De Bibliotheca
La biblioteca di Babele
Biblioteca Telematica
CLASSICI
DELLA LETTERATURA ITALIANA
Testi senza diritti d'autore
NOVELLE
[ La Penitenza dell'acqua
] |
Trovandosi l'acqua nel superbo
mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra l'aria, e confortata dal
foco elemento, elevatosi in sottile vapore, quasi parea della sittiglieza
dell'aria, e , montato in alto, giunse infra l'aria più sottile e fredda,
dove fu abbandonata dal foco. E piccoli granicoli, sendo restretti, già
s'uniscano e fannosi pesanti, ove cadendo la super[bia ] si converte in fuga,
e cade del cielo; onde poi fu beuta dalla secca terra, dove, lungo tempo
incarcerata, fè penitenzia del suo peccato. |
|
|
[ La fiamma e la candela
] |
Il lume, o foco incordo sopra
la candela, quella consumando se consuma. |
|
|
[ La vendetta del vino ] |
Il vino consumato dallo
imbriaco. Esso vino col bevitore si vendica. |
|
|
[L'inchiostro e la carta ] |
L'inchiostro displezzato per la
sua nerezza dalla bianchezza della carta, la quale da quello si vide
imbrattare. Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza
dell'inchiostro, di quello si dole; el quale mostra a essa che per le parole,
ch'esso sopra lei compone, essere cagione della conservazione di quella. |
|
|
[Il fuoco e l'acqua ] |
Il foco contende l'acqua posta
nel laveggio, dicendo che l'acqua no merita star sopra il foco, re delli
elemente, e così vo' per forza di bollore cacciare l'acqua del laveggio; onde
quella per farli onore d'ubbidienzia discende in basso e anniega il foco. |
|
|
[ Lo specchio e la regina] |
Lo specchio si groria forte
tenendo dentro a sé specchiata la regina e, partita quella, lo specchio riman
vile. |
|
|
[Il ferro e la lima ] |
Il pesante ferro si reduce in
tanta sottilità mediante la lima, che piccolo vento poi lo porta via. |
|
|
[La pianta, il palo e i pruni ] |
La pianta si dole del palo
secco e vecchio, che se l'era posto allato, e de' pruni secchi che lo
circundano: l'un lo mantiene diritto, l'altro lo guarda dalle triste
compagnie. |
|
|
[ Il ligustro e il merlo] |
I' rovistrice, sendo stimolato
nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e
becco delle importune merle, si doleva con pietoso rammarichio inverso essa
merla, pregando quella che poi che lei li toglieva e sua diletti frutti, il
meno nolle privassi de le foglie, le quali lo difendevano dai cocenti razzi
del sole, e che coll'acute unghie non iscorticasse [e] desvestissi della sua
tenera pella. A la quale la merla con villane rampogne rispose: "O taci,
salvatico sterpo. Non sai che la natura t'ha fatti produrre questi frutti per
mio notrimento? Non vedi che se' al mondo di tale cibo? Non sai, villano, che
tu sarai innella prossima invernata notrimento e cibo del foco?" Le
quali parole ascoltate dall'albero pazientemente non sanza lacrime, infra
poco tempo il merlo preso dalla ragna e colti de' rami per fare gabbia per
incarcerare esso merlo, toccò, infra l'altri rami, al sottile rovistrico a
fare le vimini della gabbia, le quali vedendo esser causa della persa libertà
del merlo, rallegratosi, mosse tale parole: "O merlo, i' son qui non
ancora consumata, come dicevi, dal foco; prima vederò te prigione, che tu me
brusiata. |
|
|
[L'alloro, il mirto, il pero ] |
Vedendo il lauro e mirto
tagliare il pero, con alta voce gridarono:"O pero, ove vai tu? Ov'è la
superbia che avevi quando avevi i tua maturi frutti? Ora non ci farai ombra
colle tue folte chiome". Allora il pero rispose:" Io ne vo
coll'agricola che mi taglia, e mi porterà alla bottega d'ottimo sculture, il
quale mi farà con su' arte pigliare la forma di Giove iddio, e sarò dedicato
nel tempio, e dagli omini adorato invece di Giove, e tu ti metti in punto a
rimanere ispesso storpiata e pelata de' tua rami, i quali mi fieno da li
omini per onorarmi posti d'intorno". |
|
|
[ Il castagno e il fico] |
Vedendo il castagno l'uomo
sopra il fico, il quale piegava inverso sé i sua rami, e di quelli ispiccava
i maturi frutti, e quali metteva nell'aperta bocca disfacendoli e
disertandoli coi duri denti, crollando i lunghi rami e con temultevole
mormorio disse:" O fico, quanto se' tu men di me obrigato alla natura!
Vedi come in me ordinò serrati i mia dolci figlioli, prima vestiti di sottile
camicia, sopra la quale è posta la dura e foderata pelle, e non contentandosi
di tanto beneficarmi, ch'ell'ha fatto loro la forte abitazione, e sopra
quella fondò acute e folte spine, a ciò che le mani dell'homo non mi possino
nuocere". Allora il fico cominciò insieme co' sua figlioli a ridere, e
ferme le risa, disse:" Conosci l'omo essere di tale ingegno, che lui ti
sappi colle pertiche e pietre e sterpi, tratti infra i tua rami, farti povero
de' tua frutti, e quelli caduti, peste co' piedi e co' sassi, in modo ch'e
frutti tua escino stracciati e storpiati fora dell'armata casa; e io sono con
diligenza tocco dalle mani, e non come te da bastoni e da sassi". |
|
|
[La farfalla e la fiamma della
candela ] |
Non si contentando il vano e
vagabondo parpaglione di potere comodamente volare per l'aria, vinto dalla
dilettevole fiamma della candela, diliberò volare in quella; e 'l suo
giocondo movimento fu cagione di subita tristizia; imperò che 'n detto lume
si consumorono le sottile ali, e 'l parpaglione misero, caduto tutto brusato
a piè del candellieri, dopo molto pianto e pentimento, si rasciugò le lagrime
dai bagnati occhi, e levato il viso in alto, disse:" O falsa luce,
quanti come me debbi tu avere, ne' passati tempi, avere miserabilmente
ingannati. O si pure volevo vedere la luce, non dovev'io conoscere il sole
dal falso lume dello spurco sevo?" |
|
|
[ La noce e il campanile] |
Trovandosi la noce essere dalla
cornacchia portata sopra un alto campanile, e per una fessura, dove cadde, fu
liberata dal mortale suo becco, pregò esso muro, per quella grazia che Dio li
aveva dato dell'essere tanto eminente e magno e ricco di sì belle campane e
di tanto onorevole sono, che la dovessi soccorrere; perché, poi che le non
era potuta cadere sotto i verdi rami del suo vecchio padre, e essere nella
grassa terra, ricoperta dalle sue cadenti foglie, che non la volessi lui
abbandonare: imperò ch'ella trovandosi nel fiero becco della cornacchia,
ch'ella si botò, che, scampando da essa, voleva finire la vita sua 'n un
picciolo buso. Alle quali parole, il muro, mosso a compassione, fu contento
ricettarla nel loco ov'era caduta. E infra poco tempo, la noce cominciò
aprirsi, e mettere le radici infra le fessure delle pietre, e quelle
allargare, e gittare i rami fori della sua caverna; e quegli in brieve levati
sopra lo edifizio e ingrossate le ritorte radici, cominciò aprire i muri e
cacciare le antiche pietre de' loro vecchi lochi. Allora il muro tardi e
indarno pianse la cagione del suo danno, e, in brieve aperto, rovinò gran
parte delle sua membre. |
|
|
[ La scimmia e l'uccellino] |
Trovando la scimia un nidio di
piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e quali essendo già da
volare, ne potè solo pigliare il minore. Essendo piena di allegrezza, con
esso in mano se n'andò al suo ricetto; e cominciato a considerare questo uccelletto,
lo cominciò a baciare; e per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e
strinse ch'ella gli tolse la vita. |
È detta per quelli che, per non
gastigare i figlioli, capitano male. |
|
|
[ Il salice, la gazza e i semi
della zucca] |
Il misero salice, trovandosi
non potere fruire il piacere di vedere i sua sottili rami fare ovver condurre
alla desiderata grandezza e dirizzarsi al cielo - per cagione della vite e di
qualunche pianta li era visina, sempre elli era storpiato e diramato e guasto
- e raccolti in sé tutti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte
alla immaginazione; e stando in continua cogitazione, e ricercando con quella
l'universo delle piante, con quale di quelle esso collegare si potessi, che
non avessi bisogni dell'aiuto de' sua legami; e stando alquanto in questa
notritiva immaginazione, con subito assalimento li corse nel pensiero la
zucca; e crollato tutti i rami per grande allegrezza, paren[do]li avere
trovato compagnia al suo disiato proposito - imperò che quella è più atta a
legare altri che essere legata - e fatta tal deliberazione, rizzò i sua rami
in[v]erso il cielo; attendea spettare qualche amichevole uccello, che li
fussi a tal disiderio mezzano. |
In fra' quali, veduta a sé
vicina la sgazza, disse inver di quella: "O gentile uccello, per quello
soccorso, che a questi giorni, da mattina, in e mia rami trovasti, quando
l'affamato falcone crudele e rapace te voleva divorare; e per quelli riposi
che sopra me ispesso hai usato, quando l'alie tue a te riposo chiedeano; e
per quelli piaceri che, infra detti mia rami, scherzando colle tue compagne
ne' tua amori, già hai usato, io ti priego che tu truovi la zucca e impetri
da quella alquante delle sue semenze, e di' a quelle che, nate ch'elle fieno,
ch'io le tratterò non altrementi che se del mio corpo generate l'avessi e
similmente usa tutte quelle parole che di simile intenzione persuasive sieno,
benché a te, maestra de' linguaggi, insegnare non bisogna. E se questo farai,
io sono contenta di ricevere il tuo nidio sopra il nascimento de' mia rami,
insieme colla tua famiglia, senza pagamento d'alcun fitto." |
Allora la sgazza fatto e fermi
alquanti capitoli di novo col salice, e massimo che bissie o faine sopra sé
mai non accettassi, alzato la coda e bassato la testa e gittatasi del ramo,
rendé il suo peso all'ali, e quelle battendo sopra la fuggitiva aria, ora
qua, ora in là curiosamente col timon della coda dirizzandosi, pervenne a una
zucca, e con bel saluto e alquante bone parole, impetrò le dimandate semenze.
E condottele al salice, fu con lieta cera ricevuta; e raspato alquanto co'
piè il terreno vicino al salice, col becco, in cerch[i]o a esso, essi grani
piantò. Le quali in brieve tempo crescendo, cominciò collo accrescimento e aprimento
de' sua rami a occupare tutti i rami del salice, e colle sue gran foglie a
torle la bellezza del sole e del cielo. E, non bastando tanto male, seguendo
le zucche, cominciò, per disconcio peso, a tirare le cime de' teneri rami
inver la terra, con istrane torture e disagio di quelli. Allora scotendosi e
indarno crollandosi, per fare da sé esse zucche cadere, e indarno vaneggiando
alquanti giorni in simile inganno, perché la bona e forte collegazione tal
pensieri negava, vedendo passare il vento, a quello raccomandandosi, e quello
soffiò forte. Allora s'aperse il vecchio e vòto gambo del salice in due parti
insino alle sue radice, e caduto in due parti, indarno pianse sé medesimo, e
conobbe chi era nato per non aver mai bene. |
|
|
[La fiamma e la candela ] |
Le fiamme, già uno me[se]
durato nella fornace de' bicchieri e veduto a sé avvicinarsi una candela 'n
un bello e lustrante candeliere, con gran desiderio si forzavano accostarsi a
quella. Infra le quali una la[s]ciato il suo naturale corso e tiratasi
d'entro a uno voto stizzo, dove si pasceva, e uscita da l'opposito, fori
d'una piccola fessura, alla candela che vicina l'era, si gittò, e con somma
golosità e ingordigia quella divorando, quasi al fine condusse; e volendo
riparare al prolungamento della sua vita, indarno tentò tornare alla fornace,
donde partita s'era, perché fu costretta morire e mancare insieme colla
candela; onde al fine col pianto e pentimento in fastidioso fumo si convertì,
lascian[do] tutte le sorelle in isplendevole e lunga vita e bellezza. |
|
|
[ Il vino e i maomettani] |
Trovandosi il vino, divino
licore dell'uva, in una aurea e ricca tazza, e sopra la tavole di Maumetto, e
montato in groria di tanto onore, subito fu assaltato da una contraria
cogitazione, dicendo a sé medesimo: "Che fo io? Di che mi rallegro io?
Non m'avvedo esser vicino alla mia morte e lasciare l'aurea abitazione della
tazza, e entrare innelle brutte e fetide caverne del corpo umano, e lì
trasmutarmi di odorifero e suave licore in brutta e trista orina? E non
bastando tanto male, ch'io ancora debba sì lungamente diacere in e brutti
ricettacoli coll'altra fetida e corrotta materia uscita dalle umane
interiora?" Gridò inverso al cielo, chiedendo vendetta di tanto danno, e
che si ponessi ormai fine a tanto dispregio, che poiché quello paese producea
le più belle e migliore uve di tutto l'altro mondo, che il meno esse non
fussino in vino condotte. Allora Giove fece che il beuto vino da Maumetto
elevò l'anima sua inverso il celabro e quello in modo contaminò, che lo fece
matto, e partorì tanti errori, che, tornato in sé, fece legge che nessuno
asiatico beessi vino. E fu lasciato poi libere le viti co' sua frutti. |
|
|
[Il topo e la donnola] |
Stando il topo assediato in una
piccola sua abitazione, dalla donnola, la quale con continua vigilanza
attendea alla sua disfazione, e per uno piccolo spiraculo ragguardava il suo
gran periculo. Infrattanto venne la gatta e subito prese essa donnola, e
immediate l'ebbe divorata. Allora il ratto, fatto sagrificio a Giove
d'alquante sue nocciole, ringraziò sommamente la sua deietà; e uscito fori
dalla sua busa a possedere la già persa libertà, de la quale subito, insieme
colla vita, fu dalle feroci unglia e denti della gatta privato. |
|
[ Il cedro superbo] |
Il cedro, insuperbito della sua
bellezza, dubita delle piante che li son d'intorno, e fattolesi torre
dinanzi, il vento poi, non essendo interrotto, lo gittò per terra diradicato. |
|
|
[ La formica e il seme di
miglio] |
La formica trovato uno grano di
miglio, il grano sentendosi preso da quella gridò:" Se mi fai tanto
piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento
me medesimi". E così fu fatto. |
|
[Il ragno e il grappolo d'uva] |
Trovato il ragno uno grappolo
d'uve, il quale per la sua dolcezza era molto visitato da ave e diverse
qualità di mosche, li parve aver trovato loco molto comodo al suo inganno. E
calatosi giù per lo suo sottile filo, e entrato nella nova abitazione, lì
ogni giorno, facendosi alli spiraculi fatti dalli intervalli de' grani
dell'uve, assaltava, come ladrone, i miseri animali, che da lui non si
guardavano. E passati alquanti giorni, il vendemmiatore còlta essa uva e
messa coll'altre, insieme con quelle fu pigiato. E così l'uva fu laccio e
'nganno dello ingannatore ragno, come delle ingannate mosche. |
|
|
[ La vitalba scontenta] |
La vitalba, non istando
contenta nella sua siepe, cominciò a passare co' sua rami la comune strada e
appiccarsi all'opposita siepe; onde da' viandanti poi fu rotta. |
|
|
[L'asino e il ghiaccio] |
Addormentatosi l'asino sopra il
diaccio d'un profondo lago, il suo calore dissolvé esso diaccio, e l'asino
sott'acqua, a mal suo danno, si destò, e subito annegò. |
|
|
[La neve umile ] |
Trovandosi alquanta poca neve
appiccata alla sommità d'un sasso, il quale era collocato sopra la strema
altezza d'una altissima montagna, e raccolto in sé la maginazione, cominciò
con quella a considerare, e infra sé dire: "Or non son io da essere
giudicata altera e superba, avere me, piccola drama di neve, posto in sì alto
loco, e sopportare che tanta quantità di neve quanto di qui per me essere
veduta pò, stia più bassa di me? Certo la mia poca quantità non merta
quest'altezza, ché bene posso, per testimonianza della mia piccola figura,
conoscere quello che 'l sole fece ieri alle mia compagne, le quali in poche
ore dal sole furono disfatte; e questo intervenne per essersi poste più in
alto che a loro non si richiedea. Io voglio fuggire l'ira del sole, e
abbassarmi, e trovare loco conveniente alla mia parva quantità." |
E gittatasi in basso, e
cominciata a discendere, rotando dall'alte spiagge su per l'altra neve,
quando più cercò loco basso, più crebbe sua quantità, in modo che, terminato
il suo corso sopra uno colle, si trovò di non quasi minor grandezza che 'l
colle che essa sostenea: e fu l'ultima che in quella state dal sole disfatta
fusse. Detta per quelli che s'aumiliano: son esaltati. |
|
|
[Il falcone impaziente] |
Il falcone non potendo
sopportare con pazienza il nascondere che fa l'anitra fuggendosele dinnanzi e
entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi
le penne, rimase in essa acqua, e l'anitra, levatasi in aria, schernia il
falcone che annegava. |
|
|
[Il ragno e il calabrone ] |
Il ragno, volendo pigliare la
mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto. |
|
|
[L'aquila e il gufo ] |
|
Volendo l'aquila sche[r]nire il
gufo, rimase coll'alie impaniate, e fu dall'omo presa e morta. |
|
|
[Il cedro ambizioso ] |
Avendo il cedro desiderio di
fare uno bello e grande frutto in nella sommità di sé, lo mise a seguizione
con tutte le forze del suo omore, il quale frutto, cresciuto, fu cagione di
fare declinare la elevata e diritta cima. |
|
|
[Il pesco invidioso ] |
Il persico, avendo invidia alla
gran quantità de' frutti visti fare al noce suo vicino, diliberato fare il
simile, si caricò de' sua in modo tale, che 'l peso di detti frutti lo tirò
diradicato e rotto alla piana terra. |
|
|
[Il noce e i viandanti ] |
Il noce mostrando sopra una
strada ai viandanti la ricchezza de' sua frutti, ogni omo lo lapidava. |
|
|
[ Il fico] |
Il fico stando sanza frutti
nessuno lo riguardava; volendo, col fare essi frutti, essere laldato da li
omini, fu da quelli piegato e rotto. |
|
|
[ Il fico e l'olmo] |
Stando il fico vicino all'olmo,
e riguardando i sua rami essere sanza frutti, e avere ardimento di tenere il
sole a' sua acerbi fichi, con rampogne gli disse: "O olmo, non hai tu
vergogna a starmi dinanzi? Ma aspetta ch'e mia figlioli sieno in matura età,
e vedrai dove ti troverai". I quali figlioli poi maturati, capitandovi
una squadra di soldati, fu da quelli, per torre i sua fichi, tutto lacerato e
diramato e rotto. Il quale stando poi così storpiato delle sue membra, l'olmo
lo dimandò dicendo:" O fico, quanto era il meglio a stare sanza
figlioli, che per quelli venire in sì miserabile stato". |
|
|
|
[Il fuoco superbo e il paiolo] |
Uno poco di foco, che in un
piccolo carbone infra la tiepida cenere remaso era, del poco omore, che in
esso restava, carestiosa e poveramente sé medesimo notrìa, quando la ministra
della cucina, per usare con quello l'ordinario suo cibario offizio, quivi
apparve, e, poste le legne nel focolare, e col solfanello, già resucitato
d'esso, già quasi morto, una piccola fiammella, e infra le ordinate legne quella
appresa, e posta di sopra la caldara, sanz'altro sospetto, di lì sicuramente
si parte. |
Allora, rallegratosi il fo[co]
delle sopra sé poste secche legne, comincia a elevarsi, [c]acciando l'aria
delli intervalli d'esse legne, infra quelle con ischerzevole e giocoso
transito, se stessi tesseva. Cominciato a spirare fori dell' intervalli delle
legne, di quelli a se stessi dilettevoli finestre fatto avea; e cacciato fori
di lucenti e rutilanti fiammelle, subito discaccia le oscure tenebre della
serrata cucina; e col galdio le fiamme già cresciute scherzavano coll'aria
d'esse circundatrice e con dolce mormorio cantando creava[n] suave sonito. |
Vedutosi già fortemente essere
sopra delle legne cresciuto e fatto assai grande, cominciò a levare il
mansueto e tranquillo animo in gonfiata e incomportabile superbia, facendo
quasi a sé credere tirare tutto el superiore elemento sopra le poche legne. E
cominciato a sbuffare, e empiendo di scoppi e scintillanti sfavillamenti tutto
il circunstante focolare, già le fiamme fatte grosse, unitamente si
dirizzavano inverso l'aria, quando le fiamme più altiere percosse[r] nel
fondo della superiore caldara. |
|
|
[I tordi e la civetta] |
I tordi si rallegrarono forte
vedendo che l'omo prese la civetta e le tolse la libertà, quella legando con
forti legami ai sua piedi. La qual civetta fu poi, mediante il vischio, causa
non di far perde[re] la libertà ai tordi, ma lo loro propia vita. |
Detta per quelle terre, che si
rallegran di vedere perdere la libertà ai loro maggiori, mediante i quali poi
perdano soccorso e rimangono legati in potenzia del loro nemico, lasciando la
libertà e spesse volte la vita. |
|
[La pulce] |
Dormendo il cane sopra la pelle
di un castrone, una delle sue pulci, sentendo l'odore della unta lana,
giudicò quello doversi essere loco di migliore vita e più sicura da' denti e
unglia del cane che pascersi del cane, e sanza altro pensieri, abbandonò il
cane, e, entrata intra la folta lana, cominciò con somma fatica a volere
trapassare alle radici de' peli. La quale impresa, dopo molto sudore, trovò
esser vana, perché tali peli erano erano tanto spessi che quasi si toccavano,
e non v'era spazio dove la pulce potessi saggiare tal pelle; onde, dopo lungo
travaglio e fatica, cominciò a volere ritornare al suo cane, il quale essendo
già partito, fu costretta, dopo lungo pentimento, amari pianti, a morirsi di
fame. |
|
|
[Il rasoio vanitoso e borioso] |
Uscendo un giorno il rasoio di
quel manico col quale si fa guaina a sé medesimo, e postosi al sole, vide lo
sole ispecchiarsi nel suo corpo: della qual cosa prese somma groria, e
rivolto col pensiero indirieto, cominciò con seco medesimo a dire:" Or
tornerò io più a quella bottega, della quale novamente uscito sono? Certo no.
Non piaccia agli Dei, che sì splendida bellezza caggia in tanta viltà
d'animo! Che pazzia sarebbe quella la qual mi conducessi a radere le
insaponate barbe de' rustichi villani e fare sì meccaniche operazione? Or è
questo corpo da simili esercizi? Certo no. Io mi vogli[o] nascondere in
qualche occulto loco, e lì con tranquillo riposo passare la mia vita". |
E così, nascosto per alquanti
mesi, un giorno ritornato all'aria, e uscito fori della sua guaina, vide sé
essere fatto a similitudine d'una rugginente sega, e la sua superficie non
ispecchiare più lo splendente sole, Con vano pentimento indarno pianse lo
inreparabile danno, con seco dicendo:" O quan[to] meglio era esercitare
col barbiere il mi' perduto taglio di tanta sottilità. Dov'è la lustrante
superfizie? Certo la fastidiosa e brutta ruggine l'ha consumata". |
Questo medesimo accade nelli
ingegni, che 'n iscambio dello esercizio, si dànno all'ozio, i quali, a
similitudine del sopradetto rasoio, perde la tagliente sua suttilità e la
ruggine dell' ignoranzia guasta la sua forma. |
|
[La pietra scontenta della sua
vita solitaria] |
Una pietra novamente per
l'acque scoperta, di bella grandezza, si stava sopra un certo loco rilevata,
dove terminava un dilettevole boschetto sopra una sassosa strada, in
compagnia d'erbette, di vari fiori di diversi colori ornata, e vedea la gran
somma delle pietre che nella a sé sottoposta strada collocate erano. Le venne
desiderio di la giù lasciarsi cadere, dicendo con seco:" Che fo qui con
queste erbe? Io voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare". E
giù lassatosi cadere infra le desiderate compagne, finì il suo volubile
corso; e stata alquanto cominciò a essere da le rote de' carri, dai piè de'
ferrati cavalli e de' viandanti, a essere in continuo travaglio; chi la
volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezzo, quando stava
coperta dal fango o sterco di qualche animale, e invano riguardava il loco
donde partita s'era, innel loco della soletaria e tranquilla pace. |
Così accade a quelli che nella
vita soletaria e contemplativa vogliano venir a abitare nelle città, infra i
popoli pieni d'infini[ti] mali. |
|
[La farfalla e il lume ad olio] |
Andando il dipinto parpaglione vagabundo,
e discorrendo per la oscurata aria, li venne visto un lume, al quale subito
si dirizzò, e, con vari circuli quello attorniando, forte si maravigliò di
tanta splendida bellezza, e non istando contento solamente al vederlo, si
mise innanzi per fare di quello come delli odoriferi fiori fare solìa. E,
dirizzato suo volo, con ardito animo passò per esso lume, l'elettrone quale
gli consumò li stremi delle alie e gambe e altri ornamenti. E caduto a' piè
di quello, con ammirazione considerava esso caso donde intervenuto fussi, non
li potendo entrare nell'animo che da sì bella cosa male o danno alcuno
intervenire potessi. E restaurato alquanto le mancate forze, riprese un altro
volo, e, passato attraverso del corpo d'esso lume, cadde subito bruciato nell'olio
che esso lume notrìa, e restogli solamente tanta vita, che potè considerare
la cagion del suo danno, dicendo a quello: |
" O maladetta luce, io mi
credevo avere in te trovato la mia felicità; io piango indarno il mio matto
desiderio, e con mio danno ho conosciuto la tua consumatrice e dannosa
natura". Alla quale il lume rispose:" Così fo io a chi ben non mi
sa usare". E immediate ito al fondo finì la sua vita. |
Detta per quelli i quali,
veduti dinanzi a sé questi lascivi e mondani piaceri, a similitudine del
parpaglione, a quelli corrano, sanza considerare la natura di quelli; i
quali, da essi omini, dopo lunga usanza, con loro vergogna e danno conosciuti
sono. |
|
|
[La pietra focaia e
l'acciarino] |
La pietra, essendo battuta dall'acciarolo
del foco, forte si maravigliò, e con rigida voce disse a quello:" Che
presunzio ti move a darmi fatica? Non mi dare affanno, che tu m'hai colto in
iscambio. Io non dispiacei mai a nessuno".Al quale l'acciarolo
rispose:" Se sarai paziente, vedrai che maraviglioso frutto uscirà di
te". Alle quale parole la pietra, datosi pace, con pazienza stette forte
al martire, e vide di sé nascere il maraviglioso foco, il quale, colla sua
virtù operava in infinite cose. |
Detta per quelli i quali
spaventano ne' prencipi delli studi, e poi che a loro medesimi si dispongano
potere comandare, e dare con pazienza opera continua a essi studi, di quelli
si vede resultare cose di maravigliose dimostrazioni. |
|
|
[Il ragno] |
Il ragno credendo trovar requie
nella buca della chiave, trova la morte. |
|
|
[Il giglio e la corrente del
fiume] |
Il ligio si pose sopra la ripa
di Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col lilio. |
|
[L'ostrica, il topo e la gatta] |
Sendo l'ostriga insieme colli
al[tri] pesci in casa del pescatore scaricata vicino al mare, priega il ratto
che al mare la conduca. Il ratto, fatto disegno di mangiarla, la fa aprire e
mordendola, questa li serra la testa e sì lo ferma. Viene la gatta e
l'uccide. |
|
|
[Il contadino e la vite] |
Vedendo il villano la utilità
che resultava dalla vite, le dette molti sostentaculi da sostenerla in alto,
e, preso il frutto, levò le pertiche e quella lasciò cadere, facendo foco de'
sua sostentaculi. |
|
|
[La triste morte di un
granchio] |
El granchio stando sotto il
sasso per pigliar e pesci che sotto a quello entravano, venne la piena con
rovinoso precipitamento di sassi, e collo rotolarsi sfracelloron tal
granchio. |
|
|
[Il ragno e l'uva] |
Il ragno, stante infra all'uve,
pigliava le mosche che in su tale uve si pasceva[n]. Venne la vendemmia, e fu
pesto il ragno insieme coll'uve. |
|
|
[La vite e l'albero vecchio] |
La vite, invecchiata sopra
l'albero vecchio, cadde insieme con la ruina d'esso albero, e fu per la
trista compagnia a mancare insieme con quello. |
|
|
[Il torrente] |
Il torrente portò tanto di
terra e pietre nel suo letto, che fu po' constretto a mutar sito. |
|
|
[La rete e i pesci] |
La rete, che soleva pigliare li
pesci, fu presa e portata via dal furor de' pesci. [Ar. 42 v.] |
|
|
[La palla di neve] |
La palla della neve quanto più
rotolando discese delle montagne della neve, tanto più moltiplicò la sua
magnitudine. |
|
|
Il salice |
Il salice, che per li sua
lunghi germinamenti cresce da superare ciascuna altra pianta, per avere fatto
compagnia colla vite, che ogni anno si pota, fu ancora lui sempre storpiato. |
|
|
[La penna e il temperino] |
Necessaria compagnia ha la
penna col temperatoio e similmente utile compagnia, perché l'una sanza
l'altro non vale troppo. |
|
|
|
|
IV FACEZIE |
|
[Il vecchio e il giovane] |
Dispregiando uno vecchio
pubblicamente un giovane, mostrando aldacemente non temer quello, onde il
giovane li rispuose che la sua lunga età li faceva migliore scudo che la
lingua o la forza. |
|
|
[L'artigiano e il signore] |
Uno artigiano andando spesso a
vicitare un signore, sanza altro proposito dimandare, al quale il signore
domandò quello che andava facendo. Questo disse che venia lì per avere de'
piaceri che lui aver non potea; perocchè lui volentieri vedeva omini più
potenti di lui, come fanno i popolari, ma che 'l signore non potea vedere se
non omini di men possa di lui: e per questo i signori mancavano d'esso
piacere. |
|
|
[L'uomo con la spada] |
Uno vede una grande spada
allato a un altro e dice:" O poverello! Ell'è gran tempo ch'io t'ho
veduto legato a questa arme: perché non ti disleghi, avendo le mani disciolte
e possiedi libertà?" |
Al quale costui rispose:"
Questa è una cosa non tua, anzi è vecchia." Questo, sentendosi mordere,
rispuose:" Io ti conosco sapere sì poche cose in questo mondo, ch'io
credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per nova. |
|
|
[Due viandanti nella notte] |
Due camminando di notte per
dubbiosa via, quello dinanzi fece gran strepido col culo; e disse l'altro
compagno: " Or veggo io ch'i son da te amato". "Come?"
disse l'altro. Quel rispose;" Tu mi porgi la correggia perch'io non
caggia, né mi perda da te". |
|
|
[Il gioco delle brache] |
Uno disputandosi e vantandosi
di sapere fare molti vari e belli giochi, un altro de' circustanti
disse:" Io so fare uno gioco il quale farà trarre le brache a chi a me
parirà". Il primo vantatore, trovandosi sanza brache: "Che
no", disse, "che a me non le farai trarre! E vadano un paro di
calze". Il proponitore d'esso gioco, accettato lo 'nvito, impromutò più
para di brache e trassele nel volto al mettitore delle calze. E vinse il
pegno. |
|
|
[Gli occhi dallo strano colore] |
Uno disse a un suo conoscente:
"Tu hai tutti li occhi trasmutati in istrano colore". Quello li
rispose intervenirli spesso. "Ma tu non ci hai posto cura? E quando
t'addivien questo?" Rispose l'altro: "Ogni volta ch'e mia occhi
veggono il tuo viso strano, per violenza ricevuta da sì gran dispiacere,
subito e' s'impallidiscano e mutano in istran colore". |
|
[La stessa] |
Uno disse a un altro: "Tu
hai tutti li occhi mutati in istran colore". Quello li rispose:
"Egli è perché i mia occhi veggono il tuo viso strano". |
|
|
[Il paese in cui nascevano le
cose più strane] |
Uno disse che in suo paese
nasceva le più strane cose del mondo. L'altro rispose: "Tu che vi se'
nato, confermi ciò esser vero, per la stranezza della tua brutta
presenza". |
|
|
[La lavandaia e il prete] |
Una lavava i panni e pel freddo
aveva i piedi molto rossi, e, passandole appresso, uno prete domandò con
ammirazione donde tale rossezza dirivassi; al quale la femmina subito
rispuose che tale effetto accadeva, perché ella aveva sotto il foco. Allora il
prete mise mano a quello membro, che lo fece essere più prete che monaca, e,
a quella accostatosi, con dolce e sommessiva voce pregò quella che 'n
cortesia li dovessi un poco accendere quella candela. |
|
|
[Il prete e il pittore] |
Andando un prete per la sua
parrocchia il sabato santo, dando, com'è usanza, l'acqua benedetta per le
case, capitò nella stanza d'un pittore, dove spargendo essa acqua sopra
alcuna sua pittura, esso pittore, voltosi indirieto alquanto scrucciato ,
disse, perché facessi tale spargimento sopra le sue pitture. |
Allora il prete disse essere
così usanza, e ch' era suo debito il fare così e che faceva bene, e chi fa
bene debbe aspettare bene e meglio, che così promettea Dio, e che d'ogni
bene, che si faceva in terra, se n'arebbe di sopra per ogni un cento. Allora
il pittore, aspettato ch'elli uscissi fori, se li fece di sopra alla
finestra, e gittò un gran secchione d'acqua addosso a esso prete, dicendo:
"Ecco che di sopra ti viene per ogni un cento, come tu dicesti che
accaderebbe nel bene, che mi facevi colla tua acqua santa, colla quale m'hai
guasto mezze le mie pittura". |
|
|
[Un frate e il mercante] |
Usano i frati minori, a certi
tempi, alcune loro quaresime, nelle quali essi non mangiano carne ne' lor
conventi; ma in viaggio, perché essi vivano di limosine, hanno licenzia di
mangiare ciò che è posto loro innanzi. Onde, abbattendosi in detti viaggi una
coppia d'essi frati a un'osteria in compagnia d'un certo me[r]cantuolo, il
quale, essendo a una medesima mensa, alla quale non fu portato, per la
povertà dell'ostieri, altro che un pollastro cotto, onde esso mercantuolo,
vedendo questo essere poco per lui, si volse a essi frati, e disse: "Se
io ho ben di ricordo, voi non mangiate in tali dì ne' vostri conventi
d'alcuna maniera di carne". Alle quali parole i frati furono costretti,
per la loro regola, sanza alt[r]e gavillazioni, a dire ciò essere la verità:
onde il mercantetto ebbe il suo desiderio; e così si mangiò essa pollastra, e
i frati feciono il meglio poterono. |
Ora, dopo tale desinare, questi
commensari si partirono tutti e tre di compagnia; e dopo alquanto di viaggio,
trovati un fiume di bona larghezza e profondità, essendo tutti tre a piedi -
i frati per povertà e l'altro per avarizia -, fu necessario, per l'uso della
compagnia, che uno dei frati, essendo discalzi, passassi sopra i suoi omeri
esso mercantuolo: on[de] datoli il frate a serbo i zoccoli, si caricò di tale
omo. |
Onde accadde che, trovandosi
esso frate in mezzo del fiume, esso ancora si ricordò de la sua regola; e
fermatosi, a uso di San Cristofano, alzò la testa inverso quello che
l'aggravava, e disse: "Dimmi un poco, hai tu nessun dinari
addosso?"."Ben sai", rispose questo," come credete voi
che la mia pari mercatante andassi altrementi attorno?"
"Oimè!", disse il frate, "la nostra regola vieta che noi non
possiano portare danari addosso." E subito lo gettò nell'acqua. La qual
cosa, conosciuta dal mercatante facetamente la già fatta ingiuria essere
vendicata, con piacevole riso, pacificamente, mezzo arrossito per vergogna,
la vendetta sopportò. |
|
|
[L'amico e il maldicente] |
Uno lasciò lo usare con uno suo
amico, perché quello spesso li diceva male delli amici sua. Il quale lasciato
l'amico, un dì, dolendosi collo amico, e dopo il molto dolersi, lo pregò che
gli dicesse quale fusse la cagione che lo avessi fatto dimenticare tanta
amicizia. Al quale esso rispose: "Io non voglio più usare con teco
perch'io ti voglio bene e non voglio che, dicendo tu male ad altri di me tuo
amico, che altri abbiano a fare, come me, a fare trista impressione di te,
dicendo tu a quelli male di me tuo amico; onde non usando noi più insieme,
parrà che noi siamo fatti nimici e per il dire tu male di me, com'è tua
usanza, non sarai tanto da essere biasimato, come se noi usassimo
insieme". |
|
|
[La putta e il prete] |
Una putta mostrò il cuno d'una
capra 'n cambio del suo a un prete, e prese un grosso, e così lo beffò. |
|
[La donna e il "triste
passo"] |
La femmina nel passare uno
tristo e fangoso, tre verità. Ella nell'alzarsi colle mani i panni dirieto e
dinnanzi si tocca la potta e l'culo e dice: "Questo è uno triste
passo!" |
|
|
[Il seguace di Pitagora] |
Uno volendo provare colla
alturità di Pitagora come altre volte lui era stato al mondo, e uno non li
lasciava finire il suo ragionamento, allo costui disse a questo tale: "E
per tale segnale che io altre volte ci fussi stato, io mi ricordo che tu eri
mulinaro". Allora costui, sentendosi mordere colle parole, gli confermò
essere vero, che per questo contrassegno lui si ricordava che questo tale era
stato l'asino, che li portava la farina. |
|
[Un pittore dai brutti figli] |
Fu dimandato un pittore, perché
facendo lui le figure sì belle, che eran cose morte, per che causa avessi
fatto i figlioli sì brutti. Allora il pittore rispose che le pitture le fece
di dì e i figlioli di notte. |
|
[Il viaggiatore e la gabella] |
Uno andando a Modana ebbe a
pagare cinque soldi di gabella della sua persona. Alla qual cosa, cominciato
a fare gran cramore e ammirazione, attrasse a sé molti circunstanti, i quali
domandando donde veniva tanta maraviglia, ai quali Maso rispose: "O non
mi debbo io maravigliare con ciò sia che tutto un omo non paghi altro che
cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare
dieci ducati d'oro, e qui metto el cazzo e coglioni e tutto il resto per sì
piccol dazio? Dio salvi e mantenga tal città e chi la governa!" |
|
[Il malato e la madonna Bona] |
Sendo uno infermo in articulo
di morte, esso sentì battere la porta e domandato uno de' sua servi chi era
che batteva l'uscio, esso servo rispose essere una che si chiamava Madonna
Bona. Allora l'infermo, alzato le braccia al cielo, ringraziò Dio con alta
voce, poi disse ai servi che lasciassino venire presto questa, acciò che
potessi vedere una donna bona innanzi che esso morissi, imperocchè in sua
vita ma' ne vide nessuna. |
|
[Il dormiglione] |
Fu detto a uno che si levasse
dal letto, perché già era levato il sole, e lui rispose: "Se io avessi a
fare tanto viaggio e faccende quanto lui, ancora io sarei già levato, e però,
avendo a fare sì poco cammino, ancora no mi vo' levare". |
|
|
[L'arciprete e lo sparviero] |
Facezia dell'arciprete di
Sancta Maria del Monte, che sta a Varese, che fu mandato legato al Duca 'n
iscambio d'uno sparviere. |
|
|
[L'illegittimo] |
Uno rimproverò a uno omo da
bene che non era legittimo. Al quale esso rispose esser legittimo nelli
ordini della spezie umana e nella legge di natura, ma che lui nell'una era
bastardo, perch'egli aveva più costumi di bestia che d'omo, e nella legge
delli omini non avea certezza d'esser ligittimo. |
|
|
[Il ladro e il merciaio] |
Sapiendo un ladro che 'n suo
cognoscente merciaio avea assai danari 'n una cassa in sua bottega, fece
pensiero di rubarliele, e di mezzanotte, entrato in bottega d'esso merciaio,
cominciato a dare ordine alla sua intenzione, fu sopraggiunto, la bottega
dischiavata dal gran catenaccio. E con grande spavento, posto li occhi alle
fessure donde spirava il lume del ladro, subito serrò di fori il catenaccio;
e serrato il ladro in bottega, corse per la famiglia del rettore. Allora il
ladro, trovandosi dentro serrato, ricorse a un subito scampo della salute
sua, e, accesi due candelieri del merciaio e cavato fori un paio di carte da
giucare, parte ne gittò per terra, dov'era tristo giuoco, e altrettante ne
serbò in mano con gioco bono, e così aspettò la famiglia del rettore. La
quale subito che giunse col cavalieri, costui ch'era in bottega, sentendo
dischiavare l'uscio, gridò: "Alla fede di Dio, tu m'hai serrato qui per
non mi pagare li danari che io t'ho vinti. E io ti giuro che tu mi farà 'l
dovere. E non si vole giuocare, chi non vuol perdere. Tu m'hai fatto mezzo
giucar per forza e poi, quando perdi, ti fuggi for di bottega co' tua danari
e co' mia, e mi serri dentro, perché io non ti corra dirieto". E così
detto, li cacciò la mano alla scarsella per ispiccarliela dal lato. Allora il
cavalieri, parendoli esser stato giuntato, fece che 'l merciaio li diede i
danari che colui dimandava ch'eran sua. |
|
|
[Il povero e il signore] |
Uno povero omo fece intendere a
uno usceri d'un gran signore come e' dovessi dire al suo signore, che quivi
era venuto un suo fratello, il quale avea gran bisogno di parlarli. Il quale
usceri, avendo riferita tale imbasciata, ebbe comessione di dare l'entrata a
tale fratello. Il quale giunto al cospetto del signore, li mostrò come,
essendo tutti discesi dal gran padre Adam, ch'elli era suo fratello, e che la
roba era mal divisa, e che lo pregava che cacciassi da lui tale povertà,
perché a gran pena potea vivere di limosine. Allora il signori rispose
ch'elli era ben lecito tale richiesta e domandò il tesorieri e feceli donare
un soldo. Allora il povero ebbe grande ammirazione e disse che quel non si
richiedea a tal fratello. Allora il signore disse ch'egli avea tanti simili
fratelli, che a dar tanto per ciascuno, che non li rimanea niente a lui, e
che tal soldo era bastante a tal divisione di roba. E così con lecita
licenzia lo divise da tal redità. |
|
|
[Il tavolaccio e la lancia] |
Uno, vedendo una femmina parata
a tener tavola in giostra, guardò il tavolaccio e gridò, vedendo la sua
lancia: "Oimè, quest'è troppo picciol lavorante a sì gran bottega!" |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.net Ultimo Aggiornamento: 13/07/2005 19.10 |
||
|
|
|