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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Orlandino

PIETRO ARETINO


LI DUI PRIMI CANTI
DI ORLANDINO
DEL DIVINO MESSER PIETRO ARETINO




[CANTO PRIMO]


1

Le eroiche pazzie, li eroichi umori,
le traditore imprese, il ladro vanto,
le menzogne de l'armi e de gli amori,
di che il mondo coglion si innebria tanto,
i plebei gesti e i bestiali onori
de' tempi antichi ad alta voce canto,
canto di Carlo e d'ogni paladino
le gran coglionarie di cremesino.

2

Sta' cheto, ser Turpin, prete poltrone,
mentre squinterno il vangelo alla gente;
taci, di grazia, istorico ciarlone,
ch'ogni cronica tua bugiarda mente.
Mercé vostra, pedante cicalone,
ciascun poeta e ciaratan valente
dice tante menzogne in stil altiero
che di aprir bocca si vergogna il vero.

3

Per colpa tua, cronichista ignorante,
nulla tenensis, vescovo Turpino,
drieto carotte ci caccia il Morgante
et il Boiardo <e 'l> Furioso divino;
per le ciacchere tue e fole tante
fa dir Marfisa al gran Pietro Aretino,
vangelista e profeta, [e] tal bugia
che un monsignor se ne vergognaria.

4

Fu Morgante un cotal manigoldone
che s'arìa trangugliato vita eterna;
fu Ruggiero un bellissimo garzone,
ma di Agramante e di Carlo pincerna;
Gradasso e Mandricardo uno stallone
che non uscìano mai della taverna;
Rinaldo un uom bestial senza cervello,
masnadiero di bettole e bordello.

5

Sapete voi chi fur, signor mei cari,
Ferraù, Sacripante et Agricani?
Tre ignudi mascalzon senza dinari
e tre erranti e valenti ruffiani;
fur marioli invitissimi e chiari,
quali volean Angelica in le mani
per prestarla a vettura e giocar poi
gli avanzi che facean de' fatti suoi.

6

Rodamonte, fantastico animale,
fu un berton di donna Doralice,
da cui comprò Mandricardo bestiale
la sopradetta e diva meretrice;
e né fu Orlando al suo cugin rivale
ne l'omnia vincit, come Turpin dice:
fu ben ver che 'l cavò del senno fuore
un natural e fantastico umore.

7

Fu Carlo Magno un bel cacca-pensieri
e parean civetti e fottiventi
Avino, Avolio, Ottone e Berlingieri;
Astolfo il vitupèr de' suoi parenti
et era un scempio il marchese Ulivieri
e il Danese il fachino delle genti
e Gano un trufatel, Namo un castrone
et una peccoraccia Salamone.

8

Di Angelica, Marfisa e Bradamante,
di Fiordeligi, di Morgana e Alcina
non vo' cantar, che chi non è ignorante
la vita loro amorosa e' indivina;
io l'assimiglio a la putana errante
Antea, Origilla e Fallerina;
l'Ancroia errante anche essa era putana
e Gabrina di tutte la ruffiana.

9

Questo è la verità! Non dice fola,
come ser Pulci, il Conte e l'Ariosto,
il mio sol Aretin, che pel ciel vola
con quel lume che 'l sol da mezzo agosto;
e Turpin se ne mente per la gola,
e ve lo voglio far veder tantosto.
State dunque ad udir, o spensierati,
i ladri gesti de i guerrier pregiati.

10

Ma a chi farò io la invocazione
prima ch'io metta i palladini in ballo?
Cupido è un furfantin, Marte un poltrone,
uno asinaccio il pegaseo cavallo;
pe' miei fatti le Muse non son buone,
che odio le donne, e tutto il mondo sallo;
se fusser buone robbe invocherei
Dante, il Petrarca e gli altri farisei.

11

A me potreste dire: invoca Apollo,
acciò t'infonda el suo favor divino.
Chi fa per me, signor, me' di voi sollo,
onde col cor contrito a capo chino
ti prego che mi pigli un poco in collo,
Apollo mio, Vicenzo Gambarino,
ch'io dirò cose tanto nove e belle
che porranno in stupor fino alle stelle.

12

Tu sei la musa mia, tu il mio Peg<so,
tu la mia stella, il mio sol, il mio dio,
tu il fonte, tu il monte di Parnaso,
la penna, l'inchiostro e lo stil mio.
Da l'Indo al Mauro, da l'orto a l'ocaso,
se mi presti favor, volerò io,
e de gire a man drita ancora spero
del Dottrinal, di Vergilio e di Omero.

13

Se mi dai, Vicenzo almo, un baso solo
almeno in capo della settimana,
a staffetta men[e] vo da polo a polo
e la Fama serà poi la mia alfana.
Coronami, pulcherrimo figliuolo,
di carcioffi, de urtica e di borana,
che, venendo da te cotali onori,
edere torneran, mirti et alori.

14

Ora col favor tuo, Gambarin divo,
di Iacinto più bello e di Narciso,
del miser Carlo imperador i' scrivo
la ladra istoria, compost'a improviso,
perché tu sappia, fanciul mio lascivo,
più presto te vorrei che 'l paradiso.
Carlo raccolse per pasqua rosata
l'alta dozzina della sua brigata.

15

Una dozzina de uomin Carlo ave[v]a
scielta fra tutte quante le sue genti,
né sol che fusser bravi si credea,
ma orsi, draghi, lioni e serpenti,
et in costor più speranza tenea
che 'l mal di Iob in gl'impiasti, in li unguenti,
e li chiamava per voglia gioconda
[i] paladin della tavola ritonda.

16

Ora la pasqua è venuta a mestiere.
Alla mensa ciascun è comparito.
I paladin si lanciorno a sedere
come si lancia in chiesa uno fallito
e cominciorno a mangiare e <a> bere
con una sete e con uno appetito
che la Fame, il Degiun, la Carestia
con men voglia berebbe e mangeria.

17

Venivan le vivande a son di piva,
di tamburi, di trombe e come s'usa;
e ogni volta che un piato arriva
saltela un pazzo a suon di cornamusa;
i paladin gridavon viva! viva!
poi senza cerimonia e senza scusa
chi grapava un fagian e chi un pavone,
a onta d'Apollino e di Macone.

18

Astolfo, avendo in l'ungie un capon lesso,
gli affisse adosso un furibondo sguardo,
 - Capon, - dicendo - o fussi tu quel desso,
fustù quel valent'uom di Mandricardo,
che in pezzi ti faria adesso adesso! -
E detto ciò, pien di animo gagliardo,
in dui bocconi con teribil possa
lo divorò con furia in carne e in ossa.

19

Rinaldo, invidia al suo cugino avendo,
visto un fagian a canto una pernice,
irato, orribelmente sorridendo,
disse: - Poniam la starna Doralice
in fagian Rodamonte, ch'ora intendo
provar che gli è una ladra meretrice
et egli è un poltroncion porco pagano,
e sosterrollo col coltello in mano. -

20

Non disse altro e nel petto il ferro immerse
a madamma pernice, alta e divina,
et al fagian dui colpi soli offerse,
che gli tagliò com'una gelatina.
In questo Orlando gli occhi guerci aperse
e fulminando verso una gallina
la estrema invitta man crucciosa stese
e tanta ne squarciò quanto ne prese.

21

Avino, Avoglio, Ottone e Berlinghieri
con gran ostinazion facìon gran guerra
d'intorno ad un grandissimo taglieri,
che in dui colpi lo buttar per terra.
Senza parole il marchese Olivieri
contro un coniglio, una lepre si serra
e cito cito, di lor carne sazio,
come un levrier ne fe' macello e strazio.

22

Il savio Namo, il saggio Salamone
con parlar basso arciprudentemente
facìan notomia de un buon pavone,
di sua virtù disputando col dente.
Il panciuto et agiato re Carlone
era svogliato e gli parea niente
mangiar, mangiando libre de fagiani,
un piatel di peducci <et> ortolani.

23

Mastro Danese ismisurato e grande,
sciocco coglion, disutile furfante,
facìa più guasto in tutte le vivande
che non fe' al Dormi Margute e Morgante:
par orso al mele e cingiale alle ghiande
e che carnoval faccia un ser pedante,
soldato a descrizion d'un ventott'anni,
che quanti ha denti tanti ha saccomanni.

24

Mentre il pasto era in gloria Astolfo invita
a ber[e] Rinaldo e brindisi! dicea,
et una tazza d'un bocal forbita
di Montalban el sir convien che bea,
e com'il vin va in volta, sbalordita
la tavola ritonda se volgea,
donde i bon paladin, briachi e matti,
pel capo s'aventar vivande e piatti.

25

Messer marchese Olivier borgognone
finge non riguardar veruno in volto
e mentre si riscaldan le persone,
in trarsi il brodo l'uno e l'altro acolto,
una <s>palla arrostita di montone
trasse a un tratto e contra Gan fu volto:
la carne gli aventò tra il capo <e> il collo
e tramortito da pachiar levollo.

26

Ma tosto in sé tornato, il conte Gano
el me' che può si strinse nelle spalle
e sopra il petto si pose la mano,
fra sé dicendo: « Io non son Aniballe,
ma ne farò vendetta »; e dissel piano
e per questa cagione in Roncisvalle
condusse Orlando a morir con sua gente
e chi dice altro ne mente e stramente.

27

Ridea con Carlo tutti i paladini
di don Cano, che uscì del scanno fori,
et eran molli di più ragion vini,
ricamati a minestra et a savori;
i loro abiti d'oro e cremesini
paiono i panni dove i dipintori,
finiti ch'hanno questi quadri e quelli,
le mani si forbiscano e ' penelli.

28

Odorava la sala come odora
un gran tinel d'un monsignor francese
o come quel d'un cardinal ancora
quando Febo riscalda un bestial mese.
Finito il pacchio, si svagina fora
una giornea, ch'a farla un maestro atese
de gli anni trenta, in be' quadri distinti
dove i capricci umani eran dipinti.

29

Eravi grili, gatti, topi e piche,
priapi et anni, vulve larghe e strette,
tafani, zanzale, farfalle e formiche,
gli aloch', i barbagianni e le civette,
di mellon fiori, di zuche e d'ortiche,
fino a le calze da far le borsette;
eravi teste, braccia, pesci e ucelli,
vari sì come son vari i cervelli.

30

Chiunque senza proposito dicea
scomunicata onoranda bugia
de iure acquisteria quella giornea,
ch'averla indosso era una signoria
e tanto gloriosa si [se] tenea;
ch'un altro sfodri altra coglionaria
(o menzogna - tanto è) che la sua passi;
in altro modo la giornea non dassi.

31

Terigi, il paggio d'Orlando, avea cura
di recamarve quel che meglio frappa.
Apunto Astolfo, gentil creatura,
che a dir folate sé sbandendo scappa
e meglio sa contar una sciagura
che uno spagnol non sa portar la cappa,
cominciava ad intrar sul ciel del forno
quando ognun sente un crudel son di corno.

32

Goffi, perché sappiate, un almansore,
assai più che un fachin asin gagliardo,
de la Sabomia altissimo signore,
qual mul vizioso, altier com'un bastardo,
era quel che sonava a gran furore,
dal quinci al quindi nominato Cardo:
Cardo almansor si chiamava il pagano,
che porta per cimier Ettor troiano.

33

Dicea Cardo (son bestiale e orrendo):
 - S'alcun di voi ha cor, lena, polmone,
armisi e venga a trovarmi, ch'intendo
sostentargli che gli è più che poltrone! -
 - Paladin mie, - non miga sorridendo,
disse farnaticando el re Carlone,
 - nipote mio, i' mi ti raccomando;
armati presto e va' combatti, Orlando. -

34

Rispose allora il coragioso conte:
 - [Signor] Lassami andar pria a far un servigio,
poi m'armerò e manum proprie e sponte
mando colui che brava al fiume estigio. -
Carlo, che 'l vede sbianchegiato in fronte
e d'un color[e] che par fra il nero <e> il bigio,
disse: - A la vostra grazia, o sir d'Anglante!
Or va' tu, Astolfo, a trovar l'amostante. -

35

Rispose il milites glorioso Astolfo:
 - Sacra Corona, e' mi dol sì la testa
ch'ho perso e<l> lume e paio un uom di zolfo
e non potrei tener la lancia in resta;
tamen per Carlo i' noterei nel golfo
del marum magno. - E con quella tempesta
ch'un bulo sol bravar, - Arme! arme! - grida,
e totum mundum minacciando sfida.

36

Venner l'arme a staffetta e il duca armato
cominciò per la sala passeggiando:
 - Pagan, poltron, furfante, disgraziato!
La morte tua è in punta de 'sto brando. -
E quello straniamente sfoderato,
mille ferite al vago vento dando,
dicea: - Rèndite a me, cochin pagano,
che Astolfo son, che fei cacar Martano. -

37

In tanto Cardo con rabioso suono
orribilmente dicea:  - Se indugiate
a comparire in campo ad un sol sono
adesso abbrucierò questa cittate.
Non gioverà a chiedermi perdono,
perché di voi arò quella pietate
che 'l gran Coglion Bartolameo avea
quando fuggir qualche poltron vedea. -

38

 - Io vengo, io scendo, a caval monto, aspetta! -
gridava d'Inghilterra il duca altiero
e con quella ruina e quella fretta
che trae del letto un infermo il cristero
scende le scal' e inanzi ch'el piè metta
inela staffa e il culo in <sul> destriero
ritorna in sala e dice piano e lento:
 - Vo' confessarmi e poi far testamento.

39

Vo' testamento far, vo' confessarmi,
prima ch'io arrischi la mia cara pelle.
Altro che ciance è lo mestier de l'armi:
rida chi vol, che son tutte novelle.  -
Udendo ciò Turpin disse: - Ben parmi
che ti discarchi di tue colpe felle. -
E confessollo in un tratto, e poi
montò a caval, settati i fatti suoi.


40

E come fu a caval, trottando un poco,
si ferma e pensa e seco dice: « O duca,
andrai o no a por la carne a fuoco?
Sarà me' ch'io mi appiatti in qualche buca,
perché il condursi in campo è un certo gioco
che suol condure a elle ne nos induca.
Vo' prima ch'ognun dica "qui fuggì
Astolfo, uomo da ben", che "qui morì".

41

Glori', a tua posta! Morti che noi siamo,
può sonar mona Fama con la piva,
che in polvere di Cipri ci pos[s]iamo
con lauro, con mirto e con l'uliva,
e tanto de le lodi ci sentiamo
quanto de le vergogne Elena diva
o la Zaffetta, a ben che 'l sappia ognuno
del dato benemerito trentuno ».

42

Rinaldo in questo si scusa con Carlo
dicendo che a combatter anderia
se l'armi avessi (et obligo ha di farlo),
le quali sono in pegno a l'osteria.
Eccoti Cardo, del cui valor ciarlo,
che vede Astolfo che pian pian s'invia
per ascondersi in luoco ove sue lancia
non fori a lui la venerabil pancia:

43

 - Ahi, famoso poltrone! ahi, paladino!
ahi, guerrier de la tavola ritonda!
Con le spalle s'affronta il saracino?
Guardami in viso pria che ti nasconda! -
Come la furia de l'acqua un mulino
volge per forza o qual se 'l vento fronda,
tal la vergogna con superba voce
rifece Astolfo vilmente feroce.

44

Onde animo si fece col bravare,
come chi canta per timor di notte,
con dir: - Non fugo, ma givo a pisciare,
che con altr'uom ho de le lancie rotte.
Tu credi forse un vigliacco affrontare,
pagan, can traditor, squarta-ricotte!
Presto, giù scendi de la tua giraffa,
fammi un inchino e scortami la staffa;

45

se non, per l'elmo, idest la visiera,
ti piglierò, a onta di Macone,
e lancierotti con terribil ciera
dove tien la concubina E<n>dimione
e giù non tornerai fino a stasera,
stupir facendo il cielo e le persone
perché le mosche affamate a 'mproviso
t'aran pappato gli occhi, il naso e il viso.

46

Tal ferita vo' darti con la spada
ch'una vela di nave andrà per tasta.
Parrà ch'el mondo al dì giudicio cada
ne lo incontrar ch'io ti farò con l'asta,
con cui nel petto vo' farti una strada
che dirai: "Non di carne, son di pasta!".
Tu intendi: se sei savio smonta e scorta
la staffa e fa' con riverenza accorta. -

47

L'almansor, ch'ode quel bravar furioso,
somiglia un uom a cui rimira un cane,
il qual è brutto e ner, tutto piloso,
che abbaia e poi non morderebbe il pane
e pare in vista tutto dannoloso,
sta su l'empir le calze de ambracane;
cotal facea lo armorum dictum Cardo
al bravar magno del guerier dal pardo.

48

Al fin: - Prendi del campo, - disse - che io
ti stimo pazzo, buffone, ignorante. -
« Misericordia! mamma e babbo mio! »
diceva alor ser Astolfo galante
« Se a questa scampo faccio voto a Dio
gir al Sepulcro, pellegrino errante,
a Loreto, a Galizia, al giubileo.
Pagan, maran, saracino e giudeo! »

49

Così dicendo il suo caval leggiero
col cor tremante el me' che pote esprona,
la lancia arresta e vuol parer pur fiero.
Astolfo mio, Dio ce la mandi buona!
Ecco il re Cardo che ha mosso il destriero,
che 'l paladin vuol trovar in persona,
e lo trovò nel scudo e sì lo pose
a far la ninfa fra viole e rose.

50

Come l'inglese, specchio di prudenza,
trovòsi in su l'erbette a gambe alzate,
gridò: - Magnificenza, Onnipotenza,
Serenità, Maiestà e Potestate,
Reverendissimo, Illustre et Eccelenza,
Viro, Domenedio e San<t>itate,
non por le mani al stocco, ch'io me arendo. -
Ma al canto sono e me vobis comendo.




CANTO SECONDO


1

Voglia proprio mi vien di disperarmi,
andar ne' frati o doventar romita,
sì, perché Marte lascia portar le armi
de arcipoltron a la turba infinita,
che a sentir solamente dir armi! armi!
cercon fuggir lor manigolda vita
ne' cacatoi, ne' fossi, ne le grotte:
di dì, pensate ciò che fan di notte.

2

Molti soldati, cavallier e fanti,
che portan pica, lancia et archibuso,
che hanno men cor che riverenz' a i santi
il luterano, eretico e tristo uso,
mentre a tavola stanno, - Avanti! avanti! -
gridon bevendo, il cul levando suso,
e poi che ad arme dà tromba o tamburo
affrontano i nimici doppo un muro.

3

E ch'io non parli per dir male o fola,
del mio dir testimonio Astolfo sia;
ma non è questo quel che mi sconsola,
che ad altro luoco vien la robba mia;
io dirò pure una mala parola:
può far Domenedio che tuttavia
ogni principe elegga a' sommi onori
i più poltroni, i più goff', i peggiori?


4

Vedete Carlo, ch'ha scielti in dozzina
certi squassa-penacchi, squarta-poggi
a tavola e in bordello e in cucina,
e pare <a-llui> che ognun col brando sfoggi;
vol destrugger la setta saracina
con dodici sbisai, che se al dì de oggi
andassero or a questo or a quel soldo
non ci è uom che li desse caposoldo.

5

Forse che i laurati alti poeti
non stillano il cervel co i paladini
mettendoli su in ciel sopra i pianeti
e facendoli dei, non che divini?
State, di grazia, trium virium, cheti,
Boiardi, Ariosti <et> Aretini,
che Astolfo valent'uom pietà domanda,
in ginochion a Cardo se accomanda.

6

 - Chi sei tu? - disse Cardo. - Astolfo sono,
arma virum qui cano, in terra a piei,
bontà de un mio caval non troppo bono
e de un error che con la lancia fei.
Non cavar fuor la spada, che perdono,
signor, ti chiedo: miserere mei! -
Rise Cardo di Astolfo e disse: - Parmi
che torni al signor tuo pedon senza armi. -


IL FINE
     

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento:

18/07/05 01:36