ove la guida loro
per l'alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l'uno e l'altro Moro,
l'un morto in tutto, e l'altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando il sangue da sì larga vena,
che di sua vita al fin saria venuto,
se non sopravenia chi gli diè aiuto.

Gli sopravenne a caso una donzella,
avolta in pastorale ed umil veste,
ma di real presenza e in viso bella,
d'alte maniere e accortamente oneste.
Tanto è che io non ne dissi più novella,
che a pena riconoscer la dovreste:
questa, se non sapete, Angelica era,
del gran Can del Catai la figlia altiera.

Poi che il suo annello Angelica riebbe,
di che Brunel l'avea tenuta priva,
in tanto fasto, in tanto orgoglio crebbe,
che esser parea di tutto il mondo schiva.
Se ne va sola, e non si degnerebbe
compagno aver qual più famoso viva:
si sdegna a rimembrar che già suo amante
abbia Orlando nomato, o Sacripante.

E sopra ogn'altro error via più pentita
era del ben che già a Rinaldo volse,
troppo parendole essersi avilita,
che a riguardar sì basso gli occhi volse.
Tant'arroganza avendo Amor sentita,
più lungamente comportar non volse:
dove giacea Medor, si pose al varco,
e l'aspettò, posto lo strale all'arco.

Quando Angelica vide il giovinetto
languir ferito, assai vicino a morte,
che del suo re che giacea senza tetto,
più che del proprio mal si dolea forte;
insolita pietade in mezzo al petto
si sentì entrar per disusate porte,
che le fe' il duro cor tenero e molle,
e più, quando il suo caso egli narrolle.

E rivocando alla memoria l'arte
che in India imparò già di chirugia
(che par che questo studio in quella parte
nobile e degno e di gran laude sia;
e senza molto rivoltar di carte,
che il patre ai figli ereditario il dia),
si dispose operar con succo d'erbe,
che a più matura vita lo riserbe.

E ricordossi che passando avea
veduta un'erba in una piaggia amena;
fosse dittamo, o fosse panacea,
o non so qual, di tal effetto piena,
che stagna il sangue, e de la piaga rea
leva ogni spasmo e perigliosa pena.
La trovò non lontana, e quella colta,
dove lasciato avea Medor, diè volta.

Nel ritornar s'incontra in un pastore
che a cavallo pel bosco ne veniva,
cercando una iuvenca, che già fuore
duo dì di mandra e senza guardia giva.
Seco lo trasse ove perdea il vigore
Medor col sangue che del petto usciva;
e già n'avea di tanto il terren tinto,
che era omai presso a rimanere estinto.

Del palafreno Angelica giù scese,
e scendere il pastor seco fece anche.
Pestò con sassi l'erba, indi la prese,
e succo ne cavò fra le man bianche;
ne la piaga n'infuse, e ne distese
e pel petto e pel ventre e fin a l'anche:
e fu di tal virtù questo liquore,
che stagnò il sangue, e gli tornò il vigore;

e gli diè forza, che poté salire
sopra il cavallo che il pastor condusse.
Non però volse indi Medor partire
prima che in terra il suo signor non fusse.
E Cloridan col re fe' sepelire;
e poi dove a lei piacque si ridusse.
Ed ella per pietà ne l'umil case
del cortese pastor seco rimase.

Né fin che nol tornasse in sanitade,
volea partir: così di lui fe' stima,
tanto se intenerì de la pietade
che n'ebbe, come in terra il vide prima.
Poi vistone i costumi e la beltade,
roder si sentì il cor d'ascosa lima;
roder si sentì il core, e a poco a poco
tutto infiammato d'amoroso fuoco.

Stava il pastore in assai buona e bella
stanza, nel bosco infra duo monti piatta,
con la moglie e coi figli; ed avea quella
tutta di nuovo e poco inanzi fatta.
Quivi a Medoro fu per la donzella
la piaga in breve a sanità ritratta:
ma in minor tempo si sentì maggiore
piaga di questa avere ella nel core.

Assai più larga piaga e più profonda
nel cor sentì da non veduto strale,
che da' begli occhi e da la testa bionda
di Medoro aventò l'Arcier c'ha l'ale.
Arder si sente, e sempre il fuoco abonda;
e più cura l'altrui che il proprio male:
di sé non cura, e non è ad altro intenta,
che a risanar chi lei fere e tormenta.

La sua piaga più s'apre e più incrudisce,
quanto più l'altra si ristringe e salda.
Il giovine si sana: ella languisce
di nuova febbre, or agghiacciata, or calda.
Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce:
la misera si strugge, come falda
strugger di nieve intempestiva suole,
che in loco aprico abbia scoperta il sole.

Se di disio non vuol morir, bisogna
che senza indugio ella se stessa aiti:
e ben le par che di quel che essa agogna,
non sia tempo aspettar che altri la 'nviti.
Dunque, rotto ogni freno di vergogna,
la lingua ebbe non men che gli occhi arditi:
e di quel colpo domandò mercede,
che, forse non sapendo, esso le diede.

O conte Orlando, o re di Circassia,
vostra inclita virtù, dite, che giova?
Vostro alto onor dite in che prezzo sia,
o che mercé vostro servir ritruova.
Mostratemi una sola cortesia
che mai costei v'usasse, o vecchia o nuova,
per ricompensa e guidardone e merto
di quanto avete già per lei sofferto.

Oh se potessi ritornar mai vivo,
quanto ti parria duro, o re Agricane!
che già mostrò costei sì averti a schivo
con repulse crudeli ed inumane.
O Ferraù, o mille altri che io non scrivo,
che avete fatto mille pruove vane
per questa ingrata, quanto aspro vi fôra,
s'a costu' in braccio voi la vedesse ora!

Angelica a Medor la prima rosa
coglier lasciò, non ancor tocca inante:
né persona fu mai sì aventurosa,
che in quel giardin potesse por le piante.
Per adombrar, per onestar la cosa,
si celebrò con cerimonie sante
il matrimonio, che auspice ebbe Amore,
e pronuba la moglie del pastore.

Fersi le nozze sotto all'umil tetto
le più solenni che vi potean farsi;
e più d'un mese poi stero a diletto
i duo tranquilli amanti a ricrearsi.
Più lunge non vedea del giovinetto
la donna, né di lui potea saziarsi;
né, per mai sempre pendergli dal collo,
il suo disir sentia di lui satollo.

Se stava all'ombra o se del tetto usciva,
avea dì e notte il bel giovine a lato:
matino e sera or questa or quella riva
cercando andava, o qualche verde prato:
nel mezzo giorno un antro li copriva,
forse non men di quel commodo e grato,
che ebber, fuggendo l'acque, Enea e Dido,
de' lor secreti testimonio fido.

Fra piacer tanti, ovunque un arbor dritto
vedesse ombrare o fonte o rivo puro,
v'avea spillo o coltel subito fitto;
così, se v'era alcun sasso men duro:
ed era fuori in mille luoghi scritto,
e così in casa in altritanti il muro,
Angelica e Medoro, in vari modi
legati insieme di diversi nodi.

Poi che le parve aver fatto soggiorno
quivi più che a bastanza, fe' disegno
di fare in India del Catai ritorno,
e Medor coronar del suo bel regno.
Portava al braccio un cerchio d'oro, adorno
di ricche gemme, in testimonio e segno
del ben che il conte Orlando le volea;
e portato gran tempo ve l'avea.

Quel donò già Morgana a Ziliante,
nel tempo che nel lago ascoso il tenne;
ed esso, poi che al padre Monodante,
per opra e per virtù d'Orlando venne,
lo diede a Orlando: Orlando che era amante,
di porsi al braccio il cerchio d'or sostenne,
avendo disegnato di donarlo
alla regina sua di che io vi parlo.

Non per amor del paladino, quanto
perche era ricco e d'artificio egregio,
caro avuto l'avea la donna tanto,
che più non si può aver cosa di pregio.
Se lo serbò ne l'Isola del pianto,
non so già dirvi con che privilegio,
là dove esposta al marin mostro nuda
fu da la gente inospitale e cruda.

Quivi non si trovando altra mercede
che al buon pastor ed alla moglie dessi,
che serviti gli avea con sì gran fede
dal dì che nel suo albergo si fur messi,
levò dal braccio il cerchio e gli lo diede,
e volse per suo amor che lo tenessi.
Indi saliron verso la montagna
che divide la Francia da la Spagna.

Dentro a Valenza o dentro a Barcellona
per qualche giorno avea pensato porsi,
fin che accadesse alcuna nave buona
che per Levante apparecchiasse a sciorsi.
Videro il mar scoprir sotto a Girona
ne lo smontar giù dei montani dorsi;
e costeggiando a man sinistra il lito,
a Barcellona andar pel camin trito.

Ma non vi giunser prima, che un uom pazzo
giacer trovato in su l'estreme arene,
che, come porco, di loto e di guazzo
tutto era brutto e volto e petto e schene.
Costui si scagliò lor come cagnazzo
che assalir forestier subito viene;
e diè lor noia, e fu per far lor scorno.
Ma di Marfisa a ricontarvi torno.

Di Marfisa, d'Astolfo, d' Aquilante,
di Grifone e degli altri io vi vuo' dire,
che travagliati, e con la morte inante,
mal si poteano incontra il mar schermire:
che sempre più superba e più arrogante
crescea fortuna le minacce e l'ire;
e già durato era tre dì lo sdegno,
né di placarsi ancor mostrava segno.

Castello e ballador spezza e fracassa
l'onda nimica e il vento ognor più fiero:
se parte ritta il verno pur ne lassa,
la taglia e dona al mar tutta il nocchiero.
Chi sta col capo chino in una cassa
su la carta appuntando il suo sentiero
a lume di lanterna piccolina,
e chi col torchio giù ne la sentina.

Un sotto poppe, un altro sotto prora
si tiene inanzi l'oriuol da polve:
e torna a rivedere ogni mezz'ora
quanto è già corso, ed a che via si volve:
indi ciascun con la sua carta fuora
a mezza nave il suo parer risolve,
là dove a un tempo i marinari tutti
sono a consiglio dal padron ridutti.

Chi dice: - Sopra Linmissò venuti
siamo, per quel che io trovo, alle seccagne; -
chi: - Di Tripoli appresso i sassi acuti,
dove il mar le più volte i legni fragne; -
chi dice: - Siamo in Satalia perduti,
per cui più d'un nocchier sospira e piagne. -
Ciascun secondo il parer suo argomenta,
ma tutti ugual timor preme e sgomenta.

Il terzo giorno con maggior dispetto
gli assale il vento, e il mar più irato freme;
e l'un ne spezza e portane il trinchetto,
e il timon l'altro, e chi lo volge insieme.
Ben è di forte e di marmoreo petto
e più duro che acciar, che ora non teme.
Marfisa, che già fu tanto sicura,
non negò che quel giorno ebbe paura.

Al monte Sinaì fu peregrino,
a Gallizia promesso, a Cipro, a Roma,
al Sepolcro, alla Vergine d'Ettino,
e se celebre luogo altro si noma.
Sul mare intanto, e spesso al ciel vicino
l'afflitto e conquassato legno toma,
di cui per men travaglio avea il padrone
fatto l'arbor tagliar de l'artimone.

E colli e casse e ciò che v'è di grave
gitta da prora e da poppe e da sponde;
e fa tutte sgombrar camere e giave,
e dar le ricche merci all'avide onde.
Altri attende alle trombe, e a tor di nave
l'acque importune, e il mar nel mar rifonde;
soccorre altri in sentina, ovunque appare
legno da legno aver sdrucito il mare.

Stero in questo travaglio, in questa pena
ben quattro giorni, e non avean più schermo;
e n'avria avuto il mar vittoria piena,
poco più che il furor tenesse fermo:
ma diede speme lor d'aria serena
la disiata luce di santo Ermo,
che in prua s'una cocchina a por si venne;
che più non v'erano arbori né antenne.

Veduto fiammeggiar la bella face,
s'inginocchiaro tutti i naviganti,
e domandaro il mar tranquillo e pace
con umidi occhi e con voci tremanti.
La tempesta crudel, che pertinace
fu sin allora, non andò più inanti:
Maestro e Traversia più non molesta,
e sol del mar tiràn Libecchio resta.

Questo resta sul mar tanto possente,
e da la negra bocca in modo esala,
ed è con lui sì il rapido corrente
de l'agitato mar che in fretta cala,
che porta il legno più velocemente,
che pelegrin falcon mai facesse ala,
con timor del nocchier che al fin del mondo
non lo trasporti, o rompa, o cacci al fondo.

Rimedio a questo il buon nocchier ritruova,
che commanda gittar per poppa spere,
e caluma la gomona, e fa pruova
di duo terzi del corso ritenere.
Questo consiglio, e più l'augurio giova
di chi avea acceso in proda le lumiere:
questo il legno salvò che peria forse,
e fe' che in alto mar sicuro corse.

Nel golfo di Laiazzo invêr Soria
sopra una gran città si trovò sorto,
e sì vicino al lito, che scopria
l'uno e l'altro castel che serra il porto.
Come il padron s'accorse de la via
che fatto avea, ritornò in viso smorto;
che né porto pigliar quivi volea,
né stare in alto, né fuggir potea.

Né potea stare in alto, né fuggire,
che gli arbori e l'antenne avea perdute:
eran tavole e travi pel ferire
del mar, sdrucite, macere e sbattute.
E il pigliar porto era un voler morire,
o perpetuo legarsi in servitute;
che riman serva ogni persona, o morta,
che quivi errore o ria fortuna porta.

E il stare in dubbio era con gran periglio
che non salisser genti de la terra
con legni armati, e al suo desson di piglio,
mal atto a star sul mar, non che a far guerra.
Mentre il padron non sa pigliar consiglio,
fu domandato da quel d'Inghilterra,
chi gli tenea sì l'animo suspeso,
e perché già non avea il porto preso.

Il padron narrò lui che quella riva
tutta tenean le femine omicide,
di quai l'antiqua legge ognun che arriva
in perpetuo tien servo, o che l'uccide;
e questa sorte solamente schiva
chi nel campo dieci uomini conquide,
e poi la notte può assaggiar nel letto
diece donzelle con carnal diletto.

E se la prima pruova gli vien fatta,
e non fornisca la seconda poi,
egli vien morto, e chi è con lui si tratta
da zappatore o da guardian di buoi.
Se di far l'uno e l'altro è persona atta,
impetra libertade a tutti i suoi;
a sé non già, c'ha da restar marito
di diece donne, elette a suo appetito.

Non poté udire Astolfo senza risa
de la vicina terra il rito strano.
Sopravien Sansonetto, e poi Marfisa,
indi Aquilante, e seco il suo germano.
Il padron parimente lor divisa
la causa che dal porto il tien lontano:
- Voglio (dicea) che inanzi il mar m'affoghi,
che io senta mai di servitude i gioghi. -

Del parer del padrone i marinari
e tutti gli altri naviganti furo;
ma Marfisa e' compagni eran contrari,
che, più che l'acque, il lito avean sicuro.
Via più il vedersi intorno irati i mari,
che centomila spade, era lor duro.
Parea lor questo e ciascun altro loco
dov'arme usar potean, da temer poco.

Bramavano i guerrier venire a proda,
ma con maggior baldanza il duca inglese;
che sa, come del corno il rumor s'oda,
sgombrar d'intorno si farà il paese.
Pigliare il porto l'una parte loda,
e l'altra il biasma, e sono alle contese;
ma la più forte in guisa il padron stringe,
che al porto, suo malgrado, il legno spinge.

Già, quando prima s'erano alla vista
de la città crudel sul mar scoperti,
veduto aveano una galea provista
di molta ciurma e di nochieri esperti
venire al dritto a ritrovar la trista
nave, confusa di consigli incerti;
che, l'alta prora alle sua poppe basse
legando, fuor de l'empio mar la trasse.

Entrar nel porto remorchiando, e a forza
di remi più che per favor di vele;
però che l'alternar di poggia e d'orza
avea levato il vento lor crudele.
Intanto ripigliar la dura scorza
i cavallieri e il brando lor fedele;
ed al padrone ed a ciascun che teme
non cessan dar con lor conforti speme.

Fatto è il porto a sembianza d'una luna,
e gira più di quattro miglia intorno:
seicento passi è in bocca, ed in ciascuna
parte una rocca ha nel finir del corno.
Non teme alcuno assalto di fortuna,
se non quando gli vien dal mezzogiorno.
A guisa di teatro se gli stende
la città a cerco, e verso il poggio ascende.

Non fu quivi sì tosto il legno sorto
(già l'aviso era per tutta la terra),
che fur seimila femine sul porto,
con gli archi in mano, in abito di guerra;
e per tor de la fuga ogni conforto,
tra l'una rocca e l'altra il mar si serra:
da navi e da catene fu rinchiuso,
che tenean sempre istrutte a cotal uso.

Una che d'anni alla Cumea d'Apollo
poté uguagliarsi e alla madre d'Ettorre,
fe' chiamare il padrone, e domandollo
se si volean lasciar la vita torre,
o se voleano pur al giogo il collo,
secondo la costuma, sottoporre.
Degli dua l'uno aveano a torre: o quivi
tutti morire, o rimaner captivi.

- Gli è ver (dicea) che s'uom si ritrovasse
tra voi così animoso e così forte,
che contra dieci nostri uomini osasse
prender battaglia, e desse lor la morte,
e far con diece femine bastasse
per una notte ufficio di consorte;
egli si rimarria principe nostro,
e gir voi ne potreste al camin vostro.

E sarà in vostro arbitrio il restar anco,
vogliate o tutti o parte; ma con patto,
che chi vorrà restare, e restar franco,
marito sia per diece femine atto.
Ma quando il guerrier vostro possa manco
dei dieci che gli fian nimici a un tratto,
o la seconda pruova non fornisca,
vogliàn voi siate schiavi, egli perisca. -

Dove la vecchia ritrovar timore
credea nei cavallier, trovò baldanza;
che ciascun si tenea tal feritore,
che fornir l'uno e l'altro avea speranza:
ed a Marfisa non mancava il core,
ben che mal atta alla seconda danza;
ma dove non l'aitasse la natura,
con la spada supplir stava sicura.

Al padron fu commessa la risposta,
prima conchiusa per commun consiglio:
che avean chi lor potria di sé a lor posta
ne la piazza e nel letto far periglio.
Levan l'offese, ed il nocchier s'accosta,
getta la fune e le fa dar di piglio;
e fa acconciare il ponte, onde i guerrieri
escono armati, e tranno i lor destrieri.

E quindi van per mezzo la cittade,
e vi ritruovan le donzelle altiere,
succinte cavalcar per le contrade,
ed in piazza armeggiar come guerriere.
Né calciar quivi spron, né cinger spade,
né cosa d'arme puoi gli uomini avere,
se non dieci alla volta, per rispetto
de l'antiqua costuma che io v'ho detto.

Tutti gli altri alla spola, all'aco, al fuso,
al pettine ed all'aspo sono intenti,
con vesti feminil che vanno giuso
insin al piè, che gli fa molli e lenti.
Si tengono in catena alcuni ad uso
d'arar la terra o di guardar gli armenti.
Son pochi i maschi, e non son ben, per mille
femine, cento, fra cittadi e ville.

Volendo tôrre i cavallieri a sorte
chi di lor debba, per commune scampo
l'una decina in piazza porre a morte,
e poi l'altra ferir ne l'altro campo;
non disegnavan di Marfisa forte,
stimando che trovar dovesse inciampo
ne la seconda giostra de la sera,
che ad averne vittoria abil non era.

Ma con gli altri esser volse ella sortita:
or sopra lei la sorte in somma cade.
Ella dicea: - Prima v'ho a por la vita,
che v'abbiate a por voi la libertade;
ma questa spada (e lor la spada addita,
che cinta avea) vi do per securtade
che io vi sciorrò tutti gli intrichi al modo
che fe' Alessandro il gordiano nodo.

Non vuo' mai più che forestier si lagni
di questa terra, fin che il mondo dura. -
Così disse; e non potero i compagni
torle quel che le dava sua aventura.
Dunque, o che in tutto perda, o lor guadagni
la libertà, le lasciano la cura.
Ella di piastre già guernita e maglia,
s'appresentò nel campo alla battaglia.

Gira una piazza al sommo de la terra,
di gradi a seder atti intorno chiusa;
che solamente a giostre, a simil guerra,
a cacce, a lotte, e non ad altro s'usa:
quattro porte ha di bronzo, onde si serra.
Quivi la moltitudine confusa
de l'armigere femine si trasse;
e poi fu detto a Marfisa che entrasse.

Entrò Marfisa s'un destrier leardo,
tutto sparso di macchie e di rotelle,
di piccol capo e d'animoso sguardo,
d'andar superbo e di fattezze belle.
Pel maggiore e più vago e più gagliardo,
di mille che n'avea con briglie e selle,
scelse in Damasco, e realmente ornollo,
ed a Marfisa Norandin donollo.

Da mezzogiorno e da la porta d'austro
entrò Marfisa; e non vi stette guari,
che appropinquare e risonar pel claustro
udì di trombe acuti suoni e chiari:
e vide poi di verso il freddo plaustro
entrar nel campo i dieci suoi contrari.
Il primo cavallier che apparve inante,
di valer tutto il resto avea sembiante.

Quel venne in piazza sopra un gran destriero,
che, fuor che in fronte e nel piè dietro manco,
era, più che mai corbo, oscuro e nero:
nel piè e nel capo avea alcun pelo bianco.
Del color del cavallo il cavalliero
vestito, volea dir che, come manco
del chiaro era l'oscuro, era altretanto
il riso in lui verso l'oscuro pianto.

Dato che fu de la battaglia il segno,
nove guerrier l'aste chinaro a un tratto:
ma quel dal nero ebbe il vantaggio a sdegno;
si ritirò, né di giostrar fece atto.
Vuol che alle leggi inanzi di quel regno,
che alla sua cortesia, sia contrafatto.
Si tra' da parte e sta a veder le pruove
che una sola asta farà contra a nove.

Il destrier, che avea andar trito e soave,
portò all'incontro la donzella in fretta,
che nel corso arrestò lancia sì grave,
che quattro uomini avriano a pena retta.
L'avea pur dianzi al dismontar di nave
per la più salda in molte antenne eletta.
Il fier sembiante con che ella si mosse,
mille facce imbiancò, mille cor scosse.

Aperse al primo che trovò sì il petto,
che fôra assai che fosse stato nudo:
gli passò la corazza e il soprapetto,
ma prima un ben ferrato e grosso scudo.
Dietro le spalle un braccio il ferro netto
si vide uscir: tanto fu il colpo crudo.
Quel fitto ne la lancia a dietro lassa,
e sopra gli altri a tutta briglia passa.

E diede d'urto a chi venìa secondo,
ed a chi terzo sì terribil botta,
che rotto ne la schiena uscir del mondo
fe' l'uno e l'altro, e de la sella a un'otta;
sì duro fu l'incontro e di tal pondo,
sì stretta insieme ne venìa la frotta.
Ho veduto bombarde a quella guisa
le squadre aprir, che fe' lo stuol Marfisa.

Sopra di lei più lance rotte furo;
ma tanto a quelli colpi ella si mosse,
quanto nel giuoco de le cacce un muro
si muova a' colpi de le palle grosse.
L'usbergo suo di tempra era sì duro,
che non gli potean contra le percosse;
e per incanto al fuoco de l'Inferno
cotto, e temprato all'acque fu d'Averno.

Al fin del campo il destrier tenne e volse,
e fermò alquanto: e in fretta poi lo spinse
incontra gli altri, e sbarragliolli e sciolse,
e di lor sangue insin all'elsa tinse.
All'uno il capo, all'altro il braccio tolse;
e un altro in guisa con la spada cinse,
che il petto in terra andò col capo ed ambe
le braccia, e in sella il ventre era e le gambe.

Lo partì, dico, per dritta misura,
de le coste e de l'anche alle confine,
e lo fe' rimaner mezza figura,
qual dinanzi all'imagini divine,
poste d'argento, e più di cera pura
son da genti lontane e da vicine,
che a ringraziarle e sciorre il voto vanno
de le domande pie che ottenute hanno.

Ad uno che fuggia, dietro si mise,
né fu a mezzo la piazza, che lo giunse;
e il capo e il collo in modo gli divise,
che medico mai più non lo raggiunse.
In somma tutti un dopo l'altro uccise,
o ferì sì che ogni vigor n'emunse;
e fu sicura che levar di terra
mai più non si potrian per farle guerra.

Stato era il cavallier sempre in un canto,
che la decina in piazza avea condutta;
però che contra un solo andar con tanto
vantaggio opra gli parve iniqua e brutta.
Or che per una man torsi da canto
vide sì tosto la compagna tutta,
per dimostrar che la tardanza fosse
cortesia stata e non timor, si mosse.

Con man fe' cenno di volere, inanti
che facesse altro, alcuna cosa dire;
e non pensando in sì viril sembianti
che s'avesse una vergine a coprire,
le disse; - Cavalliero, omai di tanti
esser déi stanco, c'hai fatto morire;
e s'io volessi, più di quel che sei,
stancarti ancor, discortesia farei.

Che ti risposi in sino al giorno nuovo,
e doman torni in campo, ti concedo.
Non mi fia onor se teco oggi mi pruovo,
che travagliato e lasso esser ti credo. -
- Il travagliare in arme non m'è nuovo,
né per sì poco alla fatica cedo
(disse Marfisa); e spero che a tuo costo
io ti farò di questo aveder tosto.

De la cortese offerta ti ringrazio,
ma riposare ancor non mi bisogna;
e ci avanza del giorno tanto spazio,
che a porlo tutto in ozio è pur vergogna. -
Rispose il cavallier: - Fuss'io sì sazio
d'ogn'altra cosa che il mio core agogna,
come t'ho in questo da saziar; ma vedi
che non ti manchi il dì più che non credi. -

Così disse egli, e fe' portare in fretta
due grosse lance, anzi due gravi antenne;
ed a Marfisa dar ne fe' l'eletta:
tolse l'altra per sé, che indietro venne.
Già sono in punto, ed altro non s'aspetta
che un alto suon che lor la giostra accenne.
Ecco la terra e l'aria e il mar rimbomba
nel mover loro al primo suon di tromba.

Trar fiato, bocca aprir, o battere occhi
non si vedea de' riguardanti alcuno:
tanto a mirare a chi la palma tocchi
dei duo campioni, intento era ciascuno.
Marfisa, acciò che de l'arcion trabocchi,
sì che mai non si levi, il guerrier bruno,
drizza la lancia; e il guerrier bruno forte
studia non men di por Marfisa a morte.

Le lance ambe di secco e suttil salce,
non di cerro sembrar grosso ed acerbo,
così n'andaro in tronchi fin al calce;
e l'incontro ai destrier fu sì superbo,
che parimente parve da una falce
de le gambe esser lor tronco ogni nerbo.
Cadero ambi ugualmente; ma i campioni
fur presti a disbrigarsi dagli arcioni.

A mille cavallieri alla sua vita
al primo incontro avea la sella tolta
Marfisa, ed ella mai non n'era uscita;
e n'uscì, come udite, a questa volta.
Del caso strano non pur sbigottita,
ma quasi fu per rimanerne stolta.
Parve anco strano al cavallier dal nero,
che non solea cader già di leggiero.

Tocca avean nel cader la terra a pena,
che furo in piedi e rinovar l'assalto.
Tagli e punte a furor quivi si mena,
quivi ripara or scudo, or lama, or salto.
Vada la botta vota o vada piena,
l'aria ne stride e ne risuona in alto.
Quelli elmi, quelli usberghi, quelli scudi
mostrar che erano saldi più che incudi.

Se de l'aspra donzella il braccio è grave,
né quel del cavallier nimico è lieve.
Ben la misura ugual l'un da l'altro have:
quanto a punto l'un dà, tanto riceve.
Chi vol due fiere audaci anime brave,
cercar più là di queste due non deve,
né cercar più destrezza né più possa;
che n'han tra lor quanto più aver si possa.

Le donne, che gran pezzo mirato hanno
continuar tante percosse orrende,
e che nei cavallier segno d'affanno
e di stanchezza ancor non si comprende;
dei duo miglior guerrier lode lor danno,
che sien tra quanto il mar sua braccia estende.
Par lor che, se non fosser più che forti,
esser dovrian sol del travaglio morti.

Ragionando tra sé, dicea Marfisa:
- Buon fu per me, che costui non si mosse;
che andava a risco di restarne uccisa,
se dianzi stato coi compagni fosse,
quando io mi truovo a pena a questa guisa
di potergli star contra alle percosse. -
Così dice Marfisa; e tuttavolta
non resta di menar la spada in volta.

- Buon fu per me (dicea quell'altro ancora),
che riposar costui non ho lasciato.
Difender me ne posso a fatica ora
che de la prima pugna è travagliato.
Se fin al nuovo dì facea dimora
a ripigliar vigor, che saria stato?
Ventura ebbi io, quanto più possa aversi,
che non volesse tor quel che io gli offersi. -

La battaglia durò fin alla sera,
né chi avesse anco il meglio era palese;
né l'un né l'altro più senza lumiera
saputo avria come schivar l'offese.
Giunta la notte, all'inclita guerriera
fu primo a dir il cavallier cortese:
- Che faren, poi che con ugual fortuna
n'ha sopragiunti la notte importuna?

Meglio mi par che il viver tuo prolunghi
almeno insino a tanto che s'aggiorni.
Io non posso concederti che aggiunghi
fuor che una notte picciola ai tua giorni.
E di ciò che non gli abbi aver più lunghi,
la colpa sopra me non vuo' che torni:
torni pur sopra alla spietata legge
del sesso feminil che il loco regge.

Se di te duolmi e di quest'altri tuoi,
lo sa colui che nulla cosa ha oscura.
Con tuoi compagni star meco tu puoi:
con altri non avrai stanza sicura;
perché la turba, a cu' i mariti suoi
oggi uccisi hai, già contra te congiura.
Ciascun di questi a cui dato hai la morte,
era di diece femine consorte.

Del danno c'han da te ricevut'oggi,
disian novanta femine vendetta:
sì che se meco ad albergar non poggi,
questa notte assalito esser t'aspetta. -
Disse Marfisa: - Accetto che m'alloggi,
con sicurtà che non sia men perfetta
in te la fede e la bontà del core,
che sia l'ardire e il corporal valore.

Ma che t'incresca che m'abbi ad uccidere,
ben ti può increscere anco del contrario.
Fin qui non credo che l'abbi da ridere,
perche io sia men di te duro avversario.
O la pugna seguir vogli o dividere,
o farla all'uno o all'altro luminario,
ad ogni cenno pronta tu m'avrai,
e come ed ogni volta che vorrai. -

Così fu differita la tenzone
fin che di Gange uscisse il nuovo albore,
e si restò senza conclusione
chi d'essi duo guerrier fosse il migliore.
Ad Aquilante venne ed a Grifone
e così agli altri il liberal signore,
e li pregò che fin al nuovo giorno
piacesse lor di far seco soggiorno.

Tenner lo 'nvito senza alcun sospetto:
indi, a splendor de bianchi torchi ardenti,
tutti saliro ov'era un real tetto,
distinto in molti adorni alloggiamenti.
Stupefatti al levarsi de l'elmetto,
mirandosi, restaro i combattenti;
che il cavallier, per quanto apparea fuora,
non eccedeva i diciotto anni ancora.

Si maraviglia la donzella, come
in arme tanto un giovinetto vaglia;
si maraviglia l'altro, che alle chiome
s'avede con chi avea fatto battaglia:
e si domandan l'un con l'altro il nome,
e tal debito tosto si ragguaglia.
Ma come si nomasse il giovinetto,
ne l'altro canto ad ascoltar v'aspetto.





CANTO VENTESIMO.


Le donne antique hanno mirabil cose
fatto ne l'arme e ne le sacre muse;
e di lor opre belle e gloriose
Gran lume in tutto il mondo si diffuse.
Arpalice e Camilla son famose,
perché in battaglia erano esperte ed use;
Safo e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri, e mai non veggon notte.

Le donne son venute in eccellenza
Di ciascun'arte ove hanno posto cura;
e qualunque all'istorie abbia avvertenza,
ne sente ancor la fama non oscura.
Se il mondo n'è gran tempo stato senza,
non però sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti onori
l'invidia o il non saper degli scrittori.

Ben mi par di veder che al secol nostro
tanta virtù fra belle donne emerga,
che può dare opra a carte ed ad inchiostro,
perché nei futuri anni si disperga,
e perché, odiose lingue, il mal dir vostro
con vostra eterna infamia si sommerga:
e le lor lode appariranno in guisa,
che di gran lunga avanzeran Marfisa.

Or pur tornando a lei, questa donzella
al cavallier che l'usò cortesia,
de l'esser suo non niega dar novella,
quando esso a lei voglia contar chi sia.
Sbrigossi tosto del suo debito ella:
tanto il nome di lui saper disia.
- Io son (disse) Marfisa: - e fu assai questo;
che si sapea per tutto il mondo il resto.

L'altro comincia, poi che tocca a lui,
con più proemio a darle di sé conto,
dicendo: - Io credo che ciascun di vui
abbia de la mia stirpe il nome in pronto;
che non pur Francia e Spagna e i vicin sui,
ma l'India, l'Etiopia e il freddo Ponto
han chiara cognizion di Chiaramonte,
onde uscì il cavallier che uccise Almonte,

quel che a Chiariello e al re Mambrino
diede la morte, e il regno lor disfece.
Di questo sangue, dove ne l'Eusino
l'Istro ne vien con otto corna o diece,
al duca Amone, il qual già peregrino
vi capitò, la madre mia mi fece:
e l'anno è ormai che io la lasciai dolente,
per gire in Francia a ritrovar mia gente.

Ma non potei finire il mio viaggio,
che qua mi spinse un tempestoso Noto.
Son dieci mesi o più che stanza v'aggio,
che tutti i giorni e tutte l'ore noto.
Nominato son io Guidon Selvaggio,
di poca pruova ancora e poco noto.
Uccisi qui Argilon da Melibea
con dieci cavallier che seco avea.

Feci la pruova ancor de le donzelle:
così n'ho diece a' miei piaceri allato;
ed alla scelta mia son le più belle,
e son le più gentil di questo stato.
E queste reggo e tutte l'altre; che elle
di sé m'hanno governo e scettro dato:
così daranno a qualunque altro arrida
Fortuna sì, che la decina ancida. -

I cavallier domandano a Guidone,
com'ha sì pochi maschi il tenitoro;
e s'alle moglie hanno suggezione,
come esse l'han negli altri lochi a loro.
Disse Guidon: - Più volte la cagione
udita n'ho da poi che qui dimoro;
e vi sarà, secondo che io l'ho udita,
da me, poi che v'aggrada, riferita.

Al tempo che tornar dopo anni venti
da Troia i Greci (che durò l'assedio
dieci, e dieci altri da contrari venti
furo agitati in mar con troppo tedio),
trovar che le lor donne agli tormenti
di tanta assenza avean preso rimedio:
tutte s'avean gioveni amanti eletti,
per non si raffreddar sole nei letti.

Le case lor trovaro i Greci piene
de l'altrui figli; e per parer commune
perdonano alle mogli, che san bene
che tanto non potean viver digiune:
ma ai figli degli adulteri conviene
altrove procacciarsi altre fortune;
che tolerar non vogliono i mariti
che più alle spese lor sieno notriti.

Sono altri esposti, altri tenuti occulti
da le lor madri e sostenuti in vita.
In vane squadre quei che erano adulti
feron, chi qua chi là, tutti partita.
Per altri l'arme son, per altri culti
gli studi e l'arti; altri la terra trita;
serve altri in corte; altri è guardian di gregge,
come piace a colei che qua giù regge.

Partì fra gli altri un giovinetto, figlio
di Clitemnestra, la crudel regina,
di diciotto anni, fresco come un giglio,
o rosa colta allor di su la spina.
Questi, armato un suo legno, a dar di piglio
si pose e a depredar per la marina
in compagnia di cento giovinetti
del tempo suo, per tutta Grecia eletti.

I Cretesi, in quel tempo che cacciato
il crudo Idomeneo del regno aveano,
e per assicurarsi il nuovo stato,
d'uomini e d'arme adunazion faceano;
fero con bon stipendio lor soldato
Falanto (così al giovine diceano),
e lui con tutti quei che seco avea,
poser per guardia alla città Dictea.

Fra cento alme città che erano in Creta,
Dictea più ricca e più piacevol era,
di belle donne ed amorose lieta,
lieta di giochi da matino a sera:
e com'era ogni tempo consueta
d'accarezzar la gente forestiera,
fe' a costor sì, che molto non rimase
a fargli anco signor de le lor case.

Eran gioveni tutti e belli affatto
(che il fior di Grecia avea Falanto eletto):
sì che alle belle donne, al primo tratto
che v'apparir, trassero i cor del petto.
Poi che non men che belli, ancora in fatto
si dimostrar buoni e gagliardi al letto,
si fero ad esse in pochi dì sì grati,
che sopra ogn'altro ben n'erano amati.

Finita che d'accordo è poi la guerra
per cui stato Falanto era condutto,
e lo stipendio militar si serra,
sì che non v'hanno i gioveni più frutto,
e per questo lasciar voglion la terra;
fan le donne di Creta maggior lutto,
e per ciò versan più dirotti pianti,
che se i lor padri avesson morti avanti.

Da le lor donne i gioveni assai foro,
ciascun per sé, di rimaner pregati:
né volendo restare, esse con loro
n'andar, lasciando e padri e figli e frati,
di ricche gemme e di gran summa d'oro
avendo i lor dimestici spogliati;
che la pratica fu tanto secreta,
che non sentì la fuga uomo di Creta.

Sì fu propizio il vento, sì fu l'ora
commoda, che Falanto a fuggir colse,
che molte miglia erano usciti fuora,
quando del danno suo Creta si dolse.
Poi questa spiaggia, inabitata allora,
trascorsi per fortuna li raccolse.
Qui si posaro, e qui sicuri tutti
meglio del furto lor videro i frutti.

Questa lor fu per dieci giorni stanza
di piaceri amorosi tutta piena.
Ma come spesso avvien, che l'abondanza
seco in cor giovenil fastidio mena,
tutti d'accordo fur di restar sanza
femine, e liberarsi di tal pena;
che non è soma da portar sì grave,
come aver donna, quando a noia s'have.

Essi che di guadagno e di rapine
eran bramosi, e di dispendio parchi,
vider che a pascer tante concubine,
d'altro che d'aste avean bisogno e d'archi:
sì che sole lasciar qui le meschine,
e se n'andar di lor ricchezze carchi
là dove in Puglia in ripa al mar poi sento
che edificar la terra di Tarento.

Le donne, che si videro tradite
dai loro amanti in che più fede aveano,
restar per alcun dì sì sbigottite,
che statue immote in lito al mar pareano.
Visto poi che da gridi e da infinite
lacrime alcun profitto non traeano,
a pensar cominciaro e ad aver cura
come aiutarsi in tanta lor sciagura.

E proponendo in mezzo i lor pareri,
altre diceano: in Creta è da tornarsi;
e più tosto all'arbitrio de' severi
padri e d'offesi lor mariti darsi,
che nei deserti liti e boschi fieri,
di disagio e di fame consumarsi.
Altre dicean che lor saria più onesto
affogarsi nel mar, che mai far questo;

e che manco mal era meretrici
andar pel mondo, andar mendiche o schiave,
che se stesse offerire agli supplici
di che eran degne l'opere lor prave.
Questi e simil partiti le infelici
si proponean, ciascun più duro e grave.
Tra loro al fine una Orontea levosse,
che origine traea dal re Minosse;

la più gioven de l'artre e la più bella
e la più accorta, e che avea meno errato:
amato avea Falanto, e a lui pulzella
datasi, e per lui il padre avea lasciato.
Costei mostrando in viso ed in favella
il magnanimo cor d'ira infiammato,
redarguendo di tutte altre il detto,
suo parer disse, e fe' seguirne effetto.

Di questa terra a lei non parve torsi,
che conobbe feconda e d'aria sana,
e di limpidi fiumi aver discorsi,
di selve opaca, e la più parte piana;
con porti e foci, ove dal mar ricorsi
per ria fortuna avea la gente estrana,
che or d'Africa portava, ora d'Egitto
cose diverse e necessarie al vitto.

Qui parve a lei fermarsi, e far vendetta
del viril sesso che le avea sì offese:
vuol che ogni nave, che da venti astretta
a pigliar venga porto in suo paese,
a sacco, a sangue, a fuoco al fin si metta;
né de la vita a un sol si sia cortese.
Così fu detto e così fu concluso,
e fu fatta la legge e messa in uso.

Come turbar l'aria sentiano, armate
le femine correan su la marina,
da l'implacabile Orontea guidate,
che diè lor legge e si fe' lor regina:
e de le navi ai liti lor cacciate
faceano incendi orribili e rapina,
uom non lasciando vivo, che novella
dar ne potesse o in questa parte o in quella.

Così solinghe vissero qualche anno
aspre nimiche del sesso virile:
ma conobbero poi, che il proprio danno
procaccierian, se non mutavan stile;
che se di lor propagine non fanno,
sarà lor legge in breve irrita e vile,
e mancherà con l'infecondo regno,
dove di farla eterna era il disegno.

Sì che, temprando il suo rigore un poco
scelsero, in spazio di quattro anni interi,
di quanti capitaro in questo loco
dieci belli e gagliardi cavallieri,
che per durar ne l'amoroso gioco
contr'esse cento fosser buon guerrieri.
Esse in tutto eran cento; e statuito
ad ogni lor decina fu un marito.

Prima ne fur decapitati molti
che riusciro al paragon mal forti.
Or questi dieci a buona pruova tolti,
del letto e del governo ebbon consorti;
facendo lor giurar che, se più colti
altri uomini verriano in questi porti,
essi sarian che, spenta ogni pietade,
li porriano ugualmente a fil di spade.

Ad ingrossare, ed a figliar appresso
le donne, indi a temere incominciaro
che tanti nascerian del viril sesso,
che contra lor non avrian poi riparo;
e al fine in man degli uomini rimesso
saria il governo che elle avean sì caro:
sì che ordinar, mentre eran gli anni imbelli,
far sì, che mai non fosson lor ribelli.

Acciò il sesso viril non le soggioghi,
uno ogni madre vuol la legge orrenda,
che tenga seco; gli altri, o li suffoghi,
o fuor del regno li permuti o venda.
Ne mandano per questo in vari luoghi:
e a chi gli porta dicono che prenda
femine, se a baratto aver ne puote;
se non, non torni almen con le man vote.

Né uno ancora alleverian, se senza
potesson fare, e mantenere il gregge.
Questa è quanta pietà, quanta clemenza
più ai suoi che agli altri usa l'iniqua legge:
gli altri condannan con ugual sentenza;
e solamente in questo si corregge,
che non vuol che, secondo il primiero uso,
le femine gli uccidano in confuso.

Se dieci o venti o più persone a un tratto
vi fosser giunte, in carcere eran messe:
e d'una al giorno, e non di più, era tratto
il capo a sorte, che perir dovesse
nel tempio orrendo che Orontea avea fatto,
dove un altare alla Vendetta eresse;
e dato all'un de' dieci il crudo ufficio
per sorte era di farne sacrificio.

Dopo molt'anni alle ripe omicide
a dar venne di capo un giovinetto,
la cui stirpe scendea dal buono Alcide,
di gran valor ne l'arme, Elbanio detto.
Qui preso fu, che a pena se n'avide,
come quel che venìa senza sospetto;
e con gran guardia in stretta parte chiuso,
con gli altri era serbato al crudel uso.

Di viso era costui bello e giocondo,
e di maniere e di costumi ornato,
e di parlar sì dolce e sì facondo,
che un aspe volentier l'avria ascoltato:
sì che, come di cosa rara al mondo,
de l'esser suo fu tosto rapportato
ad Alessandra figlia d'Orontea,
che di molt'anni grave anco vivea.

Orontea vivea ancora; e già mancate
tutt'eran l'altre che abitar qui prima:
e diece tante e più n'erano nate,
e in forza eran cresciute e in maggior stima;
né tra diece fucine che serrate
stavan pur spesso, avean più d'una lima;
e dieci cavallieri anco avean cura
di dare a chi venìa fiera aventura.

Alessandra, bramosa di vedere
il giovinetto che avea tante lode,
da la sua matre in singular piacere
impetra sì, che Elbanio vede ed ode;
e quando vuol partirne, rimanere
si sente il core ove è chiil punge e rode:
legar si sente e non sa far contesa,
e al fin dal suo prigion si trova presa.

Elbanio disse a lei: - Se di pietade
s'avesse, donna, qui notizia ancora,
come se n'ha per tutt'altre contrade,
dovunque il vago sol luce e colora;
io vi osarei, per vostr'alma beltade
che ogn'animo gentil di sé inamora,
chiedervi in don la vita mia, che poi
saria ognor presto a spenderla per voi.

Or quando fuor d'ogni ragion qui sono
privi d'umanitade i cori umani,
non vi domanderò la vita in dono,
che i prieghi miei so ben che sarian vani;
ma che da cavalliero, o tristo o buono
che io sia, possi morir con l'arme in mani,
e non come dannato per giudicio,
o come animal bruto in sacrificio. -

Alessandra gentil, che umidi avea,
per la pietà del giovinetto, i rai,
rispose: - Ancor che più crudele e rea
sia questa terra, che altra fosse mai;
non concedo però che qui Medea
ogni femina sia, come tu fai:
e quando ogn'altra così fosse ancora,
me sola di tant'altre io vo' trar fuora.

E se ben per adietro io fossi stata
empia e crudel, come qui sono tante,
dir posso che suggetto ove mostrata
per me fosse pietà, non ebbi avante.
Ma ben sarei di tigre più arrabbiata,
e più duro avre' il cor che di diamante,
se non m'avesse tolto ogni durezza
tua beltà, tuo valor, tua gentilezza.

Così non fosse la legge più forte,
che contra i peregrini è statuita,
come io non schiverei con la mia morte
di ricomprar la tua più degna vita.
Ma non è grado qui di sì gran sorte,
che ti potesse dar libera aita;
e quel che chiedi ancor, ben che sia poco,
difficile ottener fia in questo loco.

Pur io vedrò di far che tu l'ottenga,
che abbi inanzi al morir questo contento;
ma mi dubito ben che te n'avenga,
tenendo il morir lungo, più tormento. -
Suggiunse Elbanio: - Quando incontra io venga
a dieci armato, di tal cor mi sento,
che la vita ho speranza di salvarme,
e uccider lor, se tutti fosser arme. -

Alessandra a quel detto non rispose
se non un gran sospiro, e dipartisse,
e portò nel partir mille amorose
punte nel cor, mai non sanabil, fisse.
Venne alla madre, e voluntà le pose
di non lasciar che il cavallier morisse,
quando si dimostrasse così forte,
che, solo, avesse posto i dieci a morte.

La regina Orontea fece raccorre
il suo consiglio, e disse: - A noi conviene
sempre il miglior che ritroviamo, porre
a guardar nostri porti e nostre arene;
e per saper chi ben lasciar, chi torre,
prova è sempre da far quando gli avviene;
per non patir con nostro danno a torto,
che regni il vile, e chi ha valor sia morto.

A me par, se a voi par, che statuito
sia, che ogni cavallier per lo avvenire,
che fortuna abbia tratto al nostro lito,
prima che al tempio si faccia morire,
possa egli sol, se gli piace il partito,
incontra i dieci alla battaglia uscire;
e se di tutti vincerli è possente,
guardi egli il porto, e seco abbia altra gente.

Parlo così, perché abbian qui un prigione
che par che vincer dieci s'offerisca.
Quando, sol, vaglia tante altre persone,
dignissimo è, per Dio, che s'esaudisca.
Così in contrario avrà punizione,
quando vaneggi e temerario ardisca. -
Orontea fine al suo parlar qui pose,
a cui de le più antique una rispose:

- La principal cagion che a far disegno
sul comercio degli uomini ci mosse,
non fu perche a difender questo regno
del loro aiuto alcun bisogno fosse;
che per far questo abbiamo ardire e ingegno
da noi medesme, e a sufficienza posse:
così senza sapessimo far anco,
che non venisse il propagarci a manco!

Ma poi che senza lor questo non lece,
tolti abbiàn, ma non tanti, in compagnia,
che mai ne sia più d'uno incontra diece,
sì che aver di noi possa signoria.
Per conciper di lor questo si fece,
non che di lor difesa uopo ci sia.
La lor prodezza sol ne vaglia in questo,
e sieno ignavi e inutili nel resto.

Tra noi tenere un uom che sia sì forte,
contrario è in tutto al principal disegno.
Se può un solo a dieci uomini dar morte,
quante donne farà stare egli al segno?
Se i dieci nostri fosser di tal sorte,
il primo dì n'avrebbon tolto il regno.
Non è la via di dominar, se vuoi
por l'arme in mano a chi può più di noi.

Pon mente ancor, che quando così aiti
Fortuna questo tuo, che i dieci uccida,
di cento donne che de' lor mariti
rimarran prive, sentirai le grida.
Se vuol campar, proponga altri partiti,
che esser di dieci gioveni omicida.
Pur, se per far con cento donne è buono
quel che dieci fariano, abbi perdono. -

Fu d'Artemia crudel questo il parere
(così avea nome), e non mancò per lei
di far nel tempio Elbanio rimanere
scannato inanzi agli spietati dèi.
Ma la madre Orontea che compiacere
volse alla figlia, replicò a colei
altre ed altre ragioni, e modo tenne
che nel senato il suo parer s'ottenne.

L'aver Elbanio di bellezza il vanto
sopra ogni cavallier che fosse al mondo,
fu nei cor de le giovani di tanto,
che erano in quel consiglio, e di tal pondo,
che il parer de le vecchie andò da canto,
che con Artemia volean far secondo
l'ordine antiquo; né lontan fu molto
ad esser per favore Elbanio assolto.

Di perdonargli in somma fu concluso,
ma poi che la decina avesse spento,
e che ne l'altro assalto fosse ad uso
di diece donne buono, e non di cento.
Di carcer l'altro giorno fu dischiuso;
e avuto arme e cavallo a suo talento,
contra dieci guerrier, solo, si mise,
e l'uno appresso all'altro in piazza uccise.

Fu la notte seguente a prova messo
contra diece donzelle ignudo e solo,
dove ebbe all'ardir suo sì buon successo,
che fece il saggio di tutto lo stuolo.
E questo gli acquistò tal grazia appresso
ad Orontea, che l'ebbe per figliuolo;
e gli diede Alessandra e l'altre nove
con che avea fatto le notturne prove.

E lo lasciò con Alessandra bella,
che poi diè nome a questa terra, erede,
con patto, che a servare egli abbia quella
legge, ed ogn'altro che da lui succede:
che ciascun che già mai sua fiera stella
farà qui por lo sventurato piede,
elegger possa, o in sacrificio darsi,
o con dieci guerrier, solo, provarsi.

E se gli avvien che il dì gli uomini uccida,
la notte con le femine si provi;
e quando in questo ancor tanto gli arrida
la sorte sua, che vincitor si trovi,
sia del femineo stuol principe e guida,
e la decina a scelta sua rinovi,
con la qual regni, fin che un altro arrivi,
che sia più forte, e lui di vita privi.

Appresso a duamila anni il costume empio
si è mantenuto, e si mantiene ancora;
e sono pochi giorni che nel tempio
uno infelice peregrin non mora.
Se contra dieci alcun chiede, ad esempio
d'Elbanio, armarsi (che ve n'è talora),
spesso la vita al primo assalto lassa;
né di mille uno all'altra prova passa.

Pur ci passano alcuni, ma sì rari,
che su le dita annoverar si ponno.
Uno di questi fu Argilon: ma guari
con la decina sua non fu qui donno;
che cacciandomi qui venti contrari,
gli occhi gli chiusi in sempiterno sonno.
Così fossi io con lui morto quel giorno,
prima che viver servo in tanto scorno.

che piaceri amorosi e riso e gioco,
che suole amar ciascun de la mia etade,
le purpure e le gemme e l'aver loco
inanzi agli altri ne la sua cittade,
potuto hanno, per Dio, mai giovar poco
all'uom che privo sia di libertade:
e il non poter mai più di qui levarmi,
servitù grave e intolerabil parmi.

Il vedermi lograr dei miglior anni
il più bel fiore in sì vile opra e molle,
tiemmi il cor sempre in stimulo e in affanni,
ed ogni gusto di piacer mi tolle.
La fama del mio sangue spiega i vanni
per tutto il mondo, e fin al ciel s'estolle;
che forse buona parte anche io n'avrei,
s'esser potessi coi fratelli miei.

Parmi che ingiuria il mio destin mi faccia,
avendomi a sì vil servigio eletto;
come chi ne l'armento il destrier caccia,
il qual d'occhi o di piedi abbia difetto,
o per altro accidente che dispiaccia,
sia fatto all'arme e a miglior uso inetto:
né sperando io, se non per morte, uscire
di sì vil servitù, bramo morire. -

Guidon qui fine alle parole pose,
e maledì quel giorno per isdegno,
il qual dei cavallieri e de le spose
gli diè vittoria in acquistar quel regno.
Astolfo stette a udire, e si nascose
tanto, che si fe' certo a più d'un segno,
che, come detto avea, questo Guidone
era figliol del suo parente Amone.

Poi gli rispose: - Io sono il duca inglese,
il tuo cugino Astolfo; - ed abbracciollo,
e con atto amorevole e cortese,
non senza sparger lagrime, baciollo.
- Caro parente mio, non più palese
tua madre ti potea por segno al collo;
che a farne fede che tu sei de' nostri,
basta il valor che con la spada mostri. -

Guidon, che altrove avria fatto gran festa
d'aver trovato un sì stretto parente,
quivi l'accolse con la faccia mesta,
perché fu di vedervilo dolente.
Se vive, sa che Astolfo schiavo resta,
né il termine è più là che il dì seguente;
se fia libero Astolfo, ne more esso:
sì che il ben d'uno è il mal de l'altro espresso.

Gli duol che gli altri cavallieri ancora
abbia, vincendo, a far sempre captivi;
né più, quando esso in quel contrasto mora,
potrà giovar che servitù lor schivi:
che se d'un fango ben gli porta fuora,
e poi s'inciampi come all'altro arrivi,
avrà lui senza pro vinto Marfisa;
che essi pur ne fien schiavi, ed ella uccisa.

Da l'altro canto avea l'acerba etade,
la cortesia e il valor del giovinetto
d'amore intenerito e di pietade
tanto a Marfisa ed ai compagni il petto,
che, con morte di lui lor libertade
esser dovendo, avean quasi a dispetto:
e se Marfisa non può far con manco
che uccider lui, vuol essa morir anco.

Ella disse a Guidon: - Vientene insieme
con noi, che a viva forza usciren quinci. -
- Deh (rispose Guidon) lascia ogni speme
di mai più uscirne, o perdi meco o vinci. -
Ella suggiunse: - Il mio cor mai non teme
di non dar fine a cosa che cominci;
né trovar so la più sicura strada
di quella ove mi sia guida la spada.

Tal ne la piazza ho il tuo valor provato,
che, s'io son teco, ardisco ad ogn'impresa.
Quando la turba intorno allo steccato
sarà domani in sul teatro ascesa,
io vo' che l'uccidian per ogni lato,
o vada in fuga o cerchi far difesa,
e che agli lupi e agli avoltoi del loco
lasciamo i corpi, e la cittade al fuoco. -

Suggiunse a lei Guidon: - Tu m'avrai pronto
a seguitarti ed a morirti a canto,
ma vivi rimaner non facciàn conto;
bastar ne può di vendicarci alquanto:
che spesso diecimila in piazza conto
del popul feminile, ed altretanto
resta a guardare e porto e rocca e mura,
né alcuna via d'uscir trovo sicura. -

Disse Marfisa: - E molto più sieno elle
degli uomini che Serse ebbe già intorno,
e sieno più de l'anime ribelle
che uscir del ciel con lor perpetuo scorno;
se tu sei meco, o almen non sie con quelle,
tutte le voglio uccidere in un giorno. -
Guidon suggiunse: - Io non ci so via alcuna
che a valer n'abbia, se non val quest'una.

Ne può sola salvar, se ne succede,
quest'una che io dirò, che or mi soviene.
Fuor che alle donne, uscir non si concede,
né metter piede in su le salse arene:
e per questo commettermi alla fede
d'una de le mie donne mi conviene,
del cui perfetto amor fatta ho sovente
più pruova ancor, che io non farò al presente.

Non men di me tormi costei disia
di servitù, pur che ne venga meco,
che così spera, senza compagnia
de le rivali sue, che io viva seco.
Ella nel porto o fuste o saettia
farà ordinar, mentre è ancor l'aer cieco,
che i marinai vostri troveranno
acconcia a navigar, come vi vanno.

Dietro a me tutti in un drappel ristretti,
cavallieri, mercanti e galeotti,
che ad albergarvi sotto a questi tetti
meco, vostra merce, sète ridotti,
avrete a farvi amplo sentier coi petti,
se del nostro camin siamo interrotti:
così spero, aiutandoci le spade,
che io vi trarrò de la crudel cittade. -

- Tu fa come ti par (disse Marfisa),
che io son per me d'uscir di qui sicura.
Più facil fia che di mia mano uccisa
la gente sia, che è dentro a queste mura,
che mi veggi fuggire, o in altra guisa
alcun possa notar che abbi paura.
Vo' uscir di giorno, e sol per forza d'arme;
che per ogn'altro modo obbrobrio parme.

S'io ci fossi per donna conosciuta,
so che avrei da le donne onore e pregio;
e volentieri io ci sarei tenuta
e tra le prime forse del collegio:
ma con costoro essendoci venuta,
non ci vo' d'essi aver più privilegio.
Troppo error fôra che io mi stessi o andassi
libera, e gli altri in servitù lasciassi. -

Queste parole ed altre seguitando,
mostrò Marfisa che il rispetto solo
che avea al periglio de' compagni (quando
potria loro il suo ardir tornare in duolo),
la tenea che con alto e memorando
segno d'ardir non assalia lo stuolo:
e per questo a Guidon lascia la cura
d'usar la via che più gli par sicura.

Guidon la notte con Aleria parla
(così avea nome la più fida moglie),
né bisogno gli fu molto pregarla,
che la trovò disposta alle sue voglie.
Ella tolse una nave e fece armarla,
e v'arrecò le sue più ricche spoglie,
fingendo di volere al nuovo albore
con le compagne uscire in corso fuore.

Ella avea fatto nel palazzo inanti
spade e lance arrecar, corazze e scudi,
onde armar si potessero i mercanti
e i galeotti che eran mezzo nudi.
Altri dormiro, ed altri ster vegghianti,
compartendo tra lor gli ozi e gli studi;
spesso guardando, e pur con l' arme indosso,
se l'oriente ancor si facea rosso.

Dal duro volto de la terra il sole
non tollea ancora il velo oscuro ed atro;
a pena avea la licaonia prole
per li solchi del ciel volto l'aratro:
quando il femineo stuol, che veder vuole
il fin de la battaglia, empì il teatro,
come ape del suo claustro empie la soglia,
che mutar regno al nuovo tempo voglia.

Di trombe, di tambur, di suon de corni
il popul risonar fa cielo e terra,
così citando il suo signor, che torni
a terminar la cominciata guerra.
Aquilante e Grifon stavano adorni
de le lor arme, e il duca d'Inghilterra,
Guidon, Marfisa, Sansonetto e tutti
gli altri, chi a piedi e chi a cavallo istrutti.

Per scender dal palazzo al mare e al porto,
la piazza traversar si convenia,
né v'era altro camin lungo né corto:
così Guidon disse alla compagnia.
E poi che di ben far molto conforto
lor diede, entrò senza rumore in via;
e ne la piazza, dove il popul era,
s'appresentò con più di cento in schiera.

Molto affrettando i suoi compagni, andava
Guidone all'altra porta per uscire:
ma la gran moltitudine che stava
intorno armata, e sempre atta a ferire,
pensò, come lo vide che menava
seco quegli altri, che volea fuggire;
e tutta a un tratto agli archi suoi ricorse,
e parte, onde s'uscia, venne ad opporse.

Guidone e gli altri cavallier gagliardi,
e sopra tutti lor Marfisa forte,
al menar de le man non furon tardi,
e molto fer per isforzar le porte:
ma tanta e tanta copia era dei dardi
che, con ferite dei compagni e morte,
pioveano lor di sopra e d'ogn'intorno,
che al fin temean d'averne danno e scorno.

D'ogni guerrier l'usbergo era perfetto;
che se non era, avean più da temere.
Fu morto il destrier sotto a Sansonetto;
quel di Marfisa v'ebbe a rimanere.
Astolfo tra sé disse: - Ora, che aspetto
che mai mi possa il corno più valere?
Io vo' veder, poi che non giova spada,
s'io so col corno assicurar la strada. -

Come aiutar ne le fortune estreme
sempre si suol, si pone il corno a bocca.
Par che la terra e tutto il mondo trieme,
quando l'orribil suon ne l'aria scocca.
Sì nel cor de la gente il timor preme,
che per disio di fuga si trabocca
giù del teatro sbigottita e smorta,
non che lasci la guardia de la porta.

Come talor si getta e si periglia
e da finestra e da sublime loco
l'esterrefatta subito famiglia,
che vede appresso e d'ogn'intorno il fuoco,
che mentre le tenea gravi le ciglia
il pigro sonno, crebbe a poco a poco:
così messa la vita in abandono,
ognun fuggia lo spaventoso suono.

Di qua di là, di su di giù smarrita
surge la turba, e di fuggir procaccia.
Son più di mille a un tempo ad ogni uscita:
cascano a monti, e l'una l'altra impaccia.
In tanta calca perde altra la vita;
da palchi e da finestre altra si schiaccia:
più d'un braccio si rompe e d'una testa,
di che altra morta, altra storpiata resta.

Il pianto e il grido insino al ciel saliva,
d'alta ruina misto e di fraccasso.
Affretta, ovunque il suon del corno arriva,
la turba spaventata in fuga il passo.
Se udite dir che d'ardimento priva
la vil plebe si mostri e di cor basso,
non vi maravigliate, che natura
è de la lepre aver sempre paura.

Ma che direte del già tanto fiero
cor di Marfisa e di Guidon Selvaggio?
dei dua giovini figli d'Oliviero,
che già tanto onoraro il lor lignaggio?
Già centomila avean stimato un zero;
e in fuga or se ne van senza coraggio,
come conigli, o timidi colombi
a cui vicino alto rumor rimbombi.

Così noceva ai suoi come agli strani
la forza che nel corno era incantata.
Sansonetto, Guidone e i duo germani
fuggon dietro a Marfisa spaventata;
né fuggendo ponno ir tanto lontani,
che lor non sia l'orecchia anco intronata.
Scorre Astolfo la terra in ogni lato,
dando via sempre al corno maggior fiato.

Chi scese al mare, e chi poggiò su al monte,
e chi tra i boschi ad occultar si venne:
alcuna, senza mai volger la fronte,
fuggir per dieci dì non si ritenne:
uscì in tal punto alcuna fuor del ponte,
che in vita sua mai più non vi rivenne.
Sgombraro in modo e piazze e templi e case,
che quasi vota la città rimase.

Marfisa e il bon Guidone e i duo fratelli
e Sansonetto, pallidi e tremanti,
fuggiano inverso il mare, e dietro a quelli
fuggian i marinari e i mercatanti;
ove Aleria trovar, che, fra i castelli,
loro avea un legno apparecchiato inanti.
Quindi, poi che in gran fretta li raccolse,
diè i remi all'acqua ed ogni vela sciolse.

Dentro e d'intorno il duca la cittade
avea scorsa dai colli insino all'onde;
fatto avea vote rimaner le strade:
ognun lo fugge, ognun se gli nasconde.
Molte trovate fur, che per viltade
s'eran gittate in parti oscure e immonde;
e molte, non sappiendo ove s'andare,
messesi a nuoto ed affogate in mare.

Per trovare i compagni il duca viene,
che si credea di riveder sul molo.
Si volge intorno, e le deserte arene
guarda per tutto, e non v'appare un solo.
Leva più gli occhi, e in alto a vele piene
da sé lontani andar li vede a volo:
sì che gli convien fare altro disegno
al suo camin, poi che partito è il legno.

Lasciamolo andar pur - né vi rincresca
che tanta strada far debba soletto
per terra d'infedeli e barbaresca,
dove mai non si va senza sospetto:
non è periglio alcuno, onde non esca
con quel suo corno, e n'ha mostrato effetto; -
e dei compagni suoi pigliamo cura,
che al mar fuggian tremando di paura.

A piena vela si cacciaron lunge
da la crudele e sanguinosa spiaggia:
e poi che di gran lunga non li giunge
l'orribil suon che a spaventar più gli aggia,
insolita vergogna sì gli punge,
che, com'un fuoco, a tutti il viso raggia.
L'un non ardisce a mirar l'altro, e stassi
tristo, senza parlar, con gli occhi bassi.

Passa il nocchiero, al suo viaggio intento,
e Cipro e Rodi, e giù per l'onda egea
da sé vede fuggire isole cento
col periglioso capo di Malea;
e con propizio ed immutabil vento
asconder vede la greca Morea;
volta Sicilia, e per lo mar Tirreno
costeggia de l'Italia il lito ameno:

e sopra Luna ultimamente sorse,
dove lasciato avea la sua famiglia.
Dio ringraziando che il pelago corse
senza più danno, il noto lito piglia.
Quindi un nochier trovar per Francia sciorse,
il qual di venir seco li consiglia:
e nel suo legno ancor quel dì montaro,
ed a Marsilia in breve si trovaro.

Quivi non era Bradamante allora,
che aver solea governo del paese;
che se vi fosse, a far seco dimora
gli avria sforzati con parlar cortese.
Sceser nel lito, e la medesima ora
dai quattro cavallier congedo prese
Marfisa, e da la donna del Selvaggio;
e pigliò alla ventura il suo viaggio,

dicendo che lodevole non era
che andasser tanti cavallieri insieme:
che gli storni e i colombi vanno in schiera,
i daini e i cervi e ogn'animal che teme;
ma l'audace falcon, l'aquila altiera,
che ne l'aiuto altrui non metton speme
orsi, tigri, leon, soli ne vanno;
che di più forza alcun timor non hanno.

Nessun degli altri fu di quel pensiero;
sì che a lei sola toccò a far partita.
Per mezzo i boschi e per strano sentiero
dunque ella se n'andò sola e romita.
Grifone il bianco ed Aquilante il nero
pigliar con gli altri duo la via più trita,
e giunsero a un castello il dì seguente,
dove albergati fur cortesemente.

Cortesemente dico in apparenza,
ma tosto vi sentir contrario effetto;
che il signor del castel, benivolenza
fingendo e cortesia, lor dè ricetto:
e poi la notte, che sicuri senza
timor dormian, gli fe' pigliar nel letto;
né prima li lasciò, che d'osservare
una costuma ria li fe' giurare.

Ma vo' seguir la bellicosa donna,
prima, Signor, che di costor più dica.
Passò Druenza, il Rodano e la Sonna,
e venne a piè d'una montagna aprica.
Quivi lungo un torrente, in negra gonna
vide venire una femina antica,
che stanca e lassa era di lunga via,
ma via più afflitta di malenconia.

Questa è la vecchia che solea servire
ai malandrin nel cavernoso monte,
là dove alta giustizia fe' venire
e dar lor morte il paladino conte.
La vecchia, che timore ha di morire
per le cagion che poi vi saran conte,
già molti dì va per via oscura e fosca,
fuggendo ritrovar chi la conosca.

Quivi d'estrano cavallier sembianza
l'ebbe Marfisa all'abito e all'arnese;
e perciò non fuggì, com'avea usanza
fuggir dagli altri che eran del paese;
anzi con sicurezza e con baldanza
si fermò al guado, e di lontan l'attese:
al guado del torrente, ove trovolla,
la vecchia le uscì incontra e salutolla.

Poi la pregò che seco oltr'a quell'acque
ne l'altra ripa in groppa la portasse.
Marfisa che gentil fu da che nacque,
di là dal fiumicel seco la trasse;
e portarla anche un pezzo non le spiacque,
fin che a miglior camin la ritornasse,
fuor d'un gran fango; e al fin di quel sentiero
si videro all'incontro un cavalliero.

Il cavallier su ben guernita sella,
di lucide arme e di bei panni ornato,
verso il fiume venìa da una donzella
e da un solo scudiero accompagnato.
La donna che avea seco era assai bella,
ma d'altiero sembiante e poco grato,
tutta d'orgoglio e di fastidio piena,
del cavallier ben degna che la mena.

Pinabello, un de' conti maganzesi,
era quel cavallier che ella avea seco;
quel medesmo che dianzi a pochi mesi
Bradamante gittò nel cavo speco.
Quei sospir, quei singulti così accesi,
quel pianto che lo fe' già quasi cieco,
tutto fu per costei che or seco avea,
che il negromante allor gli ritenea.

Ma poi che fu levato di sul colle
l'incantato castel del vecchio Atlante,
e che poté ciascuno ire ove volle,
per opra e per virtù di Bradamante;
costei, che agli disii facile e molle
di Pinabel sempre era stata inante,
si tornò a lui, ed in sua compagnia
da un castello ad un altro or se ne gìa.

E sì come vezzosa era e mal usa,
quando vide la vecchia di Marfisa,
non si poté tenere a bocca chiusa
di non la motteggiar con beffe e risa.
Marfisa altiera, appresso a cui non s'usa
sentirsi oltraggio in qualsivoglia guisa,
rispose d'ira accesa alla donzella,
che di lei quella vecchia era più bella;

e che al suo cavallier volea provallo,
con patto di poi torre a lei la gonna
e il palafren che avea, se da cavallo
gittava il cavallier di che era donna.
Pinabel che faria, tacendo, fallo,
di risponder con l'arme non assonna:
piglia lo scudo e l'asta, e il destrier gira,
poi vien Marfisa a ritrovar con ira.

Marfisa incontra una gran lancia afferra,
e ne la vista a Pinabel l'arresta,
e sì stordito lo riversa in terra,
che tarda un'ora a rilevar la testa.
Marfisa vincitrice de la guerra,
fe' trarre a quella giovane la vesta,
ed ogn'altro ornamento le fe' porre,
e ne fe' il tutto alla sua vecchia torre:

e di quel giovenile abito volse
che si vestisse e se n'ornasse tutta;
e fe' che il palafreno anco si tolse,
che la giovane avea quivi condutta.
Indi al preso camin con lei si volse,
che quant'era più ornata, era più brutta.
Tre giorni se n'andar per lunga strada,
senza far cosa onde a parlar m'accada.

Il quarto giorno un cavallier trovaro,
che venìa in fretta galoppando solo.
Se di saper chi sia forse v'è caro,
dicovi che è Zerbin, di re figliuolo,
di virtù esempio e di bellezza raro,
che se stesso rodea d'ira e di duolo
di non aver potuto far vendetta
d'un che gli avea gran cortesia interdetta.

Zerbino indarno per la selva corse
dietro a quel suo che gli avea fatto oltraggio;
ma sì a tempo colui seppe via torse,
sì seppe nel fuggir prender vantaggio,
sì il bosco e sì una nebbia lo soccorse,
che avea offuscato il matutino raggio,
che di man di Zerbin si levò netto,
fin che l'ira e il furor gli uscì del petto.

Non poté, ancor che Zerbin fosse irato,
tener, vedendo quella vecchia, il riso;
che gli parea dal giovenile ornato
troppo diverso il brutto antiquo viso;
ed a Marfisa, che le venìa a lato,
disse: - Guerrier, tu sei pien d'ogni aviso,
che damigella di tal sorte guidi,
che non temi trovar chi te la invidi.

Avea la donna (se la crespa buccia
può darne indicio) più de la Sibilla,
e parea, così ornata, una bertuccia,
quando per muover riso alcun vestilla;
ed or più brutta par, che si coruccia,
e che dagli occhi l'ira le sfavilla:
che a donna non si fa maggior dispetto,
che quando o vecchia o brutta le vien detto.

Mostrò turbarse l'inclita donzella,
per prenderne piacer, come si prese;
e rispose a Zerbin: - Mia donna è bella,
per Dio, via più che tu non sei cortese;
come che io creda che la tua favella
da quel che sente l'animo non scese:
tu fingi non conoscer sua beltade,
per escusar la tua somma viltade.

E chi saria quel cavallier, che questa
sì giovane e sì bella ritrovasse
senza più compagnia ne la foresta,
e che di farla sua non si provasse? -
- Sì ben (disse Zerbin) teco s'assesta,
che saria mal che alcun te la levasse;
ed io per me non son così indiscreto,
che te ne privi mai; stanne pur lieto.

S'in altro conto aver vuoi a far meco,
di quel che io vaglio son per farti mostra;
ma per costei non mi tener sì cieco,
che solamente far voglia una giostra.
O brutta o bella sia, restisi teco:
non vo' partir tanta amicizia vostra.
Ben vi sète accoppiati: io giurerei,
com'ella è bella, tu gagliardo sei. -

Suggiunse a lui Marfisa: - Al tuo dispetto
di levarmi costei provar convienti.
Non vo' patir che un sì leggiadro aspetto
abbi veduto, e guadagnar nol tenti. -
Rispose a lei Zerbin - Non so a che effetto
l'uom si metta a periglio e si tormenti,
per riportarne una vittoria, poi,
che giovi al vinto, e al vincitore annoi. -

- Se non ti par questo partito buono,
te ne do un altro, e ricusar nol dei
(disse a Zerbin Marfisa): che s'io sono
vinto da te, m'abbia a restar costei;
ma s'io te vinco, a forza te la dono.
Dunque provian chi de' star senza lei:
se perdi, converrà che tu le faccia
compagnia sempre, ovunque andar le piaccia. -

- E così sia, - Zerbin rispose; e volse
a pigliar campo subito il cavallo.
Si levò su le staffe e si raccolse
fermo in arcione, e per non dare in fallo,
lo scudo in mezzo alla donzella colse;
ma parve urtasse un monte di metallo:
ed ella in guisa a lui toccò l'elmetto,
che stordito il mandò di sella netto.

Troppo spiacque a Zerbin l'esser caduto,
che in altro scontro mai più non gli avvenne,
e n'avea mille e mille egli abbattuto;
ed a perpetuo scorno se lo tenne.
Stette per lungo spazio in terra muto;
e più gli dolse poi che gli sovenne
che avea promesso e che gli convenia
aver la brutta vecchia in compagnia.

Tornando a lui la vincitrice in sella,
disse ridendo: - Questa t'appresento;
e quanto più la veggio e grata e bella,
tanto, che ella sia tua, più mi contento.
Or tu in mio loco sei campion di quella;
ma la tua fé non se ne porti il vento,
che per sua guida e scorta tu non vada
(come hai promesso) ovunque andar l'aggrada. -

Senza aspettar risposta urta il destriero
per la foresta, e subito s'imbosca.
Zerbin, che la stimava un cavalliero,
dice alla vecchia: - Fa che io lo conosca. -
Ed ella non gli tiene ascoso il vero,
onde sa che lo 'ncende e che l'attosca:
- Il colpo fu di man d'una donzella,
che t'ha fatto votar (disse) la sella.

Per suo valor costei debitamente
usurpa a' cavallieri e scudo e lancia;
e venuta è pur dianzi d'Oriente
per assaggiare i paladin di Francia. -
Zerbin di questo tal vergogna sente,
che non pur tinge di rossor la guancia,
ma restò poco di non farsi rosso
seco ogni pezzo d'arme che avea indosso.

Monta a cavallo, e se stesso rampogna
che non seppe tener strette le cosce.
Tra sé la vecchia ne sorride, e agogna
di stimularlo e di più dargli angosce.
Gli ricorda che andar seco bisogna:
e Zerbin, che ubligato si conosce,
l'orecchie abbassa, come vinto e stanco
destrier c'ha in bocca il fren, gli sproni al fianco.

E sospirando: - Ohimè, Fortuna fella
(dicea), che cambio è questo che tu fai?
Colei che fu sopra le belle bella,
che esser meco dovea, levata m'hai.
Ti par che in luogo ed in ristor di quella
si debba por costei che ora mi dai?
Stare in danno del tutto era men male,
che fare un cambio tanto diseguale.

Colei che di bellezze e di virtuti
unqua non ebbe e non avrà mai pare,
sommersa e rotta tra gli scogli acuti
hai data ai pesci ed agli augei del mare;
e costei che dovria già aver pasciuti
sotterra i vermi, hai tolta a perservare
dieci o venti anni più che non devevi,
per dar più peso agli mie' affanni grevi. -

Zerbin così parlava; né men tristo
in parole e in sembianti esser parea
di questo nuovo suo sì odioso acquisto,
che de la donna che perduta avea.
La vecchia, ancor che non avesse visto
mai più Zerbin, per quel che ora dicea,
s'avvide esser colui di che notizia
le diede già Issabella di Galizia.

Se il vi ricorda quel che avete udito,
costei da la spelonca ne veniva,
dove Issabella, che d'amor ferito
Zerbino avea, fu molti dì captiva.
Più volte ella le avea già riferito
come lasciasse la paterna riva,
e come rotta in mar da la procella,
si salvasse alla spiaggia di Rocella.

E sì spesso dipinto di Zerbino
le avea il bel viso e le fattezze conte,
che ora udendol parlare, e più vicino
gli occhi alzandogli meglio ne la fronte,
vide esser quel per cui sempre meschino
fu d'Issabella il cor nel cavo monte;
che di non veder lui più si lagnava,
che d'esser fatta ai malandrini schiava.

La vecchia, dando alle parole udienza,
che con sdegno e con duol Zerbino versa,
s'avede ben che egli ha falsa credenza
che sia Issabella in mar rotta e sommersa:
e ben che ella del certo abbia scienza,
per non lo rallegrar, pur la perversa
quel che far lieto lo potria, gli tace,
e sol gli dice quel che gli dispiace.

- Odi tu (gli disse ella), tu che sei
cotanto altier, che sì mi scherni e sprezzi,
se sapessi che nuova ho di costei
che morta piangi, mi faresti vezzi:
ma più tosto che dirtelo, torrei
che mi strozzassi o fêssi in mille pezzi;
dove, s'eri vêr me più mansueto,
forse aperto t'avrei questo secreto. -

Come il mastin che con furor s'aventa
adosso al ladro, ad achetarsi è presto,
che quello o pane o cacio gli appresenta,
o che fa incanto appropriato a questo;
così tosto Zerbino umil diventa,
e vien bramoso di sapere il resto,
che la vecchia gli accenna che di quella,
che morta piange, gli sa dir novella.

E volto a lei con più piacevol faccia,
la supplica, la prega, la scongiura
per gli uomini, per Dio, che non gli taccia
quanto ne sappia, o buona o ria ventura.
- Cosa non udirai che pro ti faccia
(disse la vecchia pertinace e dura):
non è Issabella, come credi, morta;
ma viva sì, che a' morti invidia porta.

È capitata in questi pochi giorni
che non n'udisti, in man di più di venti;
sì che, qualora anco in man tua ritorni,
ve' se sperar di corre il fior convienti. -
Ah vecchia maladetta, come adorni
la tua menzogna! e tu sai pur se menti.
Se ben in man de venti ell'era stata,
non l'avea alcun però mai violata.

Dove l'avea veduta domandolle
Zerbino, e quando, ma nulla n'invola;
che la vecchia ostinata più non volle
a quel c'ha detto aggiungere parola.
Prima Zerbin le fece un parlar molle,
poi minacciolle di tagliar la gola:
ma tutto è invan ciò che minaccia e prega;
che non può far parlar la brutta strega.

Lasciò la lingua all'ultimo in riposo
Zerbin, poi che il parlar gli giovò poco;
per quel che udito avea, tanto geloso,
che non trovava il cor nel petto loco;
d'Issabella trovar sì disioso,
che saria per vederla ito nel fuoco:
ma non poteva andar più che volesse
colei, poi che a Marfisa lo promesse.

E quindi per solingo e strano calle,
dove a lei piacque, fu Zerbin condotto;
né per o poggiar monte o scender valle,
mai si guardaro in faccia o si fer motto.
Ma poi che al mezzodì volse le spalle
il vago sol, fu il lor silenzio rotto
da un cavallier che nel cammin scontraro.
Quel che seguì, ne l'altro canto è chiaro.

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